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ANNO IX NUMERO 192 - PAG 2
Battute
Infelice quella sulla nave dei
profughi sudanesi, eccessiva
quella sulla Corte dell’Aia
eggo sul Foglio del 5 luLco”glio
del “cinismo ludiche connoterebbe Sil-
vio Berlusconi, ma anche
Giulio Tremonti. E’ un’immagine efficace (e aggraziata sotto il profilo letterario): anche se eccessivamenCORTESIE PER GLI OSPITI
te lusinghiera e, alla resa dei conti, del tutto immeritata se attribuita a quei due.
D’altra parte, può esservi un cinismo che
non sia “ludico”? E che, innanzitutto, non
sia cinico verso se stesso? In caso contrario, non di cinismo dovremmo parlare, ma
di quell’ordinario cattivismo che induce a
maramaldeggiare sugli altri (specie se in
affanno) e che si è ormai irrigidito in sotto-genere letterario e format televisivo,
tanto appare diffuso tra grandi e piccini:
fino a risultare sindrome appiccicosa di
chi è mal cresciuto (penso a Maurizio Gasparri) o mal invecchiato (penso all’ultima
produzione intellettuale e morale di Gianfranco Miglio). Lì, il cinismo – lungi dall’essere il percorso verso la virtù, attraverso la ricerca dell’essenziale – è, piuttosto, il fondamentalismo dell’accidioso e
l’utopia dell’egolatrico. Per misurare la distanza, si veda la bella recensione di Giulio Meotti al libro di Mario Andra Rigoni
su Emil Cioran (il Foglio del 10 luglio) e,
alla luce dello sguardo acuminato di Cioran, si consideri l’infelice prosa del commento sulla vicenda della Cap Anamur, la
nave che ha raccolto 36 profughi sudanesi
e 1 ivoriano (il Foglio del 10 luglio). Si legge in quell’articolo: “la tragedia c’è nel
Darfur, ma non certo a bordo della Cap
Anamur”. (Esempio sublime di quel “benaltrismo” che ritenevo stimmate indelebile dei miei sodali: “Ben altri sono i problemi!”; “Ben altre le priorità!”). Dunque,
perché affannarsi tanto per quei 37 profughi che, da ventitré giorni (ma nell’articolo non c’è traccia di questo dato banale), si
trovano su “una nave rifornita dalla marina militare, dove si svolgono conferenze
stampa e bisogna persino difendersi dalle
visite dei turisti”? Ecco, se quest’ultima
notazione voleva essere “ludica”, beh, gli
immensi Ric e Gian, ai loro tempi, avrebbero fatto di meglio. Insomma, è facile che
dall’aspirazione al “cinismo ludico” si scivoli nel modello “se sporcano tutti perché
non posso orinare anch’io fuori dal vaso?”.
Dunque, si parte per diventare il Guido
Ceronetti del Duemila e ci si ritrova a fare
il Maurizio Merli dei film di Umberto Lenzi degli anni Settanta (“Roma a mano armata”, “Napoli violenta” e, guarda un po’,
“Il cinico, l’infame e il violento”). In altre
parole, il cinismo autentico è un’istanza
morale: ma, evidentemente, qualcuno lo
scambia con un dozzinale bullismo; e crede davvero che quando Giuseppe Verdi
scrisse: “Tutta la vita è morte”, volesse dire grosso modo: “ammechemmefotte”. No,
non si tratta esattamente delle stesse categorie morali. A me, quella battuta sulle
“visite dei turisti”, ne ha ricordata un’altra: ovvero quella di un campione del garantismo qual è il ministro Roberto Castelli, che – a proposito dei detenuti italiani – così si espresse: “hanno persino la tivù
a colori”. Qualcuno riveli al ministro che
i televisori in bianco e nero sono fuori produzione da anni; e qualcuno dica all’autore di quella battuta sulla Cap Anamur che,
se vuole provare “l’effetto che fa”, mi offro
io di abbandonarlo su un pedalò al largo
(molto al largo) di Milano Marittima. In
ogni caso, quale sarà il destino dei 37 profughi, non è dato prevedere: ma sappiamo
bene che, in Italia, la procedura per ottenere l’asilo politico comporta mediamente un’attesa di 15-24 mesi; e sappiamo altrettanto bene che – a fronte di una domanda assai ridotta – le richieste accolte
sono un numero irrisorio: nel 2002 appena
1270 (il 7,4 per cento). Se tanto mi dà tanto,
di quelli sbarcati dalla Cap Anamur, ne
accoglieremo 2,7: insomma 2 profughi e
qualcosa. Sopravviveremo, no? E ancora a
proposito di quel “paradiso” che sarebbe
la Cap Anamur rispetto all’“inferno” del
Darfur, è utile ricordare Hanna Arendt:
“C’è qualcosa che non va nel nostro ottimismo. Tra noi ci sono degli strani ottimisti che, dopo aver fatto un mucchio di discorsi ottimistici, vanno a casa e aprono il
rubinetto del gas”.
Linciaggio? Bastava “sentenza iniqua”
2. Apprezzo sempre (e condivido quasi
mai) quanto scrive Emanuele Ottolenghi.
Tanto più mi colpisce un passaggio di un
apprezzabile (ma non condivisibile) articolo sul Foglio del 10 luglio. Opportunamente, Ottolenghi contesta l’approssimazione e, spesso, la grossolanità con cui viene trattato il conflitto arabo-israeliano e,
segnatamente, la questione del “muro in
Cisgiordania”: e spiega qual è, a suo avviso, l’equivocità di quella formula. Ottolenghi insiste giustamente sul problema
del linguaggio, sulle perversioni terminologiche e sulle intimidazioni retoriche;
ma poi – oplà – per criticare la sentenza
consultiva della Corte internazionale dell’Aia, non trova di meglio che ricorrere
(per due volte!) al termine “linciaggio”.
“Sentenza iniqua” (per chi tale la considera), non bastava?
3. Leggo sul Foglio dell’8 luglio una critica non proprio inoffensiva nei confronti
di quel giornalista che utilizzerebbe le
virgolette con eccessiva disinvoltura, attribuendo intere frasi, diciamo così, “di
fantasia” a personaggi della scena pubblica. E’ il solo a fare così? Leggo sul Foglio del 10 luglio, in un paragrafetto di
cronaca politica (13,5 centimetri di altezza) ben quattro citazioni (citazioni?) rigorosissimamente anonime: una addirittura
impreziosita da un “sussurrano”. Si salvi
chi può.
Luigi Manconi
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 13 LUGLIO 2004
M A T T E O O R F I N I , L’ A R C H E O L O G O D I S E Z I O N E
Per l’Europa D’Alema s’è scelto un assistente con un lavoro normale
Roma. Dice il saggio che “le persone non
cambiano: è solo che col tempo il tempo poi
le complica più di un po’”. Con tutte le complicazioni del caso, il tempo a Massimo D’Alema deve aver chiarito le idee circa il paese normale, e coloro che lo abitano. Dovendosi scegliere un secondo che stia a Roma a
tenere le fila delle cose di cui lui, da
Bruxelles, rischia di perdere il controllo, il
fu presidente del Consiglio non ha scelto un
faccendiere di piccolo cabotaggio né un
pornografo in crisi d’ispirazione, ma un archeologo che vive con mamma e papà (lei
photoeditor dell’Espresso in pensione, lui
produttore cinematografico) e fa il barista
alla festa dell’Unità.
Matteo Orfini ha meno di trent’anni, e se
chiedi in giro ti dicono che aveva smesso di
fare politica, dopo quattro anni da segretario della “sezionemazzini”, formula magica
che nessuno ritiene di dovere specificare
indichi la sezione dei Ds del quartiere Prati di Roma, sede in un seminterrato di fronte al bar Vanni (quello dove fa lo struscio il
demimonde Rai), gloriosa tradizione di formazione di giovani dirigenti (esistono?
qualcuno, quelli che trovate immancabilmente citati nei periodici articoli sulla “gioventù dalemiana” – che poi tanto gioventù
non è, ma Orfini saggiamente nota che “mica puoi avere le quote ‘in quanto giovane’:
lo spazio te lo prendi coi meriti, non te lo
deve dare qualcuno per diritto anagrafico”).
Il segretario di sezione adesso è un ventiquattrenne che ha battuto il record di Orfini, ai suoi tempi più giovane segretario di
sezione mai eletto. Siccome Orfini è un uo-
mo d’apparato, non gli passa neppure per la
testa che quella sezione non sia più affar
suo: è con ipertrofico orgoglio che ti spiega
che la sezione Mazzini ha preso tre milioni
di voti alle ultime elezioni, tramite gli iscritti D’Alema, Zingaretti e Gruber (Lilli “aveva qui il suo comitato elettorale”).
Siccome Orfini sarà pure dalemiano ma
ha pur sempre meno di trent’anni, non ha il
coraggio di dirti che lui coi giornalisti non
parla. Siccome ha meno di trent’anni, ti accoglie con un sorriso tirato che ti fa venir voglia di lasciar perdere, in fondo se D’Alema
vuole tenere il segreto sulla sua scelta fino
a settembre che male c’è, perché rovinare
l’estate a un bravo ragazzo che ha tutta l’aria di essere sull’orlo di un attacco di gastrite? Siccome Orfini avrà pure meno di
trent’anni ma fa politica da quando ne aveva quattordici, quando al terzo giorno di
scuola (Mamiani – c’è bisogno di specificarlo?) lo tirarono dentro a un’occupazione di
cui non ricorda i motivi, a domanda indiretta finge di non cogliere, e a domanda diretta nega senza ritegno. Se in un’ipotesi
dell’irrealtà un giorno dovesse arrivare la
telefonata di D’Alema che ha bisogno di
una persona che lo aiuti nella sua attività di
parlamentare europeo, come reagirebbe
Orfini? “Mi siederei sull’orlo dello scavo e
fumerei una sigaretta. Poi prenderei un
tranquillante”. Al gioco ci sta per tre secondi, poi mette su un tono ufficiale: “Come
ogni persona che ha due passioni, il giorno
in cui una delle due dovesse diventare un
lavoro a tempo pieno sarebbe un giorno di
scelte dolorose”.
I menoditrent’anni di Orfini sono roba di
telefilm, e di canzonette, e di videogiochi. Si
illumina davvero non più di tre volte. Quando parla dell’arrangiamento per archi di
una canzone dei Metallica. Quando riassume un episodio di “West wing”. Quando dice “C’è solo una cosa che sono davvero nato
per fare, ed è giocare a biliardino”. Se gli fai
notare che pare un incrocio tra Fabio Fazio
e Walter Veltroni, sbianca ma tace: sono pur
sempre uniti nel listone, no? (I menoditrent’anni di Orfini non sono comunque più
venti: dev’essere per sentirsi giovane che ha
messo su un blog; deve aver capito di non
IL RIEMPITIVO
di Pietrangelo Buttafuoco
Lilli ha scelto bene. Sempre socialisti sono. Lavoratori e pure tedeschi.
esserlo più quando, la settimana scorsa, ha
scritto con stuporoso dolore di aver declinato un invito a giocare a calcetto, e senza
un vero perché). I menoditrent’anni di Orfini sono interamente storia di gioventù dalemiana e di sezione Mazzini. Anche le donne.
Fu un compagno (di gioventù, e di sezione,
e di corrente) a spiegare a un Orfini sentimentalmente alle prime armi che non si
possono applicare ai sentimenti le categorie della politica. “Era una cazzata”, dice
l’Orfini – meno alle prime armi – di oggi,
spiegando poi che se lei ti lascia hai perso e
devi fare l’analisi del voto, se lei è indecisa
devi stringere alleanze – ma con le amiche,
mai con la mamma altrimenti lei si sentirà
accerchiata e poi comunque nessuna ragazza si metterà mai col ragazzo che le consiglia la mamma, è un candidato indicato dalla corrente avversa…
Dice Orfini che D’Alema non gli ha telefonato, e che non vede perché dovrebbe
farlo: “Non parlo neanche inglese. Parlo latino. Avevo un professore all’università che
diceva che era l’unica lingua utile, che ai
congressi di archeologia parlando in latino
ci si sarebbe sempre intesi coi colleghi stranieri”. Dicono gli antipatizzanti che si era
capito da un pezzo che D’Alema avesse dei
progetti, per quell’Orfini: “Alla chiusura
della campagna elettorale a Mazzini D’Alema ha fatto un discorso che era tutt’un Orfini di qua e Orfini di là, anche eccessivo: ma
chi lo consoce, ’sto Orfini?”. Dice Orfini che
lui e D’Alema neppure si conoscono: “Ho il
cellulare della moglie perché è iscritta qui
da noi… Cioè, ce l’ha il nuovo segretario”.
Dicono i simpatizzanti che è la prima volta
che D’Alema si mette vicino “una persona
normale”. Dice Orfini che non c’è notizia:
“Io il 30 di agosto ho un contratto per cominciare a scavare al parco di Veio, e in Italia non sai mai quando finisci, con uno scavo, perché se trovi le tombe non è che te ne
puoi andare, e non c’è proprio il tempo di
fare altro. Inizierò a scavare all’alba e finirò
verso le quattro, poi da Veio bisogna tornare, è all’Olgiata, e farsi una doccia, perché
dopo una giornata di scavi…”. Un assistente con un lavoro normale. Chissà se in Europa lo capiranno, che gigantesco cambiamento sia per Massimo D’Alema.
(gs)
IL MURO ISRAELIANO E UNA COR TE CHE FA POLITICA
Dure e motivate obiezioni contro la “sentenza fondamentalista” dell’Aia
Al direttore - La lettura del dispositivo
della sentenza della Corte di giustizia dell’Aia che ha definito illegittima la Barriera
israeliana, è agghiacciante e costituisce un
terribile precedente di diritto, paragonabile, nella storia dell’antisemitismo della legislazione internazionale, solo al libro
Bianco inglese del 1939 che decretò il blocco dell’immigrazione ebraica in Palestina
alla vigilia di Auschwitz. Non è infatti assolutamente vero che la Corte – come si è letto in quasi tutti i commenti – non abbia tenuto conto del diritto alla protezione di
Israele dagli atti di terrorismo originati nei
Territori e attuati in Israele. La Corte ha
ampiamente trattato il punto, ma ha decretato che esso non valga, in punta di diritto;
la Corte ha colto esattamente il nodo giuridico e di fatto, ma ha cinicamente stabilito
che non è vero quel che è palesemente vero, cioè che la Barriera ha diminuito del 90
per cento gli atti terroristici palestinesi. Ma
soprattutto la Corte si è fatta scudo, con uno
stile da azzeccagarbugli, della mancata definizione da parte della legislazione internazionale del fenomeno terrorista e, forte
di questa carenza, irride il diritto-dovere di
Israele di difendere la vita dei suoi cittadi-
ni. L’infiltrazione terrorista palestinese non
proviene infatti da un altro Stato, ma la legislazione internazionale prevede solo e
unicamente questo caso (art. 51 della carta
delle Nazioni Unite) e quindi non contempla norme sulla infiltrazione terrorista da
un Territorio sotto il regime legale di occupazione (come è la West Bank). La Corte
(che è struttura dell’Onu) non chiede quin-
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Tutte le case in cui fiorisce la rosa di Gerico saranno benedette e
felici. Anche le case circondariali.
di, come avrebbe dovuto fare, che questo
vuoto venga colmato, ma giudica lo stesso.
Ai 14 giudici dell’Aia (il 15°, statunitense si
è opposto) non interessa che il terrorismo
sia nemico da battere su scala planetaria,
che Israele soffra come nessun paese al
mondo le sue ferite. Cinicamente, burocraticamente sanciscono che siccome il diritto
internazionale prevede solo aggressioni terroristiche provenienti da un altro Stato, nes-
sun paese ha diritto di “inventare” tecniche
di difesa, come la Barriera, che riducano radicalmente l’attività terroristica. Il senso di
voluta e indebita provocazione politica della sentenza è immediato: solo se i Territori
fossero non più sotto controllo di Israele,
ma di un Stato palestinese sovrano, la Barriera anti terrorista potrebbe essere legittimata (naturalmente entro i propri confini).
Questi i passi della sentenza che ne costituiscono il baricentro: “L’articolo 51 della carta delle Nazioni Unite, riconosce l’esistenza di un inerente diritto all’autodifesa
in caso di attacco armato di uno Stato contro un altro Stato. Comunque, Israele non
sostiene che gli attacchi ai quali è esposto
siano imputabili a uno Stato straniero. La
Corte rileva anche che Israele esercita controllo nel Territorio ìalestinese occupato e
che, come Israele stessa afferma, la minaccia alla quale si riferisce per giustificare la
costruzione del muro si origina all’interno e
non all’esterno, di quel territorio. La situazione si rivela quindi differente da quella
contemplata dalle risoluzioni del Consiglio
di sicurezza 1368 (2001) e 1373 (2001) e pertanto Israele non potrebbe in alcun caso invocare tali risoluzioni a sostegno della sua
pretesa di esercitare diritto di autodifesa
[…] Alla luce del materiale presentato, la
Corte non è convinta che la costruzione del
muro lungo il percorso scelto fosse il solo
mezzo per salvaguardare gli interessi di
Israele contro il pericolo invocato come giustificazione della sua costruzione. Sebbene
Israele goda del diritto, e invero abbia il dovere, di rispondere ai numerosi e mortali atti di violenza rivolti contro la sua popolazione civile, al fine di proteggere la vita dei
suoi cittadini, le misure adottate devono rispettare la legislazione internazionale applicabile. Israele non può fare appello a un
diritto all’autodifesa o a uno stato di necessità misconoscendo l’erroneità dei presupposti della costruzione del muro. La Corte
conseguentemente ritiene che la costruzione del muro e l’annesso regime siano contrari alla legislazione internazionale”. Si
prenda la legittimazione secondo il diritto
coranico degli attentati-sucidi in Israele e
in Iraq, definita da Mohammed al Tantawi,
Imam della moschea di al Azhar del Cairo
(il Foglio del 10.07.04) e si vedrà che la coincidenza, in punto di diritto, tra la Corte dell’Aia e la shar’ia fondamentalista, è totale.
Carlo Panella
VOCE DI “PROFETA” IN UN’OASI
La luce, le tenebre e l’incapacità dell’uomo di vedersi nel chiaro
uesti dei ci risparmiano tante seccatuQ
re… Prendi i nostri negozi, le case, le
strade… c’è il problema delle tenebre. Cosa
pensiamo di notte in un vicolo buio o nelle
I VANGELI SECONDI - 2
nostre budella? Che se ci fosse una luce, se
ci fosse una luce nei nostri negozi, se i ladri
vedessero accesa una luce… nelle case è lo
stesso, la luce sembrerebbe la vita. Al principio degli dei c’è la luce, perché ogni passo, ogni gesto dell’uomo sia visibile… Oh come capisco gli inizi puerili di tutte le Genesi ingenue! E cosa sono i negozi? Sono il cervello. I vicoli sono intestini, le case il cuore… l’uomo ha bisogno di un lumicino anche dentro il suo corpo, nella sua solitudine… nei suoi pensieri la luce d’emergenza
della ragione… anche in mezzo al traffico
delle sue merde e dei suoi sentimenti…
Questo, perché? Perché nell’oscuro si aggirano gli infidi, i ladri, i sicari, i maldicenti
che soffiano nelle fessure, i pugnalatori, i
peperoni di sera… ma la luce li attenua, li
scoraggia, li frena… Lo sai tu come i despoti, è storia, è poesia: una buona ombra inco-
raggia buone infamie, anche riposanti come
l’idillio, questa serena, imperturbata strage
del resto del mondo. Non è vero che l’uomo
non conosca se stesso, questa è una frase da
filosofo troppo fiducioso… Ma quale lanterna, il buio è già l’uomo! A ognuno sfugge più
il proprio aspetto nel chiaro che la propria
oscurità nello scuro… Chi si guarda riflesso
vede il riflesso di chi guarda, e allora fa
mosse di assestamento di sé, col viso, col
muso, coi sopraccigli… vorrebbe che anche
il naso fosse mobile come un dito, per puntarlo, dirigerlo, distenderlo attenuando una
nocca, farlo gentile come un mignolo, oppure potente, decisivo come un medio… perché il riflesso mostra la doppiezza della fedeltà, così lontana dall’oscurità, alla quale
siamo legati ciecamente… so di persone
che, riprodotte da una superficie lucente e
casuale, caduto all’improvviso il proprio
sguardo sulla propria figura, si ritraggono
come paguri, come testuggini, ma l’uomo
non ha guscio, avrebbe il buio… allora lo vedi fare smorfie e finzioni, arretrare, sviare
la testa dall’immagine, coi tremiti, i nervosismi, gli scatti di chi cerca di conficcarsi in
Quelli che (italiani e non) mai più il Cav.
Questa rubrica è stata sollecitata a capire se vi siano interessi ampi e più organizzati del solito contro Berlusconi e se, in
caso, riusciranno nell’intento di farlo caSCENARI
dere. L’analisi preliminare fa ipotizzare
che non si tratti di un’azione a regia unica,
pur vasta, ma di un aumento dei soggetti
ostili che agiscono indipendentemente l’uno dall’altro.
Sul piano esterno non si segnalano offensive di intensità anomala, pur Francia
e Germania interessate a liberarsi di un
Berlusconi che ne ha limitato la vocazione
euroimperiale e la prima molto attiva nel
reclutare élites italiane. Si è allungata, invece, la lista della forze ostili sul piano interno: (a) i “traditori”, cioè i politici della
coalizione che puntano in anticipo sul dopo Berlusconi; (b) i “nuovi”, cioè i cinquantenni capitani di impresa che hanno
annusato un prossimo vuoto di potere e vogliono riempirlo associandosi in gruppo di
assalto; (c) i “soliti”, cioè l’alleanza tra finanza cattolica (ex-sinistra Dc), massoneria “europeista” di derivazione francese, e
sinistre usate come utili idioti; (d) i “delusi”, intellettuali o élites intermedie che si
aspettavano più riconoscimenti o prebende dal leader e che, non avendoli avuti, lo
abbandonano. La categoria (a) è cresciuta
di molto nell’ultimo anno e ciò ha aumen-
tato l’attivismo di quelle (b) e (c). I (d) hanno smesso di caricare di buona teoria il
Berlusconismo – ovvero la necessità di un
contratto carismatico tra leader e popolo
per cambiare l’Italia – e ciò ha fatto emergere la profezia della sua fine. Che poi ha
ulteriormente ampliato le prime due categorie stimolando la terza a tentare un “golpino”: incarico a Monti o simile, scoperta
strumentale di un’emergenza economica,
chiamata di un governo di salute pubblica
con lo scopo di permettere ai soliti e ai
nuovi di vincere le prossime elezioni. Tale
schema serve a individuare dove stiano il
problema e la soluzione principali: è stato
l’aumento dei traditori che ha innescato la
sequenza di destabilizzazione di Berlusconi. E ciò è avvenuto quando si sono accorti che il leader non stava facendo “regime” e hanno interpretato tale fatto non
come stile accomodante di leadership, ma
come segno di debolezza da usare per ingabbiarlo o liberarsene. La soluzione, che
se adottata consoliderà Berlusconi, è quella di esercitare con più determinazione il
potere contando sul fatto che la maggior
parte degli ostili sono opportunisti dissuadibili con più bastone o comprabili con
più carote. Diverte notare che Berlusconi
abbia problemi non perché abbia fatto regime, come lo accusano, ma perché non sa
essere “monarca”.
Carlo Pelanda
sé come una spada frettolosa nel fodero,
sfuggire come chi è danneggiato dalla luce,
cercare un velo d’ombra, perché è l’ombra
che rende gradevoli i visi, l’uomo lo sa… se
l’uomo si vedesse sempre restituito da una
lastra specchiante, cambierebbero parecchie vite, tutte prese, spese nel tentativo di
cambiare il proprio viso… Ma se però ti vedi riflesso da una superficie opalescente, venata, bluetta, cupa, da un’acqua verdognola
i cui molli mutamenti sono i tuoi, se ti vedi
riflesso misto a melme, allora sì ti riconosci,
ti piaci, sei pronto a raggiungerti… se ti vedi
poco poco, appena emergente dalla miopia
di un fondo, potresti perfino innamorarti di
te, anche rinunciando allo scivoloso lirismo
d’annegare… Certo che ti conosci, perché tu
vedi il buio, che nello stesso tempo è la tua
paura e il tuo dominio, e sei il tiranno e il
popolo, l’amore che non è, però è per sempre. Sai che in quel buio ti aggiri da topo,
nottola, pipistrello, faina, predone, assassino… nella sfacciata natura dell’oscuro… Ma
che vita sarebbe? Vera… sangue, fiato corto,
saliva amara, sete… sempre. Allora tu accendi le luci, gli dei, da fiochi a balenanti,
perché ti aiutino a rinunciare, perché ti aiutino a commettere nell’alone rosa, azzurro,
nel verde stagnante della loro assistenza, il
sacrificio della privazione… So di sanguinari che, a un passo da una decisione mortale,
lasciarono perdere perché nella loro solitudine, assai simile a quella di un dio, sentirono che quel dio disapprovava, come un soffio che non spegne la candela ma innervosisce la fiamma… poi magari scannarono per
gioco un vitello come un uomo, o un uomo
come un vitello, perché il dio giocoso aveva
voglia di trottola, ossia di festeggiare la rinuncia… non è facile capire che non c’è differenza tra un vitello e un uomo, salvo la pena, la pietà… e non ti dico a favore di chi è
maggiore per non impressionarti… Sì, gli
dei sono la luce, un’oscillante luce di cantina… ma vedo città luminosissime, commerci tutti accesi, luci per fare immagini, vedo
un mondo pieno di dei, e ci vorrà coraggio…
perché l’uomo si renda conto che con la propria mano li accende, e con la stessa mano li
spegne, le luci…”, così disse un profeta, una
voce in un’oasi.
(2. continua)
Pasquale Panella
Estate
La triste storia di Rachel e Rod
ovvero come lasciare impuniti
gli uomini che vi cornificano
ev’essere un esercizio di stile. Un paradosso. Un “ve lo faccio vedere io, coD
me non ci si comporta”. Altre spiegazioni,
alla squallida ed esilarante storia di Rachel e Rod, non ce ne sono.
Rachel Royce è una giornalista, Rod
Liddle anche. Si sono conosciuti undici anni fa, “facendo i turni di notte alla
Bbc”, rimembra lei nostalgica.
Hanno fatto due figli (Tyler e Wilder, attualmente 6 e 4 anni). A secondogenito appena sfornato, Rod inizia a tradire Rachel (meglio: questo è il primo tradimento che la non sveglissima Rachel scopre – e, prima che la scopra, la tresca va avanti due anni). Lei trova un sms
compromettente sul di lui cellulare (ma gli
amanti inglesi invece di scopare si mandano messaggini?), chiama il numero, e la
sventurata risponde che Rod le aveva giurato di essere libero. Ma, come si dice: facciamo un passo indietro.
Fra Rod e Rachel stanno volando gli
stracci. Tali stracci includono un’intervista
al Telegraph in cui lui dice che il suo grande amore è tal Alicia Monckton, una nuova
squinzia (no, non è quella cui aveva detto
d’essere single, è una nuova – abbiate pazienza che ci arriviamo) e un articolo sul
Mail di Rachel in cui, appunto, si fa la cronistoria dei loro undici anni insieme. Essendo la storia raccontata da Rachel si suppone che lei non tiri a sputtanarsi il più possibile. Eppure… Perché lei non aveva mai
sospettato che Rod la tradisse? Semplice:
“Quand’era a Londra per lavoro mi diceva
che dormiva in bed and breakfast così economici che non c’era il telefono”. Allora ditelo, che volete lasciare impuniti gli uomini
che vi cornificano. Ditelo, che credete a tutto. Comunque, si lasciano per un po’, ma poi
lei si impietosisce: povero Rod, “suo padre
era appena morto”. Cosa meglio di una sveltina, per elaborare il lutto? Magari con una
meno allocca della madre dei tuoi figli.
AGENDA MIELI
Jas sia cavalleresco con Iva.
Dimettersi da Strasb. Dirglielo.
Dopodiché, lui la chiede in moglie (se
mai la locuzione “matrimonio riparatore”
ha avuto un senso, è per questi due). Si sposano in gennaio, in Malesia, quaranta amici
portati lì a festeggiare per quarantott’ore.
Rachel non ha mai letto “Il falò delle vanità”, purtuttavia le sembra strano che, al
ritorno in Inghilterra, lui inizi a uscire di casa la notte per fare lunghe telefonate dal
cellulare. Per non parlare del fatto che gli
trova in tasca inspiegabili ricevute di ristoranti romantici (anche un adultero minorenne sa che le ricevute si buttano: questo
pirla, avendo a casa una moglie che già una
volta ha chiamato il numero di una sua
amante, le conserva? bah…). Insomma, lui
prende il treno per Londra, e lei decide di
seguirlo. Scendono dal treno, e lei dice al
tassista “Segua quel taxi” (Rachel dice che
il tassista le ha detto che in 20 anni di servizio era la prima volta che glielo dicevano;
per esperienza personale: il tassista vi guarderà come una pazza, e poi si perderà per
strada il fedifrago). Arrivano in un albergo.
Lei fa una piazzata nella hall, lui dice che è
lì per lavoro, poi “io dovetti tornare a casa
perché non potevo lasciare soli i bambini,
ma lui rimase fuori tutta notte, penso con la
ragazza”. Dopodiché divorzio? Macché:
qualche settimana dopo lei trova un’altra ricevuta; nel frattempo ha scovato il numero
anche di questa squinzia, quindi la chiama;
lei rivela di esserlo andato a prendere in
aeroporto al ritorno dalla luna di miele
(Rod era tornato prima, ma con una scusa
così ottima da zittire ogni sospetto di Rachel: “Devo lavorare per pagare le spese del
matrimonio”). Finalmente si lasciano. E comincia la barzelletta. Perché sui giornali voleranno gli stracci, ma nella vita non è che
vada meglio. Rod porta la squinzia nella casa dove erano soliti villeggiare loro, Rachel
dà in escandescenze: entra in casa per lasciare il suo abito da sposa dove l’altra lo
veda, ci sono avanzi di gamberi e vino bianco, Rachel irrompe nell’alcova, Rod si sveglia, la guarda come la bollitrice di conigli
che è. Lei esce, va a comprare dieci sacchi
di letame e li fa recapitare all’ufficio di lui
allo Spectator. Domenica l’Observer li ha intervistati. Lei: “Anch’io ho dei sentimenti”.
Lui: “Non avrei mai dovuto dare quell’intervista al Telegraph”. L’aveva data per promuovere l’uscita di un suo libro. Tema: le
relazioni extraconiugali.
Guia Soncini
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