Le culture della diaspora - Università degli Studi della Repubblica di

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Le culture della diaspora - Università degli Studi della Repubblica di
Matilde Callari Galli
Le culture della diaspora nella società contemporanea
1. Etnia, territorio, Stato, nazione
Alla fine della seconda guerra mondiale, Federico Chabod nella sua prolusione
all'insegnamento di storia moderna presso l'Università "La Sapienza" di Roma, rivendicava l'esistenza
di una coscienza dell'unità culturale europea. Citando Burke egli ricordava che "quel sistema di vita
e di educazione più o meno uguale in tutta questa parte del mondo (...) crea una somiglianza di
consuetudini sociali e di forme di vita" per cui "nessun europeo potrebbe essere completamente
esule in alcuna parte d'Europa". Possiamo così parlare dell'Europa, egli proseguiva, "come il luogo in
cui i rapporti di un tempo fra umanisti, il girar dalla Francia all'Inghilterra alla Svizzera di un Erasmo,
e poi ancora le discussioni tra gli eretici, profughi e ospitati in terra straniera in omaggio alle idee, tutti
quei precorrimenti, pratici e ideali, diventano consapevolezza piena di sé, coscienza di un'unità ideale
assai al di sopra ormai dell'equilibrio politico e delle transeunti vicende degli uomini" (Chabod 1947).
Queste parole, dopo mezzo secolo, risuonano ad un tempo attuali e anacronistiche, una meta
ancora da raggiungere e un sogno superato e travolto da eventi inaspettati e di difficile governabilità.
Attuali perché rivendicano per l'Europa un ruolo culturale che appare sempre più appannato
di fronte al dominio del ruolo economico, così forte da determinare, negli anni '80, feroci critiche da
parte di autorevoli intellettuali europei, all'organizzazione di Bruxelles. Ma anche anacronistiche di
fronte all'indifferenza con cui le singole nazioni, ridisegnando il loro ruolo specifico, hanno assistito ai
grandi rivolgimenti che a partire dal 1980 hanno sconvolto le regioni delle aree centrali del
continente, con un crescendo lacerante culminato con le guerre dell'ex-Jugoslavia.
Oggi è assai difficile parlare di un'identità europea senza porre in primo piano l'attualità del
suo pluralismo culturale che si qualifica, oggi come ieri, per una molteplicità di componenti: un
multiculturalismo europeo storicamente e orgogliosamente radicato in ambiti regionali e nazionali al
quale si affianca un multiculturalismo più minuto e frastagliato, dovuto sia al permanere di culture
tradizionali europee che all'arrivo di gruppi di immigrati non-europei.
Del resto a guardar bene, come hanno dimostrato Philippe Poutignat e Jocelyne StreiffFenart, le tesi di Renan hanno oggi ancora grande pregnanza, con il suo anti-essenzialismo che
“individua alla base della formazione delle nazioni (...) una serie di fatti contingenti, di divisioni
artificiali, di combinazioni, di conquiste ma in nessun modo un principio necessario o
naturale”(Poutignat, Streiff-Fenart 2000: 27). E’ infatti ancora su questa argomentazione che si basa
la distinzione introdotta da Hobsbawn nel significato del termine di Stato-Nazione; il primo è quello
tradizionale ereditato dalla rivoluzione francese e dalla rivoluzione americana che ha una valenza tutta
politica: è in altre parole uno Stato territoriale sul quale la Nazione, cioé la gente che lo abita, ha
sovranità politica, vale a dire sceglie il suo governo, la sua Costituzione, le sue leggi. Il secondo
significato individuato da Hobsbawn è più recente e “consiste nell’idea che ogni Stato territoriale
appartiene ad un particolare popolo, caratterizzato da peculiarità etniche, linguistiche e culturali, e
che questo costituisce la Nazione. Secondo questa idea, in uno Stato-Nazione esiste una sola
Nazione, gli altri sono invece minoranze che vivono nello stesso posto ma che non ne sono parte”
(Hobsbawn 2000: 23).
Come aveva già notato Hans Kohn, i due modelli di nazione, veri e propri tipi-ideali,
possono essere attribuiti il primo alla Francia (il :modello “occidentale” del “cittadino illumistico”) e
l’altro alla Germania ( il “modello orientale” che valorizza la dimensione romantica ed etnica). “Nel
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modello occidentale, egli scrive, il consenso sociale dei cittadini illuminati rappresenta il fondamento
della costituzione della nazione. Nel modello orientale, invece, si pone al centro dell’interesse una
tradizione etnica che trascende il mondo cittadino, e cioé la cosiddetta “missione” o “destino” di un
popolo. (...) La nazione veniva compresa come una comunità linguistica che sembrava potersi
appoggiare su una mitologia e una storia comune” (Khon1967).
Lutzeler riprende questa distinzione non solo per collegare al modello orientale lo spirito del
sistema nazionalsocialista della Germania nazista ma per sostenere che esso sia ancora operante ed
attuale, come ha dimostrato la terza guerra dei balcanica. “La tragedia dei Balcani, egli scrive non da
ultimo deriva dal fatto che vi fu recuperato il modello di nazione orientale dopo che gli imperi
sovranazionali (l’impero ottomano e la monarchia austro-ungarica) si sfaldarono, il che ha
conseguenze fatali proprio per le regioni con un mosaico etnico” (Lutzeler 1999: 23-24).
I due modelli per Lutzeler sono ancora alla base della disputa che oppone il canadese
Charles Taylor al tedesco Jurgen Habermas rispetto alla gestione delle differenti culture che
convivono in una medesima nazione. Il primo valuta inadeguata, per garantire i diritti delle differenze
antiche e nuove che affollano i territori delle nazioni europee, “la politica della dignità universale”, che
nelle sue parole “vuole escludere ogni discriminazione e dovrebbe essere contemporaneamente
cieca rispetto alle differenze tra i cittadini”. Questa politica a suo parere dovrebbe essere integrata
”da una politica delle differenze”, attenta a dare alle minoranze quei diritti particolari loro
indispensabili per preservare “la propria identità culturale, il che significa da ultimo la propria libertà”
(Lutzeler 1999: 25). Habermas a sua volta si batte per il modello di liberalismo universalistico,
convinto che per salvaguardare i diritti delle minoranze la distinzione non vada introdotta a livello del
modello politico bensì a livello del modello di assimilazione, nel quale egli suggerisce di introdurre
“due gradi differenziati, uno che riguarda l’assimilazione giuridico costituzionale e il secondo riferito
all’assimilazione pratico-culturale". Ed Habermas, secondo Lutzeler, richiede alle minoranze di
aderire alla “cultura politica della maggioranza” ma non alle sue condizioni “etico-culturali”.
Le diverse posizioni di Taylor e di Habermas vanno chiarite ricordando che essi si
riferiscono a minoranze dai caratteri, dalle storie, dalle esperienze profondamente diverse. “Taylor,
scrive ancora Lutzeler, parla di una convivenza di gruppi conflittuali già da secoli in Canada, cioé del
rapporto tra franco-canadesi e anglo-canadesi da una parte e delle lotte degli indiani per la loro
sopravvivenza dall’altra. Per Habermas si tratta invece dei Gastarbeiter, dei profughi, degli emigranti
non europei che si sono stabiliti in Germania relativamente da poco. Le minoranze di Taylor sono
cittadini giuridici dello stato, quelle di Habermas non sono cittadini del paese dove lavorano”
(Lutzeler 1999: 28).
Hobsbawn, Taylor e Habermas attingendo a teorie e dati diversi - soprattutto politici, storici
e giuridici - denunciano più o meno direttamente la crisi dei fondamenti istituzionali e degli stessi
poteri politici degli Stati nazionali.
Può essere di qualche interesse accostare alle loro interpretazioni una visione del problema in
cui categorie quali localismo e globalismo, transnazionalità e interdipendenza vadano a confluire, ad
affiancare, a contrastare concetti quali etnia e nazione, seguendo il suggerimento di Roland
Robertson quando ci invita ad “osservare quella che viene spesso chiamata politica mondiale
attraverso una lente culturale” (Robertson1999).
Si tratta, parafrasando Lyotard, di cercare “lo sconosciuto”, di individuare quanto del
rapporto tra le culture contemporanee non è stato ancora codificato, di illuminare i luoghi di nuove
centralità, di pronunciare nuove parole che possano sostituire quelle ormai invecchiate di
acculturazione e integrazione.
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Si tratta di verificare se il dialogo con le popolazioni straniere che già costituiscono la
maggioranza degli abitanti di molte metropoli europee possa illuminarci sulle condizioni e le modalità
di nuovi processi di convergenza e di confronto.
2. Una società globale abitata da innumerevoli localismi
Le interpretazioni della realtà contemporanea nei termini di post-modernità e di
globalizzazione sono venute alla ribalta nel nostro secolo, prima in modo sotterraneo e sporadico,
poi con prepotenza e grande diffusione, contemporaneamente all’espandersi per tutto il pianeta, in
mille rivoli differenziati e differenzianti, dei processi di modernizzazione. Man mano che a partire
dagli anni sessanta si affermavano a livello globale una serie di cambiamenti economici, culturali e
politici - quali la computerizzazione delle conoscenze, le tecnologie dell'informazione, la velocità dei
mezzi di trasporto e della diffusione delle notizie, la proliferazione dell’affermazione di una cultura di
mercato, l'esplodere dell'idea di nazione con l'affermazione della multiculturalità e della polietnicità lo schema di riferimento che interpreta il "quadro del mondo" heideggeriano come un processo di
cambiamento "moderno" che investa con le tappe del progresso tecnologico l'intero pianeta si è
spezzato, è divenuto frammentario, ha perso la sua unità, ha caricato di ambiguità eventi e
interpretazioni (Callari Galli, Ceruti, Pievani 1998).
Non possediamo più un modello da aprire all’attenzione e alla volontà di chi nei suoi usi e
costumi, nei suoi modelli educativi e nelle sue suddivisioni di tempi e di spazi si era nei millenni
attestato su altre categorie, su altre finalità, ma ci troviamo di fronte ad un confluire e un ribollire nei
medesimi spazi, nei medesimi tempi, di orientamenti culturali, di forze sociali, di visioni del mondo
che si aprono contemporaneamente al rapporto e al conflitto, alla coesione e alla rottura.
Le parole "chiave" del processo di globalizzazione individuate da Anthony Giddens
riguardano principalmente il livello economico sottolineando le interazioni finanziarie che accomunano
paesi lontani e diversi, la diffusione mondiale delle tecnologie moderne, le nuove forme della
divisione e dell'organizzazione della forza lavoro, l'emergenza di "un ordine militare mondiale". A
queste dimensioni tuttavia se ne sono aggiunte altre, di carattere più nettamente culturale, che con le
loro interazioni, con le loro "ricadute" rendono il quadro ancora più dinamico e complesso: volendo
citare le più rilevanti ricordo la crescita di reti e di corporazioni transnazionali; le nuove tecnologie di
informazione e di comunicazione che hanno contribuito ad una "intensificazione della compressione
spazio/temporale” che ha avuto un impatto
disorientante e distruttivo
sulle pratiche
politico/economiche; un aumento vertiginoso degli spostamenti, delle emigrazioni, dei viaggi
internazionali con conseguenti e parallele trasformazioni nella vita sociale e culturale della
maggioranza dei gruppi umani.
Se alcuni analisti sottolineano la prospettiva di una cultura globale e cosmopolita sorretta
dalla formazione di "culture transnazionali", altri individuano una grande superficialità nel
cosmopolitismo contemporaneo, accompagnata da una omogeneità tutta apparente, determinata
dall'adeguamento generalizzato a modelli consumistici rispondenti alla produzione economica
capitalista - la McDonaldizzazione del mondo. E al di sotto di questa coltre si individua un mondo
interdipendente a causa dei processi globali che tuttavia continua a produrre localismi esasperati,
valorizzazioni di comunità etniche che sembrano sfidare le più ampie unità politiche in cui sono
incorporate rivendicando per sé stesse diritti e riconoscimenti propri di nazioni e di stati; la
riscoperta di "radici" e di storie che minacciano con la loro pregnanza non solo le nuove unità
transnazionali ma le stesse unità nazionali degli ultimi secoli.
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Per illustrare rapidamente e con efficacia la complessa dinamica che si instaura tra i processi
di globalizzazione e i nuovi localismi mi servirò di una citazione. E’ falso immaginare che la diffusione
delle economie e delle informazioni su scala mondiale produca inevitabili processi di
omogenizzazione culturale. Come scrive Appadurai, “appena le forze provenienti da diverse
metropoli sono portate all’interno di nuove società esse tendono, in un modo o nell’altro, a subire
un processo di indigenizzazione: questo è vero della musica come degli stili abitativi, dei procedimenti
scientifici come del terrorismo, degli spettacoli come delle norme costituzionali. In poche parole le
singole culture possono riprodursi o ricostruire la loro specificità sottoponendo le forme culturali
transnazionali ad un processo di indigenizzazione” (Appadurai 1997: 88).
Davanti alla generalizzazione di questo movimento, mi sembra doveroso per chi intenda
“leggere” da un punto di vista antropologico la nostra contemporaneità chiedersi come gli individui
occupino questi spazi, quali i tempi e i modi dei loro radicamenti e dei loro spostamenti, quali le
costruzioni simboliche che nel loro immaginario li guidano nelle scelte, che colorano i loro sogni, che
avvelenano le loro disperazioni.
3 I caratteri dell’interdipendenza culturale
Migrazioni e nuovi mezzi di comunicazione di massa divengono i due fattori che qualificano la
nostra contemporaneità, sia se vengono assunti ed analizzati in sé sia soprattutto se prendiamo in
considerazione gli esiti insospettati e spesso sorprendenti delle loro interconnesioni.
Le migrazioni sono anche oggi determinate da ragioni composite che affiancano, senza
escludersi a vicenda, la ricerca di benessere alla necessità di sfuggire alla violenza della guerra e della
persecuzione politica. Ma a questo livello di analisi le differenze con il passato appaiono ai miei occhi
più di carattere quantitativo che qualitativo. Sempre grandi gruppi umani hanno vissuto quasi
contemporaneamente "la diaspora della speranza, la diaspora del terrore, la diaspora della
disperazione" (Appadurai 1997). E le recenti immagini dei treni del Kosovo non possono non
richiamare alla nostra memoria i treni piombati dell'Olocausto ma anche le navi di cittadini inglesi
strappati alle carceri per popolare la "riva fatale" (Hughes 1990); così come i vestiti laceri, le scarpe
sfondate, i fagotti di stracci documentati nel museo costruito ad Ellis Island, nella baia di New York,
a ricordo della diaspora, anch'essa carica di dolore e di speranza, che popolò, alla fine dello scorso
secolo, gli Stati Uniti d'America.
Quello che è completamente nuovo è che questi movimenti, queste diaspore, oggi si
muovono all'interno di un sistema di comunicazione ignoto nel passato, che ad un tempo dà forma al
desiderio e all'oltraggio ma anche agli adattamenti, alle scelte, alle ribellioni.
Sono le trasmissioni televisive che portano nelle nostre case e nelle nostre coscienze la
marcia disperata di un popolo scacciato perché "etnicamente" non congeniale ad un territorio, sono
le trasmissioni televisive o le comunicazioni via internet che muovono i nostri antichi rimorsi
costringendoci oggi, a differenza di ieri, a non poterci nascondere dietro l'alibi della non conoscenza.
Ma anche i vissuti delle vittime e dei carnefici sono attraversati, in parte determinati, comunque
influenzati, dalla creazione di un immaginario collettivo che paradossalmente, proprio in un conflitto
che pone alla sua base i principi di territorialità, di appartenenza etnica, trascende completamente gli
spazi delle singole nazioni.
Allargando la nostra ottica, l'intero "spazio migratorio" è stravolto dall'esistenza dei mezzi di
comunicazione, dagli aereoplani ai fax, dalle trasmissioni televisive alle poste elettroniche e alle
"navigazioni" su internet: gli immigrati indiani guardano, in Gran Bretagna o in Italia, le telenovelas
prodotte nel loro paese d'origine, ricevono di frequente visite di parenti e amici; i tassisti pakistani
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percorrono le strade di Sydney ascoltando le "cassette" delle preghiere registrate nelle lontane
moschee del mondo musulmano, comunicano quotidianamente con le "loro" comunità; le antenne
paraboliche che affollano le finestre dei "centri di accoglienza" predisposti in Emilia Romagna per gli
immigrati maghrebini portano, nelle loro povere stanze, le immagini e le voci dei loro paesi: proprio
mentre si muore per una città, un villaggio, un campo, l'immaginario collettivo si allarga, raggiunge
spettatori appassionati che introdurranno in spazi culturali completamente diversi le immagini
trasmesse nei loro paesi di origine.
I mezzi elettronici mutano l'ambiente che ci circonda ponendo gli uni accanto agli altri
"localismi" e le "globalizzazioni", mescolano a piene mani tradizioni ed innovazioni, danno agli
individui e ai gruppi innumerevoli "materiali" per poter vivere l'ansia del radicamento e l'ebbrezza del
nomadismo. Tuttavia quello che è importante sottolineare non è tanto questa continua offerta, questo
fluire di stimoli per le nostre immaginazioni sociologiche, quanto piuttosto che la pervasività dei mezzi
di comunicazione, il loro penetrare nelle nostre abitazioni, il loro infiltrarsi nelle nostre abitudini,
introduce nella nostra vita quotidiana la trasversalità dei progetti sociali. E il richiamo alle "radici",
attraversando l'etere, unisce con i suoi pesanti legami emotivi gruppi insediati nei contesti più diversi
che stanno ottenendo successi o frustrazioni nel loro faticoso processo di adattamento:
contemporaneamente il richiamo ad affrontare lo stesso progetto politico, può tagliare nazionalità ed
insediamenti, unire gruppi dalle provenienze più disparate, può divenire mobile e potenzialmente
appartenere all'umanità tutta. E queste tensioni, opposte ma analoghe nel loro potere di trasformare i
tradizionali legami tra gruppi e territori, rendono ingenuo, anacronistico ed illusorio il richiamo a
blindare le frontiere di stati nazionali e di continenti; al limite rendono anacronistico lo stesso concetto
di “confine”.
Con la velocità delle comunicazioni e l'accelerazioni degli spostamenti reali e virtuali, il
duplice ancoraggio che legava la cultura da un lato ed il popolo dall’altro ad una nazione viene meno:
le comunità divengono più mobili di quanto non lo fossero in passato, le contaminazioni, i prestiti, gli
scontri, si moltiplicano, accelerano le loro dinamiche. Applicando i continui sforzi che le discipline
antropologiche hanno sempre fatto sia per spostare i limiti dell'etnocentrismo, ampliando
costantemente l'operazione di "decentramento del sé", sia per denunciare i limiti di un relativismo
culturale assoluto e paralizzante, forse dobbiamo cominciare a discutere l'idea - profondamente
radicata nel pensiero e nel vissuto dell'Occidente contemporaneo - che considera i modelli di
comunità e di localismo quali entità naturali ed innate; forse dobbiamo ricondurli alla loro culturalità,
considerandoli risultati di pratiche politiche e sociali che formano le identità. Se accettiamo di
sfuggire alla "metafisica della sedentarietà" (del resto così contraria a tutta l'impostazione degli studi
antropologici sino a comprendere quelli che riguardano lo studio dell'evoluzione della nostra specie e
la paletnologia), se non consideriamo come ovvii e inevitabili il radicamento e l'attaccamento alla
comunità, se rifiutiamo di accettare acriticamente che le potenzialità affettive e i principi identitari
scaturiscano automaticamente dalle esperienze sensoriali legate ai luoghi in cui si vive e dalle
relazioni quotidiane degli incontri "faccia a faccia", vedremo con chiarezza che l'esperienza
apparentemente immediata e diretta della vita comunitaria in realtà è costituita da un ben più ampio
apparato di relazioni sociali e spaziali. Se si accetta questo schema che vede le contaminazioni e i
meticciati percorrere senza sosta l'intero pianeta, appaiono ingenui, se non mistificanti, i modelli che
descrivono tipi di identità non localistiche o superlocalistiche - quali le immigrazioni, i flussi dei
rifugiati, le diaspore - come estensioni spaziali e temporali di una identità precedente, naturale,
radicata in una località e in una comunità (Gupta, Ferguson 1997; Ceruti, Pievani, Callari Galli
1998).
All'analisi del rapporto tra una cultura che eleva l'altro alla dignità del sé o che abbassa il sé
alla dignità dell'altro, si sostituisce un'analisi della cultura vista come luogo di differenziazione e di
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contaminazione, con un dilagare delle differenze e delle omologazioni che raggiunge ritmi mai
sperimentati finora: ed è legittimo chiedersi quanto ciò cambi - o dovrebbe cambiare - tutte le
discipline "inter" e "trans" che sono fiorite in questi ultimi anni e che tranne rari casi hanno avuto con
le discipline antropologiche incontri sporadici e superficiali, quando non hanno preferito compiere
vere e proprie illegittime scorribande nei loro dati.
A legare, ad ancorare la cultura ad un determinato e circoscritto spazio si aprono una serie
di interrogativi ai quali non si può più rispondere con la trascuratezza o con l'indifferenza. Quale
cultura per i molti individui che abitano i confini di tutti gli stati nazionali del mondo? E quale cultura
per i milioni di individui che in seguito all'emigrazione, alla deportazione, alla fuga da sistemi politici
violenti e repressivi hanno per tutto questo secolo abbandonato i loro spazi? A qual punto della sua
storia un gruppo poteva essere definito "subcultura"? E questa definizione era comprensiva di tutti i
suoi aspetti, di tutti i suoi caratteri o solo di alcuni? E cosa dire di quando alcune subculture, in
seguito alla fine del colonialismo politico, divengono culture dominanti rispetto all'occupazione
spaziale ma non rispetto al loro potere economico?
4. La "riterritorializzazione" dello spazio
Tentando di aprire il concetto di cultura a queste nuove, importanti problematiche, nella
letteratura si vanno affermando le analisi che si interrogano sui nuovi aspetti che assumono il
cambiamento sociale e le trasformazioni culturali che avvengono non più in spazi disgiunti ma in spazi
interconnessi. "E' la riterritorializzazione dello spazio, scrivono Akil Gupta e James Ferguson, che ci
obbliga a riconcentualizzare, sin dalle loro fondamenta, le politiche della comunità, della solidarietà,
dell'identità e della differenza culturale" (Gupta, Ferguson 1997: 37).
Diaspore, emigrazioni, conflitti, non appartengono più solo a gruppi ristretti e ben definiti.
Come ha scritto Triulzi, “dai primi anni ‘80 i flussi migratori sino ad allora stagnanti sono aumentati
vertiginosamente non solo in Europa, dove vivono ormai più di venti milioni di immigrati: sono più di
trenta milioni gli sfollati e rifugiati nei paesi in via di sviluppo (PVS) a causa dei conflitti armati,
mentre masse di esuli provenienti dall’Est europeo e dai PVS, lavoratori, rifugiati e transfughi a causa
di guerre, carestie, sommovimenti politici e congiunture economiche si sono riversati da allora nei
paesi del mondo industrializzato a ritmi sempre più sostenuti, tanto da confermare l’analisi di Julia
Kristeva: “L’epoca attuale è un’epoca d’esilio”. (Triulzi 1995: 5). Ed al di là di questa crescita
quantitativamente imponente di individui che sperimentano fisicamente la dislocazione dei loro spazi
dobbiamo ricordare che a livello virtuale essa coinvolge l’intero pianeta. Sotto la spinta della
diffusione delle immagini - e quindi della consapevolezza che tutti cominciamo a raggiungere
dell'inevitabile coinvolgimento che i mass media della contemporaneità inducono - i processi di
dislocazione vissuti da emigranti o da deportati, da rifugiati o da esuli entrano nella nostra
quotidianità, fanno sentire precarie e fragili tutte le nostre sicurezze territoriali. La diffusione dei mezzi
di comunicazione di massa apre inedite possibilità di raccordi tra i nuovi e gli antichi territori di
insediamento. E davanti all’insorgere di una minaccia dei confini da parte di un invasore straniero,
può accadere che dalla “patria” influenti esponenti politici e membri del governo rivolgano appelli
dalle emittenti televisive internazionali a tutte le loro comunità, in “qualunque continente vivano”
affinché contribuiscano alla difesa della loro terra. Nell'epoca della deterritorializzazione, dello
"spazio cibernetico", il concetto di patria continua a dar forma alle nostre identità culturali,
particolarmente in quelle comunità che sono sottoposte - per una ragione o per l'altra - alla diaspora
e al trasferimento. E le voci antropologiche, che hanno messo in discussione la "naturalità" della
sedentarietà, le loro ricerche che, sia pur timidamente, hanno cercato di dimostrare l'"invenzione" e
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l'uso politico e manipolatorio di molte tradizioni che fondano culture ed etnie, non sono ascoltate con
la dovuta attenzione, soprattutto sono pressocché ignorate dai mezzi di comunicazione di massa e
dai nostri programmi scolastici. Troppo spesso il legame tra un luogo, la memoria e la nostalgia gioca
ruoli colmi di ambiguità nell'immaginario collettivo e nella cultura popolare televisiva. A livello
letterario questa ambiguità è stata analizzata con grande precisione da Salman Rushdie che in Patrie
immaginarie così scrive: “forse gli scrittori nella mia stessa situazione, esuli o emigrati o espatriati,
sono perseguitati dallo stesso senso di perdita, da un forte senso di riappropriazione, di guardare
indietro, anche a rischio di venir tramutati in colonne di sale. Ma se guardiamo indietro, dobbiamo
farlo sapendo - e ciò genera incertezze profonde - che la nostra alienazione fisica dall’India significa
quasi inevitabilmente non essere in grado di recuperare esattamente le cose che abbiamo perduto; e
che, in breve, creeremo delle fiction, invisibili patrie immaginarie, Indie della mente”. (Rushdie 1994:
14).
A livello politico queste “patrie immaginate” vengono spesso create, enfatizzate ed usate per
alimentare fra gli esiliati e gli immigrati odi e fazioni, per arruolare truppe e risorse per future guerre
tese - forse, in un futuro non ben definito - a riconquistare territori perduti.
La soluzione che si può proporre per liberarsi da queste equivoche ambiguità non risiede
certo nel negare il grande richiamo che questi sentimenti esercitano sugli individui e sui gruppi; né da
un punto di vista antropologico è sufficiente dar voce alle "alterità" per comprendere la dialettica tra
"noi" e gli "altri". Abbiamo bisogno, piuttosto, di interrogarci sulle ragioni politiche, sui
condizionamenti economici e culturali che hanno rappresentato il mondo come un contenitore del
"noi" e degli "altri": e questo non per accettare la realtà delle subculture che popolano un
determinato spazio ma per esplorare i meccanismi che producono le differenze in un determinato
spazio.
Come ha fatto rilevare Homi Bhabha, una politica sincretica ed insieme un'analisi culturale
che individui la realtà delle molte forme delle contaminazioni e dei meticciati che costituiscono la
nostra contemporaneità svelano l'imperialismo che si nasconde sempre dietro la nozione di "purezza
culturale" e dietro ogni forma di nazionalismo. Bhabha prosegue spiegandoci quali politiche sono
innestate da questa teorizzazione che pone la contaminazione, il meticciato al centro della nostra
analisi. Dopo aver evidenziato la difficile connessione che esiste tra le rivendicazioni di purezza e
l'impostazione politica che è sorretta e giustificata dalle utopie finalistiche - e gli esempi di tutti i
totalitarismi che hanno punteggiato il nostro secolo "breve" a questo riguardo sono assai immediati e
illuminanti - egli ci descrive come è pervenuto alla convinzione che "l'unico luogo da cui, nel mondo
contemporaneo, è possibile parlare è quello in cui la contraddizione, l'antagonismo, gli ibridismi
dell'influenza culturale, i confini delle nazioni, non sono "trasformati" nell' utopico senso di liberazione
o di ritorno. Il luogo da cui parlare è là dove sono quelle incommensurabili contraddizioni entro cui la
gente sopravvive, è politicamente attiva e cambia" (Bhabha1997: 18).
E in conclusione mi piace accostare a Bhabha un autore da lui diverso per terra, lingua e
religione ma come lui appartenente alla cultura della contaminazione, Mudimbe, che parlando da
un’alterità che appartiene ad un’altra storia, ad un altro continente, e usando forme retoriche diverse,
rompe la connessione tra cultura e territorio: “non sono da nessuna parte - egli scrive - ed è come se
fossi ovunque. Sono americano senza esserlo e non sono neppure del mio paese d’origine, pur
essendolo profondamente. Il nomadismo sarà stato - ma da quando? - il mio destino ed il segno
della mia vocazione” (Mudimbe 1988: 165).
Così i “luoghi” divengono labili, indefiniti. I “senza terra”, i “nomadi” sono i nuovi protagonisti
della cultura. Così oggi i gruppi di migranti, gli esiliati, i rifugiati, costituiscono, in tutto il mondo, in
tutti i continenti, il luogo dove possiamo individuare queste difficili contraddizioni, questi atroci
antagonismi, questi inaspettati ibridismi.
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E metaforicamente possiamo paragonare questi incontri a quelli fra culture mediterranee e
culture nordiche che secondo Lucien Febvre all'epoca dell'impero carolingio rappresentarono
l'elemento centrale della formazione dell'Europa. Oggi, come allora, l'elaborazione culturale riposa
sul meticciato, sull'impurità razziale, sul bisogno di imitazione reciproca, oggi, come allora, l'orizzonte
è costituito dal mondo di cui si ha conoscenza.
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