La letteratura nella seconda lingua della diaspora

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La letteratura nella seconda lingua della diaspora
Convegno Altreitalie
Altreitalie International Conference
Emigrazione italiana: percorsi interpretativi tra diaspora, transnazionalismo e generazioni
Re-thinking Italian Migrations: Diaspora, Trasnationalism and Generations
29-30 marzo 2004
Fondazione Giovanni Agnelli, Via Giacosa 38, Torino
Claudio Gorlier, Università di Torino
La letteratura nella seconda lingua della diaspora
ABSTRACT
La scelta della seconda lingua nel quadro della letteratura degli scrittori italiani
dell’emigrazione impone una serie di differenziazioni non soltanto cronologiche, a che
investono il diverso territorio geografico e culturale, e, in sostanza, il tema
fondamentale e il concetto di diaspora.
Una premessa fondamentale riguarda, come è noto, la literacy degli emigrati; accanto,
la permanenza dell’eredità linguistica italiana. A differenza degli ebrei e degli irlandesi,
ad esempio, negli Stati Uniti l’emigrazione italiana era caratterizzata linguisticamente
da un’eredità linguistica fondamentalmente dialettale. Ciò spiega la scelta risoluta di
apprendere la seconda lingua e di servirsene, avendo della prima un ricordo e, magari,
una mitizzazione, una tendenza a una tipologia sostanzialmente di seconda mano. Ma
vediamo la prima generazione e quella immediatamente successiva, individuando due
diverse costanti. Una riguarda la scelta di un ambiente, che è generalmente italoamericano. Ecco allora il caso di Pietro Di Donato e di John Fante, dove resistono
stereotipi di matrice caratteristicamente italiana, ma la scelta linguistica decisiva è
americana. Si notino, ad esempio, le non rare improprietà linguistiche nei libri di Fante,
quando si tratta di ricorrere occasionalmente all’italiano. In taluni casi, la scelta di un
ambiente specificamente italiano si nutre di memoria, e conduce anche a una
tipizzazione in effetti, per così dire, distanziata: penso al caso di Mangione,
culturalmente del tutto americanizzato, al punto da insegnare letteratura inglese e
americana a livello universitario. Nelle generazioni successive, l’attenuarsi di una
influenza riconducibile alla diaspora diventa ancora più marcata. Nel caso dei beat
(Corso, Ferlinghetti) una simile caratteristica diviene del tutto evidente, mentre un caso
particolare è rappresentato da DeLillo. “Underworld” è un libro diasporico a tutti i livelli,
anche interni e la mediazione linguistica si presenta quasi esemplare. Gli raccontai una
tipica storiella italo-americana del Bronx, ed egli – ne parlerò nel testo definitivo – ne
fu felice, chiedendomi di scriverla per lui nel testo integrale italiano, perché gli era
stata raccontata in inglese da ragazzo.
La letteratura dell’emigrazione è più legata alla diaspora in Canada, per tutta una serie
di motivi, che si riscontrano anche sul piano della rappresentatività politica.
Intendiamoci: anche qui si riscontra una mediazione linguistica di seconda mano, ma
anche a livello di ambiente, in scrittori come la Ricci e Fiorito, la presenza della
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diaspora risulta assai più evidente che negli Stati Uniti. Analogo discorso andrà fatto
per l’Australia, nel cui contesto vale la pena di sottolineare il caso di un emigrato
occasionale, che adottò l’inglese per ragioni comunicative, con risultati magari abnormi
ma di rara efficacia. Mi riferisco a Eureka Stockade di Raffaello Caroni, ormai acquisito
da più di uno studioso alla letteratura australiana (edizione originale, 1855), tanto da
essere spesso chiamato Carboni Raffaello.
Gaetano Rando ha opportunamente additato l’importanza - in questo caso
sorprendentemente autentica sul piano linguistico – dello spesso dimenticato romanzo
di Velia Ercole “No Escape” (1932).
Siamo alla prima generazione, quella di Gino Nibbi e di Rosa Cappiello. La seconda
lingua deriva anche dal problema della doppia identità, sicuramente più radicata che
negli Stati Uniti. Ai libri citati da Rando aggiungerei il singolare “Southfalia” di Antonio
Casella (1980) che propone una sua consistente prospettiva.
Di qui le conclusioni.
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