M. Callari Galli Una lettura antropologica della città contemporanea

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M. Callari Galli Una lettura antropologica della città contemporanea
M. Callari Galli
Una lettura antropologica della città contemporanea
E’ stato scritto che la pianificazione urbanistica presuppone come base di riferimento il
modello concettuale della modernità: ordine, gerarchia, razionalità, efficienza, identità come
appartenenza a gruppi sociali dati, controllo, regolazione. Dovendosi oggi confrontare con
una realtà urbana e territoriale attraversata da mille cambiamenti, sollecitata da contatti,
incontri, scontri sempre più veloci e numerosi essa non sembra più in grado di poter usare, per
rappresentare la città, categorie univoche e unilineari; e sembra non poter più aspirare a
stabilire con le sue strutture e le sue reti viarie, con i suoi punti di attrazione, le sue suddivisioni
e le sue aggregazioni, rapporti coerenti e rispondenti a norme note, condivise e consolidate.
(Scandurra E., 1999; Scandurra E., Krumholz N., 1999; De Matteis G. et alii, 1999)
Del resto da tempo ormai il campo degli studi sociali sulla città è stato profondamente alterato
dall’emergere dei fenomeni della globalizzazione, accompagnati, sostenuti, contraddetti da una
cultura ad un tempo globale e frammentata, deterritorializzata e localistica.
Le interpretazioni della realtà contemporanea nei termini di post-modernità e di globalizzazione
sono venute alla ribalta nel nostro secolo, prima in modo sotterraneo e sporadico, poi con
prepotenza e grande diffusione, contemporaneamente all’espandersi per tutto il pianeta, in
mille rivoli differenziati e differenzianti dei processi di modernizzazione. Man mano che a
partire dagli anni sessanta si affermavano a livello globale una serie di cambiamenti economici,
culturali e politici quali la computerizzazione delle conoscenze, le tecnologie dell’informazione,
la velocità dei mezzi di trasporto e della diffusione delle notizie, la proliferazione
dell’affermazione di una cultura di mercato, l’esplodere dell’idea di nazione con l’affermazione
della multiculturalità e della polietnicità, lo schema di riferimento che interpreta il “quadro del
mondo” heideggeriano come un processo di cambiamento “moderno” che investa con le
tappe del progresso tecnologico l’intero pianeta, si è spezzato, è divenuto frammentario, ha
perso la sua unità, ha caricato di ambiguità eventi e interpretazioni. (Callari Galli M., Ceruti
M., Pievani T., 1998)
Non possediamo più un modello da aprire all’attenzione e alla volontà di chi nei suoi usi e
costumi, nei suoi modelli educativi e nelle sue suddivisioni di tempi e di spazi si era nei millenni
attestato su altre categorie, su altre finalità, ma ci troviamo di fronte ad un confluire e un
ribollire nei medesimi spazi, nei medesimi tempi di orientamenti culturali, di forze sociali, di
visioni del mondo che si aprono contemporaneamente al rapporto e al conflitto, alla coesione
e alla rottura.
Le parole “chiave” del processo di globalizzazione individuate da Anthony Giddens
riguardano principalmente il livello economico sottolineando le interazioni finanziarie che
accomunano paesi lontani e diversi, la diffusione mondiale delle tecnologie moderne, le nuove
forme della divisione e dell’organizzazione della forza lavoro, l’emergenza di “un ordine
militare mondiale”. A queste dimensioni tuttavia se ne sono aggiunte altre, di carattere più
nettamente culturale che con le loro interazioni, con le loro “ricadute” rendono il quadro
ancora più dinamico e complesso: volendo citare le più rilevanti ricordo la crescita di reti e di
corporazioni transnazionali; le nuove tecnologie di informazione e di comunicazione che hanno
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contribuito ad una “intensificazione della compressione spazio/temporale” che ha avuto un
impatto disorientante e distruttivo sulle pratiche politico/economiche; un aumento vertiginoso
negli spostamenti, nelle emigrazioni, nei viaggi internazionali con conseguenti e parallele
trasformazioni nella vita sociale e culturale della maggioranza dei gruppi umani.
Se alcuni analisti sottolineano la prospettiva di una cultura globale, cosmopolita
sorretta dalla formazione di “culture transnazionali”, altri individuano una grande superficialità
nel cosmopolitismo contemporaneo, accompagnata da una omogeneità tutta apparente,
determinata dall’adeguamento generalizzato a modelli consumistici rispondenti alla produzione
economica capitalista - la McDonaldizzazione del mondo. E al di sotto di questa coltre si
individua un mondo interdipendente a causa dei processi globali che tuttavia continua a
produrre localismi esasperati, valorizzazioni di comunità etniche che sembrano sfidare le più
ampie unità politiche in cui sono incorporate rivendicando per sé stesse diritti e riconoscimenti
propri di nazioni e di stati; la riscoperta di “radici” e di storie che minacciano con la loro
pregnanza non solo le nuove unità transnazionali ma le stesse unità nazionali degli ultimi secoli.
(Bhabha H., 1997)
Per illustrare rapidamente e con efficacia la complessa dinamica che si instaura tra i processi
di globalizzazione e i nuovi localismi mi servirò di una citazione. E’ falso immaginare che la
diffusione delle economie e delle informazioni su scala mondiale produca inevitabili processi di
omogeneizzazione culturale. Come scrive Appadurai “appena le forze provenienti da diverse
metropoli sono portate all’interno di nuove società esse tendono, in un modo o nell’altro, a
subire un processo di indigenizzazione: questo è vero della musica come degli stili abitativi, dei
procedimenti scientifici come del terrorismo, degli spettacoli come delle norme costituzionali.
In poche parole le singole culture possono riprodursi o ricostruire la loro specificità
sottoponendo le forme culturali transnazionali ad un processo di indigenizzazione”. (Appadurai
A., 1990). Così dobbiamo sintonizzarci, per usare un’espressione di Robertson, “tanto
all’istituzionalizzazione globale della vita-mondiale quanto alla localizzazione della globalità”.
(Robertson R., 1990)
Davanti alla generalizzazione di questo movimento, esistono forme e proposte che cercano,
anche se in modo che può essere giudicato disordinato e incoerente, spazi di autonomia e
libertà. E’ in questo quadro concettuale minoritario ma pieno di fascino e di attrazione per
vasti aggregati, che si inscrivono quelle che sono state chiamate le “sottoculture della
resistenza” e che sono emerse in numerose aree europee negli ultimi anni. Ed esse assumono
forme diverse: il popolamento spontaneo di villaggi rurali - abbandonati dai loro originari
abitanti - ad opera di gruppi che rifiutano l’organizzazione del lavoro e lo stile di vita
“cittadino”, rifugiandosi in un modello di economia di sussistenza comunitaria e primitiva;
l’occupazione dei parchi del Nord Europa ad opera di ecologisti, di “viaggiatori nella new
age”, di attivisti antinucleari, di “animalisti”, riuniti nelle loro differenzazioni di sesso, di
generazione, di etnicità da una simbolica appartenenza ad un’area politica e coagulati
temporaneamente intorno ad un’azione collettiva che intende resistere alla massificazione della
vita urbana, alla distruzione dell’ambiente e del paesaggio organizzando temporanee forme di
vita comunitaria, movimenti attivi di protesta e divertimenti collettivi (Routledge P., 1999).
E’ interessante notare che queste “culture della resistenza e della protesta” cercano per i loro
insediamenti, stabili o temporanei che siano, luoghi “residuali”, sottraendosi ai ritmi della vita
urbana; così come in luoghi non frequentati - capannoni industriali dismessi, radure boschive,
vecchi fienili, canoniche abbandonate - vengono organizzati i raduni “rave” che con la
segretezza e l’improvvisazione sia dell’organizzazione che della cooptazione dei partecipanti
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sfuggono ai controlli e possono colorire di devianza e di sfrenatezza il loro divertimento
nomade e collettivo.
Del resto l’intero pianeta è percorso da masse di individui in movimento.
Oggi sempre più numerose sono le voci che ci spingono ad abbandonare lo schema teorico
che postula la rispondenza tra la collocazione geografica e la cultura. E a livello interpretativo
fragile appare il tentativo di articolare la complessità delle culture costringendo la dinamica dei
loro rapporti entro la dialettica tra cultura dominante e subculture tali e tante sono le
interrelazioni e le interdipendenze che legano i gruppi tra di loro, tali e tanti sono i loro
frazionamenti, le loro divergenze ma anche le loro convergenze.
Ogni anno, quasi seicento milioni di individui varcano un confine internazionale per seguire le
mode e le occasioni del turismo di massa, mentre sono centinaia di milioni le persone - donne
e uomini soli, famiglie, interi gruppi - che emigrano per motivi economici, si ritrovano esuli o
profughi a seguito di conflitti e deportazioni o scelgono semplicemente di vivere all’estero,
disegnando così i loro destini all’interno di spazi tanto vasti quanto il pianeta.
La figura del migrante appare oggi come la più adeguata per descrivere noi stessi e i nostri
contemporanei (Chambers I., 1995), poiché anche coloro che nascono, vivono e moriranno
nel medesimo luogo partecipano di un movimento di dislocazione collettiva attraverso i mass
media e le nuove tecnologie comunicative. Ed è proprio in questo che consiste la peculiarità
del nostro tempo: televisione, telefono, fax e computer immergono ognuno di noi in un “flusso
culturale globale” (Callari Galli M., 1998) veicolante non soltanto semplici informazioni, ma
anche idee, rappresentazioni del mondo, linguaggi, immaginari e ideologie. La maggior parte
dei messaggi che ci sfiorano o ci colpiscono, infatti, circolano sotto forma di immagine, la
quale “esercita un’influenza, possiede una forza, che eccede di molto l’informazione di cui è
portatrice” (Augé M., 1993).
Migrazioni e nuovi mezzi di comunicazione di massa divengono i due fattori che qualificano al
nostra contemporaneità, sia se vengono assunti e analizzati in sé, sia soprattutto se prendiamo
in considerazione gli esiti insospettati e spesso sorprendenti delle loro interconnessioni.
Ambedue - migrazioni e nuove tecnologie - costituiscono universi che abbracciano milioni di
individui, centinaia di culture diverse: ambedue sono composti da variabili ed elementi
numerosi e dinamici che possono essere - e per lo più lo sono - utilmente analizzati
indipendentemente gli uni dagli altri, costituendo spesso, se colti in un determinato spazio
geografico e temporale, unità dotate di proprie caratteristiche. Tuttavia, sovente, esse
rimangono tali solo temporaneamente: la diffusione delle notizie sul loro costituirsi, sulle loro
qualità rispetto a precedenti tecnologie o rispetto a contemporanei spostamenti, la rapidità
delle innovazioni tecnologiche e dei mezzi di trasporto, fanno confluire nei processi di
globalizzazione i loro caratteri che, per quanto tipici e peculiari possano essere, contaminano
altre esperienze e da queste a loro volta sono contaminate.
Nel mondo che abitiamo, disseminato di schermi piccolissimi e giganti, tutto sembra darsi e
farsi in tempo reale, “qui ed ora”: nella percezione di ciascuno, gli avvenimenti si moltiplicano
producendo una sorta di accelerazione della storia (Augé M., 1993); lo spazio attorno a noi si
dilata e paradossalmente si restringe poiché ogni luogo è raggiungibile in poche ore di volo e
qualsiasi messaggio può pervenire in pochi istanti ad un destinatario che fisicamente si trova a
migliaia di chilometri.
Le distanze sono state oggi abolite dai mezzi di trasporto e dai mezzi di comunicazione televisione, fax, reti elettroniche - che ci circondano e sui quali sempre di più facciamo
affidamento per informarci, comunicare, organizzare le nostre relazioni pubbliche e private.
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Questa abolizione delle distanze ha dato origine ad uno spazio urbano definito da Paul Virilio
“telecittà”, nel quale la perdita di distinzione fra interno ed esterno ha effetti determinanti nella
modalità di percepire il rapporto spazio-temporale. “A partire dal momento - egli scrive - in
cui il mondo è ridotto a niente quanto ad estensione e durata, quanto a campo di azione,
reciprocamente niente può essere il mondo: cioè io, qui, nel mio rifugio, nel mio ghetto, nel mio
appartamento, io posso essere il mondo ; per dirla altrimenti, il mondo è dappertutto ma da
nessuna parte” (Virilio P., 1995).
Ancora la città è al centro del nostro presente e della nostra progettualità non tanto quale
luogo fisico opposto al paese, al villaggio, alla campagna quanto piuttosto quale modello di
vita che i mezzi di comunicazione dilatano sino a farlo divenire aspirazione e desiderio di tutti i
contesti abitativi. E’ una realtà che con molta efficacia anni fa Steinberg interpretò e in un
certo senso anticipò rappresentando una mappa di New York che si apriva “a collage “ sugli
Stati Uniti e di qui a tutti i continenti, al mondo.
Senza dubbio il dilagare delle nuove tecnologie di comunicazione - dai trasporti super veloci
alle reti telematiche, dalle trasmissione televisive alla computerizzazione delle immagini attribuisce nuove valenze all’immagine dello spazio urbano. E’ ormai impossibile attribuire ad
esso un valore univoco e dominante in quanto esso è da un lato il luogo che produce nuove
forme di aggregazione, che fa emergere nuove e vecchie ostilità, che omologa ostinatamente e
che esclude ferocemente. Dall’altro lato tuttavia è il luogo in cui tutto ciò è fruito, vissuto,
soprattutto eletto a modello simbolico per invadere luoghi lontani e per rompere valori e
costumi che nel tempo si sono costruiti in termini se non oppositivi agli agglomerati urbani e ai
loro stili di vita almeno alternativi ad essi.
Oggi l’urbanista, dice ancora Virilio, come l’uomo politico devono fronteggiare le necessità
permanenti dell’organizzazione e della costruzione dello spazio reale ma anche quelli nuovi
della gestione del tempo reale dell’immediatezza e dell’ubiquità.
Ma esiste la premessa teorica e tecnica per una urbanizzazione che consideri che la nostra
comunicazione si realizza oggi in tempo reale e che di conseguenza non guardi più solo ad una
urbanizzazione dello “spazio reale”? E come inserire in questa prospettiva futuribile la
gestione dei rapporti fra le diversità che in numero sempre crescente affollano le nostre aree
metropolitane, richiamate dal sogno del benessere, della pace o della libertà politica?
Numerosi sono gli studi che gli esperti delle diverse discipline umane e sociali hanno dedicato
all’occupazione degli spazi “marginali” all’interno dei centri urbani o delle aree metropolitane.
Tra i molti filoni di studi ho scelto, in questo intervento, di seguire quello che si sottrae ad ogni
tentazione voyueristica tesa a sottolineare le anomalie e le liminalità e che tenta invece di
fornirci una serie di riflessioni critiche utili per individuare le condizioni economiche e culturali
proprie degli “spazi centrali” a cui quelli “marginali” sono collegati.
“Essere ai margini - nota Rod Shields - implica necessariamente l’esclusione dal “centro” ma
contemporaneamente i rapporti sociali, politici ed economici esistenti tra le periferie e i centri li
uniscono in una serie di relazioni binarie che non consentono una completa disarticolazione.
Così le periferie, i margini, esprimono i significati che i centri a livello esplicito negano o
reprimono e i margini, intesi come alterità, divengono il luogo che esprime tutte le entità sociali
e culturali”. (Shields R., 1999). La società del “centro”, in altre parole, permette alle sue
marginalità di realizzare quei percorsi culturali, politici ed economici negati dal modello
esplicito che afferma: e nelle aree “periferiche”, nei quartieri del degrado urbano si realizzano
le forme di vita e di espressione antagoniste: nella marginalità si immergono i turismi alternativi
che in breve il sistema del mercato trasformerà in turismi di massa; nella marginalità si creano
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e si sperimentano nuove forme di sopravvivenza, nuovi adattamenti degli spazi pubblici e
privati; nella marginalità proliferano forme di devianza funzionali allo stesso mercato ufficiale e
ai vizi privati dei fruitori del benessere; la marginalità alimenta le espressioni artistiche,
divenendo un tema “centrale” della cultura e del pensiero occidentale. E se alcuni autori come
Jameson e DeCertau individuano l’estensione universale della marginalità, altri pur
riconoscendo in essa i processi di discriminazione e di esclusione, sottolineano il suo potere
politico e la sua corrosiva capacità di critica nei confronti dei valori progressivi ed universali
affermati dal “centro”. Ed è dai margini, affermano molti studiosi, che è possibile individuare
con chiarezza i caratteri relativistici della post-modernità.
L’antropologa zairese Clémentine Faiik Nzuji ha recentemente proposto l’introduzione di una
“complementarietà delle visioni: quella dall’interno, quella dall’esterno e quella dai margini”
come strumento di analisi di una società in rapida evoluzione in un’epoca “caratterizzata da
multiformi contatti di cultura, viaggi, spostamenti voluti o forzati, immigrazione o esilio... dove
centinaia di migliaia di persone si trovano ad un certo momento della loro esistenza,
nell’obbligo di vivere in paesi che non sono i loro. Arrivate adulte oppure nate sul posto,
partecipano alla vita del paese come tutti gli altri cittadini (...). Solo che in molti paesi, la
maggior parte delle persone venute da lontano sono tenute “ai margini” (...) Per me, prosegue
la Nzuji, questa posizione “ai margini” è un eccellente luogo d’osservazione e d’analisi per chi
si interessa alle scienze sociali” (1998).
Il luogo da cui si osservano i fatti (dall’interno, dall’esterno, ai margini) può infatti influenzare la
messa a punto di approcci metodologici; e numerose sono oggi le voci che dall’interno
dell’antropologia o di altre scienze umane e di altre attività di analisi culturali ritengono che
coloro che vivono “ai margini”, conoscendo le sfaccettature delle loro culture e della cultura
del paese in cui vivono, siano più di altri in grado difornire spunti pertinenti di riflessioni,
orientamenti inediti, prospettive profonde, sui problemi della società che li ha accolti.
All’analisi della cultura e delle culture oggi si affianca l’analisi della cultura come luogo di
differenzazione e di contaminazione, al cui cuore più facilmente perviene chi per condizione
personale o per scelta intellettuale appartenga alla categorie dei “tradotti”, chi abbia vissuto,
sulla propria pelle e sulla propria sensibilità, l’esperienza molteplice dell’emigrazione ‘ della
marginalità.
“Ho vissuto il momento della dispersione di un popolo - scrive Homi Bhabha - che in altri
tempi e luoghi - e nelle nazioni di altri - diviene momento di riunione: riunione di esiliati,
emigrati e rifugiati, di culture “straniere” marginali; riunioni alle frontiere, nei ghetti o nei caffé
dei centri urbani; riunioni nella vita stentata e condotta all’ombra di lingue straniere, o nel fluire
misterioso di una lingua che non è la propria; riunione dei segni di approvazione e
accettazione, di gerarchie, discorsi e discipline; riunioni di memorie del sottosviluppo, di altri
mondi vissuti in modo retrospettivo; riunioni del passato in un rituale rivitalizzante; riunione del
presente. E non è tutto: si pensi alla riunione dei popoli dopo la diaspora - vincolati da un
contratto, emigrati o internati...” ( Bhabha H., 1997)
E l’alternarsi di centro e periferia non invade solo il campo della mobilità migratoria ma
sembra estendersi con le sue dinamiche imprevedibili e velocissime anche ad una forma di
mobilità - quella del turismo - profondamente diversa per caratteri ed implicazioni ma che per
la sua entità e per la sua estensione non può più essere assente dalla nostra riflessione sul
territorio. Nel giro di pochi anni il nostro pianeta ha subito una trasformazione globale anche
per il dilagare delle mille forme che ha assunto e continua ad assumere il flusso turistico. Sotto
il suo impatto negli ultimi decenni abbiamo assistito alla creazione di aree dedicate agli ozi
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“vacanzieri” e ai piaceri turistici, periferiche rispetto alle aree metropolitane; abbiamo assistito
all’invasione dei superstiti paradisi esotici con la loro marginalità rapidamente trasformata in
falsa autenticità, alla trasformazione degli abitanti delle città oggetto di turismo in forzati del
turismo, costretti a vivere per tutto l’anno turisticamente la loro quotidianità. Negli ultimi anni,
poi, abbiamo assistito alla riproduzione miniaturizzata dei luoghi turistici nel cuore stesso delle
città e delle aree metropolitane, con le diverse Disneyland di Parigi e di Orlando e con le
città giapponesi che hanno costruiti appositi parchi riproducenti ognuno un particolare luogo
turistico. (Urry J., 1995)
La caratteristica più rilevante del turismo contemporaneo è che esso ha invaso tutto il pianeta:
nesun territorio, nessuna città è esente dalle sue dinamiche, così come nessuno può ormai
sottrasi allo spazio turistico: né l’abitante di Firenze e di Cannes ma neanche l’abitante del
villaggio abruzzese o dell’anonima cittadina di provincia. Anzi forse l’abitante di Firenze e di
Cannes sfugge all’avidità famelica degli sguardi turistici attirati tutti soprattutto dai luoghi e
dagli oggetti mentre l’abitante dello sperduto villaggio diviene lui e la sua quotidianità
l’attrazione turistica. Sarebbe tuttavia fuorviante considerare il turismo come un fenomeno
globale che ci sollecita a concettualizzare il nostro pianeta come uno spazio univoco, privo di
confini geografici e culturali;in reaktà il turismo espone i suoi utenti ad una variazione culturale
continua e variegata confermando direttamente e indirettamente la validità delle culture locali e
l’esistenza di aree marginali.
Parlando di aree metropolitane marginali non possiamo evitare di chiederci quale posto
occupino oggi gli immigrati nell’economia politica del territorio. Mi sembra che la risposta vari
a seconda del punto di osservazione che si privilegia.
A livello di valutazione generale esso appare centrale in quanto l’insediamento abitativo degli
immigrati, la loro occupazione degli spazi pubblici nelle città e nei nostri paesi, sinanco nelle
nostre campagne, ha costituito la base per valutare il livello del loro inserimento, o al
contrario l’indice del disagio che di volta in volta è il “loro” o il “nostro”.
Se invece il nostro punto di osservazione diviene più circostanziato e specifico, gli immigrati
nella gestione del territorio appaiono marginali, in quanto non possiamo non constatare
quanto insufficienti ed esitanti siano state le misure adottate per orientare una politica che
accompagni con abitazioni, servizi, spazi di incontro e di socializzazione, luoghi di culto e di
preghiera, i loro molteplici e differenziati arrivi.
Molte analisi hanno già identificato il ruolo predominante che nelle politiche di integrazione
sociale gioca l’habitat e pertanto esso rappresenta un indice da tenere in considerazione per
valutare il posto che un gruppo, sociale o etnico che sia, occupa nelle politiche pubbliche. In
altre parole l’habitat può essere considerato un indice nella misura in cui una politica di
integrazione presuppone una sistemazione stabile, adatta al nucleo di convivenza che la
condivide e dotata di un minimo di confort. Inoltre in tutti i paesi l’accesso a “sistemazioni
abitative normali” è considerato una tappa decisiva nel percorso dell’integrazione intrapreso e
concesso ad un gruppo.
Il luogo in cui un gruppo è insediato attraversa la tematica della segregazione, rivestendo un
significato determinante nella percezione delle posizioni sociali: essere “confinati” nelle
squallide periferie urbane o nei degradati centri metropolitani che uniscono al degrado
ambientale quello delle condizioni socioeconomiche, rappresenta e al tempo stesso enfatizza
l’esclusione e la diseguaglianza connessa con la situazione degli immigrati. Infatti l’ampiezza e
la vistosità della marginalità abitativa accresce la visibilità degli immigrati, li fa considerare
gruppo indifferenziato, privo di identità collettive specifiche articolate secondo proprie storie e
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tradizioni, rendendo più palpabile e corposa sia la diversificazione rispetto agli autoctoni che la
diffusione di nuove modalità di occupazione e di uso degli spazi urbani. E la sensibilizzazione
dell’opinione pubblica rispetto ai problemi attribuiti alla concetrazione degli immigrati nelle
aree urbane gioca su un doppio registro: da un lato denuncia l’esecrabile segregazione
abitativa considerando vittime gli immigrati; dall’altro stigmatizza i raggruppamenti “etnici”
considerati come ghetti in cui alligna la devianza e fermenta la rivolta e la ribellione all’ordine
costituito.
Le città dunque appaiono assumere nella contemporaneità nuove dimensioni proprio per il
loro essere luoghi di confluenza delle dimensioni locali e delle dimensioni globali. Raccogliendo
queste due dimensioni esse divengono luoghi-non luoghi della modernità, i contenitori delle
“eterotopie” di Foucault: citando le sue parole “ luoghi reali, luoghi effettivi, luoghi che
appaiono delineati nell’istituzione stessa della società e che costituiscono una sorta di controluoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali tutti i luoghi reali, tutti gli altri luoghi
reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e
sovvertiti: luoghi dunque privi di riferimenti geografici, luoghi di crisi, luoghi di deviazione,
luoghi di condensazione di esperienza”. ( Foucault M., 1994).
Quanto più il lavoro, il divertimento, l’informazione si de-localizzano tanto più sembrano
proliferare rivendicazioni identitarie di tipo localistico che costituiscono la base e il nutrimento
di quel “razzismo senza razza” di cui parla Balibar e che si rivolge, di volta in volta, contro gli
immigrati, i senza dimora, i delinquenti comuni, i “rifugiati”, gli zingari. E nell’immaginario
sociale la vita urbana si carica di pericolosità e di insicurezza mentre i processi identitari si
articolano più sulle dinamiche delle opposizioni che su quelle delle concordanze, più sulle
divergenze che sulle convergenze (Dal Lago A., 1995). Come ha scritto Jacques Derrida,
l’erranza contemporanea con il suo tagliare le radici materiali (via internet e altre tecnologie)
nasconde un inganno sottile: è come se non dover più superare la distanza che ci separa dalla
soglia ci votasse “ alle adesioni brutali e selvagge sotto cui si presenta il ritorno dei nazionalismi
e dei fondamentalismi nei loro aspetti più cruenti” ( Derrida J., 2000). Ed ancora Derrida ci
invita a considerare la connessione che esiste tra le violazioni della privacy personale e le
dinamiche di chiusura al rapporto con l’alterità. “Tutte le possibilità tecnoscientifiche che
minacciano l’integrità della privacy - egli scrive - sono minacce che pesano sul territorio
proprio del proprio e sul diritto di proprietà privata. (...) Ovunque la privacy venga violata,
ovunque una violazione sia comunque sentita come tale, si può prevedere una reazione nel
senso della chiusura, sia all’interno della famiglia sia, allargando il cerchio, etnocentrica e
nazionalistica, perciò virtualmente xenofobica”. (Derrida J., 2000)
Avviandomi alle conclusioni non posso escludere dalla nostra analisi la formazione - per
quanto incerta ed aurorale essa sia - di un sistema urbano transnazionale.
E’ un sistema di difficile definizione, che non é nelle mie possibilità di delineare compiutamente
qui ed ora ma che sino ad oggi si è articolato ponendo quella che Sassen definisce “una
nuova geografia della centralità e della marginalità” nella quale non avremo più paesi ricchi e
paesi poveri, non più confronto internazionale tra sviluppo e sottosviluppo ma piuttosto città
all’interno delle quali nascono e si confrontano intensificazione dell’affuenza economica - e
quindi della centralità - e processi di marginalizzazione - e quindi di “periferizzazione”. Ancora
la città si presenta come il luogo in cui avvengono questi profondi mutamenti che investono
tutti i livelli della vita sociale, economica e politica; in questa città accadranno i processi
economici fondamentali della contemporaneità: le operazioni finanziarie della globalità e la
produzione delle industrie della comunicazione ma anche i lavori di mano d’opera non
specializzati e a basso costo che sono necessari se non indispensabili per il successo dei
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processi di globalizzazione, per quanto svalorizzati siano sul piano economico, trascurati sul
piano dell’analisi finanziaria e disprezzati sul piano sociale.
Così la città più che mai sarà il luogo di produzione della diversità essendo il suo spazio
connotato dalla cultura dominante della specializzazione tecnica e dell’organizzazione
aziendale ma anche dalla presenza massiccia di immigrati. Mi sembra allora che ogni
interpretazione, ogni analisi sulla città debbano tener presente questa tensione crescente tra
due presenze che solo apparentemente possono sembrare prive di relazione tra loro: una
quota esorbitante di potere aziendale e una quota esorbitante di individui svantaggiati. E la
città va considerata come il luogo della ipervalorizzazione della cultura aziendale e allo stesso
tempo il luogo dove maggiormente si condensa la cultura dell’emarginazione.
Individuare e sottolineare nell’analisi della città la relazione che lega questi due poli è
estremamente urgente e importante: significa cercare di fondere le interpretazioni di quegli
economisti (Sassen, S.,1997) che hanno evidenziato il lavoro - e quindi i gruppi sociali - che
sorreggono la cultura aziendale (addetti alle pulizie e alle manutenzioni, corrieri, fattorini, ecc.)
con quelle più specificamente antropologiche che considerano la marginalità urbana
contemporanea una presenza che nonostante l’attuale debolezza in termini di potere
economico e politico, diverrà una presenza sempre più forte grazie alle nuove politiche che
appaiono all’orizzonte e che reclamano per lei riconoscimenti in termini culturali ed identitari.
E tutto ciò significa sin da ora dichiarare che sia possibile rendere “centro” i “margini”: per
usare le parole di Renzo Piano significa rendere “città” la periferia. (Piano R., 1999): significa
tentare la sorte di una vita comunitaria che violi la visione della periferia quale “contraccolpo
permanente dell’inquietudine istruita dall’anima occidentale riguardo alla comunità e allo spazio
tempo dell’abitare” (Lyotard J-F., 1994).
Mi piace terminare questo mio intervento con una citazione tratta da un romanzo che può
anche esser letto come la rappresentazione drammatica di una lotta tra centro e periferia, in
cui memoria, progetto, desideri, sentimenti, tradizioni, storie, si confrontano e si fronteggiano:
“Lei mi insegnò a rileggere i due spazi della nostra città creola: il centro storico, che vive delle
esigenze nuove del consumo, e la corona di occupazione popolare, ricca della profondità della
nostra storia. Fra questi luoghi, il palpito umano che circola. Al centro si distrugge il ricordo,
per ispirarsi alle città d’Occidente e rinnovare. Nella corona si sopravvive di memorie. Al
centro ci si perde nel moderno del mondo; qui si riportano alla luce vecchissime radici, non
profonde e rigide ma diffuse, profuse, sparse nei tempi con quella leggerezza conferita dalla
parola. Questi poli, collegati alla volontà delle forze sociali, strutturano coi loro conflitti i volti
della città.”
Annotazione dell’urbanista per il Tracciator di parole
Patrick Chamoiseau, Texaco, p. 174
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