Il sogno, il gioco e l`avventura di Adelchi
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Il sogno, il gioco e l`avventura di Adelchi
Il sogno, il gioco e l’avventura di Adelchi Riccardo Mantovani La consuetudine, inventata da bambino nel collegio, di raccontarsi delle storie per scacciare la paura della notte e l'infelicità della solitudine, è ancora la fonte della ricerca pittorica di Adelchi Riccardo Mantovani. Da un lato l'osservazione della realtà con una maniacale costanza e precisione affinchè tutto sia appoggiato ai sacrosanti principi del vero, quello che gli artisti della grande tradizione classica hanno studiato e sviscerato lungo il percorso della loro esperienza; dall'altro la percezione, il sogno, il fantastico che viene recuperato dalla memoria e dalla invenzione che è capace di stimolare un'idea, un racconto che apre un nuovo sipario alla visione. Diceva Balthus “La pittura è un'incarnazione. Dà vita e corpo alla visione che la sorregge. E' necessario un approccio assai lungo, infinitamente paziente e spesso fatto di tentativi, per far sì che il quadro le si avvicini nel modo più esatto possibile. La visione è interiore. Ma trae alimento dal contatto permanente con il reale. Si forgia e si elabora unicamente attraverso l'osservazione paziente, accanita, infaticabile delle forme della natura”. La natura... Adelchi la considera da sempre come modello primario dal quale l'artista muove i suoi passi per ispezionare i misteri più alti; essa è anche un diapason, pronto a modulare l'alito di una intuizione per formare un accordo e così, da semplice elemento della fantasia, il dipinto si veste di realtà. Negli immancabili paesaggi che fanno da sfondo ai ritratti e agli accadimenti, oggetto della sua pittura, ogni foglia o filo d'erba è accuratamente reso alternando la tecnica della tempera a quella dell'olio sulla tavola di legno ben levigata e preparata a gesso, esattamente come nella tradizione della pittura antica. Nella sua autobiografia scrive: “...Ciò che oggi so l'ho imparato da solo. Sono, per così dire, un pittore selvaggio, perchè sono cresciuto come un selvaggio, senza aiuti né sostegni. A quel tempo (estate 1959) disegnavo molto dal vero: paesaggi, piante, fiori, oggetti domestici, ritratti di conoscenti e familiari. Disegnavo anche nasi, orecchie, mani, in tutte le variazioni possibili. Questa fu la mia scuola d'arte: osservare e disegnare...” Dagli anni della volontà di imparare le tecniche del disegno e della pittura, in solitudine, si sono succedute diverse fasi, perchè i tentativi di avvicinarsi e di guardare altri artisti al lavoro si sono scontrati sempre con la sua personalità già molto determinata e con la volontà di raggiungere suoi precisi obiettivi di natura espressiva. Ci sono stati anche momenti di abbandono dell'attività pratica, talvolta di scoraggiamento e poi di ripresa, che avviene soprattutto dopo l'emigrazione in Germania e la definitiva scelta di vivere a Berlino (Aprile 1966). L'ambiente della grande città stimola la sua inclinazione, all'inizio degli anni Settanta, e favorisce lo scambio con altri artisti nei corsi serali frequentati per disegnare il nudo dal vero, lo studio della storia dell'Arte nei musei e le appassionanti indagini sulle tecniche pittoriche dei maestri dell'arte antica. Comincia la grande sfida: l’artista ricorda che dopo le otto ore di fabbrica giornaliera “dedicavo altre cinque o più ore alla pittura”. Nel 1977 la prima mostra personale alla Galleria Taube di Berlino e nel 1979 è invitato ad esporre alla Kommunale Kalerie Berlino-Wilmersdorf dove scopre che la sua pittura è accolta con interesse critico e incontra subito anche la passione dei collezionisti tanto che decide di lasciare la fabbrica Siemens per dedicarsi completamente all'arte. Seguono altre due mostre: nel 1983, con Georgios Kitsos al Palazzo della Televisione di Berlino e, l'anno dopo, una mostra di dipinti e miniature alla Galleria Am Havelufer di Berlino-Kladow. “Quattro mostre in dieci anni non sono molte, ma io dipingo assai lentamente, con precisione e accuratezza, due caratteristiche che non appartengono al nostro tempo”, spiega l’artista. Ho tracciato queste brevi linee della vita di Adelchi Riccardo Mantovani per esprimere alcuni dati della sua personalità che impongono un'attenzione particolare. Non riguardano soltanto l'artista e la persona, che pure è assai importante, ma il rapporto che la sua vita giovanile, con la paura della notte, l'ambiente religioso, le fantasie represse, i sogni, le storie autoraccontate, a puntate per superare l'angoscia del tempo, ha avuto con la sua futura creatività artistica. L'evoluzione della sua arte stupisce. Dal primo periodo decisamente surrealista, alle opere successive di tema allegorico, religioso, mitologico e, per molti aspetti popolare e primitivo, i mezzi della pittura diventano solidi e raffinati e l'artista raggiunge una padronanza espressiva sempre più matura e completa. Egli stesso registra: “Nel frattempo il contenuto e la tecnica esecutiva dei miei dipinti sono mutati. Essi non sono più dominati da tanti piccoli mostricciatoli, bensì da grandi e quiete figure, intorno alle quali si sviluppano vicende, a volte fantastiche, a volte simboliche, a volte letterarie”. La maggior parte delle opere eseguite nel decennio 1975-1985, presentate da Vittorio Sgarbi nella mostra del 1989 alla Kommunale Galerie di Berlino con il prezioso catalogo Electa, sono state acquisite da musei e collezioni private, in Germania soprattutto. Quindi molti capolavori come La giustificazione di Afrodite, 1979, Il Ritratto d'uomo, 1980, I volti di una strada, 1981 e Il ritorno definitivo, 1983, che rievoca il vecchio ponte di barche sul Po a Ro Ferrarese, non sono conosciute in Italia perchè, ad oggi, non sono mai state esposte in una mostra antologica completa. Un collezionista italiano, quasi esclusivo, dell'opera di Mantovani per circa un decennio tra il 1985 e il 1995, dedica all'artista una mostra importante e un catalogo dal titolo Realismo onirico, a Venezia, al Palazzo delle Zitelle nel 1995. Una parte fondamentale delle opere di quella collezione sono fortunatamente esposte in questa mostra, grazie alla sensibilità della sua attuale proprietaria. Un passaggio cruciale della pittura di Mantovani si concentra nell'opera Scuola di disegno, 1996. L'artista esegue un autoritratto da bambino, quando la pittura gli era negata, seduto al banco di scuola con in mano un foglio di schizzi e dietro le spalle, sul muro di cinta di mattoni che lascia scorgere il paesaggio, sono citati una serie dei suoi più importanti dipinti, appesi in bella mostra. E' l'orgogliosa affermazione di sé e della propria professione raggiunta superando le difficoltà della vita e cancellando per sempre il cattivo pronostico ricevuto in collegio dall'autorità ecclesiastica. Ricorda Adelchi nella sua autobiografia: “A quindici anni dipinsi una Madonna e il direttore del collegio mi disse La tua Madonna sembra una cavallerizza. No, no, tu non diventerai mai un pittore! Quando un semidio in sottana ti dice qualcosa del genere, non ti rimane altro che crederci. Una frase così si annida per decenni nel profondo dell'animo e alimenta incertezze e dubbi.” Se riflettiamo sul suo racconto dell'orfanotrofio e poi del collegio, della scuola professionale di falegnameria e poi di quella di meccanica per diventare tornitore, voluta dalla madre, e in particolare sulla frase “In collegio non vi era spazio per l'educazione artistica. L'essenziale era imparare un mestiere, oltre alla preghiera e alla religione...” si comprende il lungo tempo della deprivazione culturale, della totale incertezza dei propri mezzi, anche se afferma ulteriormente “... fin da bambino ho sempre avvertito l'impulso di tradurre pensieri e fantasie in immagini”. E questa frase dice già tutto, e delle intenzioni e dei mezzi potenziali del futuro artista. Oggi possiamo vedere, attraverso una produzione lenta e raffinata, ma di una qualità singolare, qual'era il talento di quel ragazzo, mai capito e coltivato da persone completamente estranee all'idea stessa che la predisposizione naturale e la passione artistica possano albergare anche dentro un bambinello orfano di padre... quanta ottusa cecità! Indifferenza che purtroppo si perpetua ancora oggi. Poche persone sanno di questo grande talento in una città come Ferrara, luogo prediletto dall'artista che continua a citare i suoi aspetti più segreti: le bellissime case medievali e i nobili palazzi di cotto, oltre alla presenza continua della sua campagna piatta e assolata, oppure immersa nella nebbia, e perennemente attraversata dal Po... Ecco il Po sotto il cielo di Berlino; un Po come Fetonte o come Icaro, 1988, o come Notturno padano, 1994, o come L'attesa (dell'alluvione), 2001. Dalla maggiore libertà che il sicuro rifugio berlinese ha offerto all'artista, affiorano in questi anni sempre nuove fantasie: sono storie, anche autobiografiche, contenute negli scritti serali, proprio come al tempo del collegio quando il bambino si raccontava da solo le “puntate” delle fantastiche imprese di santi (spesso suggeriti dalle immagini dei santini), di diavoli e diavolesse, coniugati con i miti antichi e moderni: Il mondo di S. Giorgio, 1986, Galatea, 1989, Clio, e L'apoteosi di Pinocchia, del 1992, Pandora, 1994, Danae, 1995, Le grandi tentazioni di Sant'Antonio, 1995, ma anche El Cid, 2000, oppure La cattura dell'arrogante regina (degli scacchi), 2002, dove i gendarmi sono interpretati da Stanlio e Ollio. Noi siamo affascinati da questo Po che nasce sotto il cielo di Berlino, perchè si tratta di un Po magico, trasfigurato dalla mente e dall'affettuoso ricordo delle gite in bicicletta sopra gli argini, tema caro ad un altro illustre ferrarese come de Pisis; è il Po che racchiude il cuore della cultura padana tanto ricca di pittura e di scultura, di poesia e di musica, di cinema neorealista e di teatro popolare... tutto questo, dalla lontana Berlino, affiora continuamente, con nuove fantasie, nella pittura di Adelchi, che adesso è diventato definitivamente Riccardo, nel quieto rifugio del suo studio (Adelchi è il nome che rievoca la sofferenza, Riccardo quello della conquistata serentà)! Sono temi specificatamente padani quelli dipinti in questi ultimi anni come Amiche e Tramonto padano (con eclissi), 2005, poi La pazza del paese, e Il paletot rosso, 2006, fino ai più recenti Viva la figura umana, La mia bella se ne va, e infine, sempre del 2009, Arriva il sole, dove nella pianura piatta e nell'incertezza di una nebbia leggera, forse mattutina, un carro di poveri saltimbanchi avanza sul sentiero polveroso di campagna e annuncia un po' di spensieratezza e di allegria ai figli dei contadini. Ecco, non dobbiamo trascurare di mettere in evidenza, per questo artista, il suo piacere dell'ironia, l'amore del gioco e dello scherzo, che egli è sempre pronto a mettere in scena quando l'atmosfera diventa dolorosa o tragica, come in un puntuale contrappasso. Scrive Adelchi come incipit in una delle sue storie serali: “Uno dei momenti più opportuni per lasciare questo mondo potrebbe essere una giornata di nebbia alla fine di novembre in pianura padana. Il rammarico di dover morire non sarebbe così grande e ci si potrebbe inoltre assicurare una tristezza genuina da parte dei presenti al funerale”. Laura Gavioli