Forum D.
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16 Forum D. | Dossier Affari internazionali Una guardia di confine nell’inferno di Monrovia Davide Caprani (38) è una guardia di confine con alle spalle parecchie missioni internazionali. Ne ha viste tante, ma l’esperienza come osservatore civile di polizia (CIVPOL) durante la sua ultima missione ONU nella capitale liberiana Monrovia lo ha segnato profondamente. A Forum D. racconta un episodio in cui la realtà della droga gli si è presentata in tutto il suo orrore, facendogli però anche capire quanto siano importanti le missioni ONU – per quanto piccolo questo contributo possa sembrare. Un giovedì di gennaio. Da oltre due mesi presto servizio in Liberia come osservatore civile di polizia per le Nazioni Unite. Dopo le prime vacanze trascorse a casa con la famiglia, mi sento riposato. Il periodo delle piogge è finito. Il sole splende. Il caldo è insostenibile. Alle 14.00 ho appuntamento con il capo del reparto Questa è la realtà in Liberia. Adesso sai cos’è. C’è davvero ancora moltissimo da fare. operativo della polizia liberiana, un colonnello. Ha detto che mi vuole incontrare per mostrarmi qualcosa che nessuno vuole vedere. Davide Caprani, guardia di confine, ha prestato servizio in Liberia come osservatore civile di polizia dell’ONU (CIVPOL). Le sue parole stuzzicano la mia curiosità. Vado nel suo ufficio. Dopo un breve saluto, mi prega di seguirlo. Lasciamo il quartier generale della polizia di Monrovia. Fuori ci aspettano la sua macchina e due fuoristrada con dodici poliziotti dell’unità speciale «Emergency Response Unit» (ERU), l’unica unità armata della polizia Forum D. | Dossier liberiana. Partiamo. I due fuoristrada ERU ci seguono. Il mio accompagnatore inizia a raccontare: «Negli ultimi anni l’ONU ha fatto molto per il Paese, in particolare ha contribuito a rimettere in piedi gli organi di polizia, allo sbando dopo decenni di guerra civile. Rimane tuttavia ancora molto da fare». Nella roccaforte dei trafficanti di droga Il convoglio si dirige verso il centro cittadino. La strada asfaltata finisce. In pieno centro svoltiamo in una stradina sterrata che conduce in uno dei quartieri più poveri di tutta l’Africa, un ghetto nel senso più proprio del termine. Bambini nudi e sporchi giocano accanto a un canale di scolo, mentre lungo la strada donne e uomini animano qualcosa che potrebbe essere un mercato. Vendono pesce, peperoncini, carne di scimmia essiccata e altre derrate alimentari. La maggior parte della gente fugge non appena ci vede. Il mio accompagnatore mi spiega che ci troviamo nella roccaforte dei trafficanti di droga liberiani. Ci fermiamo davanti a una palazzina di tre piani. A parte la nostra scorta e alcuni bambini, non si vede anima viva. Proseguiamo a piedi, lungo strette viuzze maleodoranti. Per terra, dietro un angolo, scorgiamo una quantità infinita di scatolette di fiammiferi. Il colonnello mi spiega che sono le «confezioni di vendita» del crack. Una dose costa circa due dollari americani. I poliziotti dell’ERU fanno irruzione in una casa in cui è assiepata una trentina di persone. Regna un disordine spaventoso. Alcuni si «stanno facendo». Troviamo un migliaio di scatolette di fiammiferi piene. Riusciamo ad arrestare tutti e a portarli alla centrale di polizia. L’ONU aiuta le autorità locali ad esempio ad organizzare le forze di polizia. 17 «She is dead!» Proseguiamo. Il caos la fa da padrone anche nella stamberga successiva: preservativi usati ovunque, donne mezze nude, denutrite e manifestamente ammalate. Improvvisamente, da una stanza accanto sbuca un ragazzino sui dodici anni che assale uno dei poliziotti. Il ragazzino viene fermato e tranquillizzato. Comincia a parlare con una voce roca, come quella di un adulto. È ancora sotto l’effetto della droga. Sentiamo dei rumori e andiamo a vedere. Nella stanza accanto due bambine di una decina di anni al massimo giacciono per terra, nude e coperte di sangue. Un ragazzino rannicchiato in un angolo si sta facendo la sua dose. Non ha ancora dodici anni. Con voce maschia si pavoneggia: «We had good sex!». I ragazzini hanno violentato le bambine! Due poliziotti le portano via. Li seguiamo. Nelle vicinanze vengono esplosi colpi di arma da fuoco ma non riusciamo a capire dove. Torniamo alle macchine. Mentre stiamo salendo a bordo, le parole del poliziotto che tiene in braccio una delle due bambine ci colpiscono come una scudisciata: «She is dead!». La realtà liberiana Un unico pensiero mi attraversa la mente: «Ma perché tutta questa ingiustizia?». L’infanzia rubata della bambina. Questa sera qualcuno l’aspetterà? Dove sono i suoi genitori? Sono magari tra gli arrestati? Mentre i fuoristrada dell’ERU si dirigono verso l’ospedale JFK di Monrovia, noi torniamo al quartier generale. «Questa è la realtà in Liberia. Adesso sai cos’è. C’è davvero ancora moltissimo da fare», mi dice il colonnello. Vado a casa. Sono le 19.15. Sono stanco, sudato e sporco. La povertà che ho visto mi opprime. L’ingiustizia mi fa arrabbiare. Mi disgusta che queste cose possano ancora accadere – e noi lo permettiamo. Come ha detto giustamente oggi il colonnello: c’è ancora moltissimo da fare.