Cannibal blues

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Cannibal blues
Cannibal blues
Emanuele Mandelli
PREFAZIONE - Osmosi tra storia e realtà
di Andrea Galvani*
Emanuele Mandelli è la copia perfetta di quello che
scrive. Sincero, senza fronzoli, ricolmo d’onestà.
Suo tratto caratteristico, oltre ad una camminata da
brevetto, è senza dubbio la semplicità, la capacità
di farsi capire in poche parole. Adora le storie che
si dipanano su sentieri un po’ nascosti. Sa stupirsi delle grandiose minuzie della vita, quelle che
costruiscono la felicità. Emanuele sa ascoltare. E
guarda, non sempre con l’occhio del cronista, molte
volte con quello del cantastorie, spesso con quello
di un cremasco, il più delle volte con lo sguardo di
un bambino.
Emanuele non ha necessità di entrare in conflitto
diretto con la realtà. Non ne fa una questione
d’insoddisfazione. Semplicemente ha l’espressione
di chi riesce a divertirsi un mondo osservando la
fatica che fa, per esser tale, tutto ciò che è conformista, superficiale, fighetto.
Il suo taglio, il suo modo di raccontare – dai miti
del rock alle leggende dell’exploitation – è di una
concretezza strabiliante. E’ come se facessero parte
del copione o delle partiture di cui scrive. E’ come
se fossero previste. O forse – e qui sta la chiave di
lettura – sono loro ad avere atteso che se ne scrivesse.
*giornalista, direttore di Cremaonline
L’esercito della salvezza atomica
Titolo: Fine agosto all’hotel Ozon
Regia: Jan Schmidt
Paese e anno: Cecoslovacchia 1967
Durata: 77 (b/n)
Genere: Postatomico
Scena cult: il grammofono mortale
Il suono del telefono è secco e tagliente. “Signor
regista l’esercito sta distruggendo i film. Il suo è in
lista per essere bruciato domani mattina alle 10. la
copia migliore è quella in cima alla seconda fila”.
Non ho mai saputo di chi fosse la voce e per quale
motivo abbia rischiato, nella Cecoslovacchia del
1967, una telefonata del genere. Da allora la copia
salvata del film è sotto il mio letto. Una copia in
35 millimetri con incisi sulla pellicola i sottotitoli in
inglese del poco dialogo del film. Una copia che è
uscita raramente dal suo rifugio.
Flashback…“Pensa quanto sono stupido ho fatto
8 anni di galera per arrivare molto meno vicino
al confine di quanto sia ora, legalmente, con
una cinepresa in mano”. Il panorama attorno è
spettrale. Vecchi villaggi distrutti, vegetazione selvatica e ostile. Otto donne bellissime, sporche, con
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occhi stralunati. Si chiamano Vanda Kalinovà, Irina
Lzicarovà…
L’assistente alla regia scherza danzando a pochi metri dal filo spinato che separa il mio stato socialista
dalla capitalista Austria. Aveva provato a saltarlo
10 anni fa, beccato al volo. Lontano rigorosi soldati
che starebbero bene nel mio film postatomico osservano la scena, chissà che pensano?
Appena dopo la telefonata sono corso al magazzino
a prendere la copia sulla seconda pila a sinistra.
L’esercito, che chissà come aveva accettato di
produrre il mio film, adesso l’aveva visionato e
finalmente si era accorto che non era quello che
credevano. Sia mai detto che la paura della bomba
prenda anche gli stati socialisti, e non barbarici
come qualcuno pensa.
Pensavo: quale futuro posso avere ora? Quale?
Un anno dopo mille chilometri più a sud, piccola
cittadina piena di sole: Pesaro. Un anonimo signore
mi consegna un premio che mi ha dato il Papa in
persona. Tra il pubblico Pasolini sorride, spettava a
lui ma è contento lo stesso. Sulla strada del ritorno,
un po’ terrorizzato per il rientro in patria, mi fermo
a Trieste, il festival del cinema di Fantascienza del
1967 adotta il mio film.
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“Fine agosto all’hotel Ozon” è l’unico film di Jan
Shcmidt che esce dalla Cecoslovacchia. Dopo quel
film, terribile ed affascinante, il cineasta ceco girerà
altre 11 pellicole. Mai più un film di fantascienza
postatomica o minimamente critico, per carità, ma
la copia del film è ancora sotto il suo letto nella
bella casa nel centro di Praga dove vive dal 1995.
La scena più cruda è quella delle 8 donne nate
dopo la fine del mondo che non hanno mai sentito
musica. Pur di avere il grammofono del vecchio sopravvissuto lo uccidono. E ripartono nel loro viaggio in cerca di uomini con cui procreare.
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Il mostro a tre teste che nessuno vide
Titolo: Zombi 3
Regia: Lucio Fulci
Paese e anno: Italia 1988
Durata: 95 (col)
Genere: Zombesco
Scena cult: l’assalto del feto zombi
Il mostro migliore di questo film, un orrendo
mostro a tre teste, non è impresso sulla pellicola
ma si muove dietro la macchina da presa.
Che umidità, che caldo terribile. Cazzo, sono un
malato di diabete che galleggia nell’umidità delle
Filippine. Che ci faccio qui? Che cazzo ci faccio qui?
Ma meno male che domani si torna a Roma per
una pausa. Mostrerò ai produttori qualche scena,
mi daranno tempo, sono pur sempre il maestro,
anche se adesso mi fa male tutto e non ho uno
straccio di idea.
Il mostro a tre teste sta per auto generarsi. I suoi
terribili denti sono pronti a dilaniare per sempre la
storia del maestro.
Ridono, li vedo che ridono. Ma li capisco. Pare tutto
sconclusionato anche a me. Se fossi uno spettatore
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me ne andrei dal cinema, ma sono il maestro, e
anche l’autore di questo scempio. Ridono li vedo, li
vedo. Ma loro non vedranno più me. Me ne vado.
Il mostro a tre teste sbuca all’improvviso nella sala
dove si tiene la proiezione del girato per i produttori del film.
L’avevo sempre detto che non ce l’avrebbe fatta
a finire sto cazzo di film. Lo sapevo sin dall’inizio.
Da quando l’ho visto strappare le pagine della mia
sceneggiatura invece che cercare di realizzare le
scene più difficili. Sapevo anche che questa baracca
sarebbe ricaduta sulle mie spalle. Lo sapevo.
Eccole, le tre teste terribili, terrificanti, tre teste che
si sbranano tra loro spargendo sangue e pellicola
tutto attorno.
Ero già qui dopotutto. Nelle Filippine c’ero già per
realizzare un film mio. Che mi costa? Poi c’è il mio
socio di sempre a scrivere la sceneggiatura. E finire
un film che il maestro non riesce a finire è la più
bella soddisfazione che potesse capitarmi.
Lucio, Claudio e Bruno. Le tre teste finalmente sono
unite. Ognuna con la sua personale visione del
cinema horror, Visioni che finiscono tutte nel film.
Uno zombesco che diventa un mix improponibile
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e sublime di stili diversi. Sconclusionato, con una
sceneggiatura inesistente, idee riciclate da altre
pellicole. In una parola “Zombi 3”.
Si cita da “Platoon” col soldato che muore in ginocchio, da “I guerrieri della notte” con il dj che racconta il film mentre i fatti accadono, da “Gli uccelli” di
Hitckok, gli zombi alle volte sono lenti come Romero insegna, alle volte veloci come Lenzi ipotizza, alle
volte parlano come fossero vampiri.
Il film esce a firma Lucio Fulci nel 1988 ma di fatto
gli autori sono più il “cialtrone” Bruno Mattei e
il socio sceneggiatore Claudio Fragasso. Esce in
diverse versioni e ancora oggi la rivista Nocturno
sostiene che il director cut non sia mai stato visto,
già, ma il director cut di quale delle tre teste del
mostro?
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Tre minuti di capolavoro
Titolo: Arrivano i gatti
Regia: Carlo Vanzina
Paese e anno: Italia 1980
Durata: 90 (col)
Genere: Comico/Biografico
Scena cult: Verona beat sui titoli
Sogni di gloria. Quattro biciclette sbucano nell’aria
un po’ nebbiosa della piccola città, no, non quella
cantata da Guccini, un’altra piccola città. Una delle
tante province Italiane. Il ponte Scaligero, piazza
delle Erbe, l’Arena. Si, Verona.
“Oggi sciopero per la fame in Bangladesh, dopo ora
si resta in tre”.
Quattro ragazzi, quasi tutti classe 1950. Quattro
trentenni dalla faccia allegra ma malinconicamente
triste. La comicità di provincia.
Trent’anni dopo: locali modaioli in Sardegna, ex
mogli starlette, tentativi di remake e tristezza
stavolta vera. Eppure per un soffio nell’anno in
cui Mark Davies Chapman sparava a John Lennon
l’alchimia funzionò. Quattro facce nostalgiche che
provarono a “dare un calcio alla moviola, a stare in
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piedi per un mese in una tendina canadese”. Una
libidine vero?
Umberto, Jerry, Nini e Franco, persi per strada Gianandrea e Mallaby quattro anni prima, si affidano
nelle mani del regista della commedia all’italiana
per eccellenza per la creazione del più trasversale
dei metafilm mai girati in Italia.
Quattro cabarettisti che interpretano se stessi in un
film che porta il loro nome ma che, dopotutto, non
racconta assolutamente nulla delle loro vicende.
I piani tra realtà e finzione che si sfasano sino
all’inverosimile tanto che oggi molti pensano che la
storia sia andata davvero così.
Le quattro facce tristi pedalano per le vie di Verona.
Dopo i primi tre minuti da capolavoro assoluto,
con le soggettive della città e una delle canzoni
più belle del pop italiano, e non è detto in chiave
ironica, cantata dai quattro, tutto muta. Inizia la
farsa. Una geniale farsa.
Quella che vede in un mixer impazzito i tormentoni
del gruppo che passarono alla storia, dal Cinarone
alla libidine, i caratteristi alla Ennio “Braciola”
Antonelli, le star nascenti come Diego Abatantuono, i cantautori come Bruno Lauzi, le starlette
scollacciate come Orchidea De Santis, addirittura il
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produttore del film, Claudio Bonivento, che nel film
interpreta se stesso e finisce arrestato per truffa
cinematografica. Geniali entrate ed uscite da una
realtà che si fa sottile, incredibilmente inafferrabile.
Punta massima e rapida discesa per i Gatti di Vicolo
Miracoli che faranno un altro paio di film, qualche
trasmissione e poi si sgretoleranno in quattro entità
che da sole non fanno un decimo di quello che
valeva il gruppo assieme.
Come avvicinare i Colpo grosso, i Vado a vivere
da solo, le tristi comparsate in tv, i locali modalioli
e tutto il resto con la genialità del “puro spirito
ebraico newyorchese”?
Se passate per Verona andate in pellegrinaggio alla
strada che da il nome alla scalcagnata formazione.
Ascoltatevi “Verona beat” che rimane una canzone
stupenda, ed è quella che i quattro cantano pedalando per le strade di Verona nei titoli di testa del
film girato da Carlo Vanzina nel 1980: “Arrivano i
gatti”.
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La ricetta di bellezza della contessa
Titolo: Killer Barbys
Regia: Jess Franco
Paese e anno: Spagna 1996
Durata: 95 (col)
Genere: Horror rock
Scena cult: il concerto dei KB
Silvia Superstar urla come un ossessa sul palco di
uno scalcinato e sublime locale, la voce graffia. Si
ascolta la canzone, un pezzaccio punk’n’rool molto
orecchiabile e grezzo, e si guardano le sue forme
sfrontate, sudate, molto in vista.
Tardo zio Jess, 1996, la trama è scheletrica. C’è una
band scalcagnata che tra una tappa e l’altra del tour
finisce persa nella campagna bruciata spagnola e si
imbatte in un castello. Il Rocky horror picture show
alla zio Jess.
Ecco apparire il servo Arkan, ecco la sua padrona, la
bicentanaria contessa von Fledermaus, una spettacolare Mariangela Giordano, riscoperta in terza
età da Carlo Verdone, ma qui tutta nuda e con un
corpo stupendo e maturo.
Naturalmente ha un segreto di bellezza di stampo
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franchiano: per mantenersi giovane deve bere con
regolarità sangue bollente e sperma. E quello di cui
si nutrirà sarà ovviamente quello dei componenti
della band...
Ma non c’è horror e nemmeno dramma in questo
film. Tuttalpiù cinismo e ironia, autoparodia di se
stesso e una fotografia quasi sempre immersa in
nebbia secca con il taglio che vira o sul blu intenso
o sul rosso intenso. Un cinema metafisico con prospettive da fish eye, ad occhio di pesce, che lasciano
spesso basiti ed estasiati.
“Killer barbys” è il capolavoro della terza giovinezza
dello zio Jess.
Prende un gruppo cult in Spagna, i Killer Barbies,
nome cambiato per evitare beghe legali con Mattel
e con i membri della band che non partecipano al
film, e sforna un ora e mezza di sublime nulla.
Un sublime nulla che lascia come sempre la voglia
di averne altro e altro e altro. Infatti ci sarà pure un
sequel: “Killer Barbys Vs. Dracula”.
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Denuncia politica in salsa sadocannibalica
Titolo: Greta la donna bestia
Regia: Jess Franco
Paese e anno: Spagna 1976
Durata: 90 (col)
Genere: Wip (women in prison)
Scena cult: leccami... il culo
Tette immerse nella schiuma e nel bel calore della
vasca, tette bagnate da getti freddi e spiate da
secondine in calore. Poteva lo zio Jess lasciarsi sfuggire Dyane “la belva delle SS” Thorne? Poteva non
dire la sua sul genere wip? Non sia mai detto!
Carcere femminile di Las Paloma, imprecisato luogo
del sudamerica. Torture e snuff movie, cannibalismo in agguato, risvolti politici e scene di analingus post defecazione. Spilli nelle tette di Lina ed
elettroshock. Numeri al posto dei nomi, un transessuale, impresari hard e storie d’amore lesbiche. Lo
zio Jess infila nella pellicola tutto il morboso piacere per il sesso violento. Attrazione e repulsione,
con le ragazze che sono nude dall’inizio alla fine.
“Greta la donna bestia” è spesso citato solo come
un clone del genere women in prison lanciato qualche anno prima con “Ilsa la belva delle SS”. In effetti
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la protagonista è la stessa e in alcune versioni si
chiama pure Ilsa, come nel film di Don Edmons che
lanciò la Thorne, invece che Greta. Ma il piacere
morboso con cui lo zio Jess infarcisce la pellicola
lascia a bocca aperta e con un prurito nello stomaco... e magari anche più giù.
Il film è molto di più che un semplice wip. E’ la
condanna politica ai benpensanti fatta con la
violenza che solo lo zio Jess ha saputo mettere in
campo. E’ il soffocamento della prigioniera politica,
l’elettroshock alla sorella che cerca di liberarla,
l’uccisione del dottore che cerca la verità (interpretato dallo stesso regista), il regime che cancella le
menti a suon di veline.
Lo zio Jess si cimenterà altre volte nel genere, come
con Una secondina in un carcere femminile.
In Italia Greta è edito dalla Ermitage,costa tipo 7
euro, ed è la versione migliore che circola. Senza
tagli e con un ottimo audio.
Accattetevillo...
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