La scommessa - Libro più web

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La scommessa - Libro più web
Unità
2
I generi: IL RACCONTO horror
Roald Dahl
La scommessa
Un giovanotto inglese sta trascorrendo una tranquilla vacanza in Giamaica.
Mentre sorseggia un drink al bar della piscina, lo raggiungono altri due
clienti dell’albergo: un ragazzo e uno strano ometto dall’accento straniero.
Il ragazzo, accendendosi una sigaretta, decanta le qualità del suo accendino,
che non perde mai un colpo. Da questa piccola e innocua vanteria, nasce
una vicenda che ha dell’incredibile…
– Perké non facciamo una bella skommessetta su questo accendino? –
Chiese l’ometto. – Lei dice che non sbaglia un kolpo… –
– Certo che no! – Confermò il ragazzo – Funziona sempre, almeno in
mano mia.
– Allora le propongo una bella skommessa. Una skommessa grossa…
– Un momento – fece il giovanotto. – Grossa non posso permettermela. Però posso scommettere un quarto di dollaro. Anzi, addirittura un
dollaro.
L’ometto sollevò di nuovo la mano. – Mi stia a sentire. Questo può
essere divertente. Facciamo una skommessa. Poi andiamo su nella mia
stanza, qui in albergo, dove non c’è vento, e io skommetto che lei non
accende dieci volte di seguito questo suo famoso accendisigari senza
sbagliare un solo kolpo.
– E io scommetto di sì, invece – rispose il giovanotto.
– Benissimo. Perfetto. Skommettiamo allora, sì?
– Certo. Scommetto un dollaro.
– No, no. Io le propongo una bella skommessa davvero. Sa, io sono riko
e anke sportivo. Stia a sentire. Là fuori, davanti all’albergo, c’è la mia
auto. Davvero una bella makina. Amerikana, del suo paese. Kadillak...
– Ehi, un momento. Aspetti un momento. – Il giovanotto s’allungò
nella sdraio ridendo.
– Io non sono all’altezza d’una cosa del genere. Questa è follia.
– No, niente follia. Lei accende dieci volte di seguito il suo accendisigari e la Kadillak è sua. Le piace una Kadillak, no?
– Certo che mi piacerebbe una Cadillac. – Il ragazzo era tutto un sorriso.
– Benissimo, allora. Magnifiko. Facciamo la skommessa e ci metto la
mia Kadillak.
– E io cosa ci metto?
L’ometto sfilò con cura la fascetta rossa del sigaro ancora spento.
– Amiko mio, io certo non le kiedo di skommettere quello che non
può permettersi. Kapisce?
– E allora cosa?
– Le vengo inkontro, sì?
– Okay. Mi venga incontro.
La scommessa
– Una kosetta che lei può permettersi di dar via, e nel kaso perde non
ci rimette molto. D’akordo?
– Cosa, per esempio?
– Per esempio, il mignolino della sua mano sinistra.
– Il cosa? – Il giovanotto smise di sorridere.
– Sì. Perché no? Lei vince, prende la makina. Lei perde, io prendo il dito.
– Non afferro. Che vuol dire: prende il dito?
– Lo tronko.
– Numi santissimi! Questa non è una scommessa, questa è una follia!
No, ci sto solo per un dollaro.
L’ometto s’allungò nella sdraio, ora, allargò le braccia, con le mani a
palmo in su, e scrollò le spalle, in un gesto un tantino sprezzante.
– Bene, bene, bene – disse poi. – Io non kapisko. Lei dice ke accende
ma non vuole skommettere. Penso ke lei abbia paura!
Seguì un lungo silenzio, durante il quale mi resi conto che l’ometto
aveva scosso il ragazzo con quella sua assurda proposta. Se ne stava
seduto lì immobile, ed era evidente che dentro gli si stava accumulando una certa tensione. A un tratto prese ad agitarsi sulla sedia a sdraio
e a strofinarsi il petto prima e il collo poi; alla fine piazzò ambedue le
mani sulle ginocchia e prese a tamburellare con le dita sulle rotule.
Subito dopo cominciò a battere anche il piede a terra.
– Vediamo un po’ – disse alla fine. – Lei dice che saliamo su in camera sua e se io riesco ad accendere quest’affare dieci volte di seguito
vinco una Cadillac. Perdo un solo colpo e io ci rimetto il mignolo
della sinistra. È così?
– Esatto. La skommessa è kosì.
– E se perdo come facciamo? Le tendo il mignolo e lei me lo mozza?
– Oh, no! Kosì non va affatto. Lei potrebbe essere tentato di non porgerlo affatto. No, noi facciamo kosì: prima di kominciare le lego una
delle mani sul tavolo e io sto lì pronto kol koltello a tronkare il dito
appena l’accendisigari fallisce un kolpo.
– Di che anno è la sua Cadillac? – Chiese il giovanotto.
– Skusi, non capisco.
– Di che anno... È vecchia la sua Cadillac?
– Ah! Vekia? L’anno? Sì, l’anno skorso. Quasi nuova. Ma io kredo di
kapire che lei non skommette. Gli amerikani mai lo fanno.
Il giovanotto esitò ancora un attimo, poi guardò prima la ragazza
quindi me. – Ci sto – disse di colpo. – Scommetto il mignolo.
– Benissimo! – L’ometto batté le mani, una volta sola, senza agitarsi.
– Magnifico – esclamò. – Facciamo subito. E lei, signore, – si rivolse a
me, – vuole essere tanto gentile da fare, kome si dice, da arbitro? Aveva due occhi pallidi, quasi incolori, con due pupille piccole ma d’un
nero acceso.
– Be’ – esclamai. – Io la trovo una scommessa folle! Ma lei davvero
intende tagliargli il mignolo se perde?
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– Certo che taglio. Kome intendo dargli la Kadillak se vince. Andiamo,
su. Andiamo nella mia stanza. – S’alzò. – Lo considererei un grande
favore se lei venisse a fare da arbitro.
– Va bene – risposi. – Verrò. Ma la scommessa continua a non andarmi giù.
L’ometto fece strada attraverso il giardino fino all’albergo. Era chiaramente eccitato, e questo lo faceva camminare a piccoli saltelli, come
un pinguino.
– Volete vedere prima la makina? È qua fuori.
Ci guidò fino al punto in cui potevamo vedere il viale d’accesso dell’albergo. Si fermò e indicò una lucente Cadillac verde pallido parcheggiata lì davanti.
– Ekola. La verde. Le piace?
– Ehi, è una bella macchina – esclamò il giovanotto.
– Benissimo. Ora andiamo a vedere se riesce a vincerla.
Lo seguimmo su per una rampa di scale. Aprì una porta ed entrammo
in una bella stanza a due letti, ai piedi di uno dei quali era stesa una
vestaglia da donna.
Ora ci prepariamo… – E, rivolto al giovanotto: – Mi aiuti, per kortesia,
kon questo tavolo. Lo spostiamo un poko.
Si trattava del solito scrittoio da albergo, un semplice tavolino rettangolare d’un metro e mezzo per uno, col sottomano con la carta assorbente, il calamaio, le penne e la carta intestata. Lo spostarono dalla
parete al centro della stanza e lo sgomberarono.
– E ora, – disse l’ometto, – una sedia. – Prese una sedia e la piazzò
davanti al tavolo. Era vispo nei suoi movimenti, come se stesse organizzando dei giochi a una festa di bambini. – E ora i kiodi. – Prese
alcuni chiodi da un cassetto e cominciò a piantarli sul piano del tavolo, a una decina di centimetri l’uno dall’altro. Non li piantò sino in
fondo, li lasciò un po’ sporgenti. Poi ne provò la solidità.
Si direbbe proprio che questo figlio di buona donna l’ha già fatto altre
volte, mi dissi. Non aveva un attimo d’esitazione. Tavolo, chiodi, coltello: sa esattamente quello che occorre e come disporlo.
– E ora –, disse, – ci okorre della kordella. – Trovò la cordella. – Benissimo, finalmente siamo pronti. Vuole per kortesia sedere qui al tavolo? – Chiese al giovanotto. Questi sedette.
– Ora metta la mano sinistra tra questi due kiodi. I kiodi servono solo
per legarle la mano e tenerla ferma. Benissimo, kosì. Ora le lego la
mano, l’assikuro al tavolo... Kosì.
Avvolse la cordella intorno al polso del giovanotto poi ancora, varie
volte, intorno al palmo della mano, quindi la legò ai chiodi. Fece un
buon lavoro e quando ebbe finito il giovanotto non aveva nessuna
possibilità di ritrarre la mano.
– Siamo pronti, – disse. – Signor arbitro, dika lei quando si komincia.
La scommessa
– Bene – dissi. – Procedete.
Il giovanotto disse: – Per cortesia, vuole contare ad alta voce ogni
colpo?
– Certo – risposi. – Li conterò.
Sollevò il pollice sopra la rotellina e, con uno scatto, la fece girare. La
scintilla partì dalla pietrina e lo stoppino prese fuoco. Si levò una
fiammella gialla.
– Uno! – Contai io.
Non soffiò sulla fiamma, abbassò il coperchio dell’accendino e aspettò un cinque secondi prima di risollevarlo.
Un altro scatto, molto deciso, e ancora una volta dallo stoppino si
levò la fiammella.
– Due!
Nessuno disse niente. Il giovanotto teneva gli occhi fissi sull’accendino ora e l’ometto brandiva il trinciante. Anche lui guardava l’accendino.
– Tre!
– Quattro!
– Cinque!
– Sei!
– Sette! – Era chiaramente uno di quegli accendini che funzionano.
Dalla pietrina partiva una grossa scintilla e lo stoppino era della lunghezza giusta. Vedevo quel pollice scattare abbassando poi il coperchio
dell’accendino, ogni volta, sulla fiamma. Seguiva una pausa. Poi il
pollice riapriva l’accendino. Era un lavoro esclusivamente da pollice.
Faceva tutto il pollice. Presi fiato, pronto a dire otto. Il pollice scattò,
la pietrina scintillò, la fiammella comparve.
– Otto! – dissi. Mentre lo dicevo la porta della stanza s’aprì. Ci voltammo tutti e vedemmo una donna in piedi sulla soglia, piccolina, nera
di capelli, alquanto anziana: rimase ferma qualche secondo, dopodiché si precipitò dentro gridando: – Carlos! Carlos!
Gli afferrò il polso, gli tolse il coltello di mano, lo gettò sul letto, quindi prese l’ometto per i baveri della giacca bianca e cominciò a scuoterlo energicamente, parlando intanto, svelta e ad alta voce, in tono
severo, in una lingua che doveva essere spagnolo. Lo scuoteva così
forte che quasi non lo si vedeva più: divenne un’ombra vaga, sfocata,
una sagoma in rapido movimento, confusa, come i raggi d’una ruota
che gira.
Poi, a poco a poco, rallentò e riacquistò i suoi tratti. La donna lo trascinò attraverso la stanza e lo spinse a sedere su uno dei letti. Rimase
seduto, sul bordo, battendo le palpebre e toccandosi la testa come per
vedere se ancora era lì.
– Mi dispiace, – disse la donna, – mi dispiace davvero molto di quanto è accaduto. – Parlava un inglese quasi perfetto.
– È proprio una brutta cosa, – proseguì. – Immagino però che sia col-
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pa mia. Basta che lo lasci solo dieci minuti per andare dal parrucchiere e quando torno vedo che ha ricominciato. Non perde tempo.
Aveva l’aria dispiaciuta e insieme davvero preoccupata.
Il giovanotto intanto si stava slegando la mano. La ragazza stava dietro di lui senza dir niente. – È una minaccia – disse la donna. – Lì da
noi, a casa, ha tagliato quarantasette dita a quarantasette persone diverse, e ha perso undici macchine. Alla fine hanno minacciato di
rinchiuderlo da qualche parte. Per questo l’ho portato qui.
– Facevamo solo una pikola skommessa – borbottò l’ometto seduto sul
letto.
– Immagino che hai scommesso una macchina – disse la donna.
– Sì – rispose il giovanotto. – Una Cadillac.
– Non ha nessuna macchina. Quella è mia. Il che peggiora le cose:
scommette non avendo niente da perdere. Mi vergogno per lui e chiedo davvero scusa. – Aveva un’aria davvero simpatica.
– Bene, – diss’io, – ecco la chiave della sua macchina. – La misi sul
tavolo.
– Stavamo facendo solo una pikola skommessa – brontolò di nuovo
l’ometto.
– Non gli è rimasto più niente – riprese la donna. – Non ha niente al
mondo. Niente. Per la verità, da un pezzo gli ho vinto tutto io. C’è
voluto tempo, molto tempo, ed è stata dura, ma alla fine gli ho vinto
tutto. – Guardò il giovanotto e gli sorrise, un sorriso triste; poi gli si
avvicinò e allungò una mano per prendere la chiave.
E così gliela vidi quella mano, e ancora l’ho davanti agli occhi: le era
rimasto un solo dito, a parte il pollice.
R. Dahl, La scommessa, trad. di A. Veraldi, Garzanti