Daniella Iannotta

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Daniella Iannotta
ETICA ED ESTETICA NEL CINEMA. UN INVILUPPO
POSSIBILE?
Il problema posto dall’inviluppo di etica ed estetica nel cinema è di ordine
squisitamente filosofico. Esso evoca, infatti, quella convertibilità del Bello, del Bene
e del Vero, che la tradizione ci consegna come thesaurus da cui iniziare a pensare
nella costante dialettica fra tradizione e innovazione, laddove vogliamo recuperare le
risorse di senso delle ontologie del passato, non già per ripeterle, in una sorta di
ossessione dell’identico, ma per riattualizzarle nei nuovi contesti, che gli scenari
odierni propongono alla nostra attenzione. Per poter parlare dell’intreccio di estetica
ed etica nel cinema, dunque, è opportuno in via preliminare gettare uno sguardo sui
pre-giudizi – sulle pre-comprensioni – che guidano le nostre riflessioni in proposito.
È necessario, pertanto, chiarire innanzitutto in che senso parliamo di estetica
quando ci riferiamo a un’opera cinematografica. È il grande problema della
“attualità del bello” – per riprendere un suggestivo titolo gadameriano1 – che si
presenta a chi voglia considerare “bella” l’arte contemporanea, al di là del senso di
estraniazione e di provocazione che essa reca con sé in rapporto alla grande arte che
la Tradizione ci ha consegnato. La distruzione del figurativo nella pittura e nella
scultura, l’estrema libertà di forme e proporzioni che l’architettura propone grazie
anche alle possibilità offerte dai nuovi materiali, la rivendicazione da parte della
fotografia, del cinema, della Realtà Virtuale al titolo di arte, danno una eco della
complessità del fenomeno e, nondimeno, della urgenza di affrontarlo.
Che cosa, dunque, potremmo dire alla sequela del testo gadameriano, ci induce a
“riflettere sul bello”? Nella cultura occidentale, questa domanda sorge in relazione a
un atteggiamento di fondo della razionalità che, privilegiando la “regolarità
matematica” della natura, e sulla sua base procedendo al dominio delle forze naturali
stesse, viene a relegare l’esperienza del bello entro i confini della «massima
arbitrarietà soggettiva»2. Dunque, in rapporto alla razionalità che l’Occidente
privilegia, insegnandoci a parlare di conoscenza soltanto quando riusciamo a
mediare la “soggettiva condizionatezza sensibile” a livello concettuale-universale –
esso stesso soggettivo, bisogna sottolineare, se il soggetto è quella coscienza pura a
priori, che sussume il sensibile al di sotto delle categorie dell’intelletto, secondo la
lezione kantiana – ebbene, parlare di una qualche conoscenza sensibile – di una
cognitio sensitiva secondo l’espressione di Baumgarten – non può essere che un
“paradosso”. La singolarità sensibile, infatti, non può essere considerata, da un punto
di vista conoscitivo, se non quale “caso” da sussumere sotto a una legge universale.
Su questa strada, l’esperienza del bello quasi coincide con l’ambito dell’ineffabile.
Dice Gadamer:
1
2
H.G. Gadamer, L’attualità del bello, tr. it. di L. Bottani e R. Dottori, Marietti, Genova 1986.
Ivi, p. 17.
[...] non è certamente l’esperienza del bello, né nella natura, né nell’arte, a farci calcolare
tutto ciò che avviene secondo le nostre aspettative ed a registrarlo come caso di una legge
universale. Un tramonto del sole che ci incanta non è uno dei tramonti del sole, ma è
questo unico tramonto che ci rappresenta la “tragedia del cielo” [...]3.
Rappresentazione, potremmo aggiungere, che ci dà a conoscere senza dimostrare,
che piuttosto mostra il vero e ce ne fa partecipi: «d’improvviso, in considerazione
del bello, qualcosa ci trattiene, e ci costringe ad indugiare in ciò che appare
individualmente»4.
Ecco, allora, che possiamo porre la domanda:
L’arte non ha davvero nulla che fare con la conoscenza? Non c’è nell’esperienza dell’arte
una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto
certamente non subordinabile ad essa? E il compito dell’estetica non è proprio quello di
fondare teoreticamente il fatto che l’esperienza dell’arte è un modo di conoscenza sui
generis, diversa beninteso da quella conoscenza sensibile che fornisce alla scienza i dati
sulla cui base essa costruisce la conoscenza della natura, diversa altresì da ogni
conoscenza morale della ragione e in generale da ogni conoscenza concettuale, ma
tuttavia pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità?5.
Il problema sollevato, come abbiamo già accennato, va a toccare uno dei nodi
principali della cultura occidentale, per un verso, nella misura in cui in essa si è
prodotta e consolidata l’equazione della verità con la conoscenza, per l’altro, nella
misura in cui la mediazione dell’esperienza a livello concettuale, che la conoscenza
comporta, si è venuta progressivamente metodologizzando e, con ciò stesso,
desostanzializzando, in ultima analisi confinandosi entro i limiti di sistemi
convenzionali chiusi di riferimento. Non che si voglia negare la validità formale
della metodologia scientifica; piuttosto si tratta, qui, con Gadamer di riconoscere un
fenomeno e metterne in discussione la pervasività. Non c’è dubbio, infatti, che la
svolta metodologica, imposta dall’evo moderno alla scienza, abbia comportato una
egemonia delle scienze e del loro linguaggio che, nella contemporaneità, arriva a
forme esasperate di escludenza, soprattutto in ambiente neopositivistico6. Parlando,
3
Ibidem.
Ivi, p. 18.
5
H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1995, p. 128.
6
Pensiamo soltanto alla espressione “scienze dello spirito”, Geisteswissenschaften, secondo il
traduttore tedesco della Logica di J. Stuart Mill, il quale si interrogava sulla possibilità di utilizzare il
metodo induttivo della scienza anche nelle moral sciences. Espressione ripresa da Dilthey, il quale le
oppone alle scienze della natura, che però restano l’idea-guida, potremmo dire, in quanto determinano
il criterio di scelta della chiave epistemologica atta a fondarle precisamente come “scienze”. Questa
soggezione si ripercuote sul linguaggio, dove – stando, per esempio, al Wittgenstein del Tractatus
logico-philosophicus (tr. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1974) – «su ciò di cui non si può parlare, si
deve tacere» (prop. 7) e ciò di cui si può parlare sono soltanto “proposizioni della scienza naturale”,
nella misura in cui rispecchiamo dei fatti del mondo. Ne consegue che il solo linguaggio significativo
finisce per essere quello fattuale-descrittivo, quello cioè che può informare sugli stati di cose che si
verificano nel mondo, mentre subisce un “eziolamento”, per così dire si ingiallisce – per riprendere
quanto afferma Austin a proposito del linguaggio teatrale (cfr. J. L. Austin, Come fare cose con le
parole, tr. it. di C. Villata, Marietti, Genova 1997, pp. 21-22) – quando è alle prese con sentimenti ed
emozioni. Quanto la pretesa di un linguaggio aderente ai fatti sia pervasiva, d’altronde, è riscontrabile
4
pertanto, di conoscenza quale “partecipazione di verità”, si apre per noi la
paradossale ma radicale domanda sul vero, inesauribile abisso di ogni
questionamento. E, tuttavia, proprio qui sta la posta del nostro discorso: la verità,
che la filosofia occidentale ha cercato di portare a parola in maniera univoca ed
esaustiva, rigorosa, inesauribilmente si è sottratta al possesso definitivo del pensiero
razionale, ma non già per tacere bensì per esprimersi sulle modulazioni di linguaggi,
che la contemporaneità chiama “altri”.
E certamente “altro” è il linguaggio della bellezza, altri i suoi codici e i suoi
contenuti.
Ma si tratta di un linguaggio che dobbiamo “imparare”, di cui dobbiamo
comprendere i termini, le movenze, gli scopi. Soprattutto dobbiamo imparare a
considerare l’opera – l’opera d’arte – come il ciò di cui facciamo esperienza, che
conosciamo dunque nella sua alterità ma di fronte alla quale ri-conosciamo noi stessi
uscendone modificati. È il senso profondo del conoscere, per cui possiamo dire che
l’arte è conoscenza, nella misura in cui è assunzione della dimensione ontologica
della stessa “esperienza dell’arte”, dell’opera d’arte.
Ci si consenta, a questo punto, una piccola digressione per comprendere che cosa
intendiamo con “opera”. Dal punto di vista dell’ermeneutica contemporanea –
diversa dunque dall’ermeneutica che Schleiermacher e più tardi Dilthey fondavano
mirando al recupero dell’intenzione dell’autore – l’opera è un tutto non conchiuso
offerto “a chiunque sa leggere”, vorremmo dire riprendendo una espressione
ricœuriana che ci sembra particolarmente adatta in riferimento a quella necessità di
apprendere un linguaggio nuovo, cui facevamo precedentemente allusione.
Chiunque sa leggere la sua verità, la verità dell’opera, e così conoscere l’essere che
essa fa apparire. È l’essere della rappresentazione, che forse sarebbe meglio
chiamare “presentazione”: l’opera presenta un mondo per qualcuno, che è chiamato
a parteciparne. E questa “partecipazione di verità” è atto conoscitivo, atto
ambivalente nella misura in cui ogni conoscere è a un tempo ri-conoscere una
possibilità d’essere, anche dove questa non si dia nel puro accadere fattuale ma in un
intreccio di senso. È la mimesis di aristotelica derivazione, non già quale copia di un
fatto o di un movimento, bensì come creazione di un intreccio, al cui interno si
liberano le significanze dell’azione. Pensiamo al nostro vivere quotidiano: esso si
svolge ma, nel momento in cui vi poniamo attenzione e lo configuriamo in un
racconto (non chiediamo, forse, a qualcuno che vogliamo conoscere meglio:
“raccontami la tua storia”?), acquista un senso, un vettore direzionale che lo
giustifica – o lo condanna. E l’intreccio è sempre per un altro, sia pure per un io che
si sdoppia nel “me” del riconoscimento, della confessione, del dialogo interiore.
Intreccio per qualcuno, dunque, che sa leggere, il quale nel mostrarsi dell’opera ne
interpreta il messaggio, lasciandosi coinvolgere nel suo gioco. E mentre nelle arti
della pittura, della scultura, dell’architettura la rappresentazione è semplice, procede
direttamente dall’atto di produzione a quello di fruizione – anche se intatto resta il
compito dell’interprete di s-velare ciò che in essa è dis-simulato – nel caso del
teatro, della musica, del cinema la rappresentazione è, per così dire, sdoppiata fra la
scrittura del testo e la sua messa in scena. Qui gli “interpreti”, che “giocano” il
anche nel caso del cinema, laddove si vuole che la rappresentazione sia “fedele”, sia cioè
“corrispondente” a un qualche fatto che ne garantisca la veridicità.
pezzo, sono finalizzati allo spettatore, il quale – secondo una bella definizione di
Gadamer – rappresenta la quarta parete della scena:
[...] lo spettatore non si colloca nella distanza della coscienza estetica, che apprezza solo
l’arte della rappresentazione, ma nella comunione del vero assistere7.
In questo senso,
[...] ogni incontro con il linguaggio dell’arte è un incontro con un evento non conchiuso
ed è esso stesso parte di questo evento8.
Vorremmo mettere ancora un accento sulla nozione di incontro, poiché essa
sottolinea la dinamica relazionale di ogni produzione umana. L’opera, che si stacca
dal suo autore per vivere una avventura autonoma, è per qualcuno, il quale entrando
nel suo gioco la accoglie come un tutto e la “trasmuta in forma” – direbbe Gadamer
– conchiudendola, per un verso; aprendola alle altre possibili trasmutazioni, per
l’altro. Se, allora, gli attori “giocano” il pezzo rappresentandolo, gli spettatori
“giocano” le emozioni – le passioni – che l’intreccio di senso va a suscitare. Passioni
di terrore e di pietà, diceva Aristotele parlando della tragedia, che l’intreccio poetico
generando com-passione arriva a purificare – e dunque a trasfigurare. Purificazione
intellettuale, evidentemente, attraverso la comprensione che abbiamo del senso del
gioco, della fabula. Ma in questo, ciò che viene liberato e detto in linguaggio
poetico, altro non è che il dramma – e sovente la tragica lacerazione – della vita. Qui
la rappresentazione meglio vien detta come rappresentanza, luogotenenza del senso
dell’esistere umano nella molteplice varietà dei contesti e delle situazioni in cui
quell’esistere stesso accade.
A questo punto, forse, è più facile comprendere cosa intendiamo quando
affermiamo che conoscere equivale a ri-conoscere, in ultima analisi a ri-conoscersi.
Indubbiamente, nell’intreccio narrativo di un’opera un mondo viene presentato. Un
mondo non fattuale, dicevamo, tuttavia possibile. Un mondo “come se”, per usare
ancora una bella espressione ricœuriana, che, nella perdita del “come è” fattuale,
offre un senso da saggiare, delinea un “oriente” – l’oriente del testo direbbe Ricœur
– nel quale il fruitore è chiamato ad installarsi, per scoprire, attraverso il gioco delle
“variazioni immaginative”, possibilità nuove di essere nel mondo, modalità inusitate
di entrare in rapporto con se stesso e gli altri. E qui la conoscenza acquista la sua
dimensione squisitamente etica, nella misura in cui il fruitore si ri-conosce come
potenza di azione – o di passione – intessuta nel suo stesso esistere con e per altri
all’interno di un orizzonte comune.
Il discorso, che siamo venuti facendo, mira nella sua movenza a recuperare la
“funzione euristica” dell’immagine, potremmo dire, nella misura in cui l’immagine
stessa viene colta non come immagine sbiadita della realtà – alla stregua delle ombre
che popolano la caverna platonica – bensì nella sua dimensione ontologica, nella sua
dimensione d’essere in senso proprio. Si tratta di una valenza positiva, dunque, e
vorremmo aggiungere efficace, per cui un’opera – nel nostro caso una
7
H.G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 166.
Ivi, p. 130.
8
rappresentazione cinematografica, un film – contribuisce a un vero e proprio
processo di formazione dell’umano, di Bildung del sentimento e dell’azione.
Immagine, in questo senso, è una rappresentazione, nella quale – dice Gadamer in
proposito – si attua la “presenza del rappresentato”. L’immagine, pertanto, «non
rimanda semplicemente al rappresentato. Anzi, la rappresentazione rimane
essenzialmente legata con il rappresentato, in certo modo gli appartiene»9. Ora, se
l’immagine coincide con il rappresentato, ciò significa che la realtà consiste nell’atto
stesso della rappresentazione:
[...] nell’immagine, l’originale presenta se stesso. Ciò non vuol dire necessariamente che
esso abbia bisogno proprio di questa rappresentazione per manifestarsi. Si può presentare
per ciò che è anche in modo diverso. Ma quando in tal modo si presenta, questo non è più
un fatto accidentale, bensì appartiene al suo essere stesso. Ogni rappresentazione di
questo tipo è un evento ontologico, e entra a costituire lo stato ontologico del
rappresentato. Nella rappresentazione, questo subisce una crescita nell’essere, un
aumento d’essere10.
La crescita nell’essere del rappresentato ad opera dell’immagine, che ne tiene il
luogo non costituisce, dunque, una rappresentazione “falsa”, come si suol dire, in
rapporto a una presunta verità dei fatti – il fattuale si ripresenta costantemente nel
nostro discorso – bensì un reale processo di accrescimento che l’immaginazione
originale apporta alla lettura della realtà e della sua prismatica costituzione.
Evidentemente, in questo modo, veniamo a privilegiare una sorta di libertà
dell’immagine, che nell’atto stesso del suo svincolarsi dai legami con il suo autore e
con il contesto di appartenenza, pur di questi recando traccia, diventa opera,
messaggio, proposta.
Messaggio per qualcuno – come già sappiamo – proposta di senso per quel
fruitore-spettatore che fa esperienza di “essere messo in questione” dal senso stesso
di quel messaggio. E qui sta la differenza fra l’opera d’arte e il prodotto spazzatura.
Il linguaggio dell’opera d’arte è tale che, nel dirci qualcosa, ci mette
[...] a confronto con noi stessi. Ciò vuol dire che essa dice qualcosa che, così come è detto, è come
una scoperta, è il discoprire qualcosa che è nascosto [...]11
e che, perciò stesso, è capace di metterci in questione, di turbarci, di provocarci. Il
già conosciuto, infatti, non ha più questa capacità. L’opera d’arte, dunque, come
forma di comunicazione in quanto è a me, al mio mondo e alla mia esperienza che
parla il mondo della rappresentazione. Dice ancora Gadamer:
comprendere ciò che ad uno dice l’opera d’arte è quindi certamente una specie di
incontro con se stessi. Ma in quanto è questo incontro con ciò che è autentico, in quanto è
questa familiarità che include una certa superiorità, l’esperienza dell’arte è esperienza nel
senso vero della parola, e deve portare a termine il compito che pone l’esperienza: il
compito di integrarsi nella totalità del proprio orientamento nel mondo e della propria
9
10
11
Ivi, p. 173.
Ivi, p. 175.
H.G. Gadamer, L’attualità del bello, cit., p. 77.
autocomprensione. E proprio questo è ciò che costituisce il linguaggio dell’arte, e cioè
che essa parla alla propria autocomprensione di ognuno; ed essa lo fa ogni volta in quanto
è presente, ed attraverso la propria presenzialità12.
L’accento forte che, servendoci delle parole di Gadamer, abbiamo voluto mettere
sul momento di comunicazione da parte dell’opera d’arte e di autocomprensione da
parte del suo fruitore, ha lo scopo di portarci a chiarire quell’inviluppo di etica ed
estetica, che è la posta in gioco del nostro discorso.
Come abbiamo detto, autocomprendersi di fronte al testo è un riconoscersi che ci
mette in questione. E ci mette in questione dentro a quell’orizzonte di senso che il
testo crea per noi quale mondo che potremmo abitare, realizzando modalità d’essere
per noi non attuali forse anche sconcertanti. Il “come se” dell’essere è, allora, il
nostro “come se”, il nostro poter-essere nell’essere – vorremmo sottolineare
riprendendo un vocabolario caro alla radicalità della domanda filosofica – in cui, nel
saggiare le possibilità inusitate dell’essere nel mondo, ci impegniamo in una sorta di
“laboratorio del giudizio morale”, secondo una espressione di Paul Ricœur 13, che ci
sembra particolarmente adatta ad illustrare il compito etico della rappresentazione
artistica.
In che modo un’opera cinematografica può suscitare una ridescrizione come
quella di cui abbiamo parlato? E’ chiaro che, alla base del nostro discorso, sta la
presupposizione che un intreccio filmico può essere considerato come un testo
letterario14, una vera e propria narrazione in cui gli eventi raccontati vengono messi
in rapporto con le azioni dei personaggi. L’intreccio, pertanto, dipende da quella
tessitura di progetti, azioni, cause, casi, rovesci di fortuna che formano,
precisamente, la trama del racconto, la quale nel concatenarli conferisce ad essi una
unità narrativa. Si attua, in questo modo, quella che Ricœur chiama la “sintesi
dell’eterogeneo”, che al pari della vita, è capace di tenere insieme nel suo senso gli
elementi più disparati. Allora, come nello snodarsi temporale della vita l’attuazione
dei nostri progetti – dei nostri “piani” – è costretta a misurarsi e a riformularsi in
rapporto all’imprevedibile e all’imponderabile, così sulla scena della
rappresentazione cinematografica le azioni dei personaggi incontrano la fortuna e la
beffa, il compimento o la distruzione. Ma, nella finzione scenica, l’unità narrativa
consente di cogliere il senso dell’accadere all’interno di una totalità di significanza,
laddove la vita riserva questo potenziale soltanto ad uno sguardo retrospettivo.
Ancora. Come nella vita, le esperienze “forti” ci aiutano a rimodellare la nostra
identità personale, così nel racconto le vicissitudini del personaggio stimolano la
nostra presa di posizione, la nostra valutazione. Valutazione a tutto tondo, dobbiamo
precisare, giacché, per un verso, le azioni e le vicende vengono apprezzate in base al
grado di perfezione interna raggiunta (un buon chirurgo è quello che, utilizzando
correttamente gli strumenti del mestiere, conduce l’operazione a buon fine); per
l’altro, in relazione alle intenzioni dell’agente e delle conseguenze che generano
all’interno del contesto. Ora, nel momento in cui conduciamo questo lavoro sul
12
Ibidem.
P. Ricœur, Sé come un altro, t. it. a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, cfr. VI studio,
“L’identità narrativa”.
14
Cfr. D. Iannotta - D. Viganò, Essere. Parola. Immagine. Percorsi del cinema biblico, Effatà,
Cantalupa [To] 2000.
13
testo, a un tempo valutiamo in che modo ci saremmo comportati personalmente nella
stessa situazione, quali scelte alternative avremmo potuto fare, quali soluzioni
adottate invece ci sorprendono e ci aiutano a pensare a noi stessi in modo nuovo. Si
attua, così, un lavoro di confronto esperienziale, che conduciamo con gli strumenti
della saggezza pratica, che è patrimonio dell’orizzonte culturale al quale
apparteniamo. Allora, come dice Ricœur, «nello scambio di esperienze operato dal
racconto, le azioni non vanno esenti dall’essere approvate o disapprovate e gli agenti
dall’essere lodati o biasimati»15. Comprendersi davanti al testo, pertanto, significa
trasformarsi, cioè ri-progettare noi stessi e la nostra azione. In questo caso,
parleremo allora di “identità narrativa” – secondo un’altra bella espressione di
Ricœur – identità modulata come un racconto e a partire da un racconto, a partire
cioè dalle “variazioni immaginative” che questo produce e induce.
Ma, in questo modo, non si rompe quell’inviluppo di estetica e di etica, che
volevamo invece pensare in maniera unitaria? La stessa domanda si pone Ricœur a
proposito della configurazione narrativa: possiamo, forse, dire che il “racconto
letterario”, se ci teniamo al piano della “configurazione narrativa propriamente
detta”, perde le “determinazioni etiche a beneficio delle determinazioni puramente
estetiche?”. Si tratta di quell’affermazione che, in definitiva, facciamo di fronte a
una immagine violenta, a una immagine provocatoria, perturbante, laddove
cerchiamo di giustificare l’eccesso in nome dell’estetica. E, tuttavia, riusciamo a
tracciare un limite tra la funzionalità e la gratuità dell’eccesso stesso, tra la nobiltà e
l’ignominia, in breve tra l’arte e il prodotto spazzatura, come dicevamo in
precedenza. Dunque, possiamo ancora sottolineare con Ricœur,
[...] questo sarebbe ingannarsi sull’estetica stessa. Il piacere con cui seguiamo il destino
dei personaggi implica certamente che sospendiamo ogni giudizio morale reale nello
stesso tempo che sospendiamo l’azione effettiva. Ma nella cinta irreale della finzione,
non facciamo a meno di esplorare nuove maniere di valutare azioni e personaggi. Le
esperienze di pensiero che conduciamo nel vasto laboratorio dell’immaginario sono
anche indagini condotte nel regno del bene e del male. Transvalutare, o anche svalutare,
significa ancora valutare. Il giudizio morale non è abolito, esso stesso è, piuttosto,
sottomesso alle variazioni immaginative proprie della finzione16.
Era questo il nostro assunto iniziale: c’è un inviluppo – una conversione dei
trascendentali – di bello, di buono e di vero in virtù del quale il momento etico non
può essere separato dal piacere estetico:
[...] grazie a questi esercizi di valutazione all’interno della dimensione della finzione, il
racconto può in definitiva esercitare la sua funzione di scoperta e anche di trasformazione
rispetto al sentire e all’agire del lettore [dello spettatore, noi possiamo dire], nella fase di
rifigurazione dell’azione ad opera del racconto 17.
15
16
17
P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 258.
Ibidem.
Ibidem.
Ma proprio qui raggiungiamo quel conoscere, che è un ri-conoscere e un riconoscersi, come dicevamo all’inizio del nostro cammino. Riconoscersi a partire da
altro, riconoscersi come un altro – vorremmo dire parafrasando Ricœur – in
definitiva riconoscersi come capaci di trasformarci e ridescriverci alla luce di un
orizzonte etico, che l’estetica non cancella bensì potenzia configurandolo in un
intreccio di senso.

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