ci vogliono sempre degli inventori! Prof.ssa Genevieve Jacquinot

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ci vogliono sempre degli inventori! Prof.ssa Genevieve Jacquinot
DALL’EDUCAZIONE AI MEDIA ALLE “MEDIACULTURE”:
CI VOGLIONO SEMPRE DEGLI INVENTORI!
Prof.ssa Genevieve Jacquinot-Delaunay
Università La Sorbonne di Parigi
Rivista Médiamorphoses, INA/A. Collin
Sono particolarmente lieta di partecipare a questa grande festa dei 10 anni dell’associazione
Med, fondata il 28 febbraio 1996, alla quale sono stata associata sin dall’inizio, cosa della quale
ringrazio vivamente Roberto Giannatelli e Pier Cesare Rivoltella. Questi colleghi, in occasione del
primo Forum Internazionale dei ricercatori sul rapporto tra media e minori1, tenutosi a Parigi
presso l’Unesco nel 1997, sottolineavano l’importanza del movimento associativo nello sviluppo
dell’educazione ai media, il quale costituisce spesso (li cito) «la sola piattaforma d’appoggio alle iniziative
di innovazione delle pratiche pedagogiche condotte dagli insegnanti all’interno della scuola». Inoltre, essi
mettevano in guardia contro due rischi inerenti a questo tipo di movimento, il «rischio di
autoreferenzialità ovvero di ripiegamento su se stessi» e il rischio di restare «sul piano discorsivo senza alcun
legame con il lavoro sul campo». L’organizzazione di queste due giornate prova, con tutta evidenza, che
l’associazione ha saputo evitare questi due rischi e ha ben svolto la sua funzione di sostegno. Li
ringrazio per avermi permesso di partecipare ancora una volta ai vostri dibattiti.
L’educazione ai media come pratica educativa è praticamente tanto vecchia quanto i media
stessi 2. La stampa risale alla metà del XIX secolo, il cinema ha più di cento anni, la radio più di
ottanta, la televisione più di cinquanta, il computer quasi venticinque, Internet comincia ad
invecchiare… e i blog hanno già una loro storia, come pure la loro rivista specializzata, Netzine,
nata in Francia nel 2006! Questo basta per affermare che l’ambiente socio-tecnico, e dunque
culturale, è cambiato ed è difficile immaginare come la scuola, che è insieme riflesso del passato e
preparazione al futuro, possa restare insensibile a questi cambiamenti.
In realtà, sinora, non lo è mai stata dato che, a poco a poco, lentamente e prudentemente, con
un ritmo e un impatto molto diversi a seconda dei paesi e delle culture (anche solo quelli europei),
essa ha lasciato entrare i media progressivamente per farne un oggetto di studio. È possibile
seguire così nelle diverse pratiche realizzate – sia pure con un certo scarto temporale – il succedersi
dei diversi supporti mediatici: il cinema, qualificato alla nascita come “sciocco divertimento” e a
lungo ritenuto un “mezzo per pervertire la gioventù”, è divenuto oggetto di studio accademico
solo verso gli anni ’70 quando si cominciò a selezionare dal patrimonio riconosciuto le “grandi
opere cinematografiche”, le quali però risultavano lontane dall’ambiente culturale degli studenti
tanto quanto le opere letterarie; poi è giunta la televisione che ha dato il cambio al cinema come
“cattivo oggetto”, responsabile di ogni forma di violenza, prima di osare infrangere le porte della
Les jeunes et le médias, perspectives de la recherche dans le monde, ss dir de G. Jacquinot, Coll. Débats-Jeunesses, l’Hamattan,
2002.
1
Anche se è solo con lo sviluppo della semiologia dell’immagine (agli inizi degli anni ’60) e con la sua lenta
penetrazione nella sfera scolastica (a partire dagli anni ’70) che si avuta una sua reale diffusione nel sistema educativo.
2
scuola, per non parlare di Internet o dei videogiochi di cui si sa che fanno “ancora” paura ai
genitori come agli insegnanti, anche quando numerosi lavori di ricerca hanno mostrato come essi
contribuiscano allo sviluppo di certe abilità, non solo manuali ma anche cognitive3, anche se
devono ancora acquisire una nobiltà tale da poter avere diritto ad entrare nella scuola.
In ogni caso, l’educazione ai media esiste, e come ha affermato Pier Cesare qualche anno fa
(nel corso di un incontro all’Università Cattolica nell’ottobre 2000) oltre ad esprimere un «insieme di
entusiasmi» la Media Education può anche rivendicare lo statuto di disciplina.
Quello che vorrei fare oggi con voi, attraverso il riferimento a qualche controversia, come pure
ad alcune contraddizioni ravvisabili nelle pratiche pedagogiche realizzate sinora, è di mostrare che
«è tempo di rinnovare l’educazione ai media» e che per fare ciò «c’è sempre bisogno di inventori»…, inventori
che sanno di pedagogia, s’intende, perché per le tecnologie possiamo sempre fare affidamento ad
ingegneri ingegnosi!
Le controversie nell’educazione ai media
Avendo spesso realizzato attività di educazione ai media e più ancora avendole studiate, a
diversi livelli e in diversi paesi e continenti, ho avuto modo di raccogliere alcune problematiche
ricorrenti, ovvero delle controversie certamente «feconde», come ha mostrato Jacques Gonnet4,
ma che pure mi pare ora necessario superare e sulle quali tornerò.
1. La distinzione/separazione tra educazione “ai” media e “con” i media
Comincio con un aneddoto che mi pare rivelatore dell’imbarazzo nel quale si trovano certi
insegnanti preoccupati, senza dubbio, di fare fin troppo bene. Nel corso di uno dei numerosi corsi
di formazione all’educazione ai media in cui mi sono trovata ad intervenire, una tra gli insegnanti
presenti, per affermare meglio la differenza tra educazione “ai” media e “con” i media, dichiarò
che quando faceva educazione ai media lavorando su un testo mediale, non si preoccupava del
contenuto e in particolare non faceva notare gli errori o gli anacronismi, cosa che ovviamente
faceva quando utilizzava il medesimo documento all’interno del suo insegnamento disciplinare.
Questo esempio, che ha certo i limiti della caricatura, testimonia in realtà di un fenomeno che
ho avuto spesso occasione di incontrare e lamentare5 , ovvero una schizofrenia ricorrente
nell’introduzione dei media a scuola secondo la quale da una parte si hanno le pratiche di
educazione ai media e dall’altra quelle che contribuiscono all’insegnamento di una disciplina
attraverso l’intermediazione di un documento mediale, a prescindere dal supporto o dal genere.
Schizofrenia di pratiche che nasconde una schizofrenia nelle funzioni, in quanto gli insegnanti
si specializzano ora nell’uno ora nell’altro tipo di pratiche e le azioni di formazione proposte vanno
spesso nella stessa direzione. Certo, in entrambi i casi, la posta in gioco, gli obiettivi, i metodi non
sono gli stessi e le priorità, in termini di acquisizione di saperi e competenze, non coincidono.
Anche nella tradizione le definizioni di educazione ai media sono state spesso elaborate in
opposizione alle pratiche di educazione con i media6. Ma erano gli anni ’80 e all’epoca si trattava di
Si veda il dossier tematico “Qui a (encore) peur des jeux vidéo?” ss dir di G. Jacquinot-Delaunay, MédiaMorphoses,
INA/PUF, n° 3, settembre 2001.
3
4
L’education aux médias, les controverses fécondes, Hachette/CNDP, 2001.
5
Si veda in particolare, Les genres télévisuels dans l’enseignment, Hachette/CNDP, 2001.
6 «Per
educazione ai media, è bene intendere lo studio, l’insegnamento dei moderni mezzi di comunicazione ed
espressione considerati come specifica ed autonoma disciplina nell’ambito della teoria e della pratica pedagogiche, in
opposizione all’uso di questi mezzi come sussidi didattici per le aree consuete del sapere, come ad esempio la
matematica, le scienze e la geografia» (prima definizione stabilita nel 1973 dal Conseil International du Cinéma et de la
Télévision). O ancora l’educazione ai media è: «l’apprendimento e l’insegnamento… della storia, della creatività,
dell’uso e della valutazione dei media come arti pratiche e tecniche; così come del ruolo svolto dai media nella società,
del loro impatto sociale, delle implicazioni che derivano dalla comunicazione, dalla partecipazione e dalla
modificazione delle modalità di percezione che i media comportano; nonché dell’accesso ai media e del lavoro creativo
che con essi si può svolgere» (Seconda definizione, stabilita nel 1979 in occasione di un incontro UNESCO a Parigi).
mettere in rilievo una delle dimensioni del rapporto tra media e scuola che non era ancora
sufficientemente valorizzata, mentre erano già ben sviluppati, in Francia come in altre parti del
mondo, progetti sulla radio e la televisione educativa come pure sul cinema – per esempio, i
teleclub si servivano di film o di trasmissioni televisive per introdurre dibattiti su questo o su quel
problema sociale. Il tutto come se il messaggio fosse indipendente dal suo supporto e il contenuto
fosse lo stesso, sia che venga trasmesso attraverso il linguaggio scritto o orale, l’immagine, un
prodotto educational o un videogioco. In realtà, insegnare una disciplina usando un documento
mediatico comportava – e comporta sempre se si mantiene questo atteggiamento – il rischio di
astrazione dalla specificità della sua mediazione tecnico-linguistica: tecnica perché ogni supporto implica
delle costrizioni (di taglio, di costo, di fattibilità, di condizioni di produzione e di utilizzo…ecc.) e
linguistica perché gli studi linguistici e semiologici ci hanno insegnato, ormai da tempo, che
immagini, testi e suoni non attivano gli stessi processi di significazione e, più recentemente, che i
media interattivi introducono nuove relazioni tra autore e utente.
Mi pare vi sia come una sottovalutazione della questione dei supporti, caratteristica questa
tipica del mondo dell’educazione, focalizzato com’è sui contenuti e sulla disciplina, come se il
supporto fosse trasparente e il modo di diffusione indifferente.
In realtà, anche se la fruizione mediatica comporta una certa acculturazione spontanea – come
ricorda giustamente Roberto Farné in uno degli ultimi numeri di Intermed (aprile 2005) – è solo
con un lavoro di «sosta sull’immagine e sul suono e sul… click» (anche nel caso di attività di
produzione da parte degli alunni, secondo il metodo del “learning by doing”) che si può sperare di
dotare progressivamente gli studenti di un’“attrezzatura” critica nei riguardi dei media che li
circondano e che strutturano la loro percezione di molte realtà: si impara sempre attraverso i
media, sia che si lavori “con” o “su” di essi.
2.La selezione/specializzazione su un medium vs. l’ambiente mediatico
Negli anni ’60 lo psicologo e specialista dell’educazione Michel Tardy denunciava ciò che
definiva «il fanatismo del medium»: sia nelle pratiche di educazione ai media che in quelle di
educazione con i media vi è come una ripartizione degli entusiasmi (o delle specializzazioni): chi
lavora sulla stampa scritta, chi sulla radio, chi sulla fotografia, il cinema o la televisione, e oggi
potremmo aggiungere i siti internet e persino i blog!
Ci si può a questo proposito stupire, non tanto dell’anteriorità temporale (che è normale), ma
della tradizionale supremazia, nelle attività di educazione ai media, della stampa scritta rispetto agli
altri media quando, come ben sappiamo, i giovani leggono poco la stampa scritta quotidiana
«anche se le attribuiscono un plebiscito circa la sua affidabilità», come riportava uno studio
pubblicato recentemente su Le Monde7. Ne sono un esempio le attività del Clemi in Francia, le quali
agli inizi si concentravano soprattutto sullo studio della stampa scritta, anche se un’inchiesta
condotta tra i giovani dimostrava la loro preferenza per la televisione. Non a caso la celebre
“Settimana della stampa a scuola” è diventata da poco la “Settimana della stampa e dei media”. Si
potrebbe anche citare il caso dell’Argentina dove, da più di 10 anni ormai, l’ADIRA, l’Associazione
dei giornalisti regionali dell’Argentina, ha condotto delle interessantissime iniziative di
informazione e formazione presso gli insegnanti per introdurre lo studio della stampa scritta, senza
tenere conto però dell’importanza crescente dell’influenza degli altri mezzi di comunicazione di
massa.
Certo è comprensibile che le associazioni dei giornalisti che sostengono queste azioni
pedagogiche abbiano tutto l’interesse ad assicurarsi i futuri lettori. Ed è comprensibile anche che
chi difende una concezione civica dell’educazione ai media, non possa fare a meno dello studio
della stampa scritta intesa come spazio per la difesa della libertà di espressione e della democrazia.
Tuttavia, mi pare sia ravvisabile una sopravvalutazione della scrittura rispetto agli altri tipi di
linguaggio, soprattutto l’immagine e ciò che essa veicola in termini di emozione e di immaginario,
una sopravvalutazione ben conosciuta nella tradizione scolastica che ha fatto sì che, allo stesso
modo, l’informatica venisse introdotta molto più rapidamente di quanto non si sia mai fatto con gli
7“Les
jeunes plébiscitent la presse écrite pour sa fiabilité mais préfèrent regarder la télévision” di Pascal Senti, rubrica
Médias, Le Monde, 5 gennaio 2006.
audiovisivi. Se è vero che la digitalizzazione e il processo di convergenza che essa comporta
confondono le frontiere tra i supporti, è su questo nuovo ambiente mediatico, soprattutto Internet,
che conviene lavorare, compreso l’ambito economico e consumistico8: non certo per essere alla
moda, ma perché è la realtà mediatica delle nuove generazioni.
3. La distinzione/non distinzione tra vecchi e nuovi media
Come già accennato, la distinzione tra “vecchi” e “nuovi” media non è pertinente per le
giovani generazioni nate con la televisione e con Internet. Per quanto riguarda l’educazione ai
media, la situazione attuale in Francia (ma anche in altri paesi, compresa l’Italia credo, malgrado gli
studi di Antonio Calvani9 ) è la seguente: o sotto l’appellativo di NTIC si includono
indifferentemente la radio, il cinema, la televisione e internet; oppure, al contrario, si limita
l’educazione ai media ai soli media “vecchi” (soprattutto stampa e televisione, ovviamente, visto
che si fa educazione ai media in una prospettiva di educazione civica, orientata all’informazione come
trattazione dell’attualità nei giornali di informazione).
Ma a parte il fatto che l’attualità è trattata anche in Internet, questo significa trascurare tutto un
insieme di apprendimenti informali attivati dall’ambiente numerico attuale, apprendimenti che
invece occorre prolungare e strutturare in classe, soprattutto come capacità di trattazione
dell’informazione nel senso in cui la intendono gli insegnanti “documentaristi”. È questo che mi ha
portata personalmente a introdurre la nozione di “vere nuove tecnologie” e a insistere sulle
differenze tra media di massa (anche se le masse sono sempre più frammentate) e tecnologie
informatiche (anche se l’evoluzione andrà assottigliandole); e di conseguenza ad auspicare che gli
insegnamenti integrino nell’educazione ai media quella che i colleghi anglo-sassoni chiamano
“digital literacy” ovvero:
il ruolo specifico della comunicazione digitale rispetto alla comunicazione di massa e alla
comunicazione interpersonale, di cui il recente fenomeno dei blog è un perfetto esempio che
così tanto inquieta i sostenitori della socializzazione attraverso i media;
l’accesso personale illimitato e incontrollato all’informazione con il necessario apprendimento
delle condizioni di un tale accesso, di verifica ma anche di trattazione delle fonti di
informazione;
la moltiplicazione dei percorsi di scoperta nell’informazione o nel sapere, una moltiplicazione
che può portare al totale disorientamento oppure ad una maggiore autonomizzazione
dell’apprendimento;
la possibilità (attraverso la simulazione e l’interattività) di sperimentare, in tempo reale, le
conseguenze delle proprie scelte, e dunque la costante e imperiosa necessità di sapere quello
che si vuole fare, quello che si cerca;
la supremazia del gesto nella relazione con l’immagine-schermo e di conseguenza l’analisi
delle diverse funzioni dell’interattività e, per essere più precisi, la funzione dei diversi “click”
Si veda la ricerca in corso sulla navigazione di siti commerciali da parte dei giovani “Tweens, Media and
Consumption”, B. Tuffte e J. Rasmussen, Center for Marketing Communication, Copenhagen Business School; sul
ruolo dei media nella costruzione dell’identità dei giovani immigrati, si veda Mediated childhoods in multicultural families in
Greece, Ulrike Sjöberg, Halmstad University, Sweden.
8
9
Educazione, comunicazione e nuovi media, UTET Libreria, 2001.
offerti al cybernauta che naviga in un sito o in un ipermedia, come per esempio un
videogioco10.
L’approccio pedagogico non può essere lo stesso in tutti i casi; bisogna diffidare sempre del
semplice trasferimento della metodologia di un medium su un altro, come si è fatto per esempio
per l’analisi della televisione, studiata secondo i principi dell’analisi cinematografica, trascurando la
specificità di questo medium (nozione di flusso, di programmazione, di generi, ecc.)
4. L’isolamento del fenomeno mediatico dal generale contesto del movimento
dell’evoluzione sociale
Tale isolamento ha prodotto nella concezione di educazione ai media un’insufficiente, se non
addirittura una mancata presa di coscienza dei cambiamenti intervenuti nella società aldilà
dell’evoluzione tecnologica. Nel 1997, in occasione di quella manifestazione internazionale di cui vi
parlavo prima, David Buckingham, sulla scia aperta dai cultural studies, sottolineava già – come poi
approfondirà meglio nel suo Media Education11 - «i cambiamenti considerevoli intervenuti
nell’esperienza sociale dei bambini nel corso degli ultimi 20/30 anni (nella famiglia,
nell’educazione, nella comunità e nella cultura dei gruppi dei pari)» e richiedeva un’analisi più
generale della «cultura dei bambini».
Parecchi ricercatori si sono impegnati in questo tipo di analisi.
In Francia, lo psichiatra e psicanalista Serge Tisseron, che ha ricevuto molta (troppa) visibilità
sui media francesi, ha avuto un grande impatto tra gli insegnanti evidenziando questi cambiamenti:
egli parla dei dispositivi interattivi come della «plastilina numerica» delle nuove generazioni e del
ribaltamento dei ruoli all’interno delle famiglie in cui sono spesso i bambini che aiutano i parenti a
inserirsi nella società dell’informazione e della comunicazione; ma ha anche messo l’accento in
diverse opere, ispirate dagli apporti della psicoanalisi12 , sulle dimensioni non esclusivamente
semiologiche e razionali ma anche affettive e fisiche della nostra relazione con le immagini e i
messaggi tecnologizzati.
Dominique Pasquier, una dei pochi sociologi francesi dei media che studiano gli usi mediali dei
giovani, ha contribuito a definire il loro ambiente mediatico – penso soprattutto all’inchiesta
quantitativa Himmelweit 213 - e i diversi significati sociologici e simbolici che questo ambiente
mediatico riveste per le diverse categorie di giovani. Che si tratti del suo studio sulle serie televisive
(come Hélène et le Garçons) nel quale ha dimostrato come esse contribuiscano a una «cultura dei
Esempi di domande possibili sono: quali tipi di “personaggi” sono rappresentati nello schermo attraverso i quali è
possibile agire, quali tipi di “punti di azione” occorrono per fare progredire il racconto o l’intrigo (cursore, marionette
o figurina, avatar, estremità di un’arma o icona di un pugno, o attori…), quali gesti sono richiesti all’utente, su che cosa
e con per quali fini? (trascinamento del mouse per un aggiustamento, click sull’immagine del posto su cui si vuole
collocare l’avatar e la sua maschera; click successivi del mouse che danno accesso in tempo reale, attraverso certi
movimenti della camera, a dei “punti di vista” soggettivi su un ambiente; attivazione di certi tasti della tastiera,
seguendo una certa codifica, per attivare delle azioni brevi, correre, saltare, ritornare… e colpire a ragion veduta o
prolungare un movimento con una pressione continua o le due cose insieme; combinazioni di tocchi di un joystick,
secondo una “grammatica di comandi”, per far muovere e agire un personaggio in un ambiente secondo le esigenze di
una storia, ecc.).
10
Media education, literacy, learning and contemporary culture, UK, USA, Polity Press, 2003: soprattutto nella costruzione
dell’identità, nella percezione del “genere”, nella relazione all’etnia o alla razza, nella percezione della cittadinanza…
11
Soprattutto Psychanalyse de l’image, des premiers traits au virtuel, Paris, Dunod, 1995; Bonheur dans l’image, Paris, Les
Empêcheurs de tourned en rond, 1996 ; La télé en famille, oui ! (Bayard Jeuness, 2004) fumetto rivolto ai ragazzi e il
Manuel à l’usage des parents dont les enfants regardent trop la télévision (Bayard 2004) che può essere utile agli insegnanti.
12
Dal nome della prima ricerca realizzata nel 1958 sull’ambiente mediatico dei giovani, ripresa e condotta quarant’anni
più tardi a livello europeo: si veda J.Jouêt e D. Pasquier, “Les jeunes et la culture de l’écran, Enquête nazionale auprès
des 6-17 ans, Réseaux, n° 92-93, 1999); e Children and their changing media environment, Sonia Livingstone, Erlbaum,
London, New Jersey, giugno 2001.
13
sentimenti»14 ; o più recentemente del suo paziente e ricco studio sociologico e qualitativo sulle
pratiche di comunicazione dei liceali intrecciate con le loro altre pratiche sociali, nel quale si
rimettono in discussione le teorie di Bourdieu sulla riproduzione dei modelli culturali. I dati
raccolti dalla Pasquier sul campo mostrano che «la trasmissione culturale verticale negli ambienti
privilegiati non è assolutamente automatica»; che la scuola «ha perso la sua capacità di agire come
istanza di legittimazione culturale a vantaggio di modalità concorrenti», siano esse i media o il
gruppo dei pari; e che se anche gli insegnanti sono consapevoli di questa trasformazione, essi
incontrano grandi difficoltà a gestire le situazioni che ne derivano: declino del modello dell’uomo
coltivato, fondamento della scuola repubblicana, valorizzazione di una cultura dell’autenticità e
difficoltà di definire un «orizzonte normativo che venga accettato dagli studenti» - la Pasquier fa
l’esempio dell’«obbligo ad imparare delle regole grammaticali e di ortografia, visto più come
un’imposizione di potere ingiustificato».
Più in generale, infine, una nuova corrente sociologica (alla quale appartiene D. Pasquier),
alimentata dai lavori degli anglosassoni, contribuisce all’elaborazione di questo concetto di
«mediaculture»15 che vorrei riprendere qui perché mi sembra in grado di aiutarci a superare le
controversie che ho appena ricordato e più generalmente l’impasse nella quale si trova la scuola
oggi.
Questa corrente si distanzia dall’idea di una norma culturale derivata dagli ambienti sociali
dominanti che si impone ai gusti degli ambienti popolari. Riprendendo la lezione dei cultural studies,
come pure la necessità di riconoscere una tendenza all’autonomizzazione delle pratiche popolari e
minoritarie, questi sociologi adottano una posizione più micropolitica nei confronti del gioco delle
rappresentazioni “nei” e “fuori” dai media con le identità degli individui: «è nell’intersezione tra le
reti locali (i gruppi dei pari) e i sistemi culturali proposti dai media che si deve oggi osservare
l’opera di socializzazione della cultura e capire così l’elaborazione delle gerarchie di legittimità»,
scrive Dominique Pasquier (2005: 115). Così, all’interno di uno spazio pubblico dai contorni
sempre più fluidi, «i media cessano di essere delle industrie più o meno alienanti per diventare delle
vere mediaculture»16, ovvero dei luoghi in cui si incontrano mondi più o meno segnati dalla difesa
e dall’abbandono delle identità». Nei gusti e nelle pratiche culturali si è passati in qualche modo
dall’«esclusione all’eclettismo»17 o dalla «segregazione delle differenze alla loro coesistenza o
addizione»18. Il predominio di classe non è abolito ma si distribuisce in altri modi, soprattutto
attraverso reti (il gruppo dei pari, la comunità, ecc.) costruite secondo un modello «delle affinità»
prodotto nelle interazioni quotidiane (come la conversazione tra donne circa questo o quel talk
show o soap opera), o anche un modello «cooperativo» (come il fenomeno del fandom) o infine un
modello «conformista» (come la tirannia della marca e della pressione collettiva).
Cosa può significare tutto questo per noi?
Prima di tutto delle cose molto concrete: non bisogna mai classificare a priori le trasmissioni televisive
in “buone” o “cattive” – ARTE contro TF1 – e non bisogna mai lasciare fuori dalla scuola tutto
ciò che costituisce il nostro pane mediatico quotidiano (cfr. il grande dibattito in Francia circa il
fenomeno del Grande Fratello e il numero speciale che vi ha dedicato Médiamorphoses); non bisogna
mai limitarsi alle grandi opere del repertorio cinematografico ma osare lavorare anche sulla
produzione corrente, sulle sue ragioni di essere, le sue manifestazioni; non bisogna ridurre la
stampa scritta allo studio dei quotidiani quando sappiamo bene che i giovani preferiscono certa
14
La culture des sentiments, l’expérience télévisuelle des adolescents, Ed. Maison des Sciences de l’Homme, Paris 1999 .
Si vedano soprattutto due opere, una di D. Pasquier, Cultures lycéennes, la tirannie de la majorité, Ed. Autrement, 2005 e
l’altra di Eric Maigret ed Eric Macé, Penser les médiacultures, nouvelles pratiques e nouvelles approches de la représentation du monde,
INA/A. Collin, 2005.
15
David Buckingham le definisce come «le culture quotidiane dell’uso dei media, il dialogo e la costruzione di
significato che circonda i media», op.cit. 2003:190.
16
17
Les Français façe à la culture, de l’exclusion à l’éclectisme, La Découverte, O.Donnat, 1994.
18
Eric Maigret, op. cit.
stampa specializzata – penso alle riviste dedicate ai videogiochi delle quali si è dimostrato
l’importante ruolo nella socializzazione dei giovani 19.
Poi delle cose più generali: non bisogna dimenticare che insegnare ai media e con i media sono
attività complementari e che non si deve mai dissociare un contenuto dalla sua messa in forma; che
l’educazione ai media non può ridursi a un solo medium ma deve prendere in considerazione
l’intero ambiente mediatico dei giovani, e però non soltanto i media che loro frequentano più
volentieri, anche se questi sono senza dubbio il migliore punto di inizio; non bisogna nemmeno
isolare le pratiche di educazione ai media dalle altre pratiche sociali e culturali.
Ma aldilà di tutte queste raccomandazioni, occorre soprattutto ripensare l’educazione ai media
– sarei tentata di dire l’educazione tout court – cominciando a prendere sul serio le mediaculture
dei giovani, altrimenti si corre il rischio di una grande “disgiunzione”, persino nell’educazione ai
media, tra la generazione degli insegnanti e quella degli studenti.
Intendiamoci: tutto questo non per sostituire la produzione culturale tradizionale con una
nuova produzione, o per praticare la politica del relativismo culturale, ma per realizzare veramente
uno slogan pedagogico ripetuto all’infinito da anni: “mettere lo studente al centro del suo processo
di apprendimento». O per dirlo ancora più teoricamente, traendo ispirazione dalle teorie invocate
oggi come modello di apprendimento, ovvero la teoria vygotiskiana della «zona prossimale dello
sviluppo»20, per stabilire un ponte tra le loro pratiche mediatiche correnti e il senso che queste
assumono ai loro occhi, per introdurre progressivamente un atteggiamento riflessivo sulle proprie
pratiche, per analizzare i media che amano e che frequentano assiduamente come processo
economico, sociale e culturale e non soltanto come prodotto di una tecnica professionale o
semiotica (come si legge la pagina di un giornale, o come si categorizzano i diversi piani
cinematografici, come si denota e connota un’immagine, o come si naviga in Internet grazie al
miracolo dei “click”… ecc.)
Un educatore del XXI secolo21 deve saper padroneggiare e utilizzare la comunicazione nelle
sue diverse forme, deve saperne fare al tempo stesso una risorsa e un obiettivo di apprendimento
per l’educazione. I media sono partner cognitivi e agenti di socializzazione; è urgente riconoscere
che la cultura non è più quella che era un tempo, esiste piuttosto una “mediacultura” di cui la
scuola deve tenere conto. È questo che permetterà di passare da un «nuovo relativo» - introdurre i
media o le nuove tecnologie a scuola – a una vera innovazione fondata sul desiderio di costruire
un’altra società e dunque un’altra scuola. Una scuola dove si impara, come sempre, qualcosa che
non si può apprendere altrove, ma a partire da ciò che si sa, si vede, si sente e tenuto conto delle
modalità di comunicazione del momento.
Non ho particolari ricette da dare, perché non credo alle ricette in pedagogia. Sta agli
insegnanti, come me, come voi, «inventori dell’avvenire», come li ha definiti un collega di scienze
dell’educazione, trovare i modi adatti alla loro pedagogia e ai loro studenti. A una condizione però
non da poco: appoggiarsi al lavoro dei ricercatori, sia nel campo dell’educazione che in quello della
comunicazione, e in particolare in quello nuovo e interessante della ricerca sui media, al fine di non
riprodurre, in un settore così innovativo quale è l’educazione ai media, modelli di azione e di analisi
già sorpassati. È in ogni caso questo l’obiettivo che ci siamo dati con la rivista Médiamorphoses, di
cui sono redattore-capo, rivista di alta divulgazione di cui raccomando la lettura.
E per dimostrare che si tratta ancora una volta di un’evoluzione e non di una rivoluzione,
riprenderei volentieri la definizione di educazione ai media data nel 1991 da Ferguson: «La media
«La presse vidéoludique», J. Noyer, Médiamorphoses, n°3, avril 2001 et Construction sociale de l’univers des jeux vidéo ss dir
de E. Fichez e J.Noyer, Universitè de Lille 3, 2001.
19
20
Questa zona definisce lo spazio di apprendimento potenziale più vicino a un individuo, ovvero gli apprendimenti
che egli può raggiungere in un futuro prossimo tenuto conto delle sue conoscenze di partenza ma anche delle
competenze e dei saperi da acquisire.
“Qu’est-ce qu’un éducommunicateur? La formation à la communication des enseignants”, relazione presentata in
occasione del primo Congresso Mondiale Education et communication a San Paolo del Brasile nel maggio 1998 e ripresa
su IN-Novation, rivista sull’innovazione pedagogica, “Diversifier les pratiques de l’image”, Académie de Paris, n° 4,
inverno 2004, p. 9-15.
21
education è l’incessante analisi del modo in cui noi interpretiamo il mondo e del modo in cui altri interpretano il
mondo per noi»22. È una definizione che ha il vantaggio di conciliare le due grandi concezioni che
attraversano le pratiche e i discorsi sull’educazione ai media, una più pedagogica e linguistica, l’altra
più politica e civile. Questa è ciò che io chiamo vera democrazia, cognitiva e insieme politica, e non, come
si dice e ripete troppo spesso, semplicemente un “mettere le tecnologie nelle mani degli studenti».
Anche perché il problema attuale è che il cammino è sempre più tortuoso, tenuto conto
dell’eterogeneità dei pubblici da secolarizzare, della frattura generazionale, della globalizzazione
galoppante, delle legittime rivendicazioni delle minoranze… e dell’Europa da costruire. Ma siamo
insieme a percorrere questo cammino, e questo mi rende ancora ottimista.
“What is Media Education for?” in Prinsloo/Criticos (eds.) Media Matters in South Africa, Media Resource Centre,
Duban, 1991:19-24.
22