Edipo da Roncoroni - Liceo Classico Dettori
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Edipo da Roncoroni - Liceo Classico Dettori
IL MITO DI EDIPO Il mito tebano e le riprese letterrie Ridotto all'osso, il mito di Edipo racconta la vicenda di un uomo che scopre di avere inconsapevolmente commesso crimini nefandi, l'assassinio del padre e le nozze con la madre. Sugli sviluppi di cui poteva essere suscettibile questo nodo e su quelli a esso correlati (l'impurità e la contaminazione connesse con i crimini, la punizione, l'espulsione del colpevole ecc.) vertono le riprese letterarie della vicenda di Edipo, a partire dai poemi ciclici dedicati al mito detto tebano dal fatto che Edipo era re di Tebe e che tutto il mito ruotava intorno a questa città. Il mito è noto a Omero, che non parla però dell'autoaccecamento di Edipo né del suo esilio da Tebe; a Esiodo, che vi accenna sia nella Teogonia sia negli Erga; a Pindaro, che include tra le conseguenze del parricidio anche la strage reciproca dei figli di Edipo e l'estinzione della stirpe (Olimpica 2, 38-42). La portata tragica del mito si esplica per la prima volta in Eschilo, che nel 467 a.C. gli dedicò la tetralogia composta da Laio, Edipo, Sette contro Tebe e dal dramma satiresco La Sfinge. Anche se i Sette contro Tebe sono l'unica tragedia pervenuta, risulta chiaro che l'impianto stesso della trilogia legata, coinvolgendo l'intera famiglia dei Labdàcidi per tre generazioni (Laio, suo figlio Edipo, i figli di questo Eteocle e Polinice), faceva cadere l'accento sulla catena delle colpe e sul binomio colpa-punizione: Parlo di un 'antica colpa, presto punita ma fino alla terza generazione rimane - quando Laio infranse il divieto di Apollo che per tre volte aveva detto dall'oracolo pitico, ombelico della terra, che se moriva senza prole avrebbe salvato la città. Molte altre tragedie ebbero per argomento il mito di Edipo: di esse ci sono giunte, oltre alle tre di Sofocle, le Fenicie di Euripide, risalenti agli anni tra il 411 e il 409 a.C, che trattano lo stesso argomento dei Sette contro Tebe, insistendo però sulla guerra fratricida tra i figli di Edipo, Eteocle e Polinice, particolarmente attuale durante la guerra del Peloponneso e subito dopo la catastrofe della spedizione in Sicilia. Il mito tebano secondo Sofocle L’antefatto delle tragedie sofoclee Secondo la versione del mito accolta da Sofocle, Edipo era figlio di Laio, re di Tebe, e di Giocasta. Avvertito da Apollo che sarebbe stato ucciso da suo figlio, Laio affidò Edipo neonato a un servo perché lo esponesse sul monte Citerone, dopo che gli erano stati legati e trapassati i piedi con un chiodo o con un laccio. Ma il servo lo diede a un pastore corinzio, che lo portò al suo re Polibo e alla moglie Merope, lieti di crescerlo perché privi di figli. Edipo vive dunque a Corinto finché, durante un banchetto, un commensale ubriaco lo deride come figlio bastardo di Polibo; Edipo va a Delfi per interrogare l'oracolo circa le sue origini, ma, invece di ottenere la risposta desiderata, si sente predire che ucciderà il padre e sposerà la madre. Preso da orrore di fronte alla rivelazione, Edipo decide di non fare più ritorno a Corinto e si avvia in direzione di Tebe, ma a un crocicchio uccide uno sconosciuto dopo un alterco. Ignorando di avere assassinato il padre Laio, Edipo giunge a Tebe, che era allora afflitta dalla Sfinge, un mostro che proponeva un enigma a ogni passante e lo uccideva se non aveva saputo risolverlo: Edipo risolve l'enigma e ottiene in cambio il regno sulla città e la mano della regina vedova Giocasta, dalla quale ha due figli, Eteocle e Polinice, e due figlie, Antigone e Ismene. L’azione dell’Edipo re L'azione dell'Edipo re (O„d…pouj tÚrannoj) ha inizio quando in Tebe scoppia una pestilenza, che l'oracolo di Delfi attribuisce alla contaminazione della città da parte dell'assassino di Laio. Il re Edipo dà subito inizio alla ricerca del colpevole interrogando l'indovino Tiresia il quale, dapprima reticente, ben presto gli rivela la mostruosa realtà: proprio Edipo è il responsabile della pestilenza. Edipo pensa a un complotto ordito da Creonte per spodestarlo, ma quando la sposa Giocasta gli rivela i particolari dell'uccisione di Laio in lui si insinua il tarlo del dubbio. Nella scena detta della 'doppia confidenza' Giocasta rivela l'oracolo reso a Laio da Apollo e l'esposizio ne del neonato; Edipo racconta il suo passato a Corinto, poi il viaggio a Delfi, la decisione di non tornare a Corinto, l'incontro nel trivio e l'uccisione di un uomo che poteva essere Laio. La testimonianza congiunta di un messaggero giunto da Corinto con la notizia della morte di Polibo, che Edipo credeva suo padre, e del pastore che avrebbe dovuto abbandonarlo neonato sul Citerone - che è poi lo stesso servo scampato all'eccidio del trivio - lo conducono per gradi alla terribile verità: è lui il figlio e l'assassino di Laio, e quindi anche il marito incestuoso della madre, la quale per disperazione si impicca, mentre Edipo si acceca. L’Edipo a Colono Nell'Edipo a Colono (O„d…pouj ™pˆ KolènJ) il vecchio re, che si era allontanato da Tebe per non contaminarla con la sua colpa ed era andato ramingo di città in città, giunge accompagnato dalla figlia Antigone nel demo attico di Colono, alle porte di Atene. Gli abitanti della città, in un primo tempo, vogliono scacciarlo per paura della contaminazione, poi, impietositi dal racconto della sua vicenda, si rivolgono al loro re Teseo. Giunge nel frattempo da Tebe Ismene, sorella di Antigone e figlia di Edipo. La ragazza comunica al padre il pericoloso litigio per il possesso del regno che oppone i due fratelli Eteocle e Polinice e gli rende noto il responso dell'oracolo, in base al quale la città che avesse offerto la sepoltura a Edipo sarebbe stata inviolabile. Arriva in seguito Teseo, che concede ospitalità e protezione al vecchio, il quale deve comunque affrontare sia Creonte sia il figlio Polinice, giunti entrambi con il fine di ricondurlo in patria per godere della protezione connessa con la sua persona. Per intercessione delle sorelle e di Teseo stesso, Polinice ottiene un colloquio con il padre, che si conclude in modo funesto con la predizione da parte di Edipo della morte dei due fratelli. Quando sulla scena si ode un tuono, Edipo si avvia, seguito da Teseo, verso il bosco sacro alle Eumenidi. Dopo aver svelato al re i segreti necessari a garantire la buona sorte di Atene, Edipo prodigiosamente scompare. L’Antigone e la conclusione del ciclo Edipo a Colono si conclude con la partenza di Antigone e di Ismene alla volta di Tebe, nel vano tentativo di scongiurare la guerra fratricida dei sette contro Tebe, in cui Eteocle e Polinice si daranno reciprocamente la morte. Nell'Antigone la protagonista seppellisce il cadavere del fratello Polinice disobbedendo a un decreto di Creonte, che gli aveva negato la sepoltura in quanto traditore, colpevole di avere suscitato la spedizione dei sette eroi argivi. Scoperta, Antigone si appella alle leggi divine che impongono la pietà verso i parenti, ma non riesce a persuadere Creonte, accecato dalla ragion di stato, che la condanna a morte. Ma la morte di Antigone segna anche la rovina di Creonte, il cui figlio Emone, innamorato della giovane, si suicida sul cadavere di lei, al pari della moglie di Creonte, Euridice. Con la morte di Antigone si estingue la stirpe maledetta dei Labdàcidi e con essa si chiude il ciclo tebano. Le varianti sofoclee e il loro significato La fine di Edipo L'esilio di Edipo e il suo approdo nella pace di Colono hanno tutta l'aria di essere varianti sofoclee del mito di Edipo, sconosciute anche all'Antigone, forse pure alle Fenicie di Euripide, di qualche anno precedenti, se il passo in cui se ne parla (w. 1705-1707) deve essere ritenuto interpolato. Del resto, nell'Edipo re non si fa parola di questo supplemento di azione: la tragedia di Edipo appare conclusa e il protagonista destinato a finire i suoi giorni entro le mura di Tebe. Sofocle deve avere tratto spunto da una tradizione attica, a noi nota attraverso Pausania (I 30, 4), che appunto poneva a Colono l'arrivo di Edipo in Atene e situava la sua tomba nel recinto sacro delle Eumenidi, presso l'Areopago (Pausania I 28, 7). Nativo di Colono, il poeta si deve essere appassionato a inventare una nuova fine per il suo eroe, e a questo tema ha dedicato l'ultima tragedia. In questo modo egli compiva un'operazione compatibile con gli statuti del mito e perfettamente in linea con la visuale atenocentrica dell'età classica, già sperimentata con successo da Eschilo quando nell'Orestea aveva sottoposto la vicenda di Oreste al tribunale ateniese dell'Areopago. Se dunque l'azione dell'Edipo a Colono rappresenta l'appendice genuinamente sofoclea del mito di Edipo, vuol dire che proprio in essa dobbiamo cercare la chiave interpretativa di questa vicenda davvero sconvolgente - grazie soprattutto all'eccezionale livello artistico conseguito dall'Edipo re - ma per nulla perspicua. Un sublime paradosso Anche se la tragedia attica non perseguiva scoperte finalità etico-didattiche, è certo che essa non era regolata dal criterio dell'arte per l'arte. Lo spettatore doveva uscire dal teatro portando con sé un messaggio o, meglio, realizzando una disposizione d'animo alla quale Aristotele diede il nome di «catarsi». Da questo punto di vista il messaggio di fondo dell'Edipo re può essere indicato nel raffronto tra la miseria dell'uomo e l'onnipotenza del dio. Dalla rappresentazione lo spettatore ricavava il senso della precarietà, dell'instabilità di un destino che vede un giovane e felice rampollo regale scoprire dapprima di non essere figlio del padre presunto, poi di avere ucciso il proprio vero padre e di avere sposato la propria madre: crimini orrendi, nei quali il parricidio e l'incesto sono segno di una maledizione che grava pesantemente su una cultura che ha vivo il senso della stirpe. Nell'Edipo a Colono, invece, avvertiamo che la tragedia di Edipo si snoda sul filo di un sublime paradosso: l'uomo maledetto, dimenticato, rifiutato, il capro espiatorio insomma, è nello stesso tempo un eletto, chiamato in punto di morte dal dio stesso perché entri nell'Aldilà e dalla sua tomba eserciti una benefica protezione sulla terra che lo ha accolto. Accettando il volere divino senza pretendere spiegazioni né ottenere risarcimenti, Edipo alla fine di tutto si redime. La religione greca non possiede una teodicea, cioè l'idea di una giustizia divina che commisuri a meriti e colpe terrene premi e punizioni oltremondane; è certo, d'altra parte, che in Sofocle Edipo non muore solo né dimenticato come nelle altre versioni del mito. La variante sofoclea si caratterizza per questa estrema salvazione del protagonista proprio nel momento in cui la morte lo libera dalla sofferenza. Sembra che, nella chiamata di Edipo da parte del dio, il vecchio poeta novantenne abbia voluto celebrare l'incognita della morte, officiando una sorta di mistero religioso. L’ESPERIENZA DEL DOLORE La cognizione della precarietà Esperienza del dolore e autocoscienza L'Edipo re inscena una vicenda sconvolgente e coinvolgente per lo spettatore dell'epoca come per il lettore di oggi. In essa si commettono crimini nefandi - l'uccisione del padre e le nozze con la madre - eppure lo sviluppo dell'azione non presenta alcunché di paradossale, anzi si snoda con naturalezza, proprio come se le disavventure di Edipo potessero capitare a chiunque. Proprio in questo sta il vigore coinvolgente del mito edipico, nel fatto che nessuno possa dichiararsi immune per principio da orrori inconsapevolmente commessi. La possibilità di passare dai vertici del successo alla miseria dell'abiezione è quel minimo di autocoscienza che lo spettatore poteva ricavare dalla scena tragica, un invito a conoscere se stessi la cui attualità non ha mai subito flessioni nel tempo. Ascesa e caduta di un eroe La vicenda terrena di Edipo non ha visto solo orrori, ma ha al suo attivo anche momenti di gloria e, possiamo pure dire, di felicità. L'infanzia e la giovinezza trascorse a Corinto come rampollo regale, la risposta all'enigma e il trionfo sulla Sfinge, l'acquisto del regno di Tebe, le nozze, la paternità di quattro figli, la fiducia di cui Edipo gode da parte dei sudditi sono altrettanti momenti positivi. Ma a essi subentrano di volta in volta amarezze e delusioni. Basta l'intemperanza di un commensale ubriaco, che accusa Edipo di essere figlio bastardo del re di Corinto, per innescare in lui la ricerca di una verità che, con il relativo viaggio alla volta di Delfi per interrogare l'oracolo, predispone lo scenario spaventoso degli eventi che seguiranno. La scoperta della realtà rovescia per la seconda volta la nuova felicità di quest'uomo che, dopo avere perduto la regalità di Corinto, l'aveva riacquistata su Tebe non per diritto ereditario ma per meriti propri. La pestilenza che affligge la città di Tebe rappresenta per Edipo la fine di ogni fortuna: oltre alla scoperta del parricidio e dell'incesto lo attendono l'accecamento e l'esilio dalla città, la vita raminga, la discordia dei figli, che si perpetua anche dopo la sua morte. Due vasi nella casa di Zeus (Iliade XXIV, vv. 525-33) Di fronte a questi giochi del destino viene naturale concludere con il verso finale delle Trachinie: «nulla in tutto ciò che non sia Zeus» (v. 1278). Questa è infatti la seconda importantissima implicazione della vicenda edipica: che qualcuno regga le fila di eventi che sfuggono al controllo dell'uomo. Questa potenza dai piani imperscrutabili è Zeus, e non solo per Sofocle, ma per tutta la religione greca: Così gli dèi hanno stabilito per i miseri mortali, che vivano nel dolore, mentre essi sono senza affanno. Due vasi vi sono nella casa di Zeus, con i doni che egli dà: uno dei mali e l'altro dei beni. A chi Zeus fulminante ne dà, dopo averli mischiati, incontra a volte un male, altre volte un bene; ma se uno riceve solo dolori lo rende un miserabile, e fame maligna lo spinge per la terra divina, e va errando disprezzato dagli dèi e dagli uomini. Già questi versi di Omero forniscono una chiave per interpretare la vicenda di Edipo. Il pittoresco racconto popolare dei due vasi piantati nella dimora di Zeus serve a spiegare l'origine del bene e del male nella vita dell'uomo. Achille lo riferisce nel narrare storie di re come Pèleo e Priamo, toccati dalla buona sorte e anche da qualche sventura, ma il concetto già doveva essere di dominio comune e si addice anche a Edipo e alla sua vicenda, ben nota a Omero. Dunque fortuna e mala sorte provengono dagli dèi, onnipresenti e mutevoli, dai quali non c'è da aspettarsi perdono, ma sofferenza per le colpe commesse e la furia vendicatrice delle Erinni. Tanto più che i due vasi piantati nella casa di Zeus diventano, nel racconto esiodeo del mito di Pandòra (Erga 53-105), un solo vaso, colmo di mali che si diffondono sulla terra, cosicché da quel momento infiniti dolori si aggirano tra gli uomini e piena di mali è la terra, pieno ne è il mare: e malattie tra gli uomini di giorno, altre di notte da sole si aggirano, portando mali ai mortali. La percezione della precarietà nella lirica La convinzione della miseria e della precarietà si era radicata tanto più profondamente quanto più la riflessione della lirica poneva l'uomo greco di fronte alla propria natura mortale. Innumerevoli testi denunciano la debolezza della condizione umana soggetta a tÚche a mo‹ra:, come il fr. 16 West di Archiloco, che dice: «Ogni cosa la danno all'uomo, o Pericle, Fortuna e Destino». Onnipotenti sono invece gli dèi: Agli dèi attribuisci ogni cosa. Molte volte dai mali risollevano uomini prostrati sulla nera terra, molte volte rovesciano nella polvere chi sta ben saldo. A quelli allora molti mali capitano e per necessità ognuno vaga, fuori di senno. Consapevole di questa situazione l'uomo deve mantenere un austero equilibrio, equidistante da eccessi di gioia come da sconforto, rassegnato alla condizione umana. Parla ancora Archiloco nella celebre allocuzione al cuore: Cuore, o mio cuore, da mali irrimediabili afflitto, sollevati, resisti ai nemici opponendo a loro il petto e affrontando le insidie di chi ti è ostile saldamente; se vinci non vantarti apertamente, se sei vinto non abbatterti prostrato in casa tua. Ma gioisci delle gioie e dei dolori soffri, ma non troppo: riconosci quale ritmo governa gli uomini. La sofferenza incolpevole Il rapporto tra etica e tragedia Non è facile resistere alla tentazione di leggere la fine di Edipo come vendetta degli dèi, invidiosi della sua felicità, o come punizione di una colpa: non gravano forse sul tÚrannoj di Tebe due orrendi delitti come il parricidio e l'incesto? E questa non è forse la chiave di lettura autentica di altri miti come, per esempio, quello degli Atridi, nel quale si snoda una interminabile catena di colpe, con relative punizioni, a partire dal progenitore Tantalo? La risposta non è così semplice, prima di tutto perché etica e tragedia sono realtà distinte. Se il dolore presente nella tragedia greca fosse da intendere come espiazione di una colpa, questo genere letterario avrebbe rivestito il valore morale di un'esortazione a non trasgredire le norme etico-religiose. Questa connessione è presente solo in qualche tragedia di Eschilo come i Persiani o le Supplici, nelle quali la Ûbrij rispettivamente del re persiano Serse e dei cinquanta figli di Egitto è denunciata alla riprovazione e punita. Ma che l'obiettivo della tragedia fosse quello di prospettare la giusta punizione della colpa è escluso dalla generalità della produzione tragica e dal ruolo che in essa ricopre la sofferenza incolpevole: la sofferenza di Aiace nell'omonima tragedia, per esempio, esclude una colpa tale da motivare l'azione. L’innocenza soggettiva di Edipo Che dire, dunque, della sofferenza di Edipo, che non era neppure consapevole del parricidio e dell'incesto compiuti? Nell'Edipo a Colono, che riveste un'insostituibile importanza ermeneutica presentando l'autodifesa del protagonista, Edipo dice apertamente che le sue azioni le ha subite piuttosto che compiute (vv. 266-267). Poi, con un sorprendente argomento a fortiori, aggiunge che, anche se avesse agito consapevolmente, neppure in tale caso sarebbe stato malvagio (w. 271-272). Naturalmente il secondo argomento, che nel contesto ha la funzione di persuadere il coro degli anziani di Colono a concedergli accoglienza, non esclude il primo. Edipo afferma prima di tutto la propria innocenza: è stato vittima prima che attore dei suoi crimini, perché non sapeva quello che stava facendo e, d'altra parte, non si può avere responsabilità di ciò che si ignora. Ma secondo la morale corrente enunciata dal coro stesso («il destino non punisce la vendetta di un'offesa subita prima», vv. 229-230) egli non sarebbe stato colpevole neppure se avesse agito consapevolmente, tanto era il male che aveva subito dai suoi genitori subito dopo essere venuto al mondo. Nel seguito della tragedia (vv. 962-99), durante un'accesa discussione con Creonte, Edipo adduce altri argomenti a propria discolpa: Contro di me hai fatto uscire dalla tua bocca accuse di uccisioni e di nozze e di sventure che io, disgraziato, ho subito senza volerle. Agli dèi piaceva così, forse da tempo adirati in qualcosa con la mia stirpe. Perché non potresti trovare nessuna macchia di errore per quanto riguarda me stesso, per la quale io dovessi commettere questi errori verso di me e verso i miei. Spiegami dunque, se una qualche voce divina giunse negli oracoli a mio padre, secondo la quale doveva morire per mano dei figli, come potresti giustamente rinfacciarmi questo, dal momento che non ero ancora nato, anzi non ero ancora stato concepito da mio padre e da mia madre? Se poi, nato sventurato come io nacqui, venni alle mani con il padre e lo uccisi senza nulla sapere di ciò che facevo e a chi lo facevo, come potresti biasimarmi a ragione per un atto involontario? E non ti vergogni di costringermi a parlare delle nozze di mia madre, che era tua sorella? Ora ne parlerò: infatti non posso tacere dal momento che proprio tu ti sei spinto in questo empio discorso. Mi partoriva, sì, mi partoriva - oh, sventura! - me ignaro lei ignara e dopo avermi partorito per sua infamia mi generò dei figli. [...]Io senza volerlo la sposai [...] ma non certo per queste nozze sarò ritenuto colpevole né per quella uccisione del padre che sempre tu mi rinfacci rimproverandomi amaramente. Una cosa sola rispondimi di quelle che ti chiedo. Se qualcuno qui in questo momento ti si avvicinasse e tentasse di ucciderti, uomo giusto come sei, tu ti informeresti se chi ti uccide è tuo padre o subito lo puniresti? Io credo che, se hai cara la vita, uccideresti il colpevole e non avresti riguardo per la giustizia. In tali mali, dunque, anch'io sono precipitato, spinto dagli dèi, e credo che neppure l'anima di mio padre, se vivesse, potrebbe contraddirmi in questo. Libera scelta e responsabilità Probabilmente l'innocenza di Edipo sarebbe stata riconosciuta in sede giudiziaria. Il tribunale criminale di Atene competente a giudicare, il Delfinio, avrebbe attribuito l'assassinio di Laio a legittima difesa (fÒnoj d…kaioj). Ma questo è poco rilevante. Ciò che conta di più, invece, è che Edipo fosse innocente dal punto di vista morale. Nel trattare la responsabilità dell'ingiustizia nell'Etica nicomachea, Aristotele definisce volontari solo gli atti che uno compie consapevolmente, cioè non ignorando chi ne è l'oggetto né il mezzo né il fine (1135a 24-26). E aggiunge, verosimilmente pensando a Edipo, «può succedere che l'uomo colpito sia suo padre, e che egli sappia sì che è un uo mo e un uomo di quelli che gli stanno attorno, ma non sappia che è suo padre» (ibid. 28-30). Ma a questo punto si apre un nuovo problema. La teoria aristotelica presuppone che le azioni volontarie siano imputabili a chi le compie in quanto frutto di libera scelta. Ma l'azione di Edipo è frutto di libera scelta? Su questo non c'è unanimità tra gli studiosi e le posizioni vanno da quella di Bruno Snell, secondo il quale nella tragedia l'agire umano si fonda su una decisione consapevole, a quella di Jean-Pierre Vernant, secondo il quale la cultura della tragedia non possiede ancora le categorie della libera volontà e della responsabilità del soggetto agente. Edipo infatti attribuisce i propri mali a un «demone crudele» (Edipo re 828-829), cioè a una potenza soprannaturale che dirige la sua vita. In realtà il problema non ha soluzione soprattutto perché è mal posto: la 'colpa' di Edipo è infatti un problema di poetica prima che di etica, e l'eroe tragico si dibatte tra libertà e costrizione. Egli sembra libero di operare in piena autonomia, eppure è condizionato da forze oscure che ostacolano la sua autodeterminazione o, ancora peggio, che lo inducono a prendere una decisione nella quale è già implicita la sua stessa rovina. Ma proprio questo è il presupposto del tragico e l'eroe della tragedia è colui che con coraggio e consapevolezza af- fronta la situazione di dolore e sofferenza in cui inconsapevolmente si è venuto a trovare: la situazione tragica non ha nulla a che vedere né con il caso giudiziario né con il quesito di morale. Colpa e contaminazione C'è ancora da aggiungere che l'innocenza soggettiva, giudiziaria, morale di Edipo può escludere la colpa, ma non esclude la contaminazione, il m…asma di cui egli diviene portatore per aver commesso i crimini, seppure involontari. Il vecchio se ne ricorda quando nell’Edipo a Colono (vv. 1130-1138), in un sincero moto di riconoscenza, vorrebbe abbracciare Teseo che gli ha restituito le fìglie rapite da Creonte, ma subito si controlla: il suo corpo è contaminato, soggetto a un'impurità che si trasmetterebbe anche al semplice contatto. Agisce qui la concezione fisiologica della colpa, che può contaminare altri soggetti o addirittura trasmettersi all'intera città, come nel quadro della peste all'inizio dell’Edipo re. In Sofocle la natura del tragico sta appunto neh"ammettere che su un uomo possa gravare una maledizione che comporta sofferenza fìsica e morale, anche senza che sia stata commessa una colpa. La dinamica eschilea di colpa e punizione - per altro già incrinata nell'atto di Oreste che uccide sì la madre, ma per eseguire un ordine di Apollo - è qui decisamente superata, per non dire rovesciata: Edipo sembrava abbandonato dagli dèi e invece gode del loro favore al punto da essere chiamato nel regno dell'eternità, lasciandosi dietro un'eredità di bene per il paese che ospita le sue spoglie mortali. La catarsi tragica Il divario tra malvagità ed errore Il rapporto tra etica e dimensione tragica è escluso da Aristotele, che nella Poetica addita la materia tipica della tragedia nel comportamento di un uomo che, «non distinguendosi per virtù e per giustizia, non è volto in disgrazia per vizio e malvagità, ma per un errore (m»te di¦ kak…an kaˆ mocqhr…an. . . ¢ll¦ di’ ¡mart…an tin£), tra coloro che si trovano in grande fama e fortuna, come per esempio Tieste, Edipo e gli uomini illustri provenienti da siffatte stirpi» (1453a 8-12; trad. di D. Lanza, BUR, Milano 1998). Terrore e pietà Perché, dunque, il personaggio tragico per eccellenza è colui che è vittima di un errore? Proprio perché la tragedia non è un procedimento giudiziario nel quale siano da dibattere comportamenti colpevoli di cui accertare le responsabilità. La responsabilità nel commettere una colpa avrebbe ipso facto dissipato l'atmosfera tragica assimilandola a un procedimento legale. Aristotele stesso, infatti, commisura i possibili casi da tragedia al fine del genere tragico stesso, che è quello di destare «terrore» fÒboj e «pietà» œleoj (Poetica 1452b 33-1453a 5). In questa prospettiva egli stabilisce che «non devono essere mostrati gli uomini degni di stima che volgano dalla buona sorte alla sventura, perché questo non è né pauroso né pietoso, ma ripugnante; neppure i malvagi dalla sventura alla buona fortuna, perché questo è il massimo di estraneità alla tragedia, in quanto non presenta nulla di cui c'è bisogno: non è né conforme al senso morale, né pietoso, né pauroso; neppure, per contro, il perfetto malvagio che cade dalla buona sorte nella disgrazia, perché una composizione siffatta comporterebbe sì senso morale, ma non pietà né paura: la prima è infatti relativa a colui che è indegnamente tribolato, la seconda relativa a chi ci è simile». FÒboj e œleoj, sono dunque la pietra di paragone per saggiare la presenza del tragico, ben distinti da ciò che Aristotele chiama fil£nqrwpon, termine tradotto da Lanza come «conforme al senso morale». Evidentemente per Aristotele non c'è compatibilità tra morale e tragedia: infatti un evento conforme al senso morale - per esempio un malvagio che cade in disgrazia - non crea tragedia, in quanto non suscita né pietà (che si prova verso qualcuno che non merita il male che gli tocca) né paura (che si prova quando si teme di fare la stessa fine di un uomo con cui ci si può identificare, non del malvagio da cui ci si dissocia). C'è invece pietà quando cade in disgrazia chi non lo merita, provocando paura in chi si sente simile a questo disgraziato e immeritevole di fare la sua stessa fine. L’errore di Edipo È dunque inutile cercare nel destino di Edipo, addotto da Aristotele come perfetto esempio di tragicità, una colpa da espiare, che avrebbe comportato una morale da ristabilire ma non avrebbe creato alcun effetto tragico. La sua colpa è invece conseguenza di ¡mart…a, di un errore inconsapevole del quale non gli può essere attribuita responsabilità. A questo «errore» chiunque può andare soggetto, indipendentemente da meriti e demeriti, perché il comportamento più cauto non vale a preservare dagli scherzi del destino. Da questo punto di vista nessuna vicenda meglio di quella di Edipo poteva incutere pietà e terrore perché ciascuno spettatore poteva immedesimarsi con lui, ciascuno poteva immaginare se stesso vittima del medesimo destino. L'accento doveva cadere non tanto sullo specifico degli errori di Edipo, parricidio e incesto, quanto sulla dinamica della sua caduta, cioè sul rischio insito nella condizione umana stessa, così soggetta ai mutamenti imprevedibili della fortuna. La purificazione dell’impurità L'esemplarità della figura di Edipo è congruente anche con il concetto aristotelico di catarsi, cioè con l'obiettivo della rappresentazione tragica. Secondo la definizione aristotelica, infatti, la tragedia è «imitazione di un'azione seria e compiuta [...], la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione (k£qarsin) di siffatte emozioni» (ibid. 1449b 24-28). A questo proposito si possono fare due osservazioni. In primo luogo che, se la catarsi è «depurazione» da pietà e paura, queste emozioni devono realizzarsi prima di tutto nello spettatore, cosicché ne esca migliorato, alleggerito. Da questo punto di vista riusciamo a comprendere perché Aristotele abbia considerato l'Edipo re tragedia per eccellenza così da addurla più volte come esempio: la gravità dei misfatti commessi, la condizione di incoscienza, la concomitanza del riconoscimento di sé con la cosiddetta peripšteia, cioè con la svolta impressa nel destino di Edipo, non potevano lasciare indifferente lo spettatore, che non doveva trovare difficoltà a immedesimarsi con la vittima di tale destino. D'altra parte, il concetto di catarsi getta un fascio di luce anche sulla natura della 'colpa' di Edipo. K£qarsij - da k£qaroj, «puro» - è prima di tutto «purificazione», cioè «rimozione di impurità»; in questa parola il linguaggio medico influisce su quello magico-religioso: nel primo catarsi indica l'effetto di una purga, mestruazione, espettorazione ecc., in quello rituale è liberazione da uno stato contaminato. Da questo punto di vista il processo di k£qarsij investe Edipo stesso, colpito dal bando perché la macchia che lo contamina lo rende pericoloso per la comunità, mentre nel bosco sacro di Colono egli (inspiegabilmente) riacquista la sua purezza e diventa così benefico per la città che lo accoglie. Ma una «contaminazione», un m…asma, non implica la responsabilità di chi è contaminato; l'impurità può infatti essere ereditaria: è il caso, per esempio, di Oreste, erede di una catena di delitti all'interno della stirpe a partire dal lontano progenitore Tantalo. Ma non è il caso di Edipo, il quale sa bene che i suoi mali provengono dal dio stesso (Edipo re, vv. 1329-30): Apollo, amici. Apollo era colui che ha compiuto questi orrendi miei mali. L'impurità può dunque provenire direttamente dal dio e l'uomo mortale ne è portatore inconsapevole, come si è portatori di una malattia finché qualche evento non ne scateni il riconoscimento. È il rischio insito nella condizione umana; nessuno può sentirsi estraneo o risparmiato. Conoscere se stessi L'effetto è quello di una prostrazione totale, di un annullamento da cui nulla si salva. La voce di Edipo giunge dall'abisso con considerazioni che alla fine dell'Edipo re (vv. 1524-30) presentano una perfetta coincidenza con quelle del saggio Solone: 0 abitanti di Tebe, mia patria, guardate, questo è Edipo, che conosceva i famosi enigmi ed era uomo potentissimo, alla cui fortuna nessun cittadino guardò senza invidia. Vedete a quale abisso di terribile sventura è giunto. Sicché non chiamare felice nessun mortale, guardando a quello come all'ultimo giorno a vedersi, prima che il termine della vita abbia varcato senza subire alcun male. Non è difficile cogliere in queste espressioni, come nei passi erodotei sopra citati, la risonanza della morale delfica in base alla quale conoscere se stessi equivale a prendere atto della propria miseria di uomo mortale. Del precetto delfico «conosci te stesso» e del principio eschileo per cui «soffrire ò sapere» la figura di Edipo è il paradigma pienamente realizzato: egli cerca l'assassino di Laio e trova se stesso; prende così atto della propria miseria e approda a riconoscere in se stesso la condizione mortale. Promotore di questa morale era il santuario di Apollo a Delfi (vd. scheda a p. 48), un centro religioso che per un buon millennio - dal VII sec. a.C. al III d.C. - influenzò il comportamento pubblico e privato dell'uomo greco. Il mito dei Labdàcidi si radica profondamente nel terreno delfico, sia in virtù dei responsi oracolari (in particolare il responso dato a Laio e quello dato a Edipo) e delle frequenti consultazioni, sia perché tutti gli accadimenti mirano a un obiettivo comune, che è quello di mostrare la completa subordinazione dell'uomo al volere divino, giusto e imperscrutabile. Il centralissimo secondo stasimo esprime la fede incondizionata di Sofocle negli oracoli e nella religione, ma lascia anche intravedere sullo sfondo la preoccupazione del drammaturgo di fronte al razionalismo sofìstico che doveva scardinare le basi della religione olimpica (Edipo re, vv. 897-910): Non più andrò a venerare l'inviolabile ombelico della terra, né al tempio di Abae, e nemmeno a Olimpia, se queste cose segnate a dito non saranno riconosciute da tutti i mortali. Ebbene, o dominatore, se così giustamente sei chiamato. Zeus signore del mondo, non sfuggano a te queste cose, e al tuo potere sempre immortale. Gli antichi oracoli resi a Laio li distruggono infatti, così da renderli vani, e Apollo in nessun luogo è splendente per onori; e il dio muore. La tragedia di Edipo e il senso del tragico Il giudizio di Aristotele Il pubblico ateniese non assegnò all'Edipo re il primo premio, che molte volte era stato attribuito al suo autore. Non conosciamo a sufficienza la prassi agonale del teatro attico e pertanto non siamo in grado di valutare i motivi di tale scelta; importa però ricordare che la consacrazione del capolavoro fa capo a un testo cardinale come la Poetica di Aristotele, che a più riprese loda l'Edipo re: in primo luogo per l'organizzazione della trama («anche senza il vedere, il racconto deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svolgono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da timore e pianga, ciò che si può provare udendo il racconto di Edipo», 1453b 1-6; trad. di D. Lanza), ma anche per il modo in cui si realizzano laperipšteia, cioè il «mutamento delle vicende nel loro contrario», e la conseguente ¢nagnèrisij, il «riconoscimento», che sono gli elementi che producono la pietà e il terrore di cui la tragedia si sostanzia (1452a 22-b 1). Questo modo di concepire il tragico rientra in una dimensione prettamente letteraria e normativa: Aristotele - e tutti i suoi seguaci nell'età moderna - intendono il tragico come il modo esteticamente più efficace di progettare la tragedia, ma non si interrogano sulla sua natura e sul suo significato. L’ontologia del tragico Aristotele non si occupa, infatti, di definire che cosa sia il tragico, rinuncia cioè a indagare la tragedia come forma dell'esperienza che mette in gioco la realtà dell'essere. Da questo punto di vista i suoi riferimenti all'Edipo re non ci aiutano molto a capire il senso ultimo della tragedia. Se dunque il nostro obiettivo è quello di rintracciare una sorta di categoria ermeneutica della realtà nel percorso di poesia drammatica che qui di seguito si propone, possono essere interessanti i punti di vista espressi dalla filosofìa del tragico, cioè da quelle teorie che hanno cercato di dare un senso alla visione tragica della vita. Da questo punto di vista, l'epoca della cultura europea che meglio fu disposta alla comprensione del tragico è certamente quella romantica, portata a esasperare i conflitti; secondo il poeta romantico J.W. Goethe (17491832) il tragico si fonda su una opposizione non ricomponibile: non appena una composizione diventa possibile, il tragico viene meno. In un ordine di idee affine, il filosofo F.W. Schelling (1775-1854) interpreta l'opposizione di cui parla Goethe come un conflitto tra la libertà soggettiva del protagonista e la necessità oggettiva, osservando che nell'Edipo re: un mortale - destinato dalla fatalità a diventare criminale - combatteva appunto contro la fatalità eppure veniva terribilmente punito per il delitto, che era un'opera del destino! Il fondamento di questa contraddizione, ciò che la rendeva sopportabile, si trovava ben più in profondità di dove lo si cercava: si trovava nella lotta della libertà umana con la forza del mondo obiettivo nella quale il mortale, se quella forza è una forza superiore - un fato - doveva necessariamente soccombere, e tuttavia, giacché soccombeva non senza conflitto, doveva essere punito per la sua stessa sconfitta. [...] Era un'idea grandiosa quella di sopportare volontariamente anche la punizione per un delitto inevitabile, alfine di dimostrare attraverso la perdita della propria libertà appunto questa libertà, e inoltre soccombere con un'aperta affermazione del libero volere. (da F.W. Schelling, Lettere filosofiche su dommatismo e criticismo, tr. it. Laterza 1995). L’origine del dolore Il destino tragico di Edipo è tutto in lui stesso: è Edipo stesso a scatenare attraverso il proprio agire le forze distruttrici che lo portano alla rovina (cf. vv. 1329-32): Apollo, amici, Apollo era colui che ha compiuto questi orrendi miei mali. Ma nessuno mi ha colpito di sua mano, se non io stesso, disgraziato. Come ha osservato Peter Szondi, «tragico non è che agli uomini accada qualcosa di terribile per opera della divinità, bensì che questo avvenga proprio a causa dell'agire dell'uomo». E nel caso specifico di Edipo «la sventura attende il re non al modo di uno straniero al margine della via, ma al culmine del proprio riconoscimento di sé [...]. La dualità viene sempre più inesorabilmente ricondotta all'unità: Laio fugge il suo assassino sulla strada che ve lo conduce incontro - il giovane Edipo sfugge alla propria azione assassina che gli era stata predetta e la compie nel corso della fuga - Edipo re cerca gli assassini di Laio, di cui ha timore come se potessero essere i propri, e trova se stesso». Naturalmente né Edipo né Szondi negano che la situazione tragica dipenda dal fatto che il protagonista sia sovradeterminato da una forza oscura, variamente indicata nel destino, nel dio, in Apollo ecc. Anche nell'Edipo a Colono il protagonista ignora la ragione del suo soffrire e quella della sua riabilitazione: sa che il dio che lo aveva prostrato alla fine lo risolleva, ma non conosce il motivo di questo mutamento di disposizione. “Gettare la scala”? È superfluo aggiungere che sarebbe gravemente arbitrario trasferire in questo dramma concezioni della sfera cristiana e pensare a un riscatto di Edipo quale compenso dei dolori sopportati con tenacia. Nella terra del mito l'esperienza del dolore è bloccata in se stessa: non necessariamente il dolore è conseguenza di un errore o di una colpa, non rientra in un progetto divino comprensibile, talora appare completamente assurdo. Si potrebbe dire che la riflessione della grande poesia tragica, giunta alla fine del percorso di indagine sul destino umano, abbia deciso - per usare l'espressione di un grande filosofo contemporaneo - di 'gettare la scala', rinunciando a conoscere l'inconoscibile. Ma solo dopo aver realizzato un obiettivo per nulla trascurabile, come quello di conoscere se stessi. Da A. Roncoroni, Conosci te stesso. L’esperienza del dolore nell’Edipo di Sofocle, Signorelli Editore, 2004