Guerra psicologica contro Arafat

Transcript

Guerra psicologica contro Arafat
Guerra psicologica contro Arafat
di URI AVNERY * - www.ilmanifesto.it
(data di pubblicazione su www.attac.it 13 febbraio 2002)
Molti anni fa mi interessai ad un particolare un campo dell'attività miliare, la cosiddetta
"guerra psicologica" nel quale tutti gli eserciti investono notevoli risorse. La guerra
psicologica è l'opposto della propaganda. Se questa punta a convincere l'altra parte delle
nostre ragioni la guerra psicologica è uno strumento del conflitto al pari della forza aerea o
dei mezzi corazzati. Il suo vero obiettivo è quello di spezzare la resistenza del nemico,
colpendo il suo morale e fomentandone le divisioni, e costringerlo a sottomettersi. In
particolare la guerra psicologica punta a colpire il leader del nemico. A minare la fiducia
della gente nei suoi confronti e far si che i suoi combattenti, i suoi seguaci e l'opinione
pubblica piano piano comincino ad odiarlo. Come si raggiunge questo obiettivo? Innanzitutto
il leader del nemico viene dipinto come corrotto, come colui che manda i suoi uomini a
morire mentre lui si gode la vita. I suoi uomini sono una banda di ladri. Lui stesso è
spregevole, brutale, effeminato, tiranno e ridicolo. Queste storie vengono ripetute migliaia
di volte e fatte circolare su media internazionali "neutrali" in modo che vengano divulgate da
fonti "obiettive". Tutto ciò suona molto familiare. Da molti anni quasi tutti i media israeliani
si danno da fare per demonizzare Yasser Arafat. Coloro che portano avanti questa
campagna non sono per nulla interessati a come sia realmente Arafat. Anzi è possibile da
questo punto di vista che lo stesso Sharon in fondo lo ammiri. Nel 1976 mi chiese ad
esempio di organizzargli un incontro con lui per proporgli di diventare il presidente di uno
stato palestinese in Giordania. Ma ciò non gli ha certo impedito di rammarricarsi per non
essere riuscito ad ucciderlo a Beirut. Arafat in realtà è l'obiettivo di questa campagna per il
solo fatto di essere il leader del popolo palestinese che combatte contro l'occupazione.
Colpire il leader del movimento significa voler distruggere l'intera struttura della lotta
palestinese. Nel corso di una guerra, e ancor di più di una lotta di liberazione, la fiducia nel
leader è essenziale per la resistenza contro forze così soverchianti. Nell'arena israeliana e
internazionale questa campagna ha conseguito rilevanti successi sino al punto che la stessa
espressione "Autorità palestinese", "Arafat" e "corruzione" sono diventati sinonimi.
Il risultato possiamo vederlo in questi giorni: se Arafat fosse stato imprigionato
a Ramallah dieci anni fa vi sarebbero state dimostrazioni in tutte le capitali. Ora invece
nulla. In Israele il successo della guerra psicologica è stato ancora maggiore dall'estrema
destra alla sinistra ufficiale. Una ricerca ha rilevato che su 300 articoli pubblicati da
"giornalisti di sinistra" sul problema palestinese, 284 contenevano frasi offensive nei
confronti di Arafat. Come i cristiani che si fanno il segno della croce quando entrano in
chiesa l'israeliano di sinistra si sente in dovere di ingraziarsi l'opinione pubblica ripetendo
frasi come "Io sono per la pace con i palestinesi, ma non posso sopportare quel corrotto di
Arafat" o "Io sono contro l'occupazione, ma la banda corrotta di Arafat se ne deve andare".
Coloro che scrivono in questo modo non si rendono conto, naturalmente, di contribuire ad
una campagna di guerra psicologica che in un momento storico decisivo, punta a spezzare
la resistenza e il popolo palestinese. Ognuno può giudicare Arafat come vuole.
E possiamo criticarlo sotto molti aspetti. Arafat non è certo una figura romantica come il
"Che" (anche se poi sui risultati della sua strategia ci sarebbe da discutere ) o come Nelson
Mandela, e non è nepure una star televisiva. E' semplicemente il leader del popolo
palestinese, eletto da una immensa maggioranza in elezioni democratiche (tenute sotto la
supervisione di Jimmy Carter). Del resto la corruzione dell'Autorità palestinese non è certo
maggiore di quella che riscontriamo in Egitto o in Giordania e di sicuro è inferiore a quella
negli Stati uniti (affare Enron), in Francia (Elf-Aquitaine), in Germania (l'affare Kohl) o in
Israele (Shass). Non c'è dubbio che nel mezzo di una lotta all'ultimo sangue per la
liberazione nazionale questo problema possa essere affrontato in un secondo momento. Gli
stessi palestinesi ne sono consapevoli tanto che inquesto campo -il principale obiettivo della
guerra psicologica- la campagna israeliana non ha conseguito alcun risultato. Sharon forse
credeva che chiudendo Arafat a Ramallah lo avrebbe esposto al ridicolo e mostrato a tutti
che ormai il leader palestinese è "irrilevante", al fine di mettere al suo posto una banda di
collaborazionisti.
E invece è avvenuto esattamente l'opposto: dallo sheik Yassin del movimento islamista
Hamas al Fronte popolare di sinistra il popolo palestinese si è stretto attorno a Yasser Arafat
in questo momento di sommo pericolo per la loro stessa esistenza. Persino alcuni intelletuali
palestinesi usi aa scagliarsi contro Arafat ora tacciono consapevoli della situazione.
La guerra psicologica non ha avuto successo né con Churchill né con contro Fidel Castro.
E probabilmente non lo avrà neppure con Yasser Arafat.
*Esponente del gruppo pacifista israeliano Gush Shalom