Ornela Vorpsi Bevete cacao Van Houten

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Ornela Vorpsi Bevete cacao Van Houten
Ornela Vorpsi
Bevete cacao Van Houten
essendo sveglia, pur essendo lucida, maliziosa, persino perfida. Gli occhi
di Moma aspirati dalle orbite, circondati dalla pelle flaccida di mille rughe
minuziose, dovevano aver perso la loro capacità. Anche se lei coglieva tutto
senza fallo, la sua decrepitezza di sicuro le impediva di comprendere.
«L’unica cosa che vi chiedo, – ripete Moma a intervalli irregolari, – è
di non mettere l’età sul mio annuncio di morte. Vi scongiuro», insiste tremante. Poi ci infila in mano una carta stropicciata da dieci lek.
Le nostre mamme ci chiamano, noi rispondiamo che siamo da Moma.
E tutto tace. Da Moma non si corrono rischi. Nei suoi confronti abbiamo
un dovere: renderle visita spesso e volentieri, perché Moma è la nostra
bisnonna e in questa vita è rara la fortuna di incontrare le bisnonne. Poi,
qui da noi, alla vecchiaia si porta premura. Dunque, andiamo da Moma,
questa scusa va bene per tutto.
Non si sa quanti anni ha Moma. La sua data di nascita non è scritta su
nessun foglio da nessuna parte. Lei dice di essere nata forse il tale anno,
poi ne dice un altro. Per il nostro paese è l’estrema vecchiaia, raggiunta di
rado. Noi stessi dicevamo: «Accidenti, Moma, quant’è forte! Moma che
vive quanto il corvo bianco! Moma che la morte l’ha s-c-o-r-d-a-t-a! State
a vedere, la vecchia seppellirà tutti i suoi figli!».
La verità è che la salute di Moma trionfava. In lei la vita era vigorosa,
il suo corpo si dedicava ai lavori di casa dall’alba al tramonto, senza sostare
neanche un attimo.
Era proprio forte, Moma.
Ma noi volevamo credere che la bisnonna non funzionasse tanto bene.
Io stessa ero caduta nella trappola senza riflettere troppo. Appena avevo
nel cuore qualcosa che fa segreto, davo appuntamento da Moma. A casa
nostra era difficile avventurarsi a parlare di argomenti delicati come gli
uomini e l’amoreggiare. Da Moma si poteva, «perché alla fine anche se
vede e sente, sempre alla fine non vede e non sente».
Per la mamma, la zia, e forse anche per me, per colpa della sua immensa
vecchiaia era come se Moma non ascoltasse più, né guardava e capiva, pur
Insegnare il racconto contemporaneo Palermo, 21-22 marzo 2016
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La stanza di Moma fa tutto: camera da letto, cucina, soggiorno, e con un
vaso da notte anche gabinetto. In quei pochi metri quadri, i nostri segreti potevano venire alla luce intatti, riuscivamo a trasformarli in parole senza temere
le conseguenze. Anche la mamma e la zia si riunivano là a raccontarsi i rancori contro i mariti, e poi il discorso deviava sempre verso qualche bell’uomo
che i loro occhi avevano incrociato per strada sentendo il cuore che si scagliava contro lo stomaco, «Oh cose ormai scordate!», mormoravano vinte.
Al calar della sera, con il tepore che accompagnava il crepuscolo, sempre insieme alle cugine, a volte raggiunte dalle compagne di classe, quella
stanza ci sembrava il luogo più adatto alle nostre anime.
Bussiamo impazienti alla sua porta, entriamo senza aspettare il permesso, ci accomodiamo sul divano, le gettiamo un rapido buonasera
lasciandola da sola, infilata nel letto, grossa come una bambola che c’è e
non c’è a seconda delle nostre voglie. Accompagniamo le chiacchiere con
i dolci fatti da lei: «Apri il forno Denata e prendine ancora, porta anche a
me, voglio i biscotti sottili, quelli con il cocco!».
Più lo zucchero scende nel nostro stomaco, più le confessioni raggiungono punti caldi. Sveliamo i segreti del cuore: «Oh! Quant’era bello quel
ragazzo visto oggi per strada! Come mi ha guardata, come l’ho guardato,
ma perché, come mai se chiudo gli occhi non riesco più a ricostruire il suo
viso nella mia mente? Spremo l’immaginazione ma mi abbandona a metà
strada! Eppure so che lui ha i capelli castani tagliati corti, che è abbronzato, snello, alto. Che porta sempre una maglietta blu con delle strisce bianche sulle spalle. Quelle spalle così larghe che ti promettono il mondo, ti
promettono il tutto, al di là del mondo stesso. Il mio cuore è malato di gioia,
ma perché il suo viso mi sfugge? Ci riprovo, chiudo gli occhi ancora!».
Moma giace nel letto pronta al sonno, non ci parla. Lo sa che non siamo
lì per scambiare due chiacchiere con lei. Solo di tanto in tanto la sua voce
interrompe per un attimo i nostri bisbigli, raccomandandoci di non scordare, perché non vuole, non vuole per niente al mondo l’età sul necrologio. Poi tace di nuovo.
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«Uno spazio vuoto, – implora, – lasciate lo spazio bianco».
Moma si vergognava profondamente di essere vecchia, di essere così
tanto vecchia.
Nella stanza di Moma, non potevamo non renderci conto delle sviste
grossolane combinate da questa vita: le nostre mamme conducevano esistenze che non meritavano, nei loro letti giacevano gli uomini sbagliati, e
a noi piacevano ragazzi che non ci ricambiavano. Così andava il mondo,
a passi falsi. La stanzetta di Moma ne sapeva qualcosa: era come se dentro quelle quattro mura gli errori prendessero una forma materiale, concreta, li potevi toccare con le mani come una sedia o un tavolo. Nell’aria
della stanza, nelle forme del vapore sopra le pentole a pressione sempre
al fuoco, galleggiava visibile lo sbaglio della sua morte, che non veniva a
prenderla in tempo, lasciandola sconcertata nel disonore.
Ogni sera la bisnonna supplicava la morte di sbrigarsi ad arrivare.
Quando le chiedevo: «Come mai, Moma, come mai desideri così tanto
morire? Nessuno vuole morire», lei rispondeva che la morte le avrebbe fatto
dimenticare certe cose. «Ma non mi chiedere cosa», aggiungeva spaventata.
Anche se non le credevamo lei non si arrendeva, cercava insistente di
attirare la nostra attenzione con la voce sciupata: «Avrei dovuto essere
sotto terra ormai da un pezzo! Come può la morte dimenticare così?».
Noi eravamo imperturbabili alle frasi di Moma: l’ascoltavamo sì, potevamo ripetere a virgola precisa tutto quello che lei diceva, ma niente s’addentrava nel nostro profondo sensibile. A tredici anni, la vecchiaia e il pensiero della vecchiaia sono lontani, non ci appartengono. Fino ai quattordici quindici anni si può numerare senza fatica, è rapido arrivare a quattordici contando (ed è un’eternità arrivarci vivendo i giorni), ma contare
ottant’anni e oltre stanca, annoia. L’età di Moma sembra un numero misterioso moltiplicato per diciassette. Capisco perché si senta schiacciata sotto
il peso di tanta vita.
Quando capita che muoiono persone giovani (quando morì Artan per
esempio, il nostro vicino di casa, a ventiquattro anni, il giorno prima delle
sue nozze), noi teniamo il fiato sospeso davanti alle ingiustizie della vita,
o meglio alle stravaganze della vita.
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Moma vuole la morte, la morte non vuole Moma. Artan non pensa alla
morte: è giovedì, venerdì la sua sposa sarà pronta, sprofondata nel merletto
bianco, domenica lui andrà a prenderla per farla sua. Ma prima vorrebbe
risistemare la casa, renderla più carina, le vecchie foto di famiglia e i dipinti
che mostrano spiagge al tramonto da anni guardano dalle stesse pareti.
Artan pensa di cambiarne la collocazione, dare al soggiorno un aspetto
più fresco perché una donna sta per mettere piede in questa dimora.
Rispolvera il trapano, mira un nuovo punto nel muro, accende, e all’improvviso il suo corpo si accascia pesante, carne senza vita sul pavimento.
La scossa elettrica gli ha attraversato il corpo togliendogli il respiro. La
morte entra a far parte dello scenario del suo imminente matrimonio.
Due giorni dopo la scomparsa di Artan, vado a camminare con Blerinda,
sua sorella. Sfigurata dal terrore della fine dalle notti insonni dal dolore,
Blerinda mi mostra con le dita esili e sporche una vecchia che per caso ci
passa di fianco: «Guarda, ma guarda un po’! – mi dice con la voce spenta
d’amaro, – lei, la vecchia, vive, invece il mio Artan sta mangiando la terra».
La vecchia non sapeva di attraversare la nostra conversazione. Passò
oltre e noi continuammo a guardare in silenzio la sua schiena deforme,
come se quella gobba nascondesse il resto della vita di Artan. Quella gobba
portava nel centro l’errore della morte del ragazzo.
Pensai a Moma, Moma era molto più vecchia della donna che si allontanava barcollante. Ero certa che quando Blerinda sarebbe venuta a trovarmi da Moma avrebbe ripensato: «Ecco, la vecchia vive, mentre il mio
Artan mangia la terra», di sicuro non avrebbe osato ripetere la frase, ma
sarebbe bastato vedere i suoi occhi sgualciti per comprendere quello che
le urlava nel corpo.
Quando Moma venne a sapere della morte di Artan, rimpicciolì, voleva
svanire, dissolversi, io lo sentivo, era sopraffatta dal disonore, il suo volto
arrossì fugacemente e poi si fece esangue. Lei era colpevole di non morire
nei tempi giusti. A passi silenziosi andò verso il bagno e si chinò sul catino
dei panni. Ingobbita, tutta di nero, con la sciarpa di cotone che le avvolgeva i pochi capelli rimasti, sfregava i vestiti con furore facendo tanta di
quell’acqua e tanta di quella schiuma, passando e ripassando sempre gli
stessi indumenti.
«Artan sta mangiando la terra». La frase che Blerinda aveva sussurrato
mi faceva vedere Artan vestito da sposo (l’avevano vestito da sposo per-
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ché i singhiozzi della madre toccassero il cielo), con l’abito nuovo nero e
rigido, la camicia immacolata, le scarpe di vernice, rasato, profumato di
colonia. Sedeva nella bara su una sedia marrone (la sedia deve essere marrone come la terra, penso), si imbottiva i pugni di polvere fango e radici
e li portava alla bocca riempiendola a più non posso. Non voleva più sentirci, la scossa elettrica gli aveva tolto la voglia di stare con noi. Ormai
voleva solo mangiare la terra.
Una mattina a Moma è apparso sull’inguine un gonfiore che le faceva
molto male. Il gonfiore crescesca a vista d’occhio.
«È cancro, – diceva lei placida, – finalmente il cancro! La morte deve
essere dietro la porta».
«Ma cosa dici, Moma», rispondevo, mentre di sottecchi esaminavo quel
gonfiore che si tingeva di giallo sotto le sue vesti pulite (lasciatemi dire che
gli indumenti di Moma erano incredibilmente puliti, non ho mai visto
qualcuno pulito come lei: il cotone delle sue gonne, per i troppi sfregamenti e lavaggi, era diventato così sottile da lasciar intravedere le sue
gambe secche e storte).
Moma voleva morire, e in quel morire udivo la sua muta angoscia. Così
cominciai a dire, o meglio a regalare delle bugie a Moma. Lasciando Ilira
e Teuta a discutere le loro storie d’amore, mi trascinavo con lei nelle terre
sconosciute dell’impossibile.
Ogni sera arrivavo accompagnata da fantasie sempre più grandi, proprio come il suo cancro sotto la vestaglia.
Mi ascoltavo dire:
«Sai, Moma, non ti preoccupare, la nonna di Elona per esempio, tu
non conosci Elona, lei non viene qui perché vive lontano da noi, ma a sua
nonna un giorno venne un gonfiore come il tuo. Era cancro, dicevano tutti.
Per lei era finita, ripetevano senza sosta. La famiglia di Elona si preparava
al lutto. Il suo gonfiore non era giallo come il tuo, ma marrone scuro, ti
rendi conto Moma, marrone viola scuro, talmente malvagio era quel cancro! L’ho visto con i miei occhi, come vedo il tuo! Cos’è successo poi? Una
mattina, la nonna di Elona si svegliò senza più sentire il dolore provocato
da quel tumulto di carne che voleva rubarle la vita. Alzò la camicia da
notte per guardare, e non poté credere ai suoi occhi: il grande gonfiore
maligno, tre volte più grande del tuo, Moma, mi senti? Quel gonfiore che
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le ristagnava nella coscia ormai da mesi, era sparito. Sparito nel nulla in
una sola notte, in poche ore».
Lo stupore che Moma manifestava mi esortava a riempire le mie narrazioni di prodigi mai sentiti, per scoprire che io stessa avevo sete di crederci. Qualcuno mi soffiava dietro l’orecchio delle storie che non conoscevo, ero solo la bocca che le riportava. Nel raccontare provavo un piacere torbido: partivamo insieme per il paese dei miracoli, ne avevamo
entrambe talmente bisogno. Una grazia più impossibile dell’altra.
Alla fine di ogni storia, di nascosto dalle altre, lei m’infilava in mano
ancora dieci lek, ed era sempre la stessa carta sciupata, come se tutti i dieci
lek di Moma fossero lavati nel catino dei panni assieme ai vestiti. Appena
li facevo sparire gioiosamente nella tasca dei pantaloni, lei mi pregava gentile:
«Non ti scorderai che non voglio mettere l’età sul foglio di morte, vero?
Me lo prometti?».
«Certo, Moma, non lo scorderò, ma tu non ascolti quello che ti dico,
non lo ascolti, perché se mi dessi retta sapresti che domattina ti alzerai
guarita del tutto come la nonna di Elona. Saprai solo che hai avuto il cancro, un ricordo sarà! Te lo dico io».
A quell’io aggiunto alla fine credevo così forte, come se fosse un pulsante da premere con le mie dita per dare ordini a Dio.
I dieci lek di Moma saranno due pacchetti di biscotti secchi domani
all’ora della pausa tra le lezioni, a volte per un motivo a me ignoto sanno
di petrolio, ma mi piacciono tanto lo stesso. Moma, dandomi ogni tanto
questi dieci lek, assicura la sua richiesta e non ha torto, perché ogni volta
che mando giù la deliziosa pasta del biscotto giuro a me stessa, giuro a
Moma e a tutti quanti sulla terra che non scorderò il suo ultimo desiderio, così solenne un ultimo desiderio!
Per questa ragione ho deciso che stasera racconterò a Moma di un
uomo sconosciuto, che è apparso sui giornali proprio per il suo ultimo
desiderio prima di morire. L’ho appena letto in un poema di Majakovskij.
La nuvola in calzoni si chiama il magnifico urlo che esce dai polmoni del
poeta, poema che mi ha dilaniata di meraviglia a tal punto che andavo
avantindietro in casa recitando:
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È bello,
se gettati fra i denti del patibolo,
gridare:
«Bevete cacao Van Houten!».
Non capivo in che modo il cacao Van Houten potesse migliorare la
morte, ma nel caso in cui davvero migliorasse la morte, dovevo assolutamente trovare quel cacao eccezionale. Con questi pensieri ho cercato nelle
note finali del libro a quale fatto preciso Majakovskij facesse riferimento.
Ed ecco cosa racconterò stasera a Moma:
«Nel lontano 1907, ma non si è sicuri dell’anno, in questo mondo è esistito un uomo come tanti. Condannato a morte non si sa per quali ragioni,
l’uomo doveva essere giustiziato all’aperto, davanti a un pubblico. Poi c’è
una ditta, che esiste tutt’oggi, produce del buon cacao e si chiama Van
Houten. Van Houten aveva bisogno di pubblicità, ed ebbe un’idea che
andava lontano, molto lontano: l’azienda decise di comprare l’ultimo desiderio del condannato a morte. Van Houten avrebbe versato una forte
somma di denaro alla famiglia del condannato se lui, al momento dell’esecuzione, avesse gridato a piena voce come suo ultimo desiderio davanti
alla folla curiosa: – Bevete cacao Van Houten!
E lui lo gridò, Moma».
Continuavo le storie di guarigioni misteriose, e bruciavo dal desiderio
che Moma il giorno dopo si svegliasse senza cancro. Mi concentravo con
tutte le mie forze per rendere vero il prodigio, perché la ghiandola maligna domani sparisse, persa nella notte. La notte avrebbe inghiottito anche
la verità soprannaturale della guarigione.
Credo che della salute di Moma non m’importasse tanto, il mio desiderio giaceva nello struggimento di voler toccare il miracolo. Era una sorta di
vertigine su cui salivo e scendevo, una scaletta tortuosa dove la portavo sfiatata, tirandola di forza, non le lasciavo la mano quando lei voleva mollare,
non le davo il diritto di abbandonare le montagne russe del mozzafiato.
Le canticchiavo le guarigioni e intanto la disegnavo. Lei era sempre
distesa sul letto.
«Sta’ ferma Moma!», le ordinavo.
Lei gelava il profilo.
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Dalla sua bocca uscivano domande, esigeva chiarimenti sull’ultima storia che le raccontavo.
«Non parlare Moma», e continuavo a delinearla sfumando il suo naso
aquilino per renderlo più veritiero.
La ritrassi distesa, la bocca socchiusa, gli zigomi su cui si leggevano
accuratamente le ossa, il naso forte, le mascelle svuotate dai denti e le
guance che s’inabissavano. Con gli occhi chiusi. Ogni volta che osservavo
quell’immagine, capivo che avevo disegnato Moma esanime. Mentre la
tenevo in vita rivelandole lo straordinario, la disegnavo morta.
Un mercoledì pomeriggio l’eternità trovò il luogo in cui si sdraiava
Moma.
Aprii la finestra della mia stanza, quella che dà sul giardino dove si
affaccia anche la sua finestra. Le tende di cotone ricamato fermavano il
rumore costante di andirivieni. Un odore forte di rose, odore insolito, mi
riempì i polmoni. Faceva bello. Non mi mossi, non piansi, non mi attraversò nessun dolore, ero là appesa.
Moma era morta e un odore intenso di rose riempiva la mia stanza.
All’improvviso, il velo soffocante delle rose che voleva coprire l’odore della
morta fu lacerato dalla voce aguzza di una donna che lamentava. Doveva
essere la signora in nero, quella che il venerdì camminava sempre nell’ombra. Aveva le dita piene di anelli d’argento, e innumerevoli braccialetti ai
polsi. La voce aguzza poteva essere solo sua.
In mezzo a una macchia scura di donne, un corpo snello accompagnava
i singhiozzi con gesti tortuosi. Sentivo il tintinnare dei bracciali. Il corpo
snello fingeva di graffiarsi il volto mimando la scena del dolore, le mani
cercavano di assalire il cielo.
Il profumo di rosa aveva invaso il giardino, ovunque andassi sentivo
cadavere e rose.
Uscii in strada perché volevo scappare da quella voce, sul portone di
casa era incollato il necrologio di Moma, mi sono fermata e l’ho letto, poi
ho guardato a lungo la sua foto, il cranio fasciato dalla fedele sciarpa
bianca, gli occhi succhiati dalla vita. Non c’era l’età. Lo stampatore aveva
impresso la parola età, ma, più in là, lo spazio era bianco.
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