DIO ED IO: L‟AUTORAPPRESENTAZIONE NEL

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DIO ED IO: L‟AUTORAPPRESENTAZIONE NEL
DIO ED IO:
L‟AUTORAPPRESENTAZIONE NEL MEDIOEVO ITALIANO
by
ROBERTO PESCE
A Dissertation submitted to the
Graduate School-New Brunswick
Rutgers, The State University of New Jersey
in partial fulfillment of the requirements
for the degree of
Doctor of Philosophy
Graduate Program in Italian
Written under the direction of
Alessandro Vettori
And approved by
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New Brunswick, NJ
October, 2011
ABSTRACT OF THE DISSERTATION
Dio ed io: l‟autorappresentazione nel Medioevo italiano
By Roberto Pesce
Dissertation Director:
Alessandro Vettori
This dissertation explores the representations of the Self in the Middle Ages through the
analysis of literary works produced in Italy. Differentiating autobiography from
autobiographism, I analyze the prose works of three authors whose “I” demanded to find
expression in a written form in the first person. I thus consider their texts as protoautobiographical writing. I focus my attention on Francis of Assisi‟s Testamentum, which
represents the self as a public confession; Dante‟s Convivio, where the author imposes an
imagine and a forma of himself on his readers, creating an ideal poet; and Petrarca‟s
Posteritati, a depiction of the poets‟s life recounted through his shortcomings and sins. I
also briefly analyze the Vita nova and the Secretum, but these works have less direct
bearing on my argument.
The first chapter begins with an introduction to the genre of autobiography and
establishes my theoretical framework. In particular, I engage Misch, Gusdorf, Zink,
ii
Foucault, Olney, Lejeune, Starobinsky, Guglielminetti, and Ferrucci. My subsequent
chapters consider each of the aforementioned works individually, drawing particular
attention to the autobiographical markers (auto, bio, and graphē) that characterize the
genre. Starting from a specific point identified as a conversion, all of these authors trace
their lives by representing their ideal self, and hiding any controversial aspect of their
existence. Through my research, I offer different interpretations of this reticence, and on
the minimal circulation of these texts, suggesting an historical and anthropological
hypothesis
Ultimately, I am in agreement with Gusdorf‟s notion that autobiography was born from a
religious impetus in which the believer, in colloquium with the divine, discovers the
possibility and the necessity of making the self the center of one‟s spiritual experience. I
argue, however, that while Gusdorf dates the beginning of this practice as the 16th
century my research indicates that this phenomenon begins to appear at the beginning of
the 13th century because of the creation of Purgatory and the imposition of the annual
confession. Seeking God in his own soul, the individual measures and creates a space for
his own consciousness. In my analysis, the concept of the self begins here, in the autumn
of the Middle Ages.
iii
Ringraziamenti
Dopo sette splendidi anni passati alla Rutgers University, è arrivato il momento
del congedo e dei ringraziamenti. Il primo pensiero va alla mia famiglia, Serena e
Lorenzo, senza il cui costante sostegno e pazienza biblica non sarei mai giunto dove mi
trovo. Ai miei genitori, Anna e Rino, e ai miei fratelli, Paola e Francesco, un sentito e
doveroso grazie per aver condiviso con me l‟esperienza americana. A mio zio “Renzo”,
cui dedico questa tesi, un affettuoso abbraccio e un arrivederci in qualche altro luogo.
Accolto in una grande famiglia al Dipartimento di Italiano, sono grato ad
Alessandro Vettori, mio advisor e mentore, guida fondamentale per il completamento del
mio percorso formativo e professionale, che mi ha pazientemente diretto nello studio e
nella ricerca. Sono riconoscente a Laura Sanguineti White, per avermi dato l‟opportunità
di entrare a far parte di questa vivace comunità e per il continuo supporto; a David
Marsh, la cui competenza e simpatia mi accompagneranno a lungo; ad Andrea Baldi,
Paola Gambarota ed Elizabeth Leake per il loro appoggio e l‟attenzione nei miei riguardi.
La mia riconoscenza va inoltre ai miei due angeli custodi, Carol Feinberg e Robin
Rogers, per l‟affetto e l‟amicizia dimostratimi.
Desidero ringraziare Francesco Ciabattoni per la sua disponibilità e cortesia nel
seguire questo studio.
Una menzione speciale infine gli amici che mi sono sempre stati vicini e presenti,
facendomi sentire come a casa: Ida e Gino, John e Donna, Sara, Paolo, Bryan, Deena,
Matthew, Arnout e Joke, Monica, Daniele e Rosa, Annachiara e Brendan, Sandy,
Roberto e Vaninha, Gabriella e Dario.
iv
Indice
Abstract
ii
Ringraziamenti
iv
Indice
v
1.
Introduzione
1
1.1.
Premessa teorica
4
1.2.
Premessa storica
18
1.3.
Premessa critica
26
1.3.1. Lo stile
26
1.3.2. I testi e la loro diffusione
29
Prime conclusioni
33
1.4.
2.
3.
4.
Recordatio, ammonitio, exhortatio: il Testamentum di Francesco d‟Assisi 35
2.1.
Cenni sulla «quaestio francescana»
37
2.2.
Il Testamentum come autobiografia
43
2.3.
Recordatio
52
2.4.
La tradizione manoscritta
71
Il parlar di se medesimo in Dante
75
3.1.
lo parlare di sé è conceduto: il Convivio
81
3.2.
La tradizione manoscritta
104
Petrarca e la Posteritati: l‟opera quod ante me, ut arbitror, fecit nemo
v
107
5.
4.1.
Franciscus posteritati salutem
116
4.2.
La tradizione manoscritta
140
Conclusioni
143
Bibliografia
149
Curriculum vitae
178
vi
1
1
Introduzione
L‟autobiografia nasce come genere letterario nel XVIII secolo con la pubblicazione
postuma, tra il 1782 e il 1789, delle Confessions di Rousseau. Pur essendo tutt‟ora aperto
il dibattito sulla definizione del genere1, la critica è concorde nell‟attribuire
all‟illuminista svizzero il merito di aver creato un‟opera nuova in cui costruisce
introspettivamente la propria identità, originale e non riconducibile ad altri se non a se
stesso, liberata dall‟ideale religioso come punto focale della ricerca per ripiegare sull‟io2.
Come ogni altro genere letterario, l‟autobiografia non nasce dalla geniale intuizione di un
1
J. OLNEY, Autobiography and the Cultural Moment: A Thematic, Historical, and Bibliographical
Introduction, in Autobiography: Essays Theoretical and Critical, a cura di J. Olney, Princeton, Princeton
UP 1980, pp. 3-27, in particolare pp. 17-18; S. SHAPIRO, The Dark Continent of Literature: Autobiography,
«Comparative Literature Studies», 5, 4 (1968), pp. 421-54; G. GUSDORF, De l‟autobiographie initiatique à
l‟autobiographie genre littéraire, «Revue d‟histoire littéraire de la France», 75, 6 (1975), pp. 957-994, in
particolare pp. 960-64; ID., Les écritures du moi. Lignes de vie 1, Paris, Odile Jacob 1991, pp. 53-67; 7293; ID., Auto-bio-graphie. Lignes de vie 2, Paris, Odile Jacob 1991. La definizione del genere
autobiografico data da Lejeune (P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil 1975) è stata in parte
rivista dallo stesso studioso in ID., Signes de vie. Le pacte autobiographique 2, Paris, Seuil 2005. Sulla
discussione teorica del genere autobiografico vd. anche, in ambito italiano, B. ANGLANI, I letti di Procuste:
teorie e storie dell‟autobiografia, Bari, Laterza 1996; ID., Teorie moderne dell‟autobiografia, Bari,
Graphis 1996; Scrivere la propria vita. L‟autobiografia come problema critico e teorico, a cura di R.
Caputo-M. Monaco, introduzione di R. Mordenti, Roma, Bulzoni 1997; F. D‟INTINO, L‟autobiografia
moderna. Storia, forme, problemi, Roma, Bulzoni 1998.
2
J. STAROBINSKI, Les problèmes de l‟autobiographie, in ID., Jean-Jacques Rousseau. La transparence et
l‟obstacle suivi de sept essais sur Rousseau, Paris, Gallimard 1971, pp. 216-39; LEJEUNE, Le pacte
autobiographique, cit.; M. BARENGHI, Vite, confessioni, memorie, in Manuale di letteratura italiana. Storia
e problemi, a cura di F. Brioschi-C. Di Girolamo, Torino, Bollati Boringhieri 1993-1996, voll. 4, III, Dalla
metà del Settecento all‟unità d‟Italia, pp. 497-568, in particolare pp. 497-502; L. OMACINI, Le Confessioni
di Jean-Jacques Rousseau: «Impresa che non conosce esempi», in «In quella parte del libro de la mia
memoria». Verità e finzione dell‟«io» autobiografico, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio 2003, pp. 21748.
2
singolo autore, ma è il risultato di un processo diacronico che ha in Rousseau il punto
d‟arrivo di esperienze precedenti e partenza per gli scrittori futuri.
Le Confessions richiamano sin dal titolo le Confessiones di Agostino d‟Ippona,
considerate il prototipo della moderna autobiografia. Tra le due opere vi è un intervallo di
oltre mille anni e risulta arduo collegare un‟opera della tarda latinità all‟Illuminismo
senza valutare le tappe intermedie, come ad esempio la Vita di Benvenuto Cellini o le
scritture dei mistici del XVII secolo. Scopo di questo studio è la ricerca dei motivi, delle
strategie narrative e degli esiti letterari che hanno portato alcuni autori del Medioevo
italiano a rappresentare il proprio “io” nel testo scritto; vale a dire l‟indagine della
matrice autobiografica in opere che mediano il passaggio da Agostino a Rousseau, nella
cosiddetta preistoria dell‟autobiografia3.
Tra il Duecento e il Trecento, infatti, per un breve arco di tempo, l‟“io”
autobiografico, soggetto e oggetto della rappresentazione che l‟autore fa di sé, emerge
nelle pagine delle tre più forti personalità italiane dell‟epoca: nel Testamentum di
Francesco d‟Assisi, nel Convivio di Dante e nella Posteritati di Petrarca. L‟uso della
prima persona singolare, a prima vista banale, è una scelta tutt‟altro che scontata se
raffrontata alla precedente tradizione classica e ai successivi risultati della letteratura
umanistica, laddove la propria esperienza di vita è rappresentata in terza persona, come
ad esempio, per citare i casi più celebri, nell‟Anabasi di Senofonte o nei Commentarii di
Cesare; oppure nei Commentarii rerum memorabilium, quae temporibus suis contigerunt
di Enea Silvio Piccolomini o nei Libri della famiglia di Leon Battista Alberti4.
3
La definizione è in P. LEJEUNE, L‟autobiographie en France, Paris, A. Colin 1971, p. 106.
Vd. D. MARSH, The Self-Expressed: Leon Battista Alberti‟s Autobiography, «Albertiana», 10 (2007), pp.
125-40; più in generale vd. J. IJSEWIJN, Humanistic Autobiography, in Studia humanitatis. Ernesto Grassi
4
3
Da dove proviene, dunque, questo “io”, trasposizione letteraria della vita
dell‟autore? Il quid che genera il parlare di sé nasce dalla volontà di dare testimonianza di
un‟avvenuta conversione in un atto di confessione pubblica5. Sia le Confessiones che le
Confessions mostrano come comune denominatore nel loro titolo il riferimento alla
pratica penitenziale cristiana, che diviene il punto di partenza e di riferimento della
presente ricerca. Agostino, exemplum inimitabile e inimitato fino a Rousseau, è stato
l‟unico scrittore a superare le convenzioni retoriche e letterarie facendo dialogare l‟“io”
con Dio, divenuto un “tu”, permettendo all‟anima di specchiarsi e di confessarsi a se
stessa. Seguendo la via segnata dall‟ipponate, che collega la pratica penitenziale all‟atto
autobiografico, il presente lavoro prende avvio da un preciso termine post quem, il 1215,
anno del quarto Concilio Lateranense, in cui il dogma della confessione venne codificato
e imposto ai fedeli dalla Chiesa, rendendo possibile la ricreazione delle premesse che
avevano portato all‟intuizione agostiniana6.
zum 70. Geburtstag, a cura di E. Mora-E. Kessler, München, Fink 1973, pp. 209-19. Sull‟autobiografia in
terza persona vd. anche P. LEJEUNE, Autobiography in the Third Person, «New Literary History», 9 (1977),
pp. 27-50; E. BRUSS, Eye for I: Making and Unmaking Autobiography in Film, in Autobiography: Essays
Theoretical and Critical, cit., pp. 296-320.
5
Per Courcelle, la prima autobiografia cristiana è la storia della propria conversione descritta da san Paolo
negli Atti degli Apostoli (P. COURCELLE, Les «Confessions» de Saint Augustin dans la tradition littéraire.
Antécédentes et postérité, Paris, Études Augustiniennes 1963, p. 119).
6
Sull‟autobiografia nel Medioevo vd. soprattutto M. GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura.
L‟autobiografia da Dante a Cellini, Torino, Einaudi 1977; ID., Biografia ed autobiografia, in Letteratura
italiana, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi 1982, voll. 8, V, Le questioni, pp. 829-86;
L‟autobiografia nel Medioevo. Atti del XXXIV Convegno storico internazionale, Todi 12-15 ottobre 1997,
Spoleto, CISAM 1998.
4
1.1.
Premessa teorica
Gli studi critici sul genere autobiografico hanno offerto diversi approcci alla
questione del parlare di sé: dallo storico allo psicologico, dal fenomenologico
all‟ontologico, dall‟esistenzialista all‟estetico, dal linguistico all‟etico 7. Molte indagini
hanno proposto interessanti spunti di discussione, peccando però di rigidità nel
focalizzare la propria attenzione su un unico aspetto, tralasciando gli altri e nascondendo
il testo letterario dietro l‟astrattismo teorico. Si è cercata di volta in volta un‟impossibile
classificazione e catalogazione univoca di un genere che non è riconducibile a fisse
griglie prestabilite, tanto che ancora oggi manca una definizione univoca del termine
autobiografia. Il genere autobiografico infatti risulta essere un paradosso non definibile:
if autobiography is the least complicated of writing performances, it is also
the most elusive of literary documents. One never knows where or how to
take hold of autobiography: there are simply no general rules available to
the critic8.
7
Si vedano soprattutto le due posizioni dominanti del dibattito, rappresentate dal Gusdorf (GUSDORF, De
l‟autobiographie initiatique, cit.; ID., Les écritures du moi, cit.; ID., Auto-bio-graphie, cit.) e dal Lejeune
(LEJEUNE, L‟autobiographie en France, cit.; ID., Le pacte autobiographique, cit.,; ID., Signes de vie, cit.).
La querelle è riassunta in J. CAMARERO, La théorie de l‟autobiographie de Georges Gusdorf, «Çedille» 4
(2008), pp. 57-82 e analizzata criticamente da ANGLANI, I letti di Procuste, pp. 35-85, a cui rimando per
chiunque voglia approfondire il dibattito.
8
OLNEY, Autobiography and the Cultural Moment, cit., p. 3. Misch parla dell‟autobiografia come genere
camaleontico, vd. G. MISCH, Geschichte der Autobiographie, Bern, A Francke 1949-1950 (vol. 1) –
Frankfurt-am-Main, G. Schulte-Bulmke 1955-1969 (voll. 2-4), voll. 4, I, pp. 6-7 (una parte dell‟opera è
stata tradotta in inglese, vd. ID., A History of Autobiography in Antiquity, a cura di E.W. Dickes,
Cambridge (MA), Harvard UP 1951, voll. 2. Sul genere autobiografico e le teorie che continuano a
dibattersi, oltre alla bibliografia finora citata vd. anche E. BRUSS, Autobiographical acts: The Changing
Situation of a Literary Genre, Baltimore, Johns Hopkins UP, 1976; M. DAVID, Le problème du journal
intime en Italie, in Le journal intime et ses formes littéraires. Actes du colloque de septembre 1975, a cura
di V. Del Litto, Genève-Paris, Droz 1978, pp. 101-18; K.J. WEINTRAUB, The Value of the Individual: Self
and Circumstance in Autobiography, Chicago-London, The University of Chicago Press 1978; W.
SPENGEMAN, The Forms of Autobiography. Episodes in the History of a Literary Genre, New Haven, Yale
UP 1980; N. D‟ANTUONO, Contributo alla storia dell‟autobiografia, Salerno, Laveglia, 1980;
Individualisme et autobiographie en Occident. Colloque tenu a Cerisy-la-Salle du 10 au 20 juillet 1979, a
5
Senza voler entrare in un dibattito nel quale ogni studioso offrirebbe il fianco a critiche
teoriche e formali, vorrei tornare sullo studio di testi che, come vedremo, pur lontani dal
modello delle Confessions, possiamo considerare come opere proto-autobiografiche9,
appartenenti cioè a quella preistoria sopra menzionata e quasi del tutto ignorata dalla
critica.
Nel mondo antico non mancano tracce autobiografiche già portate all‟attenzione
della critica da diversi studiosi, primo fra tutti il Misch10. Prima di Agostino d‟Ippona, gli
scrittori del mondo greco e romano scrissero res gestae; riportarono eventi a cui erano
stati testimoni durante la loro vita o a cui avevano attivamente partecipato, come ad
esempio i sopracitati Senofonte e Cesare, o le Epistolae di Cicerone; oppure spiegarono
la nascita e lo sviluppo delle loro idee, ed è il caso della Lettera VII di Platone. Gli
scrittori antichi si identificarono con il proprio patronimico, legando la propria vita a
cura di C. Delhez-Sarlet-M. Catani, Bruxelles, Editions de l‟Université de Bruxelles 1983; A. FORTILEWIS, Italia autobiografica, Roma, Bulzoni 1986; G. FOLENA, L‟autobiografia: il vissuto e il narrato,
Padova, Lavinia 1986; ID., Scrittori e scritture. Le occasioni della critica, Bologna, Il Mulino 1997; Ch.
TAYLOR, Sources of the Self: the Making of the Modern Identity, Cambridge, Harvard UP 1989; F.
D‟INTINO, Ottica biografica e ottica autobiografica, «Studi latini e italiani», 3 (1989), pp. 185-210; A.
BATTISTINI, Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il Mulino, 1990; E. NEPPI,
Soggetto e fantasma. Figure dell‟autobiografia, Pisa, Pacini 1991; M. FERRARIS, Mimica. Lutto e
autobiografie da S. Agostino a Heidegger, Milano, Bompiani 1992; Scrivere la propria vita, cit.; La
scrittura autobiografica fino all‟epoca di Rousseau, a cura di P. Toffano, Fasano (Br), Schena 1998; T.
FERRI, Le parole di Narciso. Forme e processi della scrittura autobiografica, Roma, Bulzoni 2003. Per un
esaustivo riscontro bibliografico vd. F. D‟INTINO, Il genere “autobiografia”. Bibliografia di fonti e studi, in
Scrivere la propria vita, cit., pp. 315-50; ID., L‟autobiografia moderna, cit., pp. 291-358; R. DIANA,
Scritture della vita fra biografia e autobiografia, Napoli, Liguori 2003.
9
Inserendosi nel dibattito sul genere autobiografico, Marziano Guglielminetti nota la fase di stallo della
critica e, senza prendere una netta posizione al riguardo, applica l‟idea di tempo e spazio soggettivo per
parlare di autobiografia nel Medioevo, vd. GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit. Sulla strada aperta
dal Guglielminetti si sono inseriti altri studiosi, vd. ad esempio la raccolta di saggi in L‟autobiografia nel
Medioevo, cit.; C. DELCORNO, Biografia, agiografia e autobiografia, «Lettere italiane», 51 (1999), pp.
173-196; ID., Le «Vitae Patrum» nella letteratura religiosa medievale (secc. XIII-XV), «Lettere italiane»,
43 (1991), pp. 187-207; R. ANTOGNINI, Il progetto autobiografico delle Familiares di Petrarca, Milano,
LED 2008; Le autobiografie, a cura di M. Guglielminetti, con la collaborazione di C. Allasia, Roma,
Istituto poligrafico e Zecca dello Stato 2005.
10
G. MISCH, Geschichte der Autobiographie, cit.
6
quella della loro famiglia o popolazione, come testimoniato dagli eroi omerici.
Successivamente la linea di discendenza è sostituita dall‟idea di polis o res publica,
fondendo la vita privata con quella pubblica, l‟individuo con la società. I due momenti
della vita attiva e della vita contemplativa, che demarcano il lavoro svolto a servizio della
società dalla ricerca meditativa personale, non sono distinti in quanto tra loro
complementari: al negotium quotidiano succede l‟otium, che non porta all‟autoriflessione
ma alla ricerca filosofica per un continuo miglioramento di sé e della propria condizione
sociale e civile all‟interno della comunità11.
11
Si veda ad esempio il seguente passaggio tratto dal De republica I, 2 di Cicerone sulla vita attiva e
contemplativa, presentate come due aspetti complementari del vivere quotidiano: «Nec vero habere
virtutem satis est quasi artem aliquam nisi utare; etsi ars quidem, cum ea non utare, scientia tamen ipsa
teneri potest, virtus in usu sui tota posita est; usus autem eius est maximus civitatis gubernatio et earum
ipsarum rerum, quas isti in angulis personant, reapse, non oratione perfectio. Nihil enim dicitur a
philosophis, quod quidem recte honesteque dicatur, quod <non> ab iis partum confirmatumque sit, a quibus
civitatibus iura discripta sunt. Unde enim pietas aut a quibus religio? unde ius aut gentium aut hoc ipsum
civile quod dicitur? unde iustitia, fides, aequitas? unde pudor, continentia, fuga turpi<tu>dinis, adpetentia
laudis et honestatis? unde in laboribus et periculis fortitudo? Nemque ab iis, qui haec disciplinis informata
alia moribus confirmarunt, sanxerunt autem alia legibus. Quin etiam Xenocraten ferunt, nobilem in primis
philosophum, cum quaereretur ex eo, quid adsequerentur eius discipuli, respondisse, ut id sua sponte
facerent quod cogerentur facere legibus. Ergo ille civis qui id cogit omnis imperio legumque poena, quod
vix paucis persuadere oratione philosophi possunt, etiam iis, qui illa disputant, ipsis est praeferendus
doctoribus. Quae est enim istorum oratio tam exquisita, quae sit anteponenda bene constitutae civitati
publico iure et moribus? Equidem quem ad modum “urbes magnas atque inperiosas”, ut appellat Ennius,
viculis et castellis praeferendas puto, sic eos, qui his urbibus consilio atque auctoritate praesunt, iis, qui
omnis negotii publici expertes sint, longe duco sapientia ipsa esse anteponendos. Et quoniam maxime
rapimur ad opes augendas generis humani studemusque nostris consiliis et laboribus tutiorem et
opulentiorem vitam hominum reddere et ad hanc voluptatem ipsius naturae stimulis incitamur, teneamus
eum cursum, qui semper fuit optimi cuiusque, neque ea signa audiamus, quae receptui canunt, ut eos etiam
revocent, qui iam processerint» («Ma la virtù, se conosciuta soltanto in teoria e non esercitata nella pratica,
non ha alcun valore: a differenza infatti delle altre arti che sussistono teoricamente in chi le possiede,
quando anche non siano applicate, la virtù esiste solo in quanto è attiva, ed essa si esplica soprattutto nel
governo della cosa pubblica e nell‟attuazione, a fatti, non a parole, di quei principi che costoro proclamano
nel chiuso delle loro scuole. Non v‟è affermazione filosofica, rispondente a giustizia e a onestà, che non
abbia origine e conferma in coloro che stabilirono le leggi negli stati. Donde nascono infatti il senso della
religiosità e l‟osservanza del culto? donde hanno origine il senso della giustizia e dell‟uguaglianza di diritti,
il rispetto verso la parola data e verso noi stessi, il ritegno e l‟odio per tutto quanto è turpe e malvagio, il
desiderio della lode e della onorabilità? donde la forza d‟animo nel tollerare fatiche e pericoli? Certamente
da coloro che, dopo aver appreso le norme che regolano la vita sociale, parte ne confermarono con i loro
costumi, parte ne sancirono con le leggi. Si racconta anzi che Senocrate, uno dei filosofi più autorevoli, a
chi gli chiedeva quale insegnamento i suoi discepoli traessero dalle sue dottrine, rispondesse che essi erano
indotti a fare spontaneamente quanto loro imponevano le leggi. Quel cittadino dunque, che con l‟autorità e
il rispetto delle leggi costringe tutti ad osservare quei principi che i filosofi con i loro ragionamenti possono
7
Nei testi che sono giunti fino a noi, però, nessun autore ha parlato della propria
anima, o meglio, con la propria anima, oggettivando il proprio io e limitandosi a inserire
particolari della sua vita nel quadro più ampio della Storia12. Per la letteratura grecoromana, infatti, si tende a parlare di autobiografismo e non di autobiografia, scindendo
l‟accidentale dato autobiografico dal genere letterario, in quanto
una cosa è derivare dall‟io dell‟autore elementi e mezzi di definizione
dell‟universo privato o pubblico, individuale o collettivo, naturale o
culturale, e altra cosa è attuare un progetto di narrazione del proprio io, della
propria esistenza e della propria storia13.
L‟assenza di una riflessione sull‟io inteso come singola persona si manifesta
stilisticamente nella terza persona singolare usata generalmente nel descrivere la propria
vita14.
a mala pena inculcare a pochi, è senz‟altro da anteporre a quegli stessi maestri che trattano tali questioni.
Quale loro ragionamento sarà infatti tanto perfetto che possa essere anteposto ad uno stato bene ordinato
per istituzioni e costumi? E come penso che “le città grandi e potenti”, per dirla con Ennio, siano da
preferirsi ai villaggi e ai castelli, così ritengo che a coloro che vivono lontani dalla vita pubblica siano di
gran lunga superiori in saggezza quegli uomini che con la loro autorità e con la loro perspicacia reggono gli
stati. E poiché siamo tratti per natura ad accrescere la felicità del genere umano e, inclini a tale piacere per
istinto naturale, ci sforziamo con i nostri pensieri e le nostre fatiche di rendere più sicura e confortevole la
vita altrui, continuiamo a percorrere quella stessa via che hanno sempre percorso gli uomini virtuosi e non
ascoltiamo i segnali di ritirata di quanti vorrebbero far retrocedere coloro che si sono già spinti innanzi»; la
citazione è tratta da M.T. CICERONE, De re publica. Dello stato, a cura di A. Resta Barrile, Milano,
Mondadori 1994, pp. 6-9).
12
WEINTRAUB, The Value of the Individual, cit., pp. 1-17.
13
R. SCRIVANO, Teoria e critica dell‟autobiografia, in Scrivere la propria vita, cit., pp. 25-35, p. 25. Vd.
inoltre M.G. BONANNO, L‟io lirico greco e la sua identità (anche biografica?), in La scrittura
autobiografica, cit., pp. 37-58; C. CAPPUCCIO, Parlare di sé: l‟autobiografismo nella cultura italiana,
Bottai, Impruneta, SISMEL Edizioni del Galluzzo 2002. Già Leopardi notava come l‟oggettivazione
ciceroniana dell‟io subisse un ripiegamento sull‟io stesso nei Τὰ εἰς ἑαυτόν di Marco Aurelio, in cui
l‟autore parla «a se stesso, e di se stesso, cioè del cuor suo ec. (e non delle sue cose pubbliche come fa
Cicerone)», G. LEOPARDI, Zibaldone, p. 2168 (citazione tratta da G. LEOPARDI, Zibaldone, a cura di R.
Damiani, Milano, Mondadori 1997, p. 1426).
14
Vd.
. Actes du deuxième colloque de
l‟Équipe de recherche sur l‟hellénisme post-classique, Paris, É
, 14-16 juin 1990, a
cura di M.F. Baslez-P. Hoffman-L. Pernot, Paris, Presses de l‟École normale supérieure 1993; La
componente autobiografica nella letteratura greca e latina fra realtà e artificio letterario. Atti del
8
Alla diffusione del Cristianesimo nel mondo occidentale segue la sovrapposizione
di una cultura ebraico-giudaica a quella classica greco-latina che genera l‟incipit del
discorso autobiografico nelle Confessiones di Agostino d‟Ippona, un unicum nel
panorama letterario medio-latino in quanto sono un «racconto autobiografico come parte
di un quadro teologico», in cui i fatti trascendono l‟individuo15. La ricerca filosofica si
arresta di fronte all‟atto di fede del Dio unico come origine e fine della vita umana e la
Convegno, Pisa, 16-17 maggio 1991, a cura di G. Arrighetti-F. Montani, Pisa, Giardini 1993; F. STOK,
L‟autobiografia nell‟Antichità: problemi, caratteristiche, tipologie, in La scrittura autobiografica, cit., pp.
59-82; L. CANFORA, L‟«io» narrante degli scrittori antichi, in «In quella parte del libro de la mia
memoria», cit., pp. 3-17; Écritures latines de la mémoire: de l‟Antiquité au XVI e siècle, a cura di H.
Casanova-Robin-P. Galand, Paris, Garnier 2010. Tra le opere avvicinabili al genere autobiografico ci sono
le Epistolae di Cicerone, appartenenti comunque al genere epistolografico, massima espressione del parlare
di sé che un uomo di quel mondo poteva produrre, ma non affrontano il problema dell‟interiorità della
propria anima, rimanendo su di un livello superficiale ed evitando le risposte alle canoniche domande: «Chi
sono io? Come sono diventato quello che sono?». Sulla compenetrazione e sovrapposizione tra il genere
epistolografico e autobiografico vd. G. ROSSI, Le biografie, le autobiografie e gli epistolari. Storia dei
generi letterari italiani, Milano, Vallardi 1912, che si arresta a Pier Damiani; R. MORABITO, Lettere e
letteratura. Studi sull‟epistolografia volgare in Italia, Alessandria, Edizioni dell‟Orso 2001, che parla di
generi autonomi e distinti; W. STOREY, Il «liber» nella formazione delle «Familiari», in Motivi e forme
delle «Familiari» di Francesco Petrarca. Atti del Convegno di Gargnano del Garda, 2-5 ottobre 2002, a
cura di C. Berra, Milano, Cisalpino, pp. 495-506, secondo il quale ci sarebbe la compresenza di diversi
generi letterari; e, più in generale, N. BONIFAZI, Il genere letterario: dall‟epistolare all‟autobiografico, dal
lirico al narrativo e al teatrale, Ravenna, Longo 1986; G. RABITTI, Epistolari e scritture autobiografiche
nel Tre e Quattrocento, in Manuale di letteratura italiana, cit., I, Dalle origini alla fine del Quattrocento,
pp. 830-64. Vd. anche il punto della situazione in A. CORTELLESSA, Generi «contigui» all‟autobiografia.
Bibliografia selezionata di studi, in Scrivere la propria vita, cit., pp. 351-66; Autobiografie e contesti
culturali: ibridazioni, generi e alterità, a cura di D. Corona, Palermo, Università degli studi di Palermo
1999.
15
La citazione è da C. MOHRMANN, Le «Confessioni» come opera letteraria, «Convivium» 25 (1957), pp.
257-67, ristampato in EAD., Études sur le latin des Chrétiens, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1961,
voll. 4, II, pp. 277-92, p. 281; vd. inoltre EAD., Le «Confessioni» come documento autobiografico,
«Convivium» 27 (1959), pp. 1-12, ristampato in op. cit., pp. 292-308, p. 307. Sull‟io autobiografico
agostiniano si vedano principalmente gli studi di COURCELLE, Les «Confessions» de Saint Augustin, cit.;
ID., «Nosce te ipsum» du Bas-Empire au Haut Moyen Age. L‟Héritage profane et les développements
Chrétiens, «Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'alto medioevo», 9 (1962), pp. 265-95; E.
VANCE, Le moi comme langage: Saint Augustine et l‟autobiographie, «Poétique», 14 (1973), pp. 163-77;
G. LUONGO, Autobiografia ed esegesi biblica nelle «Confessioni» di Agostino, «La Parola del Passato» 31
(1976), pp. 286-306; WEINTRAUB, The Value of the Individual, cit., pp. 18-48 (St. Augustine‟s Confessions:
The Search for a Christian Self); L. ROTHFIELD, Autobiography and Perspective in the Confessions of Saint
Augustine, «Comparative Literature» 33 (1981), pp. 209-223; F.E. CONSOLINO, Interlocutore divino e
lettori terreni: la funzione-destinatario nelle Confessioni di Agostino, «Materiali e discussioni per l‟analisi
dei testi classici», 6 (1981), pp. 119-46; D. CAPPS, Parabolic Events in Augustine‟s Autobiography,
«Theology Today», 40 (1983), pp. 260-72; L. ALICI, L‟altro nell‟io. In dialogo con Agostino, Roma, Città
Nuova 1999; ID., Le «Confessioni» di Agostino e la scoperta dell‟io, in «In quella parte del libro de la mia
memoria», cit., pp. 19-36.
9
ricerca del vero è interrotta dalla verità rivelata e acquisita del cristiano. Mentre la vita
attiva diviene una futile distrazione, la vita contemplativa è il momento in cui l‟“io”, il
singolo, ripiegando su se stesso, dialoga con Dio, scoprendo se stesso nell‟immagine
della divinità riflessa nell‟anima del credente16.
16
Contrariamente a quanto visto per Cicerone, in Agostino, e in generale nel mondo cristiano, la ricerca
filosofica diviene ricerca di un termine già dato, Dio; e per raggiungerlo bisogna indagare prima di tutto
l‟uomo. Si vedano ad esempio i primi due paragrafi delle Confessiones, e si contrappongano alla vita
contemplativa di Cicerone, supra, p. 6, n. 11: AGOSTINO, Confessiones I, 1-2: «Magnus es, Domine, et
laudabilis valde magna virtus tua et sapientiae tuae non est numerus et laudare te vult homo, aliqua portio
creaturae tuae, et homo circumferens mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui et
testimonium, quia superbis resistis: et tamen laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae. Tu excitas,
ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te. Da mihi,
Domine, scire et intellegere, utrum sit prius invocare te an laudare te et scire te prius sit an invocare te. Sed
quis te invocat nesciens te? aliud enim pro alio potest invocare nesciens. An potius invocaris, ut sciaris?
quomodo autem invocabunt, in quem non crediderunt? aut quomodo credunt sine praedicante? et laudabunt
Dominum qui requirunt eum quaerentes enim inveniunt eum et invenientes laudabunt eum. Quaeram te,
Domine, invocans te et invocem te credens in te: praedicatus enim es nobis. Invocat te, Domine, fides mea,
quam dedisti mihi, quam inspirasti mihi per humanitatem filii tui, per ministerium praedicatoris tui. Et
quomodo invocabo Deum meum, Deum et Dominum meum, quoniam utique in me ipsum eum vocabo,
cum invocabo eum? et quis locus est in me, quo veniat in me Deus meus? quo Deus veniat in me, Deus, qui
fecit caelum et terram? itane, Domine Deus meus, est quidquam in me, quod capiat te? an vero caelum et
terra, quae fecisti et in quibus me fecisti, capiunt te? an quia sine te non esset quidquid est, fit, ut quidquid
est capiat te? quoniam itaque et ego sum, quid peto, ut venias in me, qui non essem, nisi esses in me? non
enim ego iam in profundis inferi, et tamen etiam ibi es. Nam etsi descendero in infernum, ades. Non ergo
essem, Deus meus, non omnino essem, nisi esses in me. An potius non essem, nisi essem in te, ex quo
omnia, per quem omnia, in quo omnia? etiam sic, Domine, etiam sic. Quo te invoco, cum in te sim? aut
unde venias in me? quo enim recedam extra caelum et terram, ut inde in me veniat Deus meus, qui dixit:
caelum et terram ego impleo?» («Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù e la tua
sapienza incalcolabile. E l‟uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo
destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure
l‟uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci
hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire
se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non
ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per
conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà
l‟annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo
loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t‟invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto.
T‟invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante
l‟opera del tuo annunziatore. Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque
invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove
possa venire dentro di me Dio, Dio che creò il cielo e la terra? C‟è davvero dentro di me, Signore Dio mio,
qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai
creato? Oppure, poiché senza di te nulla sarebbe di quanto è, avviene che quanto esiste ti comprende? E
poiché anch‟io sono così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me?
Non sono ancora nelle profondità degli inferi, sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso
all‟inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non
sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque
t‟invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là
10
La conversazione tra “io” e “tu”, propedeutica alla pratica confessionale in cui il
fedele parla con il sacerdote e riesce a recuperare dalla propria memoria gli errori e i
peccati, gli impulsi e i desideri, e principio basilare del genere autobiografico, testimonia
una conversione, una mutatio animi dell‟autore, e permette la rivisitazione e valutazione
retrospettiva della propria vita in attesa del giudizio divino, offrendo al fedele la
possibilità di redimersi17.
La critica ha a lungo dibattuto sull‟origine cristiana dell‟autobiografia, offrendo
soluzioni diverse al medesimo problema. Come notava già Gusdorf, «il ne semble pas
que l‟autobiographie se soit jamais manifestée en dehors de notre aire culturelle; on dirait
qu‟elle traduit un souci particulier à l‟homme d‟Occident, souci qu‟il a pu apporter avec
lui dans sa conquête méthodique de l‟univers […]»18; a cui fa seguito May, affermando
che «l‟autobiographie est bien une forme d‟expression particulière à la culture
occidentale»19.
Gli studiosi del genere concordano tuttavia sulla presenza di un paradosso di fondo,
reso evidente dalla formula ego non sum ego, usata da Foucault: «Self-revelation is at the
venga in me il mio Dio, che disse: “Cielo e terra io ti colmo”?»; la citazione è tratta da AGOSTINO, Le
confessioni, a cura di M. Bettetini; traduzione di C. Carena, Torino, Einaudi 2000, pp. 2-5). Vd. anche il
capitolo Vita attiva e vita contemplativa in N. MANN, Petrarca, a cura di G.C. Alessio-L.C. Rossi,
premessa di G. Velli, Milano, LED 1993, pp. 27-41.
17
Vd. D‟INTINO, L‟autobiografia moderna, cit., in particolare pp. 21-29. Così, ad esempio, Dante deve
confessare le proprie colpe (Pg XXXI, 1-36) prima di immergersi nel Leté ed entrare in paradiso.
18
G. GUSDORF, Conditions et limites de l‟autobiographie, in Formen der Selbstdarstellung. Analekten zu
einer Geschichte des literarischen Selbstportraits, a cura di G. Reichenkron, Berlin, Duncker & Humbolt
1975, pp. 105-231. La citazione qui riportata è a p. 105.
19
G. MAY, L‟autobiographie, Paris, Seuil 1979, in particolare pp. 17-18, in cui parla di una liaison tra
l‟autobiografia e il mondo occidentale, riaffermando le tesi già esposte da Gusdorf. Le poche eccezioni che
si trovano al di fuori di quest‟affermazione generica sono casi sporadici, dovuti per lo più all‟influenza
della cultura occidentale sulle altre, vd. GUSDORF, Conditions et limites, cit., ma anche WEINTRAUB, The
Value of the Individual, cit., pp. XI-XIX.
11
same time self-destruction»20. Al cristiano, in generale, non si chiede la conoscenza di sé,
quanto, al contrario, il suo annullamento. Il credente deve affidarsi completamente a Dio
e lasciare che il suo corpo torni cenere e che la sua anima si annulli in uno spazio e tempo
aspaziali e atemporali. Una parte della critica ha così cercato di eludere la
complementarità e compenetrazione tra autobiografia e Cristianesimo parlando piuttosto
del rapporto tra autobiografia e individuo: l‟autobiografia sarebbe legata alla scoperta
dell‟individualismo, cominciato secondo Morris durante il Rinascimento del XII secolo21.
Credo, però, che questa risposta semplicemente aggiri l‟ostacolo, poiché rimane il
paradosso di una società medievale cristiana e individualista.
Partendo da queste premesse, da dove nasce quest‟“io” che emerge dalle pagine di
Francesco, Dante e Petrarca? Misch, lasciandoci 3881 pagine divise in quattro volumi nel
suo Geschichte der Autobiographie e analizzando testi che vanno dai papiri egizi fino
agli scrittori del XIX secolo, dedica 2724 pagine alla storia dell‟autobiografia nel
Medioevo22. Lo studioso tedesco, non differenziando autobiografia da autobiografismo,
20
M. FOUCAULT, Technologies of the Self, in Technologies of the Self: A Seminar with Michel Foucault, a
cura di L.H. Martin-H. Gutman-P.H. Hutton, Amherts, University of Massachusetts Press 1988, pp. 16-49,
p. 43. Vd. anche G. GUSDORF, La découverte de soi, Paris, P.U.F., 1948, in particolare il primo capitolo,
L‟attitude dogmatique, pp. 2-24: «De Socrate aux chrétiens en passant par les philosophes classiques, il
semble qu‟il n‟y a pas de secret de la vie personnelle. Tout est résolu d‟avance, ou du moins si quelque
incertitude subsiste, elle est sans importance. L‟essentiel est très clair, le mystère de la faute, de l‟erreur ou
du péché dans sa signification intérieure, apparaît comme négligeable, - simple résidu de l‟expérience
morale, métaphysique ou religieuse» (ivi, p. 23); e F. D‟INTINO, I paradossi dell‟autobiografia, in Scrivere
la propria vita, cit., pp. 275-313.
21
C. MORRIS, The Discovery of the Individual: 1050-1200, New York, Harper & Row 1972; ID.,
Individualism in Twelfth-Century Religion. Some Further Reflections, «Journal of Ecclesiastical History»
31, 2 (1980), pp. 195-206, ripreso poi da M. ZINK, La Subjectivité littéraire. Autour du siècle de saint
Louis, Paris, Presses universitaires de France 1985; A. JA. GUREVIČ, La nascita dell‟individuo nell‟Europa
medievale, Roma-Bari, Editori Laterza 1996, in particolare pp. 3-24 e la bibliografia ivi citata; P.
BRAUNSTEIN, Approches de l‟intimité, XIVe-XIVe siècle, in Histoire de la vie privée, a cura di P. Ariès-G.
Duby, Paris, Seuil 1985, voll. 5, II, pp. 526-619. Vd. anche C.H. HASKINS, The Renaissance of the Twelfth
Century, Cambridge, Harvard UP 1933 e J. LE GOFF, Les intellectuels au Moyen Age, Paris, Seuil 1957;
Renaissance and Renewal in the Twelfth Century, a cura di R.L. Benson-G. Constable, con C.D. Lanham,
Oxford, Clarendon 1985.
22
MISCH, Geschichte der Autobiographie, cit.
12
riprende ogni forma grammaticale, pronominale o verbale in prima persona dei testi da
lui studiati, base per gli studi sull‟autobiografia, mettendo tuttavia in secondo piano le
motivazioni dell‟autore e il contenuto dell‟opera.
Negli ultimi cinquant‟anni si è ritornati sul dibattito, solitamente tendendo a negare
la presenza autobiografica nel Medioevo, considerandola come incidentale e
secondaria23. Applicando rigide griglie interpretative alle Confessions di Rousseau,
risultate comunque fallaci nella definizione del genere, si sono cercati nelle epoche
precedenti testi che potessero essere contenutisticamente e strutturalmente paragonati al
capolavoro dell‟illuminista francese, inficiando però sin dal principio la ricerca di
qualcosa che non poteva ancora esistere. Nemmeno la svolta individualistica del XII
secolo avrebbe prodotto opere autobiografiche, in quanto l‟“io” avrebbe una pura
funzione grammaticale24; confondendo the discovery of the Self, punto centrale del
discorso autobiografico, con the discovery of the individual25. L‟individualismo, cioè, ha
fatto sì che l‟uomo scoprisse il valore della persona, ma non della sua coscienza.
Il parlare di sé nel Medioevo viene così ricondotto a generi conosciuti e
riconosciuti dagli stessi scrittori dell‟epoca, come l‟agiografia, la confessio e la
consolatio26. La critica, paragonando queste opere con il modello offerto dalle
23
P. LEJEUNE, L‟autobiographie en France, cit.; ma soprattutto vd. ID., Le pacte autobiographique, cit.
P. ZUMTHOR, Autobiographie au Moyen Age?, in ID., Langue, texte, énigme, Paris, Seuil 1975, pp. 16580; simile è la posizione in L. SPITZER, Note on the Poetic and the Empirical «I» in Medieval Authors,
«Traditio», 4 (1946), pp. 414-22, ristampato in Romanische Literatur-Studien, 1936-1956, Tübingen, Max
Niemeyer Verlag 1959, pp. 100-112.
25
C. WALKER BYNUM, Did the Twelfth Century Discover the Individual?, «The Journal of Ecclesiastical
History», 31 (1980), pp. 1-17, ristampato in Jesus as Mother: Studies in the Spirituality of the High Middle
Ages, Los Angeles, Berkley UP 1982, pp. 82-109.
26
Sui generi letterari nel Medioevo vd. il classico H.R. JAUSS, Littérature médiévale et théorie des genres,
«Poétique», 1 (1970), pp. 79-101, ristampato in Théorie des genres, a cura di G. Genette-H.R. Jauss-J.-M.
Schaeffer-R. Scholes-W. Dieter Stempel-K. Vietör, Paris, Seuil 1986, pp. 37-76; Medieval literary theory
and criticism, c.1100-c.1375: the commentary-tradition, a cura di A.J. Minnis-A.B. Scott, con la
collaborazione di D. Wallace, Oxford, Clarendon Press-New York, Oxford UP 1988. Sulle critiche al
24
13
Confessions, tende in tal modo ad evitare il termine autobiografia nel Medioevo e a
recuperare una terminologia già conosciuta e usata. Tale impostazione, tuttavia,
sottovaluta il valore dell‟imitatio dell‟universo medievale, in cui la scrittura doveva
essere ricondotta all‟auctoritas27. Il presunto silenzio autobiografico era imposto dalle
leggi retoriche del tempo che giudicavano poco lecito parlare della propria vita, secondo
la celebre definizione dantesca che «Non si concede per li retorici alcuno di se medesimo
sanza necessaria cagione parlare»28. Lo scrittore medievale doveva quindi ricorrere alla
tradizione come sola e unica via per trovare una giustificazione al parlare di sé e, nel
contempo, superare le restrizioni retoriche con altri artifici, sempre retorici, che gli
permettessero il superamento di tale limite29.
riconoscimento del genere autobiografico nel Medio Evo vd. P. LEHMANN, Autobiographies of the Middle
Ages, «Transactions of the Royal Historical Society», serie 5, 3 (1953), pp. 41-52; E. BIRGE VITZ, Type et
individu dans l‟«autobiographie» médiévale. Étude d‟«Historia Calamitatum», «Poétique» 24 (1975), pp.
426-45 e, in generale, Die Autobiographie im Mittelalter – Autobiographie et références
autobiographiques au Moyen Age. Actes du Colloque du Centre d‟Études Médiévales de l‟Université de
Picardie Jules Vernes, 30 Mars au 1er Avril 1995, Greifswald, Reineke 1995.
27
Vd. il capitolo Il libro come simbolo in E.R. CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di
R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia Editrice 1992, pp. 335-85, p. 361: «Per il Medio Evo, l‟acquisizione
di ogni verità equivale all‟acquisizione di auctoritates tradizionali; poi, con il XIII secolo, la verità si
acquisisce mediante un equilibrio razionale fra testi autorevoli. La comprensione del mondo non si
concepisce come funzione creatrice, bensì come accoglimento e ripresentazione di fatti preesistenti: del che
la letteratura è l‟espressione simbolica». Lejeune, riferendosi in termini moderni a un modello di
riferimento, definisce queste riprese autbiocopia, vd. P. LEJEUNE, L‟autobiocopie, in Autobiographie et
Biographie. Colloque franco-allemand de Heidelberg, a cura di M. Calle-Gruber-A. Rithe, Paris, Nizet
1989, pp. 53-66.
28
Cv I, 2, 3.
29
Sul rapporto tra autobiografia e retorica vd. J. BRUNER-S. WEISSER, The invention of the self:
autobiography and its forms, in Literacy and orality, a cura di D.R. Olson-N.Torrance, Cambridge-New
York, Cambridge UP 1991, pp. 129-48. L‟autobiografia è spesso paragonata a una figura retorica: Olney la
descrive come metafora dell‟io (J. OLNEY, Metaphors of Self. The Meaning of Autobiography, Princeton,
Princeton UP 1972); De Man come prosopopea (P. DE MAN, Autobiography as De-facement, «Modern
Language Notes», 94 (1979), pp. 19-30, in particolare p. 927); Varner Gunn come sineddoche (J. VARNER
GUNN, Autobiography: Toward a Poetics of Experience, Philadelphia, University of Pennsylvania Press
1982); Fernández come apostrofe (J.D. FERNÁNDEZ, Apology to Apostrophe: Autobiography and the
Rhetoric of Self-Representation in Spain, Durham (N.C.)-London, Duke UP 1992).
14
Uscendo da sterili schematizzazioni, si può intendere l‟autobiografia come spazio
della soggettività, secondo la definizione di Zink30, o delle scritture del sé nei lavori di
Foucault e Gusdorf31.
Da un punto di vista letterario, Zink parla di écriture monodique, mutuando
l‟espressione dal De vita sua di Guibert de Nogent, significando «“chanter soi seul”, sans
définir soi comme sujet ou comme objet»32, poiché le distinzioni tra parler soi-même et
parler de soi-même sono categorie moderne estranee agli scrittori medievali. La
definizione di Zink lo porta ad affermare che «mémoires et autobiographie sont le deux
voies de la même confession»33, eliminando possibili sottocategorizzazioni della
monodia e facendo implicitamente divenire l‟autobiografia una categoria della
confessione.
Da un punto di vista esistenziale, Foucault individua uno spazio di autocoscienza di
sé all‟inizio del Cristianesimo nella forma della exagoreusis, la confessione verbale
pubblica, definita come «an analytical and continual verbalization of thoughts carried on
in the relation of complete obedience to someone else»34, che si differenzia dalla
confessione sacramentale privata (exomologesis, «a dramatic expression of the situation
of the penitent as sinner which makes manifest his status as sinner»35). Foucault
30
ZINK, La subjectivité littéraire, cit., in particolare pp. 171-264; ma sull‟argomento vd. anche B. STOCK,
The Self and Literary Experience in Late Antiquity and the Middle Ages, «New Literary History», 25, 4
(1994), pp. 839-852. Vd. inoltre il punto della situazione degli studi sull‟autobiografia nel Medioevo in F.
STELLA, Lo spazio della soggettività nella letteratura carolingia, in L‟autobiografia nel Medioevo, cit., pp.
49-80.
31
FOUCAULT, Technologies of the Self, cit.; GUSDORF, Conditions et limites de l‟autobiographie, cit.; ID.,
Les écritures du moi, cit. Sull‟argomento vd. anche OLNEY, Metaphors of Self, cit., che sviluppa una tesi
molto simile, su di un piano letterario, a quella di Gusdorf.
32
ZINK, La subjectivité littéraire, cit., p. 198.
33
Ivi, p. 199.
34
FOUCAULT, Technologies of the Self, cit., pp. 43-49, p. 48.
35
Ivi. Vd. inoltre lo studio etimologico sul termine confessio nel latino ecclesiastico in J. RATZINGER,
Originalität und Überlieferung in Augustins Begriff der Confessio, «Revue des études augustiniennes», 3
15
identifica la forma confessionale come l‟inizio della nascita di quello che chiama new self
e che dal XVIII secolo arriva ai giorni nostri.
Da un punto di vista storico, Gusdorf parla di scrittura del sé o, più recentemente,
di scrittura dell‟io. Tali forme sono associate all‟individualità, alla sincerità e al genio
personale ben prima di Rousseau, in un punto fondamentale del pensiero umano che va
dalla coscienza di sé alla conoscenza di sé e che precede la codificazione letteraria del
genere36. Lo scrivere di sé diviene sia opera d‟arte sia opera ontologica di come lo
scrittore crede o vuole credere di essere o essere stato37.
A quanto scritto finora, si aggiunge il punto di vista stilistico osservato da
Starobinski, secondo il quale i primi scritti di carattere autobiografico sono il risultato
della valutazione del singolo che rivela pubblicamente la propria conversione:
il n‟y aurait pas eu de motif suffisant pour une autobiographie, s‟il n‟était
intervenu, dans l‟existence antérieure, une modification, une transformation
radicale: conversion, entrée dans une nouvelle vie, opération de la Grâce38.
A una giovinezza vissuta nei vizi, segue un momento chiave che fa da spartiacque tra un
prima e un dopo, tra il peccatore del passato e l‟uomo del presente. Starobinski evita
definizioni di genere:
L‟autobiographie n‟est certes pas un genre “réglé”: elle suppose toutefois
réalisées certaines conditions de possibilité, qui apparaissent au premier
(1957), pp. 375-92; e S. SPENDER, Confessions and Autobiography, in Autobiography: Essays Theoretical
and Critical, cit., pp. 115-22.
36
GUSDORF, La découverte de soi, cit., pp. VI-VIII.
37
GUSDORF, De l‟autobiographie initiatique, cit.
38
J. STAROBINSKI, Le style de l‟autobiographie, «Poétique», 3 (1970), pp. 255-65, p. 261. Anche R.
PASCAL, Design and Truth in Autobiography, London, Routledge & Kegan 1960, pp. 3-9, definisce l‟idea
di standpoint come punto di osservazione che permette di osservare in modo retrospettivo la propria vita.
16
chef comme des conditions idéologiques (ou culturelles): importance de
l‟expérience personnelle, opportunité d‟en offrir la relation sincère à
autrui39.
L‟io entra in contatto con se stesso attraverso il confronto con l‟altro, col tu, in una sorta
di discorso allo specchio in cui la propria anima viene riflessa: «le je est confirmé dans sa
fonction de sujet permanent par la présence de son corrélat tu, qui confère au discours sa
motivation»40. La confessione, mutuata dal modello agostiniano, diviene verità discorsiva
e discorsività veridica.
Seguendo queste correnti critiche si dipana il filo che unisce autobiografia e
religiosità cristiana, punto di partenza del presente studio. È soprattutto Georges Gusdorf
ad affermare che l‟autobiografia nasce nel momento in cui il credente, entrato in
colloquio con la divinità, scopre la possibilità e la necessità di fare di se stesso il centro
della propria esperienza. Riferendosi alle nuove coscienze religiose sorte tra il XVI e il
XVII secolo, in particolare quelle dell‟Inghilterra puritana e pietista egli osserva negli
scritti di carattere privato un ripiegamento e una riflessione dell‟uomo su se stesso alla
ricerca di un equilibrio in seguito alle guerre che hanno stravolto l‟Europa41. Ricercando
Dio nel proprio animo, l‟uomo misura e crea lo spazio della conoscenza di sé42:
La décision autobiographique atteste une nouvelle manière d‟être un homme
parmi les hommes, dans le monde et devant Dieu. Il ne s‟agit pas seulement
de se raconter selon le style de la chronique, mais de se ressaisir, et même
de se constituer. La découverte d‟un nouveau continent intérieur, le moi et
39
STAROBINSKI, Le style de l‟autobiographie, cit., p. 260.
Ibidem.
41
GUSDORF, De l‟autobiographie initiatique, cit., 982: «c‟est parmi les réformés que s‟affirmera la
littérature du moi, en règle générale du moins», ma le medesime riflessioni ritornano anche a p. 979.
42
«Toute autobiographie digne de ce nom présente ce caractère d‟une expérience initiatique, d‟une
recherche du centre», vd. op. cit., p. 971. Le stesse opinioni vengono riprese in ID., Les écritures du moi,
cit., in particolare nel terzo capitolo, L‟acte de naissance des écritures du moi?, pp. 53-67.
40
17
ses diverses provinces, ne manifeste pas seulement une réalité latente, qui se
trouvait déjà là, en attente […]. La nouvelle voie d‟approche institue un
objet nouveau ; elle apparaît comme une entreprise d‟édification. Telle,
déjà, la confession, acte sacramentel, qui n‟est pas un dire seulement, mais
un être et un faire, une transfiguration de l‟existence dans la paix retrouvée
de soi à soi et avec Dieu43.
La componente esistenzialista della definizione di Gusdorf ruota sui cardini della
singolarità individuale della persona, suscettibile all‟interesse altrui oltre che al proprio,
che ha coscienza della propria esistenza, dell‟effetto etico del modello di vita che vuole
proporre, e del rivolgersi a dei lettori che sono altri da lui. La scrittura della propria vita
diviene una seconda lettura degli avvenimenti dell‟esistenza:
L‟autobiographie est une conquête, non pas simplement un inventaire des
aspects divers d‟une existence. […] L‟homme de l‟autobiographie se
découvre donné à lui-même comme un problème, dont lui seul peut trouver
la solution. […] L‟activité de l‟homme dans le monde n‟entame pas une
certaine réserve de la réalité personnelle, qui, ne parvenant pas à s‟exprimer,
manifeste par sa récurrence une insatisfaction profonde. Par-delà le sillage
objectif du curriculum vitae, […] un autre cheminement se poursuit,
parallèle ou inverse, ou parfois jouant à cache-cache avec le premier. C‟est
ce cheminement second ―ou premier― que l‟autobiographie cherche à
rendre compte44.
43
GUSDORF, De l‟autobiographie initiatique, cit., p. 972, e poco dopo aggiunge: «L‟intention
autobiographique vise à constituer une eschatologie de la vie personnelle ; la recherche du centre sera
couronnée de succès si elle donne accès en ce foyer imaginaire où l‟être humain atteint à la pleine
réconciliation avec soi-même. Un tel accomplissement correspond à un exercice spirituel, impliquant une
ascèse, dont tous les individus ne sont pas capables. […] L‟édification de soi doit aller de pair avec
l‟ordonnancement de l‟univers ; l‟unité de sens n‟est pas donnée, elle doit être conquise, au prix d‟une lutte
contre les évidences et les circonstances. […] La conquête de soi permettra à celui qui se cherche de
regagner sa vie perdue, non pas seulement aux yeux d‟un public présent ou à venir, mais dans le moment
même où l‟écriture accomplit son œuvre d‟élucidation» (ivi, pp. 974-75).
44
Ivi, p. 971.
18
Questa indiscutibile matrice religiosa è, naturalmente, riscontrabile e fortissima nel
Medioevo, così come la presenza di personalità che vogliono uscire dal controllo
gerarchico della Chiesa, non più sufficiente alle loro esigenze spirituali ed esistenziali45.
Partendo dalle conclusioni di Gusdorf, in questo lavoro vorrei anticipare il
ripiegamento e la riflessione sul sé all‟autunno del Medioevo (XIII-XIV secolo), quando
la crisi religiosa era parte della vita quotidiana di ogni uomo, ma solo alcuni tra loro,
dalla personalità eccezionale, hanno saputo metterla per iscritto 46. La crisi che portò
Francesco alla conversione; Dante all‟esilio, alla revisione della sua missione e alla
preparazione della Comedia; e Petrarca allo struggimento interiore di fronte all‟eterna
dicotomia tra mondo umano e divino, rappresenta diversi aspetti della poliedrica
condizione umana e ha aperto, per poco più di un secolo, uno squarcio e uno sguardo
sull‟“io”, chiuso poi dal recupero dell‟antico proprio dell‟Umanesimo.
1.2.
Premessa storica
Nel Medioevo l‟identità individuale non era concepita: la vita del singolo era
organizzata dal volere celeste a cui bisognava uniformarsi per obbedire alla volontà di
Dio. La società medievale rappresentava l‟ideale ordine divino, dividendosi in tre ordini,
bellatores, oratores e laboratores, la cui armonia era mantenuta dall‟obbedienza e dal
45
Ivi, p. 986; vd. anche il riassunto di queste argomentazioni in ID., Les écritures du moi, cit., pp. 62-67.
Già Price Zimmerman era favorevole ad anticipare la riflessione sull‟io a Petrarca e Giovanni Conversini
da Ravenna per seguire poi con Alberti ed Enea Silvio Piccolomini, vd. T.C. PRICE ZIMMERMAN,
Confession and Autobiography in the Early Renaissance, in Renaissance Studies in Honor of Hans Baron,
a cura di A. Mohlo-J.A. Tedeschi, Firenze, Sansoni 1971, pp. 121-40.
46
19
servizio: le azioni del singolo prendevano significato solo all‟interno della comunità, la
quale rifletteva un progetto divino47.
Tale struttura gerarchica si rifletteva negli scrittori e nella scrittura del tempo.
Quest‟ultima, atto d‟ispirazione divina, rielaborava scritti preesistenti, le auctoritates,
nella quasi totalità testi religiosi, entrando in questioni oggi difficilmente leggibili, ma
che all‟epoca rappresentavano l‟unico tema trattabile. La fissità della scrittura e dei suoi
modelli lasciava poco spazio alla creatività degli scrittori che rimanevano per lo più
anonimi48.
Slegato dall‟autore materiale, il testo scritto assumeva un valore che trascendeva il
singolo per comprendere la collettività di cui lo scrittore faceva parte. Per questo motivo,
con la nascita delle lingue romanze e il coinvolgimento di un pubblico più vasto, verso
l‟anno Mille si sviluppa il genere collettivo per eccellenza, l‟epica, che esclude un punto
di vista e una valutazione personali49. Come era successo nel mondo antico con i poemi
omerici, ora anche il Medioevo aveva bisogno dei suoi eroi in cui identificarsi che
combattevano e si sacrificavano per il proprio popolo: nella Chanson de Roland (XI
secolo exeunte), esempio più alto dell‟epica medievale, nel momento della morte i
pensieri di Orlando sono rivolti prima alla nazione e alla stirpe, poi a se stesso50.
47
Sull‟argomento vd. Ch. LEE, La soggettività nel Medioevo, Roma, Vacchiarelli 1996, in particolare pp.
5-44, di cui sono debitore e che riprendo in questa premessa storica con alcune puntualizzazioni; vd. anche
G. DUBY, Les trois ordres ou l‟imaginaire du féodalisme, Paris, Gallimard 1978.
48
L. HOLTZ, Autore, copista, anonimo, in Lo spazio letterario nel Medioevo. Il Medioevo latino, a cura di
G. Cavallo-C. Leonardi-E- Menestò, Roma, Salerno, 1992-1998, voll. 5, I.1, La produzione del testo, pp.
325-51.
49
M. BAKHTIN, Epos e Romanzo, in ID., Estetica e Romanzo, a cura di C. Strada Janovic, Torino, Einaudi
1979, pp. 445-82, p. 458. Dante trasforma questo genere in senso individualistico, ponendo se stesso come
soggetto del racconto.
50
Nella lassa CLXXVI, Orlando ormai morente rammenta tra pianti e sospiri prima le proprie conquiste e
successivamente la dolce Francia, la sua stirpe (lign) e il suo signore Carlomagno. Solamente alla fine si
ricorda di se stesso, invocando Dio per la salvezza dell‟anima:
20
Nemmeno le prime manifestazioni romanze del genere lirico esprimevano il singolo, in
quanto si trattava di una poesia sociale che rifletteva un‟esperienza comune. È la corte
che scrive per sé, condividendo la propria esperienza con i poeti in grado di
comprenderla, come nel caso dei trovatori o della scuola siciliana, mancando però di
un‟analisi interiore che all‟epoca non poteva esserci. Ai generi epico e lirico bisogna
aggiungerne un terzo, molto diffuso nel Medioevo: l‟agiografia. Il racconto delle vite dei
santi è lo scontato risultato di una società in cui la letteratura ha uno scopo
principalmente didattico51 che segue l‟archetipo cristologico, l‟imitatio Christi52. In altre
parole, la vita dell‟individuo non destava l‟interesse letterario se non quando veicolava
un significato più ampio che rifletteva la condizione dell‟umanità intera in un processo
che dal particolare tendeva all‟universale53.
Alla fine del XII secolo, il sistema feudale e l‟idea di servizio cominciano ad
entrare in crisi per lasciare spazio alle città. La nuova classe emergente, la “borghesia”, si
basa sull‟autoaffermazione dell‟individuo che, grazie alle proprie forze e capacità, pone
un elemento di rottura con l‟immobilità sociale altomedievale. Nascono nel contempo le
«De plusurs choses a remember li prist,
De tantes teres cume li bers conquist,
De dulce France, des humes de sun lign,
De Carlemagne, sun seignor, ki·l nurrit;
Ne poet müer n‟en plurt e ne suspirt.
Mais lui meïsme ne volt mettre en ubli,
Cleimet sa culpe, si prïet Deu mercit».
La Chanson de Roland, a cura di C. Segre, Genève, Droz 1989, voll. 2.
51
I primi testi in volgare, sia in francese che in volgare italiano, sono di matrice e origine religiosa, dalla
sequenza di Sant‟Eulalia alla Vie de Saint Alexis, fino ai ritmi laurenziano o cassinese. Per un quadro di
riferimento vd. Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano, Ricciardi 1960, voll. 2, I, pp. 3-28; I.
PACCAGNELLA, Nascita della lingua e nascita della letteratura, in Manuale di letteratura italiana, cit., I,
Dalle origini alla fine del Quattrocento, pp. 147-220.
52
M. PICONE, Introduzione a Il racconto, a cura di M. Picone, Bologna, Il Mulino 1985, pp. 7-52, in
particolare pp. 7-23.
53
Ch. LEE, Significato dell‟autobiografia nel Medioevo, in Manuale di letteratura italiana, cit., I, Dalle
origini alla fine del Quattrocento, pp. 791-811.
21
università, e l‟uomo e la natura tornano ad avere un ruolo di primaria importanza nel
dibattito filosofico: invertendo i termini del rapporto col divino, il credo ut intelligam di
Anselmo d‟Aosta viene sostituito dall‟intelligo ut credam di Pietro Abelardo54.
Alla scolastica è dovuta probabilmente la chiave di volta del pensiero medievale: la
nascita del purgatorio, avvenuta verso il 1200. La definizione di un locus purgatorius
testimonia una speculazione teologica e filosofica prima sconosciuta:
lo sviluppo del secolo XII è anche un movimento di espansione geografica e
ideologica: è il grande secolo delle crociate. È altresì, nell‟ambito stesso
della cristianità, un fenomeno spirituale e intellettuale, con il rinnovamento
monastico [...], e con le scuole urbane [...]55.
L‟introduzione e la definizione di un regno intermedio tra inferno e paradiso hanno dato
un forte impulso all‟analisi introspettiva, poiché l‟uomo sente bisogno di confessarsi per
chiedere perdono ed emendare i propri peccati.
La creazione di un luogo penitenziale è complementare al dibattito sviluppatosi
durante il quarto Concilio Laterano del 1215. La discussione verteva su più punti in
seguito allo scisma tra le Chiese d‟Occidente e d‟Oriente e, tra definizioni di fede e
54
Sull‟argomento vd. in generale, il lavoro di E. GILSON, L‟esprit de la philosophie médiévale, Paris, Vrin
1932; C. FROVA, Scuole e università, in Lo spazio letterario nel Medioevo. Il Medioevo latino, cit., II, La
circolazione del testo, pp. 331-60. Nella fluidità di quei secoli che segnano la spinta al rinnovamento
religioso, anche la diffusione di movimenti definiti come ereticali tra la fine del XII secolo e gli inizi del
XIII testimoniano la necessità dell‟uomo medievale di trovare un equilibrio interiore (G.G. MERLO, Eretici
ed eresie medievali, Bologna, Il Mulino 1989; M. LAMBERT, Medieval Heresy: Popular Movements from
the Gregorian Reform to the Reformation, Oxford-Malden, MA, Blackwell 20023; A.P. ROACH, The
Devil‟s World: Heresy and Society, 1100-1300, Harlow, England-New York, Pearson Education Ltd.,
2005). Le eresie catare e valdesi si presentano come esempi di movimenti spirituali che la Chiesa non era
riuscita a contenere nell‟ortodossia e indirizzare correttamente. Gli stessi movimenti confluiti al suo
interno, quali i disciplinati, i flagellanti o i battuti dimostrano una tensione religiosa a cui la Chiesa non
riusciva a dare risposte; lo stesso movimento francescano delle origini nasce dall‟esigenza di un
rinnovamento spirituale dei credenti.
55
J. LE GOFF, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi 19962, la citazione è a pp. 146-47.
22
condanne di eresie, venne anche imposto ai fedeli il rito della confessione annuale, come
si legge nel capitolo 21 degli atti del Concilio:
Omnis utriusque sexus fidelis postquam ad annos discretionis pervenerit
Omnia sua solus peccata confiteatur fideliter saltem semel in anno proprio
sacerdoti et iniunctam sibi poenitentiam studeat pro viribus adimplere
suscipiens reverenter ad minus in pascha eucharistiæ sacramentum nisi forte
de consilio proprii sacerdotis ob aliquam rationabilem causam ad tempus ab
eius perceptione duxerit abstinendum56.
La confessione diviene un atto orale privato obbligatorio, poiché era diffusa l‟idea che
l‟anima del peccatore sarebbe stata giudicata da Dio nel momento del trapasso,
anticipando le pene del Giudizio universale. Come palesato da Foucault nel primo
volume dell‟Histoire de la sexualité, la confessione, lemma che definisce e accomuna i
due capisaldi dell‟autobiografia, Agostino e Rousseau, diviene il momento della
conoscenza di sé che stimola l‟esigenza di un‟analisi introspettiva57.
56
Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di J. Alberigo-J.A. Dossetti-P.P. Joannou-C. Leonardi-P.
Prodi; consulente H. Jedin, Bologna, Istituto per le scienze religiose 1973 3, pp. 230-71; vd. inoltre P.-M.
GY, Le précepte de la confession annuelle (Latran IV, c. 21) et la détection des hérétiques. S. Bonaventure
et S. Thomas contre S. Raymond de Peñafort, «Revue des sciences philosophiques et théologiques» 58, 3
(1974), pp. 444-450.
57
M. FOUCAULT, Histoire de la sexualité, Paris, Gallimard 1976, voll. 3, I, La volonté de savoir, pp. 69-98:
«Depuis le Moyen Age au moins, les sociétés occidentales ont placé l‟aveu parmi les rituels majeurs dont
on attend la production de vérité réglementation du sacrement de pénitence par le Concile de Latran, en
1215, développement des techniques de confession qui s‟en est suivi, recul dans la justice criminelle des
procédures accusatoires, disparition des épreuves de culpabilité (serments, duels, jugements de Dieu) et
développement des méthodes d'interrogation et d‟enquête, part de plus en plus grande prise par
l‟administration royale dans la poursuite des infractions et ceci aux dépens des procédés de transaction
privée, mise en place des tribunaux d‟Inquisition, tout cela a contribué à donner à l‟aveu un rôle central
dans l‟ordre des pouvoirs civils et religieux. L‟évolution du mot «aveu» et de la fonction juridique qu‟il a
désignée est en elle-même caractéristique: de l‟«aveu», garantie de statut, d‟identité et de valeur accordée à
quelqu‟un par un autre, on est passé à l‟«aveu» reconnaissance par quelqu‟un de ses propres actions ou
pensées. L‟individu s‟est longtemps authentifié par la référence des autres et la manifestation de son lien à
autrui (famille, allégeance, protection); puis on l‟authentifié par le discours de vérité qu‟il était capable ou
obligé de tenir sur lui-même. L‟aveu de la vérité s‟est inscrit au cœur des procédures d‟individualisation
par le pouvoir» (ivi, pp. 78-79).
23
Come evidenziato dal Purgatorio dantesco, che riprende il susseguirsi del dì e della
notte in un luogo geograficamente definito, l‟uomo sente il bisogno di appropriarsi del
tempo e dello spazio della sua vita anche nel mondo ultraterreno. Il tempo, categoria
divina, viene ora venduto dal mercante come lavoro da cui ricavare un profitto,
ricalibrando la sua misurazione secondo le proprie esigenze: «For the Christian merchant,
this was essentially a second horizon of his existence. The time in which he worked
professionally was not the time in which he lived religiously»58. Il susseguirsi dei minuti
viene scandito non più dalla torre campanaria, connessa al tempo ecclesiastico, ma dai
primi orologi meccanici che compaiono tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo
nelle torri cittadine. Lo spazio segue un analogo appropriamento da parte dell‟uomo in
quanto non è più soltanto il ristretto spazio rurale dell‟economia agraria di quei secoli.
Esso è anche il nuovo termine mercantile per calcolare le distanze del commercio, per
capire le difficoltà del viaggio e le conformazioni del terreno, e viene rappresentato
visivamente dalla nascente cartografia59.
La letteratura registra e testimonia i cambiamenti del periodo. Nasce il romanzo in
cui il protagonista, da combattente per la collettività, diviene l‟eroe che deve compiere
una ricerca personale prima di mettersi al servizio della società, come dimostra il ciclo
arturiano, alla continua quête del Graal. Lo stesso autore acquisisce consapevolezza nel
58
J. LE GOFF, Time, Work, and Culture in the Middle Ages, translated by A. Goldhammer, Chicago,
Chicago UP 1980, p. 37.
59
Si vedano le prime carte geografiche della penisola italiana pervenuteci che accompagnano le opere di
Paolino da Venezia, scrittore francescano della prima metà del Trecento attivo tra Venezia, Avignone e
Napoli. Di particolare interesse la rappresentazione corografica della penisola che accompagna l‟Ystoria
satirica nel codice Vat. Lat. 1960 della Biblioteca Apostolica Vaticana, f. 266v e ff. 267r-v-268r; e il Mapa
mundi, un breve trattato geografico, diviso in tre capitoli, «de Asia», «de Europa», «de Africa», utile
sussidio per comprendere la storia. Vd. R. PESCE, L‟Ystoria satirica di Paolino da Venezia, Tesi di
Dottorato, Università Ca‟ Foscari Venezia 2008, in particolare pp. LXXIII-LXXXI, e CVII-CXIII e la
bibliografia ivi citata.
24
proprio ruolo, tanto che anche la sua vita diventa importante come testimoniato dalla
comparsa di vidas e razós, brevi prose compilate verso gli anni ‟20 del XIII secolo ad
integrazione di opere letterarie: è il passo decisivo per confermare l‟auctoritas
dell‟auctor medievale, ora non più anonimo, che vuole emergere dalla collettività. Il
medesimo processo di autoaffermazione si evidenzia anche nelle arti visive: agli inizi del
XIV secolo, le figure prendono vita in uno spazio reale definito prospetticamente e lo
stesso artista entra nell‟opera d‟arte in un‟autoproiezione pittorica che dimostra la
consapevolezza del proprio ruolo: sono i casi ad esempio di Giotto nel Giudizio
Universale nella controfacciata della cappella degli Scrovegni o di Buonamico
Buffalmacco nel Giudizio Universale del Camposanto di Pisa60. Da notare che entrambe
le opere sono connesse con l‟attesa del giudizio universale in quella che, forse, potremmo
definire confessione pittorica del proprio io.
Con la nuova insistenza sulla penitenza, sulla contrizione e sulla confessione tra la
fine del XII e gli inizi del XIII secolo, è facile capire come il modello delle Confessiones
prima, e del De consolatione philosophiae di Boezio poi, due lavori di impianto
confessionale-apologetico in cui esperienze di vita particolari rappresentano valori
universali, fossero recuperati per servire da ispirazione per i primi esempi di scrittura
aventi per soggetto l‟io autoriale nell‟identificazione auctor/actor. Il lettore medievale
era consapevole dell‟obiettivo morale e pedagogico degli scritti di Agostino e di Boezio,
e Dante stesso, parlando di cagioni edificanti per il primo e apologetiche per il secondo61,
traccia i motivi dell‟autobiografia medievale: l‟autolegittimazione e l‟autogiustificazione.
60
Sull‟argomento vd. S. FERRARI, Lo specchio dell‟io. Autoritratto e psicologia, Bari, Laterza 2002:
l‟autoritratto è la «proiezione all‟esterno di come l‟artista ritiene di essere visto o di dover essere visto»
(ivi, p. 4).
61
Cv I, 2, 13-14.
25
La vita dell‟ipponate rappresenta un‟ascesa interiore che ha valore di exemplum e,
ricalcando il modello biblico, ha utilità dottrinale: i suoi climax sono la giovinezza
passata nell‟errore testimoniata dal suo primo peccato, il furto di un frutto, e la
conversione avvenuta all‟età di 33 anni, richiamando ovviamente il modello
cristologico62. Di tipo didattico-esemplare è anche il De consolatione philosophiae, in cui
la Filosofia mostra a Boezio come le sciagure che lo hanno colpito nel corso della vita
siano il frutto della volontà della Provvidenza divina a cui anche il condannato a morte
deve adeguarsi63.
Le linee e tracce autobiografiche lasciate dai due scrittori della tarda antichità
vengono in parte riprese in alcuni testi dell‟XI-XII secolo64: l‟Excerptum ex dialogo
confessionali di Raterio da Verona (ca. 960), il De vita sua (ca. 1115) di Guiberto di
Nogent, e l‟Historia calamitatum di Abelardo (ca. 1134)65. In queste opere, l‟io dello
scrittore, muovendo dalla pratica del confiteor e della scrittura apologetica, sembra
riuscire a trasformare l‟autobiografismo in parlare di sé in senso autobiografico, pur
mancando un‟analisi interiore a complemento di una giustificazione del proprio
62
Vd. supra, p. 20, n. 52; e LEJEUNE, L‟autobiocopie, cit.
Vd. C. MORESCHINI, Introduzione a S. BOEZIO, La consolazione della filosofia, a cura di C. Moreschini,
Torino, UTET 2006, pp. 9-59; The Cambridge Companion to Boethius, a cura di J. Maranbon, Cambridge,
Cambridge UP 2009 e la bibliografia ivi citata.
64
Per una rassegna degli scrittori medievali che presentano tracce autobiografiche vd. G. MISCH,
Geschichte der Autobiographie, cit.; WEINTRAUB, The Value of the Individual, cit., pp. 49-92; LEE, La
soggettività nel Medioevo, cit.; EAD., Significato dell‟autobiografia nel Medioevo, cit.; U. PIZZANI,
L‟eredità di Agostino e Boezio, in L‟autobiografia nel Medioevo, cit., pp. 9-47.
65
Vd. rispettivamente su Raterio da Verona MISCH, Geschichte der Autobiographie, cit., II/2, pp. 519-650
e, in generale, Raterio da Verona. Atti del Convegno di Todi, 12-15 ottobre 1969, Todi, Accademia
Tudertina 1973; su Guibert de Nogent, GUIBERT DE NOGENT, Autobiographie, a cura di E.R. Labande,
Paris, Société «Le belles lettres» 1981 e MISCH, Geschichte der Autobiographie, cit., III/1, pp. 108-62; su
Abelardo MISCH, Geschichte der Autobiographie, cit., III/1, pp. 523-719; M.M. MCLAUGHLIN, Abelard as
Autobiographer, «Speculum», 4 (1967), pp. 463-88; BIRGE VITZ, Type et individu, cit.; M.T. BEONIOBROCCHIERI FUMAGALLI, Introduzione a Abelardo, Roma-Bari, Laterza 1988. Vd. inoltre Ch.D.
FERGUSON, Autobiography as Therapy: Guibert the Nogent, Peter Abelard, and the Making of Medieval
Autobiography, «Journal of Medieval and Renaissance Studies», 13 (1983), pp. 187-212.
63
26
operato66. Faranno seguito le opere di Francesco d‟Assisi, Dante e Petrarca, condensate
in circa un secolo, che ripropongono la questione della scrittura dell‟io in chiave
autobiografica.
1.3.
Premessa critica
Giunti a questo punto, prima di approfondire la questione del parlar di se
medesimo nelle opere dei tre autori presi qui in esame, sorgono due problemi: la scelta
stilistica degli scritti proto-autobiografici e la loro (non) diffusione.
1.3.1. Lo stile
In questo studio, onde evitare sovrapposizioni tra autobiografismo e autobiografia,
si sono prese in esame solamente opere in prosa in cui il parlare di sé e
l‟autorappresentazione non sono accidentali alla scrittura, ma il punto di partenza che ha
mosso la penna dello scrittore67. Zumthor sottolinea come il Medioevo non distingua tra
storia e fiction e propone la seguente definizione di autobiografia:
66
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 3-16: manca, ad esempio, in Abelardo la conversione,
sostituita da una regressione sugli accidenti della propria vita. L‟identificazione fra memoria e scrittura
attuata da Agostino viene compromessa, rinunciando questi scrittori sia a strutturare il racconto nel tempo
sia alla sua veridicità oggettiva, mancando il vaglio della presenza divina o di un testimone. Solo col loro
recupero possiamo tornare a parlare di un modello di scrittura di matrice autobiografica che si stacca
dall‟interiorità per affermare il proprio io. Vd. anche il capitolo Autobiografia: confessione o apologia? in
GUREVIČ, La nascita dell‟individuo, cit., pp. 129-80.
67
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., opta per la medesima soluzione senza però spiegare a livello
teorico il criterio delle proprie scelte. Sull‟io poetico vd. O. HOLMES, Assembling the lyric self. Authorship
from Troubadour song to Italian poetry book, Minneapolis-London, University of Minnesota Press 2000.
27
Nous admettrons que l‟autobiographie comporte deux éléments: un je, et une
narration donnée comme non-fictive. Ces éléments sont unis par un lien
fonctionnel: le je, en effet, à la fois énonciateur et sujet de l‟énoncé, constitue
le «thème» dont les actions successives engendrant le récit sont les prédicats.
Les trois facteurs de distinction généralement posés aujourd‟hui, dans
l‟analyse du discours, se trouvent comme écrasés et ramenés à deux
seulement: d‟une part, je s‟oppose à tu, ainsi qu‟à la non-personne; mais
d‟autre part, l‟opposition, au sein de la narration, entre récit fictionnel et
«histoire» est ici neutralisée: le temps du discours est le passé, mais il
comporte une marque archi-sémique («c‟est arrivé», «cela fut vrai») fondant
l‟isotopie68.
Zumthor aggiunge che l‟io poetico della poesia cortese e amorosa è un semplice soggetto
grammaticale che serve solo a introdurre il registro della canzone ed è estraneo a quello
autobiografico. È un io fittizio in quanto il tempo poetico rimane in un eterno presente
definito tramite un ego-nunc-hic69 che esprime l‟io lirico al momento della scrittura, fuori
dal tempo storico della narrazione autobiografica. La poesia è inoltre soggetta a regole
formali che piegano il contenuto alla forma, mal accordandosi ad una libera
rappresentazione dell‟io, e che portano in primo piano un soggetto lirico che non è lo
scopo di questo studio.
Lo stile autobiografico, anche secondo Starobinski, ha bisogno di elementi verbali
e attributivi che differenzino l‟io attuale dall‟io rivelato grazie ad una distinzione
temporale tra i due momenti «exprimés par la contamination du discours par les traits
proposés à l‟histoire, c‟est-à-dire par le traitement de la première personne comme une
68
ZUMTHOR, Autobiographie au Moyen Age?, cit. p. 165.
Ivi, p. 171; vd. anche ID., Le «je» de la chanson et le moi du poète, in ID., Langue, texte, énigme, Paris,
Seuil 1975, pp. 181-96, in cui Zumthor afferma come l‟io/me abbiano un valore locativo del poeta
69
28
quasi troisième personne, autorisant le recours à l‟aoriste de l‟histoire»70. La presenza
della Storia, testimone della vita umana, è dunque un dato essenziale del genere
autobiografico che difficilmente riscontriamo nella poesia medievale. Dello stesso parere,
Lee propende per un accantonamento dell‟io poetico: «gli autori scelgono di utilizzare la
prosa e non più i versi […] perché i versi erano oramai sentiti come la forma della
finzione e la prosa come la forma della verità», e per questo motivo «l‟io che canta si
sposterà gradualmente verso un io narrante»71, portando alla formazione di canzonieri
poetici ordinati direttamente e fattivamente dai poeti per dare alla propria poesia un
ordine temporale che crea un racconto storico.
A difesa di un‟analisi delle sole opere in prosa, ci viene incontro la questione
linguistica in Dante e Petrarca. La scelta del volgare e la strenua difesa del proprio
idioma nel Convivio, che già prefigurano gli esiti della successiva produzione poetica
dantesca, aprono a un‟autobiografia linguistica nell‟opera derogata a parlar di se
medesimo72. Di contro, la chiara preferenza per il latino, nell‟alternanza tra lingua antica
e volgare nei lavori petrarcheschi, indica il desiderio dell‟autore di servirsi della lingua
«più riservata e segreta, meno esposta al pericolo di una diffusione rapida e fagocitante, e
per ciò capace di serbare l‟impronta di un‟anima e di un pensiero»73. Per Petrarca,
dunque, l‟uso del volgare è relegato alle nugae, mentre la propria analisi interiore, come
70
STAROBINSKI, Le style de l‟autobiographie, cit., p. 262. Vd. anche B. PIKE, Time in Autobiography,
«Comparative Literature», 28 (1976), pp. 323-39.
71
LEE, Significato dell‟autobiografia nel Medioevo, cit., p. 799.
72
Cv I, 5-13.
73
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 17.
29
ad esempio nel Secretum, avviene nella lingua di Virgilio, la lingua nella quale il poeta
pensava e scriveva e che sentiva in armonia e sintonia con il suo io74.
L‟indagine si limita così alle sole opere in prosa, escludendo, almeno per il
momento, la produzione poetica degli autori analizzati. Alcuni testi, come la Vita nova e
la Comedia, o il Secretum e le raccolte epistolari delle Familiares e delle Seniles, non
sono stati presi in esame in questo studio per motivi diversi, discussi nei capitoli dedicati
ai loro autori75. Il loro studio sarà il naturale proseguimento della ricerca attuale.
1.3.2. I testi e la loro diffusione
Nel Medioevo, mentre si forma la matrice del futuro genere autobiografico dato dal
recupero dell‟“io” e dall‟autorappresentazione che lo scrittore fa della propria vita, vi è
anche il suo accantonamento e abbandono.
Una prima difficoltà è testimoniata dall‟assenza di un preciso e univoco riferimento
stilistico. Il Testamentum, che non è un atto notarile nel vero senso della parola, è
definito da Francesco stesso come recordatio, ammonitio, exhortatio et meum
testamentum per i suoi frati. Francesco ripercorre a grandi linee la propria vita
focalizzandosi sui momenti principali della sua conversione affinché il suo messaggio
74
Sulla lingua del Petrarca vd. G. CONTINI, Preliminari sulla lingua del Petrarca, «Paragone», 16 (1951),
pp. 3-26, ristampato in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi
1979, pp. 169-92, e in Il «Canzoniere» di Petrarca: la critica contemporanea, a cura di G. Barbarisi-C.
Berra, Milano, LED 1992, pp. 57-85; S. RIZZO, Il latino del Petrarca nelle «Familiari», in The Uses of
Greek and Latin: Critical Essays, a cura di A.C. Dionisotti-A. Grafton-J. Kraye, London, The Warburg
Institute 1988, pp. 41-56; C.S. CELENZA, Petrarca, il latino e la latinità nel Rinascimento italiano, in
Petrarca. Canoni, esemplarità, a cura di V. Finucci, Roma, Bulzoni 2006, pp. 229-57, in particolare pp.
232-37.
75
Dello stesso parere il Guglielminetti: «[…] la Posteritati diventa necessariamente il secondo testo (il
primo è costituito dal Convivio) dell‟autobiografia nata dopo l‟eclisse delle Confessiones»
(GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 158).
30
non venga distorto nelle future generazioni dell‟Ordine francescano. Il Convivio è
un‟opera prosimetrica principalmente filosofica, suddivisa in quattordici trattati nella
mente del poeta; mentre Petrarca, così come Abelardo, ricorre all‟artifizio epistolare della
lettera nella Posteritati. Ancora più esemplare il caso di Opizzino de Canistris, vissuto
nella prima metà del XIV secolo, che descrive i propri quarant‟anni di vita entro quaranta
corone circolari concentriche, creando un ibrido, tra prosa e immagine, unico nel suo
genere76. Ai testi qui presentati, si potrebbero aggiungere la consolatio di Bono
Giamboni, Libro de‟ Vizi e delle Virtudi77, e altri due generi presi in considerazione dal
Guglielminetti: alcune Laude di Iacopone da Todi e passi scelti della Cronica di
Salimbene de Adam, aumentando le possibilità stilistiche offerte allo scrittore
medievale78.
Una seconda prova delle difficoltà riscontrate dagli autori si manifesta nella
tradizione manoscritta e nella fortuna di queste opere. Il Testamentum è l‟ultimo scritto di
Francesco, composto poche settimane, forse giorni, prima della sua morte. Il testo, per
motivi che vedremo in seguito, aveva causato molte discussioni all‟interno dello stesso
Ordine francescano, venendo ostracizzato da una parte della comunità religiosa, fino
all‟intervento papale che risolse le questioni sollevate con la bolla Quo elongati nel 1230.
Pur essendo ben conosciuto all‟interno dell‟Ordine (doveva inizialmente essere letto
assieme alla Regula), lo scritto venne addirittura bruciato da alcuni frati e sembra non
76
M. FEO, La vita come vaso. L‟autobiografia figurale di Opizzino de Canistris, in «In quella parte del
libro de la mia memoria», cit., pp. 69-101.
77
C. SEGRE, Introduzione a B. GIAMBONI, Il Libro de‟ Vizî delle Virtudi e Il Trattato di Virtù e di Vizî, a
cura di C. Segre, Torino, Einaudi 1968, definito dal curatore come «racconto pseudo-autobiografico», ivi,
p. XIX.
78
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 16-41.
31
aver circolato fuori dall‟ambiente francescano, limitando il valore storico-letterario a un
piano strettamente religioso.
Il Convivio rimase interrotto al quarto trattato e non venne diffuso da Dante, pur
attendendosi il poeta la fama e il ritorno a Firenze con questo lavoro. Le prime tracce del
Convivio si hanno nel commento alla Comedia dell‟Ottimo e di Pietro Alighieri, mentre i
due soli codici pervenutici vennero esemplati nel XIV secolo. Nonostante un buon
numero di manoscritti, copie del XV secolo, in un periodo di rinnovata fortuna per Dante,
lo studio della loro tradizione ha dimostrato la comune dipendenza di tutti i codici da
un‟unica fonte, copia molto corrotta, con numerosi errori e lacune. Il testo, in poche
parole, rimase in un cassetto e non circolò se non in un ristrettissimo ambiente; la sua
diffusione sembra dipendere più dalla fortuna di Dante che dal reale interesse per l‟opera
in se stessa.
Discorso analogo per la Posteritati, incompiuta: l‟epistola, rimasta fra le carte dello
scrittore come abbozzo provvisorio, ha avuto un‟edizione critica e non scevra da
obiezioni solo in anni recenti. Così il Secretum, trascritto furtivamente dal monaco
fiorentino Tedaldo della Casa nel 1378-79 dall‟autografo petrarchesco, fu pubblicato e
diffuso a stampa solamente alla fine del XV secolo79. Anche per queste opere, come per
il Convivio, bisogna chiedersi se il suo recupero sia legato al valore riconosciuto al poeta
o allo scritto in sé.
Un simile destino ebbero anche altre opere considerate come proto-autobiografiche,
scritte da autori trattati solo marginalmente nella mia analisi: Boezio, Guibert de Nogent
e Abelardo. Per Boezio, nonostante un alto numero di testimoni pervenutici, Dante lo
79
E. FENZI, Introduzione a F. PETRARCA, Secretum. Il mio segreto, a cura di E. Fenzi, Milano, Mursia
1992, pp. 5-92.
32
definisce «quello non da molti conosciuto libro»80, lasciando più di qualche dubbio sulla
reale diffusione dell‟opera. Il De vita sua di Guibert di Nogent è tramandato da un unico
codice, tarda copia del XVII secolo81; mentre l‟Historia calamitatum di Pietro Abelardo
ebbe una fortuna ritardata, come testimoniato dalla tradizione manoscritta, che comincia
solamente nel XIII secolo, circa 150 anni dopo la stesura dell‟opera.
La non circolazione di questi lavori pone un doppio problema sul motivo che
spinsero gli scrittori a non pubblicare i loro scritti e sugli orizzonti d‟attesa del lettore
medievale. Difficile dare delle risposte sulle intenzioni e sulle cause che hanno portato
soprattutto Dante e Petrarca a non diffondere le loro opere più propriamente
autobiografiche; mentre il ritardo della loro circolazione credo sia legato a un pubblico
probabilmente non ancora pronto per un‟opera che trattava dell‟io. Come vedremo, nel
caso di Francesco, lo scritto sembra addirittura disturbare il lettore e creare un senso di
perturbante, o uncanny, unheimlich, termine utilizzato da Freud per esprimere
un‟inclinazione alla paura che si sviluppa quando una situazione viene avvertita come
familiare ed estranea contemporaneamente, provocando un generico sentimento di
angoscia e di spiacevole estraneità82, dato probabilmente dalla novità del parlare di se
medesimo per esprimere l‟io dello scrittore.
Senza tentare analisi psicanalitiche che esulano dallo scopo del mio studio, mi
preme tuttavia evidenziare un ulteriore paradosso del parlare di sé nel Medioevo. Come
sottolinea Jauss,
80
Cv II, 12, 2. Sulla fortuna di Boezio vd. P. COURCELLE, La Consolation de Philosophie dans la tradition
littéraire. Antécédents et Postérité de Boèce, Paris, Études Augustiniennes 1967; e F. TRONCARELLI,
«Cogitatio Mentis». L‟eredità di Boezio nell‟Alto Medioevo, Napoli, D‟Auria 2005 sulla tradizione
manoscritta dell‟opera.
81
E.R. LABANDE, Introduction a GUIBERT DE NOGENT, Autobiographie, cit., in particolare pp. XXIIIXXVIII.
82
S. FREUD, Il perturbante, a cura di C.L. Musatti, Roma, Theoria 1984.
33
toute œuvre littéraire appartient à un genre, ce qui revient à affirmer
purement et simplement que toute œuvre suppose l‟horizon d‟une attente,
c‟est-à-dire d‟un ensemble de règles préexistant pour orienter la
compréhension du lecteur (du public) et lui permettre une réception
appréciative83.
Le cause dell‟insuccesso di questo tipo di scrittura non sono facilmente rintracciabili e
mostrano come lo scrittore medievale non fosse pronto a far conoscere se stesso agli altri
uomini, né gli altri uomini fossero pronti a una pratica voyeuristica lontana dalla loro
sensibilità ma propria del mondo moderno.
1.4.
Prime conclusioni
Nel Medioevo, per un breve arco di tempo, si apre una parentesi nella quale l‟“io”
emerge dalle pagine di autori dotati di fortissima personalità. Da dove proviene questo
io? Sulla base dei lavori di Zink, Foucault e Gusdorf, credo che le pratiche confessionali
abbiano aperto la strada a delle scritture proto-autobiografiche, in ragione delle quali si
possono applicare al Medioevo gli stessi schemi analitici usati da Gusdorf per lo studio
delle scritture private dell‟Inghilterra del XVI-XVII secolo: una società alla ricerca del
centro che ripiega sulla riflessione privata e personale la propria crisi religiosa. E se è pur
vero che la rigidità della gerarchia cattolica ha impedito forme di autoriflessione proprie
del protestantesimo, è altrettanto visibile come nell‟uomo medievale la tensione creata
83
JAUSS, Littérature médiévale, cit., p. 91; su motivazioni e pubblico vd. anche D‟INTINO, L‟autobiografia
moderna, cit., in particolare pp. 67-85.
34
dalla crisi religiosa del XII secolo abbia provocato un ripiegamento dell‟uomo su se
stesso in un‟epoca in cui la religione era elemento cardine della vita quotidiana.
Vengono qui analizzati alcuni testi chiave come opere di matrice autobiografica
che rientrano nella preistoria del genere, laddove la ricerca del centro, inteso come Dio e
come io, era un problema sentito ed espresso da alcuni degli animi più sensibili del
Medioevo. Come afferma Bossuet in De la connaissance de Dieu et de soi même, «La
sagesse consiste à connaître Dieu et à se connaître soi-même. La connaissance de nousmêmes nous doit élever à la connaissance de Dieu»84.
84
GILSON, L‟esprit de la philosophie, cit., p. 33, citando da J.B. BOSSUET, De la connaissance de Dieu et
de soi même, Avignon, chez Seguin Aîné 1820.
35
2
Recordatio, ammonitio, exhortatio:
il Testamentum di Francesco d’Assisi
Mentre gli esperti di biografie di autori classici e medievali consigliano
abitualmente di non cercare di ricavare la vita di un autore dalle sue opere,
questo criterio appare sempre più rovesciato nei confronti di Francesco1.
Così Dolcini, aprendo gli atti del XXI Convegno internazionale centrato sulla figura di
Francesco d‟Assisi, descriveva una delle molte cruces critiche riguardanti il santo: la sua
biografia. Per ricostruire la vita dell‟assisiate bisogna partire dai suoi scritti e non dalle
fonti a lui contemporanee, vero e proprio cuore della celebre “questione francescana”: un
florilegio di legendae, spesso contraddittorie, sulla vita e sul messaggio di Francesco che
hanno creato e creano non pochi problemi agli studiosi moderni2. Subito dopo la morte
1
C. DOLCINI, Francesco d‟Assisi e la storiografia degli ultimi vent‟anni: problemi di metodo, in Frate
Francesco d‟Assisi. Atti del XXI Convegno internazionale (Assisi, 14-16 ottobre 1993), Spoleto, CISAM
1994, pp. 3-35, p. 6. Segnalo sin da ora che le citazioni delle fonti francescane tratte da Fontes franciscani,
a cura di E. Menestò-S. Brufani et alii, Assisi, Edizioni Porziuncola 1995; le traduzioni in italiano da Fonti
francescane. Scritti e biografie di san Francesco d‟Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo
francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d‟Assisi, Padova, Messaggero 19833; il Testamentum di
Fransceco è invece tratto da FRANCESCO D‟ASSISI, Testamentum, a cura di G.G. Merlo, in FRANCESCO
D‟ASSISI, Scritti, Padova, Editrici Francescane 2002, pp. 429-39.
2
P. SABATIER, Vie de S. François d‟Assise, Paris, Fischbacher 1893; La «questione francescana» dal
Sabatier ad oggi. Atti del I convegno internazionale (Assisi, 18-20 ottobre 1973), Assisi, Società
internazionale di studi francescani 1974; E. MENESTÒ, La «questione francescana» come problema
filologico, in Francesco d‟Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi 1997, pp. 117-43;
36
del santo, avvenuta la notte del 3 ottobre 1226, iniziarono infatti a fiorire le prime opere
di connotazione agiografica che tendevano a sradicare Francesco dalla realtà storica, fino
a farlo divenire un alter Christus nella Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio,
pubblicata nel 1263. Francesco e il suo messaggio venivano così spogliati e svuotati della
loro carica innovativa, per molti versi rivoluzionaria nel capovolgimento dell‟ordine
sociale, a favore di un santo perfetto da venerare ma non da imitare3.
A causa della prospettiva pauperistica del messaggio evangelico di Francesco si
crearono, col santo ancora in vita, dei contrasti all‟interno dell‟Ordine tra i rigoristi, detti
poi zelanti o spirituali, stretti osservanti della povertà francescana, e i conventuali, che
attenuavano la rigidità della proposta dell‟assisiate. Per appianare le tensioni, nel
Capitolo di Parigi del 1266 si certificava l‟ufficialità della biografia bonaventuriana e nel
contempo si ordinava l‟eliminazione di tutte le legendae precedenti su Francesco, sia
dentro che fuori dall‟Ordine, creando una lacuna filologica e storica: gran parte delle
biografie vennero distrutte e pochi testimoni sono giunti fino ai nostri giorni, creando un
corpus agiografico variegato e di difficile studio4.
Dal mare magnum di testi commissionati, prodotti e distrutti sulla biografia di
Francesco nasce, secondo il Guglielminetti,
G. MICCOLI, Francesco d‟Assisi: memoria, storia e storiografia, Milano, Biblioteca francescana 2010. Vd.
inoltre C. FRUGONI, San Francesco e l‟invenzione delle stimmate: una storia per parole e immagini fino a
Bonaventura e Giotto, Torino, Einaudi 1993, che mostra le contraddizioni delle fonti sull‟episodio delle
stimmate.
3
FRUGONI, San Francesco e l‟invenzione delle stimmate, cit., p. 26, ma in generale la bibliografia della
nota precedente.
4
J. DALARUN, La malavventura di Francesco d‟Assisi. Per una storia delle leggende francescane, Milano,
Edizioni Biblioteca Francescana 1996; G.G. MERLO, Storia di frate Francesco e dell‟Ordine dei Minori, in
Francesco d‟Assisi e il primo secolo, cit., pp. 1-32.
37
il primo forte impulso verso il narrare di sé, che si registra nella letteratura
delle origini, […] determinato dalla difficoltà di alcuni discepoli di san
Francesco nell‟impostare il racconto della loro vita secondo il modello che i
biografi del santo si affrettavano, subito dopo la morte, a confezionare e
divulgare5.
Partendo dalle stesse premesse, credo che si debba anticipare il forte impulso verso il
narrare di sé agli stessi scritti del santo prima che ai testi agiografici sorti in seguito. Per
ovviare alle storpiature storiche e storiografiche bisogna partire dai lavori di Francesco
per ricostruirne la vita, il pensiero e il messaggio originale. Tra le opere che ci sono
pervenute, la posizione preminente spetta al Testamentum, composto negli ultimi mesi di
vita, che offre un vivo ricordo della conversione e della prima comunità riunitasi attorno
al santo nei primi anni del Duecento. Gli studiosi e i biografi moderni partono oggi da
questo testo per ricostruire l‟esperienza di Francesco, mostrando così in maniera esplicita
la traccia autobiografica reperibile nell‟opera6.
2.1. Cenni sulla «quaestio francescana»
Il Testamentum è probabilmente il testo più controverso tra gli scritti di Francesco;
ha aperto dibattiti e discussioni che non sono ancora terminati e che, probabilmente, mai
lo saranno. Ci si divide tra chi vede nell‟ultima opera dell‟assisiate una contrapposizione
5
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 17-18.
Oltre al già citato Sabatier, vd. R. MANSELLI, San Francesco d'Assisi, Roma, Bulzoni 19823; G. MICCOLI,
Francesco d‟Assisi. Realtà e memoria di un‟esperienza cristiana, Torino, Einaudi 1991; C. FRUGONI, Vita
di un uomo: Francesco d‟Assisi, prefazione di J. Le Goff, Torino, Einaudi 20053; R. RUSCONI, Francesco
d‟Assisi nelle fonti e negli scritti, Padova, Editrici francescane, 2002. Vd. inoltre M. GUGLIELMINETTI,
Biografia ed autobiografia, cit., pp. 830-35.
6
38
alla Regula bullata (1223), e chi invece interpreta le divergenze come ulteriore
precisazione; tra chi vede una vera e propria critica verso le trasformazioni dell‟Ordine, e
chi non nota alcuna discrepanza con i precedenti scritti7.
Si è tentato in vari modi di conciliare i dettami del Testamentum con i precetti della
Regula bullata, ma i vari tentativi di sintesi si sono rivelati infruttuosi. Le divergenze tra i
due testi sono oramai un dato acquisito dalla critica, tanto che il più importante studioso
del testo, Esser, padre minorita, cercando di appianare la tensione emotiva del testo, lo
definisce come scritto di carattere occasionale, vedendovi «un forte cambiamento di
umore, una certa instabilità di pensiero»8. Nel suo tentativo di analisi psicologica, Esser
conclude sostenendo che
Il Testamento ci fornisce soprattutto anche una informazione autentica della
figura spirituale del Santo stesso, del suo modo di pensare e di parlare, del
come egli ha reagito nel suo ambiente e del forte cambiamento di umore, cui
egli, come tutti i meridionali, va soggetto in simili circostanze9.
La chiusura – quasi lombrosiana – certifica la difficoltà di conciliare l‟ultimo testo del
santo con gli altri scritti.
Per la critica moderna, la tensione che il Testamentum comunica è da ricercare nel
tradimento dell‟ideale originario della prima comunità da parte dell‟Ordine che si stava
formando. Francesco, allontanandosi dalla società, voleva seguire una forma di vita
7
Vd. il punto della situazione in K. ESSER, Das Testament des heiligen Franziskus von Assisi: eine
Untersuchung über seine Echtheit und seine Bedeutung, Munster, Aschendorff 1949, trad. italiana in ID., Il
Testamento di san Francesco, Milano, Edizioni francescane Cammino 1979, pp. 33-43; F. ACCROCCA,
Francesco e le sue immagini. Momenti di evoluzione della coscienza storica dei frati Minori (secoli XIIIXIV), Padova, Centro Studi Antoniani 1997, pp. 15-35.
8
ESSER, Il Testamento di san Francesco, cit., p. 88.
9
Ivi, p. 191, mio il corsivo.
39
evangelica basata sull‟amore verso il prossimo e sulla povertà assoluta che gli permetteva
una libertà spirituale non sottoposta a vincoli sociali. L‟arrivo, non previsto, di alcuni
compagni crea le prime difficoltà dal momento in cui si chiede a Francesco di dare loro
una forma vitae da seguire: il santo, non volendo accettare forme di vita monastiche già
consolidate all‟interno della Chiesa, ma avendo intenzione di proporre qualcosa di nuovo
basato sulla vita di Cristo, si affida interamente ai Vangeli, ricavandone alcuni precetti,
senza però offrire una regola. Si crea così la prima fraternitas, vissuta da pochi
all‟insegna della stretta osservanza evangelica e della semplicità, dove la parola era lo
strumento di comunicazione. Col passare del tempo, per l‟adesione di centinaia di nuovi
fratelli, tra i quali molti clerici litterati, uomini di cultura e dottori di teologia, l‟ideale di
Francesco è travolto dagli eventi e, nel passaggio dall‟oralità primigenia alla
codificazione scritta, al fine di raggiungere il numero crescente dei frati, è costretto a
scrivere una Regula e a creare un Ordine all‟interno del sistema ecclesiastico10.
Mentre Francesco si era allontanato da Assisi per predicare in Oriente verso il
1219-1220, venuto meno il suo carisma e il suo esempio, il movimento, influenzato dai
clerici litterati, prende una svolta decisiva verso la secolarizzazione e avvia
l‟interpretazione della forma vitae che il santo aveva proposto, perdendo l‟originale
ispirazione evangelica per entrare nella tradizione monastica e canonicale. Richiamato in
Italia nel 1220, Francesco sente tradito il proprio messaggio e, pur rimanendo un frater,
lascia polemicamente il governo dell‟Ordine a Pietro Cattani, a cui dopo poco succede
frate Elia.
10
Th. DESBONNETS, De l‟intuition à l‟institution: les franciscains, Paris, Ed. franciscaines 1983.
40
A testimonianza delle difficoltà del periodo rimane la Regula non bullata – scritta
nel 1221 e testo di transizione tra la fluidità orale dei primi anni e la rigidità della
successiva Regula bullata –, che non venne approvata poiché le norme prescritte furono
giudicate troppo rigide e di difficile attuazione sia all‟interno dell‟Ordine sia dal clero.
Francesco dovette scendere a dei compromessi che si manifestano nelle differenze con la
Regula bullata, che ricevette la bulla pontificia nel 1223, frutto del lavoro del santo, del
gruppo dirigente dell‟Ordine e della curia romana, che mitigava il contenuto della
precedente11.
La dicotomia tra gli esiti della propria esperienza religiosa e la diversa strada
intrapresa dall‟Ordine porta Francesco al ritiro solitario in preghiera, cadendo in quella
che viene definita la “grande tentazione” che sfocerà di lì a poco nel controverso episodio
delle stimmate12. Il santo era conscio delle tensioni dell‟Ordine e aveva compreso che
oramai la comunità a cui aveva dato vita si stava allontanando dal suo ideale evangelico.
La tensione che Bonaventura aveva cercato di appianare nella Legenda maior
traspare nelle pagine delle opere superstiti del primo secolo di storia francescana, come
nel celebre episodio della gallina nera riportato dalla Vita secunda di Tommaso da
Celano: Francesco è turbato dai problemi dell‟Ordine e una notte fa un sogno di cui
propone egli stesso l‟esegesi:
11
Sulla Regulae francescane vd. in generale A. QUAGLIA, Storiografia e storia della Regola francescana,
Falconara Marche, Edizioni Francescane 1985; C. PAOLAZZI, La Regula non bullata del frati minori
(1221): dallo Stemma codicum al testo critico, Grottaferrata, Quaracchi – Fondazione Collegio S.
Bonaventura 2007 e la bibliografia ivi citata.
12
Per un punto della situazione vd. G.G. MERLO, Storia di frate Francesco, cit., pp. 1-32, qui rapidamente
riassunto; vd. inoltre MANSELLI, S. Francesco d‟Assisi, cit.; FRUGONI, Vita di un uomo, cit.; EAD., San
Francesco e l‟invenzione delle stimmate, cit.
41
Cumque vir Dei haec et similia saepius animo volveret, nocte quadam,
deditus somno, visionem hanc videt. Inspicit gallinam parvam et nigram,
columbae domesticae similem, crura tota pennata habentem cum pedibus.
Haec pullos habebat innumeros, qui gallinam rotantes instanter, sub alas
eius omnes congregari nequibant. Surgit a somno vir Dei, ad cor meditata
reducit, efficitur ipse suae visionis interpres. «Gallina – inquit – haec sum
ego, statura pusillus nigerque natura, cui columbina per innocentiam vitae
debet famulari simplicitas, quae sicut aevo rarissima, sic expedite volat ad
caelum. Pulli sunt fratres numero multiplicati et gratia, quos a conturbatione
hominum et a contradictione linguarum defendere Francisci virtus non
sufficit»13.
Il racconto è una «trasparente ammissione di un sostanziale fallimento»14 che
evidenzia le difficoltà di quegli anni: Francesco non riesce più a controllare e proteggere
i suoi frati ed è consapevole della propria impotenza di fronte ad un progetto riformatore
che si sta sgretolando. Anche altri frati condividevano le preoccupazioni del santo e la vis
polemica delle testimonianze fu la causa della loro distruzione. Sempre il Celano nella
Vita secunda narra l‟episodio della donna che manda la propria prole dal re affinché li
riconosca come figli, nascondendo dietro un intento edificatorio una polemica evidente:
Mulier quaedam paupercula sed formosa in quodam deserto manebat.
Adamavit eam rex quidam ob maximum illius decorem; contraxit cum ea
gratanter et filios ex ea venustissimos genuit. Adultos iam illos et nobiliter
educatos mater aloquitur: «Nolite – inquit – verecundari, dilecti, eo quod
13
2Cel, I, 16: «Mentre rivolgeva questi e simili pensieri nella sua mente, una notte, nel sonno, ebbe questa
visione. Vide una gallina piccola e nera, simile ad una colomba domestica, con zampe e piedi rivestiti di
piume. Aveva moltissimi pulcini, che per quanto si aggirassero attorno a lei, non riuscivano a raccogliersi
tutti sotto le sue ali. Quando si svegliò, l‟uomo di Dio, e riprese i suoi pensieri, spiegò personalmente la
visione. “La gallina – commentò – sono io, piccolo di statura e di carnagione scura, e debbo unire alla
innocenza della vita una semplicità di colomba: virtù, che quanto è più rara nel mondo, tanto più
speditamente si alza al cielo. I pulcini sono i frati, cresciuti in numero e grazia, che la forza di Francesco
non riesce a proteggere dal turbamento degli uomini e dagli attacchi delle lingue maligne”». Da notare la
sovrapposizione tra le parole di Francesco e il gruppo che scrisse la Vita secunda che fa capo a Tommaso
da Celano in quel Francisci in terza persona altrimenti inspiegabile, essendo il racconto narrato da
Francesco stesso.
14
FRUGONI, San Francesco e l‟invenzione delle stimmate, cit., p. 17.
42
pauperes sitis, nam illius magni regis estis filii omnes. Ad curiam eius itote
gaudentes, et ab ipso vobis necessaria postulate». Audientes hoc illi
mirantur et gaudent, et regiae stirpis sublevati promisso, futuros se scientes
haeredes, omnem inopiam divitias reputant. Praesentant se regi audacter,
nec pavent vultum cuius similem gestant imaginem. Cognita rex
similitudine sua in illis, cuius essent filii mirando exquirit. Qui cum mulieris
illius pauperculae in deserto morantis se filios affirmarent, amplexans eos
rex: «Mei – ait – estis filii et haeredes; timere nolite! Nam si de mensa mea
nutriuntur extranei, iustius est ut enutriri faciam quibus haereditas tota de
iure servatur». Mandat proinde rex mulieri, ut omnes ex se genitos ad suam
curiam pascendos transmittat15.
Il carattere edificante del racconto mostra come il re (il papa) accolga i suoi figli (i
francescani) tra le sue braccia, li riconosca e li accetti nel suo regno (la Chiesa); ma
contemporaneamente nasconde un‟insidia di fondo: la donna (Francesco) rimane da sola
nel deserto e non viene accolta alla corte del re16.
Concludo la rapida rassegna sull‟intricata questione francescana nuovamente col
celanese, che mostra un Francesco iracondo e offre un quadro della situazione lontano da
quanto tramandato dalla storiografia ufficiale:
Interrogatus a quodam fratre semel cur, fratres omnes sic a sua cura reiectos,
alienis eos tradiderat manibus, quasi ad eum nullatenus pertinerent,
15
2Cel, I, 11: «Viveva in un deserto una donna povera, ma molto bella. Un re se ne innamorò per il suo
incantevole aspetto, strinse relazione con lei gioiosamente e ne ebbe figli bellissimi. Una volta adulti ed
educati nobilmente, la madre disse loro: “Non vergognatevi, o miei diletti, per il fatto di essere poveri,
perché siete tutti figli di quel grande re. Andate dunque gioiosi alla sua corte e chiedetegli quanto vi
occorre”. Meravigliati e lieti a quelle parole, animati dall'assicurazione di essere di stirpe reale e futuri
eredi, stimarono ricchezza la loro estrema povertà, e si presentarono al re con fiducia e senza paura, perché
nel volto riproducevano il suo volto. Vedendo che gli rassomigliavano, il re chiese, meravigliato di chi
fossero figli. Ed avendogli risposto che erano figli di quella donna povera e sola nel deserto, li abbracciò:
“Siete figli miei ed eredi; non abbiate timore; perché, se alla mia mensa si nutrono estranei, è certamente
più giusto che si nutrano quelli che hanno diritto a tutta l'eredità”. Ordinò poi alla donna di mandare alla
sua corte tutti i figli generati da lui, perché vi fossero allevati».
16
Proprio con questo episodio la Frugoni apre il suo libro sull‟invenzione delle stimmate (FRUGONI, San
Francesco e l‟invenzione delle stimmate, cit., p. 3) per dimostrare la consapevolezza e la solitudine di
Francesco.
43
respondit: «Fili, fratres diligo sicut possum; sed si mea sequerentur vestigia,
illos utique plus amarem, nec me illis redderem alienum. Nam sunt quidam
de numero praelatorum, qui eos ad alia trahunt, antiquorum eis proponentes
exempla, et parum mea monita reputantes. Sed quid agant, in fine videbitur».
Et paulo post, cum infirmitate nimia gravaretur, in vehementia spiritus in
lectulo se direxit: «Qui sunt isti – ait – qui religionem meam et fratrum de
meis manibus rapuerunt? Si ad generale capitulum venero, tunc eis ostendam
qualem habeam voluntatem»17.
Lontano dall‟immagine mite e umile con cui siamo tutt‟oggi familiari, grazie anche
ai grandi cicli pittorici che riproducono visivamente il santo bonaventuriano, Francesco
sentiva il peso del proprio fallimento e provava a lanciare un ultimo disperato grido nelle
pagine del suo Testamentum affinché non tutto andasse perduto.
2.2. Il Testamentum come autobiografia
Francesco compone lo scritto pochi mesi prima della morte, probabilmente nella
tarda estate del 1226, se non negli ultimi giorni di vita. Il testo non venne vergato di
propria mano dal santo, oramai minato nel fisico e quasi cieco, ma dettato ad uno dei frati
che spesso gli facevano da scriba, probabilmente in volgare e tradotto in latino dallo
stesso scrivano. La mancanza di un‟elaborazione linguistica e formale fanno credere che
il testo pervenutoci sia molto vicino alla volontà del santo e lontano da interferenze o
17
2Cel, II, 141: «Fu interrogato una volta da un frate perché avesse rinunciato alla cura di tutti i frati e li
avesse affidati a mani altrui, come se non gli appartenessero in nessun modo. “Figlio – rispose – io amo i
frati come posso. Ma se seguissero le mie orme, li amerei certamente di più e non mi renderei estraneo a
loro. Vi sono alcuni tra i prelati, che li trascinano per altre strade, proponendo loro gli esempi degli antichi
e facendo poco conto dei miei ammonimenti. Ma si vedrà alla fine cosa fanno”. E poco dopo, mentre era
molto ammalato, nella veemenza dello spirito, si drizzò sul lettuccio: “Chi sono – esclamò – questi che mi
hanno strappato dalle mani l‟Ordine mio e dei frati? Se andrò al Capitolo generale, mostrerò loro qual è la
mia volontà”».
44
contaminazioni; lo stesso congedo fa pensare ad un controllo finale di Francesco prima
della sua diffusione, anche se l‟opera non può considerarsi idiografa18.
Il Testamentum ha da sempre avuto un ruolo di primissimo piano nella tradizione
francescana e nell‟immagine che l‟assisiate ha tramandato ai posteri. Conscio del fatto
che non si sarebbe trattato di un documento privato, ma dell‟ultimo messaggio che
avrebbe lasciato ai suoi frati («Et semper hoc scriptum habeant secum iuxta Regulam. Et
in omnibus capitulis que faciunt, quando legunt regulam legant et ista verba»)19,
Francesco definisce lo scritto come recordatio, ammonitio, exhortatio et meum
testamentum, preoccupandosi che il suo messaggio e la sua predicazione non fossero
fraintesi («Sed sicut dedit michi Dominus simpliciter et pure dicere et scribere regulam et
ista verba, ita simpliciter et pure sine glosa intelligatis et cum sancta operatione
observetis usque in finem»)20, distorti («Et generalis minister et omnes alii ministri et
custodes per obedientiam teneatur in istis verbis non addere vel minuere»)21, e soprattutto
interpretati («Et omnibus fratribus meis clericis et laycis precipio firmiter per
18
ESSER, Il Testamento di san Francesco, cit., pp. 44-ss.; C. PAOLAZZI, Gli «Scritti» tra Francesco e i suoi
scrivani: un nodo da sciogliere, «Antonianum», 75 (2000), pp. 481-97, poi ristampato in ID., Studi su gli
«Scritti» di frate Francesco, Grottaferrata, Quaracchi 2006, pp. 81-99; MICCOLI, Francesco d‟Assisi, cit.,
p. 50; sul latino di Francesco vd. N. SCIVOLETTO, Problemi di lingua e stile degli scritti latini di san
Francesco, in Francesco d‟Assisi e francescanesimo dal 1216 al 1226. Atti del IV convegno internazionale
(Assisi, 15-17 ottobre 1976), Assisi, s.n. 1977, pp. 101-24. Francesco dettò anche un altro testamento
mentre era a Siena, in un momento in cui la sua morte sembrava imminente e i frati che erano con lui gli
chiesero di dire le sue ultime volontà; vd. ESSER, op. cit., cit.; R. MANSELLI, Dal Testamento ai testamenti
di San Francesco, «Collectanea franciscana», 46 (1976), pp. 121-28.
19
Test 36-37: «E sempre abbiano questo scritto con sé accanto alla regola; e in tutti i capitoli che fanno,
quando leggono la regola, leggano anche queste parole»; vd. anche D. FLOOD, The Politics of «Quo
elongati», in Metodi di lettura delle fonti francescane, a cura di E. Covi-F. Raurell, Roma, Collegio S.
Lorenzo da Brindisi 1988, pp. 199-214, p. 204.
20
Test 39: «Ma come il Signore mi diede di dire e scrivere la regola e queste parole in modo semplice e
puro, così in modo semplice e senza glossa capite[le] e con santo agire osservate[le] sin alla fine».
21
Test 35: «E il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non
aggiungere né togliere [alcunché] in queste parole».
45
obedientiam ut non mittant glosas in regula neque in istis verbis dicendo ita volunt
intellegi»)22.
Entrato in polemica con l‟Ordine, senza lanciarsi in anatemi o aperte condanne23,
nel Testamentum il santo ripercorre a grandi linee le tappe della propria conversione e
della propria vita offrendo ai frati, sul modello delle Confessiones agostiniane, un
exemplum affinché mea sequerentur vestigia.
Vivendo la propria esperienza in modo solitario, sembra cercare un ritorno alle
origini, alla forma vitae evangelica da cui lui e pochi altri erano partiti:
Et non dicant fratres hec est alia regula; quia hec est recordatio, ammonitio,
exhortatio et meum testamentum, quod ego, frater Franciscus parvulus facio
vobis fratribus meis benedictis propter hoc ut regulam quam Domino
promisimus melius catholice observemus24.
Nel Testamentum, infatti, Francesco offre una serie di precetti, assenti nella Regula
bullata ma presenti in quella non bullata, per riaffermare il suo messaggio. Le
motivazioni della stesura dello scritto si possono ricavare dal testo stesso: la volontà di
offrire un modello di vita si riflette nella sequenza verbale poiché, descrivendo la propria
vita, vi è un continuo passaggio dal tempo passato, proprio della storia, al presente, come
esortazione ai frati:
22
Test 38: «E a tutti i miei fratelli chierici e laici commando fermamente per obbedienza di non mettere
glosse nella regola né in queste parole dicendo: Così devono essere interpretate».
23
MICCOLI, Francesco d‟Assisi, cit., pp. 33-97.
24
Test 34: «E non dicano i fratelli: Questa è un‟altra regola; perché questa è rimembranza, ammonizione,
esortazione e mio testamento, che io, fratello Francesco piccolo, faccio a voi miei fratelli Benedetti, per
questo: affinché osserviamo meglio cattolicamente la regola che abbiamo promesso al Signore».
46
Et ego manibus meis laborabam, et volo laborare; et omnes alii fratres
firmiter volo quod laborent de laboritio quod pertinet ad honestatem. Qui
nesciunt, discant, non propter cupiditatem recipiendi pretium laboris; sed
propter exemplum et ad repellendam otiositatem. Et quando non daretur
nobis pretium laboris, recurramus ad mensam Domini petendo helymosinam
hostiatim25.
Il lavoro manuale doveva essere una pratica da rispettare e da contrapporre al solo
studio, che allontanava il frate dalla missione evangelica di aiuto verso il prossimo. Il
desiderio di Francesco di ribadire uno dei punti cardine del suo pensiero fa spostare il
racconto dal passato (laborabam) al presente (volo laborare). Egli vuole essere, malato e
prossimo alla morte, exemplum e avversario dell‟astrazione teologica e filosofica lontana
dal suo ideale di vita. Il lavoro, che permetteva di soddisfare i bisogni primari dell‟uomo,
consentiva altresì di essere liberi di dedicare il proprio tempo al prossimo senza
restrizioni o condizionamenti: l‟elemosina, cioè la dipendenza da altri, era solamente
l‟ultimo passo per poter vivere se non si riusciva ad ottenere del cibo, come affermato
anche nella Regula non bullata26. Il dettato del Testamentum segue con una serie di
esortazioni e ammonimenti che dimostrano la volontà e la necessità di libertà di
movimento, svincolata dalle pratiche clericali, per seguire l‟ideale evangelico:
Caveant sibi fratres ut ecclesias, habitacula paupercula et omnia que pro ipsis
construuntur penitus non recipiant, nisi essent, sicut decet sanctam
paupertatem quam in regula promisimus, semper ibi hospitantes sicut advene
et peregrini. Precipio firmiter per obedientiam fratribus universis quod
ubicumque sunt, non audeant petere aliquam litteram in curia Romana per se
25
Test 20-22: «E io con le mie mani lavoravo e voglio lavorare; e fermamente voglio che tutti gli altri
fratelli lavorino di un lavoretto che sia onesto. Coloro che non sanno [lavorare] imparino, non per la
cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per [dare] l‟esempio e per cacciare l‟oziosità. E quando
non ci sarà data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l‟elemosina di
porta in porta».
26
RegNB, 7-9.
47
neque per interpositam personam neque pro ecclesia neque pro alio loco
neque sub spetie predicationis neque pro persecutione suorum corporum; sed
ubicumque non fuerint recepti, fugiant in aliam terram ad faciendam
penitentiam cum benedictione Dei27.
Come afferma Frugoni, «Nel progetto del santo [...] è solo attraverso l‟esempio
positivo che si può indurre qualcuno a mutare e correggersi; attraverso l‟esempio, più
ancora che attraverso le parole [...]»28. L‟exemplum vuole spingere i frati all‟imitatio, e
diviene lo strumento di Francesco per tentare di trasmettere il messaggio evangelico,
come descritto nella Compilatio Assisiensis, conosciuta anche come Leggenda perugina:
«Usquequo habui officium fratrum, et fratres manserunt in vocatione et
professione sua, licet a principio mee conversionis ad Christum infirmitius
fuerim, cum parva mea sollicitudine eis satisfaciebam exemplo et
predicatione. Sed postquam consideravi quod Dominus fratrum numerum
multiplicaret cotidie et quod ipsi, propter tepiditatem et inopiam spiritus, a
via recta et secura per quam soliti erant ambulare, declinare inciperent, et per
ampliorem viam, sicut dixisti, incedere, non attendentes suam professionem
et vocationem et bonum exemplum, nec dimittere iter quod iam ceperant
propter predicationem meam et exemplum meum, recommendavi Domino et
ministris fratrum Religionem. Quoniam licet tempore quo renuntiavi et
dimisi officium fratrum, coram fratribus me excusarem in capitulo generali,
quod propter infirmitatem meam de ipsis curam et sollicitudinem habere non
possem [...]». Et ait: «Meum officium est spirituale, videlicet prelatio super
fratres, quia debeo dominari vitiis et ea emendare. Unde, si vitiis dominari et
ea emendare non possum predicatione et exemplo, nolo carnifex fieri ad
percutiendum et flagellandum, sicut potestas huius seculi [...]. Veruntamen
usque ad diem mortis mee, exemplo et operatione, non cessabo docere fratres
ambulare per viam quam michi Dominus ostendit, et ego ostendi eis et ipsos
27
Test 24-26: «Si guardino i fratelli di non ricevere chiese, abitazioni poverelle e tutte le cose che sono
costruite per loro, se non siano come conviene alla santa povertà che abbiamo promesso nella regola,
sempre ivi rimanendo come forestieri e pellegrini. Fermamente comando per obbedienza a tutti i fratelli
che, ovunque si trovino, non osino di per sé o per interposta persona chiedere lettera alcuna nella curia
romana, né a favore di una chiesa né a favore di un altro luogo, né per la predicazione, né a causa della
persecuzione dei loro corpi; ma dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la
benedizione di Dio».
28
FRUGONI, Vita di un uomo, cit., p. 53.
48
informavi ut sint inexcusabiles coram Domino et ego coram Deo de ipsis et
de me non tenear reddere rationem ulterius»29.
Estromessosi dalla guida dell‟Ordine, il santo adduce come motivo della rinuncia la
malattia, ma la spinosa questione non viene trattata nel Testamentum. La sua guida può
essere ora solamente spirituale e data dalla sua stessa condotta di vita più che dalle
parole. Anche Tommaso da Celano descrive un Francesco imitato non solo dai frati, ma
anche dai semplici, mostrando come exemplum e imitatio siano tra loro complementari:
Cum igitur in aliquo loco ad meditandum staret sanctus Franciscus,
quoscumque faciebat gestus vel nutus, protinus in se repetebat et
transformabat simplex Ioannes. Nam spuente spuebat, tussiente tussiebat,
suspiria suspiriis iungens et fletus fletibus socians; levante sancto manus ad
caelum, levabat et ille, intuens diligenter ipsum velut exemplar cunctaque in
sese transformans30.
29
CAss, 106: «“Fin tanto che ebbi la responsabilità dei frati e i frati rimasero fedeli alla loro vocazione e
professione, per quanto io abbia sempre avuto scarsa salute sin dalla mia conversione a Cristo, riuscivo
senza fatica a soddisfarli con l‟esempio e le esortazioni. Ma quando mi accorsi che il Signore moltiplicava
ogni giorno il numero dei frati, e che essi per tiepidezza e languore di spirito cominciavano a deviare dalla
strada dritta e sicura che fin‟allora avevano seguito, e a incamminarsi per la via comoda, come hai detto tu,
non badando al loro ideale, all‟impegno preso, al buon esempio; quando dunque mi resi conto che non
lasciavano il cammino sbagliato malgrado le mie esortazioni ed esempi, rimisi l‟Ordine nelle mani del
Signore e dei frati ministri. Rinunziai al mio incarico e diedi le dimissioni, adducendo davanti al Capitolo
generale il motivo della mia malattia che mi impediva di seguire la fraternità in maniera adeguata [...]”». E
soggiunse: “Il mio incarico di governo dei frati è di natura spirituale, perché devo avere dominio sui vizi e
correggerli. Ma se non riesco a farlo con le esortazioni e l‟esempio, non posso certo trasformarmi in
carnefice per battere e scudisciare i colpevoli, come fanno i governanti di questo mondo [...]. Comunque,
fino al giorno della mia morte, con l‟esempio, non smetterò d‟insegnare ai fratelli che camminino per la via
indicatami dal Signore e che ho mostrato loro, l‟ideale a cui li ho formati, in modo che siano inescusabili
dinanzi al Signore, e che non mi tocchi rendere conto al Signore di loro e di me”».
30
2Cel, II, 143: «Quando Francesco stava in qualche luogo a meditare, il semplice Giovanni ripeteva in sé
e imitava subito tutti i gesti o i movimenti che egli faceva. Se sputava, sputava; se tossiva, tossiva; univa i
sospiri ai sospiri ed il pianto al pianto. Se il Santo levava le mani al cielo, le alzava egli pure, fissandolo
con diligenza come un modello e facendo sua ogni mossa».
49
Il Testamentum, tuttavia, non ha solamente un intento edificante. Nella Vita prima,
Tommaso da Celano racconta che Francesco, sentendosi in colpa per aver mangiato del
pollo, ha sentito il bisogno di confessarsi davanti alla città offrendo, con il suo
spectaculum, un tanto exemplo per tutti i presenti:
Accidit namque quadam vice, cum infirmitate gravatus aliquantulum
pullorum carnium comedisset, resumptis utcumque corporis viribus, introivit
Assisii civitatem. Cumque pervenisset ad portam civitatis, praecepit cuidam
fratri qui cum eo erat, ut funem collo eius ligaret et sic eum quasi latronem
per totam traheret civitatem, voce praeconis clamans et dicens: “Ecce, videte
glutonem, qui impinguatus est carnibus gallinarum, quas vobis ignorantibus,
manducavit”. Accurrebant proinde multi ad tam ingens spectaculum, et
ingeminatis suspiriis collacrimantes, aiebant: “Vae nobis miseris, quorum
vita tota versatur in sanguine, et in luxuriis et ebrietatibus corda et corpora
enutrimus”. Sicque compuncti corde, ad melioris vitae statum tanto
provocabantur exemplo31.
Se da un lato vi è la volontà di offrire un modello di vita, dall‟altro vi è la necessità di
confessarsi pubblicamente: exemplum e confessio sono qui parti del medesimo atto, teso
a muovere gli animi degli astanti, che permea anche l‟ultimo scritto del santo.
In seguito all‟approvazione della confessione annuale del quarto Concilio vaticano
nel 1215, il tema della confessione viene affrontato anche all‟interno dell‟Ordine
francescano. Nei suoi scritti, Francesco considera la pratica penitenzale come necessaria
purificazione dell‟anima prima del ricevimento della grazia attraverso l‟eucarestia nel
dogma della transustanziazione, confermato nel medesimo concilio. La connessione tra le
31
1Cel, I, 19: «Avendo un giorno mangiato un po‟ di pollo, perché infermo, riacquistate le energie per
camminare, si recò ad Assisi. Giunto alla porta della città, pregò un confratello che era con lui di legargli
una fune attorno al collo e di trascinarlo per tutte le vie della città come un ladro, gridando: “Guardate
questo ghiottone, che a vostra insaputa si è rimpinzato da gaudente di carne di gallina!”. A tale spettacolo,
molti, tra lacrime e sospiri, esclamavano: “Guai a noi miserabili che abbiamo vissuto tutta la vita solo per
la carne, nutrendo il cuore e il corpo di lussuria e di crapule!”. E tutti compunti, erano guidati a miglior
condotta da quell‟esempio straordinario».
50
due pratiche diviene inscindibile agli occhi del santo che, partendo dal binomio
penitenza-purificazione, vede nella confessione lo strumento necessario per la salvezza
dell‟anima32.
Come già evidenziato da Rusconi, che offre sull‟argomento una lettura parallela
degli scritti di Francesco e del periodo delle origini dell‟Ordine, già nella prima
redazione dell‟Epistola ad custodes (1219-1220) Francesco mette in correlazione
penitenza e salvezza33 per poi organizzare il suo discorso nel capitolo XX della Regula
non bullata (1221), in cui viene codificato il legame tra la confessione e salvezza nel
Cristo34. Francesco e i suoi frati devono annunciare al mondo il valore salvifico
32
R. RUSCONI, I francescani e la confessione nel secolo XIII, in Francescanesimo e vita religiosa dei laici
nel ‟200. Atti dell‟VIII Convegno Internazionale (Assisi, 16-18 ottobre 1980), Assisi, Università degli studi
di Perugia 1981, pp. 251-309, p. 257: «l‟accento viene posto, senza ombra di dubbio, sul sacramento della
penitenza solo in quanto requisito preliminare ed imprescindibile per ricevere l‟eucarestia». Vd. anche G.
CASAGRANDE, Un Ordine per i laici. Penitenza e Penitenti nel Duecento, in Francesco d‟Assisi e il primo
secolo di storia francescana, cit., pp. 237-55.
33
EpCust1, 6: «Et in omni praedicatione, quam facitis, de poenitentia populum moneatis, et quod nemo
potest salvari, nisi qui recipit sanctissimum corpus et sanguinem Domini» («E in ogni predica che fate,
ricordate al popolo di fare penitenza e che nessuno può essere salvato se non colui che riceve il santissimo
corpo e sangue del Signore»).
34
RegNB, 20: «Et fratres mei benedicti tam clerici quam laici confiteantur peccata sua sacerdotibus nostrae
religionis. Et si non potuerint, confiteantur aliis discretis et catholicis sacerdotibus scientes firmiter et
attendentes, quia a quibuscumque sacerdotibus catholicis acceperint poenitentiam et absolutionem, absoluti
erunt procul dubio ab illis peccatis, si poenitentiam sibi iniunctam procuraverint humiliter et fideliter
observare. Si vero tunc non potuerint habere sacerdotem, confiteantur fratri suo, sicut dicit apostolus
Jacobus: “Confitemini alterutrum peccata vestra”. Non tamen propter hoc dimittant recurrere ad
sacerdotem, quia potestas ligandi et solvendi solis sacerdotibus est concessa. Et sic contriti et confessi
sumant corpus et sanguinem Domini nostri Jesu Christi cum magna humilitate et veneratione recordantes,
quod Dominus dicit: “Qui manducat carnem meam et bibit sanguinem meum habet vitam aeternam”; et:
“Hoc facite in meam commemorationem”» («I frati miei benedetti, sia chierici che laici, confessino i loro
peccati ai sacerdoti della nostra religione. E se non potranno, si confessino ad altri sacerdoti prudenti e
cattolici, fermamente convinti e consapevoli che da qualsiasi sacerdote cattolico riceveranno la penitenza e
l‟assoluzione, saranno senza dubbio assolti da quei peccati, se procureranno di osservare umilmente e
fedelmente la penitenza loro imposta. Se invece in quel momento non potranno avere un sacerdote, si
confessino a un loro fratello come dice l‟apostolo Giacomo: “Confessate l‟uno all‟altro i vostri peccati”.
Tuttavia per questo, non tralascino di ricorrere al sacerdote poiché solo ai sacerdoti è concessa la potestà di
legare e di sciogliere. E così contriti e confessati ricevano il corpo e il sangue del Signor nostro Gesù
51
dell‟eucarestia che si può ottenere solamente attraverso la penitenza: la confessione
diviene non solo lo strumento, ma il sigillo per la salvezza della propria anima35. Anche
nella recensio posterior della Epistola ad fideles (1225-1226) il parallelo confessionesalvezza viene ribadito36, fino a trovare la formulazione poetica nel verso 29 del Cantico
delle creature, Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali, che sembrerebbe essere
stato scritto pochi mesi prima della morte37 e che riporta la pratica confessionale come
climax purificatorio.
Il Testamentum, pur essendo assente in esso il verbo confiteor, vuole
implicitamente essere una confessione, l‟ultima, come è documentato dalla lettura
parallela con l‟Epistola toti Ordini missa, in cui Francesco, di fronte all‟intero Ordine,
sente il bisogno di confessarsi pubblicamente38.
Cristo, con grande umiltà e venerazione, ricordando le parole del Signore. “Chi mangia la mia carne e beve
il mio sangue ha la vita eterna”, e ancora: “Fate questo in memoria di me”»).
35
RegNB, 21: «Agite poenitentiam, facite dignos fructus poenitentiae, quia cito moriemur. Date et dabitur
vobis. Dimittite et dimittetur vobis. Et si non dimiseritis hominibus peccata eorum, Dominus non dimittet
vobis peccata vestra; confitemini omnia peccata vestra. Beati qui moriuntur in poenitentia, quia erunt in
regno caelorum. Vae illis qui non moriuntur in poenitentia, quia erunt filii diaboli, cuius opera faciunt et
ibunt in ignem aeternum. Cavete et abstinete ab omni malo et perseverate usque in finem in bono» («Fate
penitenza, fate frutti degni di penitenza, perché presto moriremo. Date e vi sarà dato. Perdonate e vi sarà
perdonato. E se non perdonerete agli uomini le loro offese, il Signore non vi perdonerà i vostri peccati;
confessate tutti i vostri peccati. Beati coloro che muoiono nella penitenza, poiché saranno nel regno dei
cieli. Guai a quelli che non muoiono nella penitenza, poiché saranno figli del diavolo di cui compiono le
opere, e andranno nel fuoco eterno. Guardatevi e astenetevi da ogni male e perseverate nel bene fino alla
fine»).
36
EpFid2, 22«Debemus siquidem confiteri sacerdoti omnia peccata nostra; et recipiamus corpus et
sanguinem Domini nostri Jesu Christi ab eo» («Dobbiamo anche confessare al sacerdote tutti i nostri
peccati e ricevere da lui il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo»).
37
Vd. l‟analisi e il punto della situazione sul Cantico in E. FUMAGALLI, San Francesco, il Cantico, il Pater
noster, Milano, Jaca Book 2002.
38
EpOrd, 38-39: «Confiteor praeterea Domino Deo Patri et Filio et Spiritui Santo, beate Marie perpetue
Virgini et omnibus sanctis in celo et in terra, fratri H<elie> ministro religionis nostre sicut venerabili
domino meo, et sacerdotibus ordinis nostri et omnibus aliis fratribus meis benedictis, omnia peccata mea.
In multis offendi mea gravi culpa, specialiter quod Regulam quam Domino promisi non servavi, nec
officium sicut Regula precipit dixi, sive negligentia, sive infirmitatis mee occasione, sive quia ignorans
sum et idiota» («Ed ora confesso al Signore Dio Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, alla beata sempre
52
Il Testamentum presenta nell‟incipit l‟atto penitenziale (Dominus ita dedit michi
fratri Francisco incipere faciendi penitentiam) ed è possibile interpretare lo scritto come
confessione, sia dei propri peccati, sia della propria condotta di vita: Francesco confessa
davanti a tutti la strada che lo ha portato alla santità, nata da un faciendi poenitentia che
si accorda perfettamente con gli scritti del santo e con l‟idea che, con la morte oramai
prossima, l‟assisiate dovesse confessarsi pubblicamente rivisitando la propria condotta di
vita.
La volontà di dare testimonianza scritta di quanto fatto in vita ha per Francesco
dunque un valore didattico-esemplare sia per fini edificanti, offrendo implicitamente la
propria esistenza come modello per gli altri fratelli, sia apologetici, per giustificare in
modo esplicito quanto fatto e quanto rimaneva ancora da fare per l‟Ordine. Dal desiderio
di confessione e dalla volontà di offrire per l‟ultima volta il proprio pensiero, affinché il
suo ideale non muoia con lui, nasce il Testamentum.
2.3. Recordatio
Francesco non dà un titolo al proprio scritto e lo definisce come recordatio,
ammonitio, exhortatio et meum testamentum, ma già i suoi contemporanei lo identificano
vergine Maria e a tutti i santi in cielo e in terra, a frate Elia, ministro della nostra Religione, come a mio venerabile signore, e ai sacerdoti del nostro Ordine e a tutti gli altri miei frati benedetti, tutti i miei peccati.
Ho peccato molto per mia grave colpa, specialmente perché non ho osservato la Regola, che ho promesso
al Signore, e non ho detto l‟ufficio, come la Regola prescrive, sia per negligenza sia a causa della mia
infermità, sia perché sono ignorante e illetterato»).
53
solamente con l‟ultima denominazione39. Essendo il suo ultimo scritto ufficiale, si è soliti
vedere un‟ultima voluntas, una volontà testamentaria, un sigillo finale alla propria vita
con uno sguardo retrospettivo sul proprio passato. Vi è anche chi è andato oltre,
interpretando il Testamentum come opera da affiancare al Testamentum Vetus e al Novum
Testamentum, in un nuova alleanza tra Dio e gli uomini suggellata da Francesco40.
Non sono mancate varie interpretazioni dello scritto sia da parte dell‟Ordine
Minorita sia di studiosi laici, che hanno mostrato come l‟opera sia aperta a diverse letture
e chiavi interpretative41. La stessa natura letteraria del Testamentum non è chiara e
univoca: si è cercato, inutilmente, di trovare all‟opera un ordine interno, secondo cui la
narrazione sarebbe costruita per analogia: gli argomenti sembrano susseguirsi per
tematiche che si richiamano l‟una con l‟altra, con scarti e ritorni, con la concreta
possibilità di una stesura avvenuta in momenti diversi che ha portato a delle aggiunte
interne42.
Il testo si può dividere in tre parti: una prima parte storico-narrativa (recordatio), in
cui Francesco ripercorre la propria conversione e ricorda la prima comunità,
corrispondente ai versi 1-23; una seconda prescrittiva (ammonitio ed exhortatio), in cui il
39
ESSER, Il Testamento di san Francesco, cit.
ESSER, Il Testamento di san Francesco, cit., pp. 33-43; M. CONTI, Il discorso d‟addio di s. Francesco,
Roma, Pontificium Atehaeum Antonianum 2000, in cui vi è un parallelo tra il Testamentum e i „discorsi
d‟addio‟ biblici.
41
«Aucun texte n‟a été scruté, commenté, interprété plus que ce Testament dont François avait pourtant
refusé par avance toute glose; aucun texte n‟a été l‟objet, ou le prétexte, ou le drapeau de lutes plus âpres à
l‟intérieur de l‟Ordre; et, finalement, aucun texte n‟a eu plus d‟influence sur l‟histoire de l‟Ordre», TH.
DESBONNETS, Introduction a FRANÇOIS D‟ASSISE, Écrits, a cura di Th. Desbonnets-J.F. Godet-Th MaturaD. Vorreux, Paris, Les Éditions du Cerf 1981, pp. 29-30.
42
Vd. ad esempio ACCROCCA, Francesco e le sue immagini, cit., pp. 20-35 sui versetti 4-13; FLOOD, The
Politics of «Quo elongati», cit., pp. 200-04 sui versetti 27-33.
40
54
santo ammonisce ed esorta i frati a seguire la Regula, corrispondente ai versi 24-39; e un
congedo finale, ai versi 40-41, in cui Francesco benedice i suoi frati.
La parte per noi più interessante è la recordatio, in cui Francesco ripercorre le
tappe della sua conversione e le origini della fraternitas. Il parlare di sé emerge dall‟uso
costante della prima persona singolare, sia nelle forme verbali che in quelle pronominali,
e ci permette di ricercare nel testo una matrice autobiografica43. La recordatio è a sua
volta suddivisibile in tre parti: la prima, ai versi 1-3, condensa tutta la vita di Francesco
negli anni che vanno dalla crisi religiosa che lo colpì nel 1205-1206 alla sua prima
esperienza, solitaria, di scoperta del messaggio evangelico; la seconda, che copre i versi
4-13, sembra essere una adiectio successiva, in cui Francesco precisa il suo messaggio in
chiave antiereticale; la terza, dal verso 14 al verso 23, ripercorre i primi anni
dell‟esperienza comunitaria.
Nella prima parte della recordatio, con brevi e rapidi cenni, Francesco riassume
autobiograficamente la propria esperienza di vita offrendo al lettore l‟exemplum da
seguire: stare presso gli umili e seguire il Cristo evangelico sono il quid che deve
spingere il frate a entrare nell‟Ordine:
(1)
Dominus ita dedit michi fratri Francisco incipere faciendi penitentiam.
Quia cum essem in peccatis, nimis michi videbatur amarum videre leprosos.
(2)
Et ipse Dominus conduxit me inter illos et feci misericordiam cum illis.
(3)
Et recedente me ab ipsis, id quod videbatur michi amarum, conversum fuit
43
Sull‟argomento le opinioni degli studiosi sono discordanti: a favore di una matrice autobiografica sono S.
DA CAMPAGNOLA, Introduzione a Scritti di Francesco d‟Assisi, in Fonti francescane, Assisi, Movimento
francescano 1977, voll. 2, I, pp. 39-91, in particolare pp. 66-67; GUGLIELMINETTI, Biografia ed
autobiografia, cit.; C. PAOLAZZI, Lettura degli “Scritti” di Francesco d‟Assisi, Milano, Edizioni Biblioteca
Francescana 2002, pp. 385-409.
55
michi in dulcedinem animi et corporis. Et postea parum steti et exivi de
seculo44.
L‟opera comincia in media res con l‟inizio di una vita di penitenza, tralasciando gli anni
giovanili, la famiglia, il lavoro e la società. Se è pur vero che la “vita” di Francesco
comincia con la sua conversione, equiparabile a una rinascita e comune in ambito
monastico, il contrasto tra la vita trascorsa nel peccato e il successivo abbandono a Dio
erano un topos nella letteratura medievale, da Agostino alla moltitudine dei testi
agiografici conosciuti anche dal santo45. Sono del tutto assenti precise indicazioni
temporali e spaziali, ma dai pochi elementi accennati possiamo comunque ricostruire a
grandi linee la vita del santo: dopo aver passato un periodo di crisi, che lo colpì nel 12051206, particolare taciuto, il Signore gli indicò la via della poenitentia tra i lebbrosi. La
presenza di Francesco tra i malati è il motivo della sua scelta di vita, in cui l‟exivi de
seculo finale equivale al tolle et lege agostiniano46: la conversione deriva da un lungo
periodo di meditazione interiore che ha portato Francesco su una nuova strada, cui segue
una decisione che si presenta come folgorazione47.
Il riferimento penitenziale che apre il dettato offre la chiave di lettura del testo. Il
cuore del messaggio di Francesco è l‟amore verso il prossimo e verso gli umili che
capovolge l‟ordine delle cose e che trascende l‟adesione alla povertà assoluta su cui
44
Test, 1-4: «Il Signore così diede a me, fratello Francesco, di iniziare a fare penitenza, poiché, essendo nei
peccati, troppo mi sembrava amaro vedere i lebbrosi. E lo stesso Signore mi condusse in mezzo a loro e
feci misericordia con loro. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro si trasformò in dolcezza
d‟animo e di corpo. E poi un poco ristetti e uscii dal secolo».
45
C. LEONARDI, Agiografia, in Lo spazio letterario nel Medioevo. Il Medioevo latino, cit., I.2, La
produzione del testo, pp. 421-62.
46
AGOSTINO, Confessiones, VIII, 12; sull‟episodio vd. F. BOLGIANI, La conversione di S. Agostino e l‟VIII
libro delle «Confessioni», Torino, Giappichelli 1956.
47
Così ESSER, Il Testamento di san Francesco, cit., pp. 112-13; vd. anche STAROBINSKI, Le style de
l‟autobiographie, cit., in particolare p. 261.
56
spesso ci si sofferma per indicare il punto cardine del messaggio di Francesco: la sua
proposta era di essere umile tra gli umili e stare inter illos. La povertà non rientra tra le
preoccupazioni del santo se non, come vedremo, successivamente al formarsi dell‟Ordine
per evitare che la società civile, basata sull‟economia, entri e corrompa la sua ricerca:
«L‟uscita dal secolo di Francesco è in primo luogo il sigillo visivo e materiale del suo
avvenuto radicale abbandono dei valori, dei criteri, della logica che sono propri del
secolo»48. La conversione nasce tra i lebbrosi, che rappresentano il grado più basso e
degradante della condizione umana, e dimostra che l‟abbraccio della vita evangelica
nasce da un atto di umiltà e totale dedizione al prossimo, e non da speculazioni
teologiche o da pratiche ascetiche: lo stare tra gli emarginati e il vivere in mezzo a loro è
l‟esempio che i frati devono seguire per trovare il messaggio di Cristo che predicava agli
umili tra i quali aveva scelto anche i suoi apostoli49.
In seguito alla crisi spirituale che lo aveva colpito, Francesco è smarrito e medita
sulla sua vita. In quel parum steti è condensata una crisi e una prova difficile: in seguito
alla frequentazione dei lebbrosari e allo stretto contatto con i malati, Francesco capisce
che la vita di prima non era la sua. Vive come un vagabondo, nascondendosi in grotte o
in chiese diroccate per sfuggire anche alle ire paterne di Pietro Bernardone, ricco
commerciante di stoffe ad Assisi, che aveva investito molto in lui e che probabilmente
provava vergogna a causa della “pazzia” del figlio. In seguito al famoso episodio della
chiesa di San Damiano, in cui un crocifisso dipinto su tavola gli avrebbe parlato
48
MICCOLI, Francesco d‟Assisi, cit., p. 53.
Si veda anche il celebre episodio della predica agli uccelli (1Cel, I, 21) che può avere diverse chiavi di
lettura: vedendo che i magistrati e gli abitanti della città non capivano le sue parole, Francesco andò al
cimitero e predicò a rapaci che si cibavano di cadaveri, corvi, gazze e sparvieri; uccelli, come i lebbrosi,
esclusi dalla società. Vd. la chiave di lettura offerta da U. ECO, Il nome della rosa, Roma, Gruppo
Editoriale L‟Espresso SpA 2002, pp. 189-90.
49
57
mostrandogli la via da seguire50, Francesco decide finalmente di affrontate il padre
davanti a tutta la città di Assisi, spogliandosi completamente nudo e restituendogli i
propri vestiti. Fu senza dubbio un atto di ribellione brusco e doloroso che recideva in
modo definitivo i rapporti tra Francesco e la sua famiglia, uccidendo simbolicamente
l‟autorità paterna in un rito di passaggio dalle connotazioni edipiche. Un‟eco
dell‟angoscia interiore nel rapporto col padre è forse riscontrabile nella parafrasi del
Pater noster che il santo scrisse alcuni anni dopo. Secondo Frugoni, «In tutti gli scritti
Francesco privilegiò sempre il volto paterno di Dio»: «In tale rapporto, così originale,
immediato e diretto traspare uno struggimento per un legame con il padre, infranto per
sempre ma non dimenticato»51.
L‟assenza del patronimico e la presenza incipitaria di Dominus indirizza da subito
la lettura del testo in chiave religiosa ed evidenzia una volontaria reticenza sugli anni
giovanili, una precisa detractio volta sia a sottolineare la totale dipendenza di Francesco
da Dio, sia la rinuncia dei beni terreni, sia la problematicità del rapporto famiglia/padrefiglio che doveva essere presente già nei primi frati che ingrossavano le file
dell‟Ordine52. La scelta di cominciare il ricordo della propria esperienza dalla crisi e dalla
50
2Cel, I, 6.
FRUGONI, San Francesco e l‟invenzione delle stimmate, cit., pp. 29-30.
52
Le fonti parlano di un Francesco che rimprovera un frate perché aveva lasciato i suoi beni alla sua
famiglia, non rinunciando in sostanza alla rottura con il mondo secolare 2Cel, I 49: «Docebat sanctus
venientes ad Ordinem ante tradere mundo libellum repudii, prius sua foris, postea se intus Deo offerre.
Nonnisi expropriatos et nihil penitus retinentes ad Ordinem admittebat, tum propter verbum sancti
Evangelii, tum ne forent in scandalum loculi reservati. Contigit in Marchia Anconitana, post
praedicationem sancti, venire quemdam ad ipsum, humiliter introitum Ordinis postulantem. Ad quem
sanctus: “Si vis Dei pauperibus iungi, mundi pauperibus prius tua distribue”. Quo audito, perrexit homo et
ductus amore carnali, sua suis dispersit, nihilque pauperibus. Factum est cum rediret, et liberalem
munificentiam sancto referret, irridens pater dixit: “Vade viam tuam, frater musca, quoniam nondum existi
de domo et cognatione tua. Consanguineis tuis tua dedisti, et defraudasti pauperes, dignus non es
pauperibus sanctis. Incepisti a carne, ruinosum fundamentum spirituali fabricae collocasti”. Redit animalis
homo ad suos et repetit sua, quae pauperibus derelinquere nolens, virtutis propositum citius dereliquit.
Multos hodie talis miseranda distributio fallit, temporali exordio vitam beatam quaerentes. Neque enim
51
58
successiva poenitentia sembrano suggerire la difficoltà di combinare la dicotomia tra
missione religiosa da un lato e l‟autorità, sia essa familiare o politica, dall‟altro.
L‟abbandono del nucleo familiare e il non riconoscimento del ruolo del padre avrebbero
potuto mettere in discussione, per analogia, anche il rapporto con l‟istituzione
ecclesiastica, disconoscendo il ruolo dell‟autorità pontificia. Il silenzio su quanto
successo negli anni antecedenti all‟uscita dal secolo sembra celare un passaggio mai
chiarito dallo stesso Francesco e un tema spinoso per gli stessi studiosi francescani.
L‟abbandono della propria famiglia e l‟inizio della predicazione vengono suggellati
da una preghiera, ancora in uso presso i francescani, con cui Francesco saluta il suo
nuovo status: «Adoramus te, Domine Iesu Christe, et ad omnes ecclesias tuas que sunt in
toto mundo, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum»53.
Le scelte lessicali di questa prima parte storico-narrativa presentano due importanti
spunti interpretabili autobiograficamente: la musica e il donare. Innanzitutto, il videre
quisquam propterea se Deo consecrat ut suos divites faciat, sed ut pretio miserationis peccata redimens,
fructu boni operis vitam acquirat. Saepe etiam, si fratres egerent, potius ad alios recurrere quam ad
intrantes Ordinem docuit, primo quidem propter exemplum, deinde ad vitandam omnem turpis commodi
speciem» («A chi voleva entrare nell'Ordine il Santo insegnava a ripudiare anzitutto il mondo, offrendo a
Dio prima i beni esterni, poi a fare il dono interiore di se stessi. Non ammetteva all‟Ordine se non chi si era
spogliato di ogni avere, senza ritenere nulla assolutamente, sia per la parola del santo Vangelo, sia perché
non fosse di scandalo il peculio personale. Un giorno, dopo una predica del Santo nella Marca di Ancona,
si presentò uno, che gli chiese umilmente di entrare nell'Ordine. “Se ti vuoi unire ai poveri di Dio – gli
rispose Francesco – distribuisci prima i tuoi beni ai poveri del mondo”. A queste parole quegli se ne andò
e, guidato da amore carnale, distribuì i suoi averi ai parenti, niente ai poveri. Ritornato ed avendo riferito al
Santo la sua generosa munificenza: “Va per la tua strada, frate mosca – gli disse con ironia il Padre –
perché non sei ancora uscito dalla tua casa e dalla tua parentela. Ai tuoi consanguinei hai dato i tuoi beni,
ed hai defraudato i poveri: non sei degno dei poveri servi di Dio. Hai cominciato dalla carne ed hai posto
un fondamento rovinoso per un edificio spirituale”. Se ne ritornò quell‟uomo carnale ai parenti e riprese i
suoi beni, perché non avendo voluto lasciarli ai poveri, aveva ben presto abbandonato il suo proposito di
perfezione. Quanti oggi si ingannano con questa messinscena della distribuzione dei loro beni e vogliono
dare inizio ad una vita di perfezione con un comportamento così mondano! Infatti nessuno si consacra a
Dio per arricchire i suoi parenti, ma per riscattare i suoi peccati col prezzo della misericordia, e così
acquistare la vita eterna col frutto di opere buone. Inoltre insegnava spesso che se i frati si trovavano in
necessità dovevano ricorrere ad estranei piuttosto che ai postulanti, anzitutto per l'esempio, poi per evitare
ogni specie di turpe interesse»).
53
Test 5: «Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero, e ti
benediciamo perché con la tua santa croce hai redento il mondo».
59
leprosos e lo stare inter illos evidenziano il rapporto preferenziale che Francesco ebbe
con i lebbrosi e come la sua conversione dipese direttamente da loro come sottolineato
dalla coppia antitetica amaro/dolce: «id quod videbatur michi amarum, conversum fuit
michi in dulcedinem animi et corporis». L‟amaro è legato alla sfera psicologica
dell‟autore, poiché amara era la vita in peccatis, così come la dolcezza dell‟animo
provata da Francesco nello stare tra i lebbrosi è un atto di bontà nei confronti dei
bisognosi54. Diverso è il caso del piacere sensibile che il santo dice di provare, se
pensiamo all‟espressione dispregiativa del De finibus bonorum et malorum di Cicerone
per indicare come le persone preferiscano piaceri fisici ai beni dell‟anima55, o, più in
generale, al De contemptu mundi sive de miseria humanae conditionis di Lotario dei
Conti di Segni, poi papa col nome di Innocenzo III. Francesco, pur privilegiando la
corporalità e la tattilità nel mondo naturale, mette in guardia i suoi frati nella Regula non
bullata contro i piaceri del corpo56 (l‟uomo «plus diligit corpus quam animam»57),
evidenziando tuttavia la gioia sensuale provocatagli dall‟incontro con i lebbrosi. La
dolcezza sensibile, intesa come diletto fisico, dipende soprattutto dall‟udito, dall‟ascolto
54
Nel commentare la quinta Lettera ai Galati di san Paolo, Pietro Lombardo definisce la dulcedo animi
come bonitas, a dimostrazione del valore morale dell‟atto di Francesco (Petri Lombardi Collectaneorum in
Paulum continuatio, PL 192, col. 160); Dante la definisce felicitade in Cv IV, 20, 9; IV, 22, 17.
55
M.T. CICERONE, De finibus bonorum et malorum 3,1: «Voluptatem quidem, Brute, si ipsa pro se loquatur
nec tam pertinaces habeat patronos, concessuram arbitror convictam superiore libro dignitati. Etenim sit
inpudens, si virtuti diutius repugnet, aut si honestis iucunda anteponat aut pluris esse contendat dulcedinem
corporis ex eave natam laetitiam quam gravitatem animi atque constantiam. Quare illam quidem
dimittamus et suis se finibus tenere iubeamus, ne blanditiis eius inlecebrisque impediatur disputandi
severitas» (M.T. CICERONE, De finibus bonorum et malorum libri V, a cura di c. Moreschini, München, K.
G. Saur 2005).
56
RegNB, 22: «Et odio habeamus corpus nostrum cum suis vitiis et peccatis, quia carnaliter vivendo vult
nobis auferre amorem Domini nostri Ihesu Christi et viam eternam et se ipsum cum omnibus perdere in
infernum» («E dobbiamo avere in odio il nostro corpo con i suoi vizi e peccati, poiché vivendo secondo la
carne, vuole toglierci l‟amore del Signore nostro Gesù Cristo e la vita eterna e vuole perdere se stesso con
tutte le nostre cose nell‟inferno»).
57
RegNB, 10.
60
di qualcosa di piacevole nel rapporto musica-armonia, come testimoniato, ad esempio,
dalla Bibbia58 e da Dante59. Diletto sensuale descritto anche nella Comedia attraverso il
canto di Casella:
„Amor che ne la mente mi ragiona‟
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Pg II, 112-114
Il rapporto tra Francesco e i lebbrosi è una forma evangelica di imitatio Christi, ma
potrebbe forse nascondere una traccia di un aspetto particolare del santo, il suo essere
giullare. Gli studiosi sono più o meno concordi nel far risalire questa peculiarità di
Francesco nelle origini francesi, nei suoi viaggi in Francia, in fra Pacifico “il re dei
versi”, e in misura minore in qualche spettacolo giullaresco probabilmente visto mentre
58
Isaia, 24, 8: «Cessavit gaudium tympanorum, quievit sonitus laetantium, conticuit dulcedo citharae» («È
cessata la gioia dei timpani, è finito il chiasso dei gaudenti, è cessata la gioia della cetra»).
59
Così in VN 12, 1 di fronte al parlare e al sorriso di Beatrice: «Ogne dolcezza, ogne pensero umile / nasce
nel core a chi parlar la sente, / ond‟è laudato chi prima la vide. / Quel ch‟ella par quando un poco sorride, /
non si pò dicer né tenere a mente, / sì è novo miracolo e gentile. […] Poscia quando dico: Ogne dolcezza,
dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l‟uno de li quali è lo
suo dolcissimo parlare, e l‟altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne
li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui né sua operazione». Riferendosi alla dolcezza del
corpo, Dante riprende sempre l‟esperienza legata all‟udito anche nel Convivio, vd. ad esempio Cv I, 7, 1415: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in
altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. E questa è la cagione per che Omero non si
mutò di greco in latino come l‟altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che li versi del
Salterio sono sanza dolcezza di musica e d‟armonia; ché essi furono transmutati d‟ebreo in greco e di greco
in latino, e nella prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno»); Cv II, 15, 1: «Per le ragionate
similitudini si può vedere chi sono questi movitori a cu‟ io parlo. Ché sono di quello movitori, sì come
Boezio e Tulio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me, come detto è di sopra, nello amore,
cioè nello studio, di questa donna gentilissima Filosofia, colli raggi dela stella loro, la quale è la scrittura di
quella: onde in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra»); Cv III,
3, 15: «E questa è l‟altra ineffabilitade, cioè che la lingua non è di quello che lo ‟ntelletto vede
compiutamente seguace. E dico: “l‟anima ch‟ascolta e che lo sente”: „ascoltare‟ quanto alle parole, e
„sentire‟ quanto alla dolcezza del suono»); Cv III, 7, 12: «Ché ‟l suo parlare, per l‟altezza e per la dolcezza
sua, genera nela mente di chi l‟ode uno pensiero d‟amore, lo quale io chiamo spirito celestiale, però che là
su è lo principio e di là su viene la sua sentenza, sì come di sopra è narrato: del qual pensiero si procede in
ferma oppinione che questa sia miraculosa donna di vertude».
61
era nel mondo secolare. Numerosi sono i casi in cui il santo «gallicum erumpebat in
iubilum»60, comportandosi alla maniera dei giullari francesi. Spesso Francesco si lasciava
andare a vere e proprie recite in cui l‟atto sostituisce e supera la parola, come quando
simula un accompagnamento musicale immaginario:
Lignum quandoque, ut oculis vidi, colligebat e terra, ipsumque sinistro
brachio superponens arculum filo flexum tenebat in dextera, quem quasi
super viellam trahens per lignum, et ad hoc gestus repraesentans idoneos,
gallice cantabat de Domino61.
Purtroppo però sul mondo giullaresco di quei secoli sappiamo pochissimo, data
l‟oralità del loro patrimonio culturale: scarse sono le notizie su di loro, e la critica
analizza e studia questo fenomeno per linee generali, senza riuscire ad identificare
distintamente autori e opere; solo dalla seconda metà del XIII secolo il quadro si fa più
chiaro e l‟investigazione filologica può permettere qualche affermazione più sicura e
concreta62. Per il periodo che qui interessa, viste le scarse notizie, mi rifaccio alla
letteratura provenzale: nel periodo tra il 1140 e il 1240 ci rimangono solamente quattro
60
Tradotto con «traboccava in giubilo alla maniera giullaresca», 2Cel, II, 90. La conoscenza della lingua
francese da parte di Francesco è testimoniata di 1Cel, I, 7; 2Cel, I, 8; LegM, II, 5.
61
2Cel, II, 90: «Talora - come ho visto con i miei occhi - raccoglieva un legno da terra, e mentre lo teneva
sul braccio sinistro, con la destra prendeva un archetto tenuto curvo da un filo e ve lo passava sopra
accompagnandosi con movimenti adatti come fosse una viella, e cantava in francese le lodi del Signore»;
oppure quando improvvisa una danza per intrattenere gli astanti, in questo caso il papa e i cardinali, in
1Cel, I, 27: «Et quidem cum tanto fervore spiritus loquebatur, quod non se capiens prae laetitia, cum ex ore
verbum proferret, pedes quasi saliendo movebat, non ut lasciviens, sed ut igne divini amoris ardens, non ad
risum movens sed planctum doloris extorquens. Multi enim ipsorum corde compuncti sunt, divinam
gratiam et tantam viri constantiam admirantes» («E parlò con tanto fervore che, quasi fuori di sé per la
gioia, mentre proferiva le parole muoveva anche i piedi quasi saltellando, ma quel suo strano
comportamento, lungi dall'apparire un segno di leggerezza e dal suscitare riso, provenendo dall'ardore del
suo cuore, induceva gli animi a intrattenibile pianto di compunzione»).
62
Ho potuto consultare Il contributo dei giullari alla drammaturgia italiana delle origini. Atti del II°
Convegno di Studio, Viterbo, 17-19 giugno 1977, a cura di E. Doglio, Roma, Bulzoni 1978; T. SAFFIOTI, I
giullari in Italia. Lo spettacolo, il pubblico, i testi, Milano, Xenia 1990.
62
opere e due autori conosciuti, Jean Budel e Baude Fastoul. Entrambi morti di lebbra,
passarono diversi anni in lebbrosari63. Pensare che molti di questi cantori abbiano finito
la loro vita in lazzaretti è più che una supposizione64; spesso, infatti, i giullari erano
fisicamente infelici: ciechi, zoppi, gobbi, monchi, storpi. La loro sfortuna stava molte
volte all‟origine della loro scelta, non potendo fare altri lavori. A tutto ciò dobbiamo
aggiungere varie malattie che contraevano lungo i loro viaggi, spostandosi di villaggio in
villaggio, di castello in castello, di città in città, di regione in regione65. La dulcedinem
corporis potrebbe forse riferirsi al piacere delle performances giullaresche ascoltate nei
lebbrosari e prese a paradigma nella propria predicazione.
Il secondo elemento autobiografico potrebbe essere ricavabile dalla struttura del
racconto, basata sui doni che Dio ha dato a Francesco e sulla formula Dominus dedit
michi, che ritorna in due occasioni, e dal Dominus coduxit me. Il verbo portante della
recordatio è dunque dare, in francese donner, che mostra sia l‟amore di Dio verso i suoi
fedeli, sia la concezione trobadorica della largueza in senso cortese e interpretabile in
chiave autobiografica: Francesco donava agli altri quello che non avevano, come quando
offriva banchetti agli amici che puntualmente lo eleggevano re della brigata66, oppure
63
M. ZINK, Introduction à la littérature française du Moyen Age, Nancy, Presses universitaire de Nancy
1990, pp. 93-106.
64
CAss, 22: «nam illis diebus manebant fratres in hospitalibus leprosorum» («a quei tempi, infatti, i frati
abitavano nei lazzaretti»).
65
SAFFIOTI, I giullari in Italia, cit., pp. 116-ss.
66
3Comp, III: «Postquam vero Assisium est reversus, non post multos dies, quodam sero a sociis suis
eligitur in dominum ut secundum voluntatem suam faceret expensas. Fecit ergo tunc sumptuosam
comestionem parari, sicut multotiens fecerat. Cumque refecti de domo exissent, sociique simul eum
praecederent euntes per civitatem cantando, ipse portans in manu baculum quasi dominus parum retro ibat
post illos non cantando sed diligentius meditando» («Tornato che fu dunque ad Assisi, dopo alcuni giorni, i
suoi amici lo elessero una sera loro signore, perché organizzasse il trattenimento a suo piacere. Egli fece
allestire, come tante altre volte, una cena sontuosa. Terminato il banchetto, uscirono da casa. Gli amici gli
63
quando rivestiva un cavaliere povero donandogli il proprio abito67. La spoliazione ricorre
in diversi episodi della vita del santo ed era probabilmente il modo più semplice per
affermare la rinuncia alla società da parte di una persona che era stata un mercante di
stoffe. Il donare qualcosa a qualcuno crea un rapporto di gratitudine, ma non di
dipendenza, che può essere inteso anche come monito per gli altri frati nel donare loro
stessi al prossimo senza pretendere nulla in cambio. L‟accento sul donare è ripetuto poco
dopo riguardo all‟esperienza del lavoro68, che completa un passaggio della Regula non
bullata69: i frati non devono ricevere denaro, ma quel tanto che basta per soddisfare i loro
bisogni primari per essere liberi. Le dispense dal lavoro, così come la presenza di beni di
proprietà, portano alla dipendenza dall‟autorità; senza più beni terreni questi primi frati
potevano considerarsi liberi di predicare il Vangelo, come ricordato nelle esortazioni del
Testamentum.
La seconda parte della recordatio, corrispondente ai versetti 4-1370, spezza
l‟armonia del racconto storico ed è probabilmente una adiectio che collega idealmente il
camminavano innanzi; lui, tenendo una specie di scettro, veniva per ultimo, ma invece di cantare, era
assorto nelle sue riflessioni»).
67
2Cel, I, 2: «Die quadam pauperem militem et pene nudum obvium habuit, cui vestes proprias curiose
paratas, quibus indutus erat, pietate admonitus, pro Christi amore liberaliter dedit» («Un giorno incontrò un
cavaliere povero e quasi nudo: mosso a compassione, gli cedette generosamente, per amor di Cristo, le
proprie vesti ben curate, che indossava»).
68
Test, 24: «Et ego manibus meis laborabam, et volo laborare; et omnes alii fratres firmiter volo quod
laborent de laboritio quod pertinet ad honestatem. Qui nesciunt, discant, non propter cupiditatem recipiendi
pretium laboris; sed propter exemplum et ad repellendam otiositatem. Et quando non daretur nobis pretium
laboris, recurramus ad mensam Domini petendo helymosinam hostiatim» («E io con le mie mani lavoravo
e voglio lavorare; e fermamente voglio che tutti gli altri fratelli lavorino di un lavoretto che sia onesto.
Coloro che non sanno [lavorare] imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma
per [dare] l‟esempio e per cacciare l‟oziosità. E quando non ci sarà data la ricompensa del lavoro,
ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l‟elemosina di porta in porta»).
69
RegNB, 7
70
Test, 4-13: «Et Dominus dedit michi talem fidem in ecclesiis, ut ita simpliciter orarem et dicerem:
Adoramus te, Domine Ihesu Christe, et ad omnes ecclesias tuas que sunt in toto mundo, et benedicimus
tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum. Postea Dominus dedit michi et dat tantam fidem in
64
versetto 3 al 14: all‟«exivi de seculo» dovrebbe temporalmente seguire «Et postquam
Dominus dedit michi de fratribus [...]». La digressione, spesso intesa in chiave
antiereticale, sembra basata sull‟analogia dei temi trattati, ma recentemente è stato
proposto che potrebbe trattarsi di una zeppa aggiunta successivamente, ipotesi che
sostanzialmente condivido. Dalla preghiera che chiude la prima parte e apre la seconda,
infatti, si innesta una parentesi sulla Chiesa e sui ministri. Francesco dà testimonianza di
fede nei sacerdoti, aggiungendo alcune puntualizzazioni: anche se lo perseguitassero, essi
sono per prima cosa da temere, poi anche da amare e onorare. Nell‟insistenza sul valore
dei sacramenti, Francesco sembra contrapporre una cesura tra il suo Ordine e i Valdesi,
che rifiutavano la validità del sacramento se il sacerdote era un peccatore. Ribadire nel
Testamentum concetti teologici come questo sembra fuori luogo: il santo vuole
probabilmente assicurare l‟Ordine all‟ortodossia ed evitare eventuali persecuzioni.
sacerdotibus qui vivunt secundum formam sancte ecclesie Romane propter ordinem ipsorum quod, si
facerent michi persecutionem, volo recurrere ad ipsos. Et si haberem tantam sapientiam quantam Salomon
habuit et invenirem pauperculos sacerdotes huius seculi, in parrochiis quibus morantur nolo predicare ultra
voluntatem ipsorum. Et ipsos et omnes alios volo timere, amare et honorare, sicut meos dominos. Et nolo
in ipsis considerare peccatum, quia Filium Dei discerno in ipsis et domini mei sunt. Et propter hoc facio:
quia nichil video corporaliter in hoc seculo de ipso altissimo Filio Dei, nisi sanctissimum corpus et
sanctissimum sanguinem suum quod in locis pretiosis collocari. Sanctissima nomina et verba eius scripta,
ubicumque invenero in locis illicitis, volo colligere et rogo quod colligantur et in loco honesto collocentur.
Et omnes theologos et qui ministrant sanctissima verba divina debemus honorare et venerari, sicut qui
ministrant nobis spiritum et vitam» («E il Signore mi diede tale fede nelle chiese che così pregavo
semplicemente e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo
intero, e ti benediciamo perché con la tua santa croce hai redento il mondo. Poi il Signore mi diede e mi dà
tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa chiesa romana a causa del loro ordine che,
anche se mi perseguitassero, voglio ricorrere a loro. E se avessi tanta sapienza quanta Salomone ebbe e
trovassi sacerdoti poverelli di questo secolo, nelle parrocchie in cui dimorano non voglio predicare al di là
della loro volontà. E loro e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori. E non voglio in
loro considerare il peccato poiché vedo in loro il Figlio di Dio e sono miei signori. E per questo lo faccio:
perché in questo secolo non vedo corporalmente dello stesso altissimo Figlio di Dio se non il santissimo
corpo e il santissimo sangue suo che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri. E questi santissimi
misteri sopra ogni altra cosa voglio siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. I santissimi nomi e
le sue parole scritti, dovunque troverò in luoghi indecenti, voglio raccogliere e prego che siano raccolti e
collocati in luogo onesto. E tutti i teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine dobbiamo
onorare e venerare come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita»). Sull‟argomento vd. ACCROCCA,
Francesco e le sue immagini, cit.: i versetti 6-10 riprendono Adm 26 e la EpFid2, 6, temi ripresi poi in
2Cel, II, 146 e 201.
65
Riaffermare la propria adesione ai precetti cattolici ai versetti 12-13 sul valore dei testi
scritti significava distanziare il francescanesimo anche dall‟eresia catara che era stata
debellata con una crociata proprio in quegli anni. La chiusura di questa zeppa sulla fede
nei teologi è di difficile interpretazione, e la critica ha provato a farla rientrare nell‟ottica
francescana senza prove o teorie convincenti: «Queste parole, viste nel loro aspetto
puramente esteriore, sono per noi un enigma»71. Gli studiosi sono comunque concordi
nell‟affermare che l‟armonia della recordatio è spezzata e per questo motivo non viene
qui inclusa nell‟analisi.
Nella terza parte della recordatio (versetti 14-19), Francesco torna a parlare della
propria vita, passando dall‟esperienza privata a quella comunitaria:
(14)
Et postquam Dominus dedit michi de fratribus, nemo ostendebat michi
quid deberem facere, sed ipse Altissimus revelavit michi quod deberem
vivere secundum formam sancti evangelii. (15)Et ego paucis verbis et
simpliciter feci scribi et dominus papa confirmavit michi. (16)Et illi qui
veniebant ad recipiendam vitam, omnia que habere poterant, dabant
pauperibus et erant contenti tunica una intus et foris repeciata cum cingulo et
brachis: (17)et nolebamus plus habere. Offitium dicebamus clerici secundum
alios clericos, layci dicebant: Pater noster. (18)Et satis libenter manebamus in
ecclesiis; (19)et eramus ydiote et subditi omnibus72.
Dopo l‟uscita dal secolo, Francesco si ritira a vita eremitica, aiutando i bisognosi e
restaurando chiese. Verso il 1208-1209, l‟inaspettato arrivo dei primi compagni è visto
71
ESSER, Il Testamento di san Francesco, cit., p. 135.
Test, 14-19: «E dopo che il Signore mi diede dei fratelli, nessuno mi indicava che cosa dovessi fare; ma
lo stesso Altissimo mi mostrò che dovevo vivere secondo il modello del santo vangelo. E io con poche
parole e semplicemente [lo] feci scrivere e il signor papa me [lo] confermò. E coloro che venivano a
prendere vita, davano ai poveri tutte le cose che potevano avere ed erano contenti di una tunica rappezzata
dentro e fuori, con un cingolo e le brache: e non volevamo avere di più. Noi chierici come gli altri chierici
dicevamo l‟ufficio, i laici dicevano il Padre nostro. E assai volentieri rimanevamo nelle chiese; ed eravamo
idioti e sottomessi a tutti».
72
66
come un dono del Signore e dice chiaramente di non saper cosa fare dal momento che la
sua scelta di vita non prevedeva la creazione di una piccola comunità.
Smarrito dal cambiamento, Francesco si rifugiò in una prassi molto comune
all‟epoca, tollerata anche se osteggiata dalla Chiesa, le sortes apostolorum73: dopo aver
pregato, il fedele doveva aprire per tre volte il Vangelo e, se il libro sacro si schiudeva
sempre alla medesima pagina, era un chiaro simbolo della volontà del Signore. Il ricorso
alle sortes apostolorum in Francesco è accertato dalla critica anche nell‟episodio delle
direttive da impartire a frate Bernardo74. La prova di Francesco fu la scoperta della sua
missione ed è probabile che alcuni passi evangelici venissero trascritti creando la
primitiva forma vitae di cui rimane traccia nelle fonti francescane. Come evidenziato da
Paolazzi, si può intravedere nella filigrana del Testamentum questa proto-regola,
riassunta in quattro espressioni: secundum forma Evangelii; dabant pauperibus; tunica
una; Officium dicebamus75. La volontà di Francesco di vedere apprezzati i suoi sforzi lo
portò a Roma dal papa verso il 1210 per ottenere la conferma della sua scelta di vita.
L‟incontro col papa Innocenzo III, taciuto nel testo, non fu semplice e sembra essersi
svolto in diverse fasi e non sempre in modo pacifico. Quello che a Francesco preme
73
Vd. W.E. KLINGSHIRN, Defining the Sortes Sanctorum: Gibbon, Du Cange, and Early Christian Lot
Divination, «Journal of Early Christian Studies», 10/1 (2002), pp. 77-130, e la bibliografia ivi citata. Un
episodio simile di apertio libri appare già nelle Confessiones nel celebre del tolle et lege (Conf. VIII, 12),
oppure nella lettera del Petrarca sull‟ascesa del Ventoso, laddove il poeta apre il libro di Agostino proprio
sul folio che tratta della conversione (Fam. IV, 1).
74
2Cel, I, 10.
75
C. PAOLAZZI, I frati Minori e i libri: per l‟esegesi «ad implendum eorum Officium» (Rnbu III, 7) e
«nescientes litteras» (Rnbu III, 9; Rebu X, 7), «Archivum Franciscanum Historicum» 97 (2004), pp. 3-59,
p. 3; ristampato in ID., Studi su gli «Scritti», cit., pp. 161-217, p. 161: «entrambe le Regole dei frati Minori
giunte fino a noi rispecchiano nei tre capitoli iniziali la successione tematica presente nella pagina del
Testamentum».
67
sottolineare è la conferma papale alla propria forma vitae, che si pone nell‟opera come
esempio parallelo alla Regula bullata, approvata ma con toni mitigati.
In seguito all‟approvazione orale, nuovi compagni aumentarono le file della
comunità e solo allora Francesco inserì un accenno autobiografico ai vestiti da indossare
e alla povertà, due aspetti complementari. Francesco non scelse una divisa che potesse
identificarlo, anzi, si rifiutò di scegliere: ogni frate in sostanza aveva un proprio vestito
diverso da quello degli altri e senza toppe colorate, all‟epoca molto costose, ma con
diverse variazioni di colori sbiaditi, dal marrone al grigio al verde stinto, che erano le
stoffe più economiche. Figlio di un mercante, ed egli stesso mercante, Francesco era a
conoscenza del valore non solo intrinseco del tessuto, ma anche estrinseco e simbolico76,
e mette in relazione la ricchezza allo sfarzo dei vestiti e la povertà alla loro
monocromaticità.
Infatti, ad esso segue il riferimento alla povertà con l‟et nolebamus plus habere:
Francesco riafferma il suo rifiuto per un qualsiasi possesso materiale, motivo di contrasti
sin dagli inizi dell‟Ordine. Sono infatti famosi alcuni episodi in cui Francesco scaccia i
compagni da case che avevano occupato o rimprovera aspramente i fratelli che
possedevano libri77. Viene qui affermata, a livello comunitario, e non prima, l‟assoluta
povertà dell‟esperienza religiosa, elemento che ritorna alla fine del ricordo della sua vita,
non come punto centrale della sua missione. Solo in seguito all‟entrata nella fraternitas
di illi qui veniebant ad recipiendam vitam, Francesco si accorge della difficoltà di
76
Sul valore dell‟abito vd. A. VETTORI, Poets of Divine Love: Franciscan Mystical Poetry of the
Thirteenth Century, New York, Fordham UP 2004, in particolare il primo capitolo, Theater of Nudity, pp.
3-39.
77
2Cel, II, 32.
68
mantenere fede alla promessa evangelica originaria, sentendosi in dovere di ribadire
concetti non comunemente accettati.
Il ricordo si avvia alla conclusione e Francesco apre il suo messaggio evangelico a
tutti, sia clerici che layci, status a cui apparteneva lo stesso Francesco. L‟explicit della
parte storico-narrativa del Testamentum è nuovamente programmatico: Et satis libenter
manebamus in ecclesiis; et eramus ydiote et subditi omnibus. L‟assisiate, pur rimanendo
all‟interno della Chiesa, si sentiva libero nella sua semplicità. Quando era con i primi
frati, Francesco sembra suggerire con l‟avverbio libenter uno spirito di libertà d‟azione
all‟interno della struttura ecclesiastica, una volontà della fraternitas di far parte della
Chiesa e non l‟opposto, in quanto si sentiva soggetto attivo e non passivo della loro
missione.
Con queste parole si conclude la parte „autobiografica‟ del Testamentum, alla quale
seguono poi ammonizioni ed esortazioni. Che il racconto di queste due parti sia diverso
dal resto del dettato è evidente dall‟uso dei tempi verbali. Nella parte storico-narrativa, i
tempi verbali sono al passato e si articolano tra l‟imperfetto e il perfetto: escludendo i
doni del Signore, in cui Dio è soggetto e Francesco oggetto della frase (Dominus dedit
michi; Dominus conduxit me; Dominus dedit michi; Dominus dedit michi; Dominus dedit
michi; Altissimus revelavit michi)78, la vita di Francesco fa parte della storia: videbatur
(2) feci; conversum fuit; steti; exivi nel suo ricordo personale; ostendebat; feci;
confirmavit; veniebant; poterant; dabant; erant; nolebamus; dicebamus; dicebant;
manebamus; eramus nel ricordo comunitario. Col successivo imperfetto, laborabam,
78
Il pensiero va subito al Cantico delle creature, laddove la struttura passiva presenta Dio come oggetto
della lode ma soggetto della frase. Vd. G. POZZI, «Il Cantico di frate Sole» di san Francesco, in
Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere, a cura di A. Asor Rosa, Torino Einaudi 1992, voll. 2, I, Dalle
Origini al Cinquecento, pp. 4-31.
69
Francesco torna al presente con una serie di ammonizioni ed esortazioni che non
riguardano più la Storia ma il tempo presente, con una lista di prescrizioni introdotte
dalla coppia antinomica volo/nolo e dall‟uso del congiuntivo esortativo.
Nella recordatio, i verbi che hanno Francesco come soggetto della frase sono nella
maggioranza dei casi dei verba faciendi: feci; steti; exivi; feci; laborabam, e testimoniano
il valore autobiografico della vita attiva e della pratica quotidiana di contro alla vita
contemplativa e all‟astrazione teologica: difficile non vedere una precisa scelta lessicale
che potesse rappresentare il santo stesso. E mentre per i primi frati che si univano al
gruppo i verbi danno ancora l‟idea di movimento, veniebant, dabant, con il sorgere della
prima comunità, invece, le scelte verbali comunicano un senso di staticità: nolebamus;
dicebamus; manebamus; eramus. Non credo che le scelte verbali operate da Francesco
siano casuali e frutto di un dettato occasionale, limitando la forza del discorso a un
ricordo acritico della propria esperienza di vita. Manifestano piuttosto una scelta
consapevole e meditata nel rappresentare la propria vita come azione evangelica basata
sull‟atto più che sulla parola.
I verba dicendi, infatti, (orarem et dicerem; benedicimus; predicare; dicebamus;
dicebant; diceremus; dicant; dicere) e in generale la parola, (predicationis;
benedictione (3); benedictionem; verba (4); verbis (3)) sono legati alla sola sfera religiosa
e non umana. La scelta delle parole mostra implicitamente il valore didattico del
messaggio del Testamentum e il modello da seguire per i suoi frati. Al movimento è
legato il cuore del messaggio di Francesco che si esprimeva nell‟azione quotidiana, vista
come esempio per i peccatori. Il fare si manifesta nella predicazione agli uomini dove,
più che le parole conta il movimento del corpo nella gesticolazione e nella teatralità che
70
Francesco offriva79. Basti pensare alla sua conversione, il primo atto in cui il santo non
parla ma lascia parlare l‟esemplarità del gesto80, ma soprattutto all‟invenzione teatrale del
presepio, la cui istituzione è visivamente rappresentata in uno degli affreschi di Giotto
nella basilica superiore di Assisi81, che mostra Francesco recitare dinanzi a un pubblico
una muta parte all‟interno di uno spazio delimitato e definito.
Senza parlare, Francesco comunica con gli uomini; al popolo basta vederlo per
sentirsi benedetto. Egli stesso infatti si definiva: « simplex et imperitus sermone»82. Gli
esempi offerti dalle fonti francescane sono molteplici e tutti nella stessa direzione:
sottolineano l‟importanza del senso della vista in tutte le azioni che riguardano la
predicazione agli uomini:
Licet autem evangelista Franciscus per materialia et rudia rudibus
praedicaret, utpote qui sciebat plus opus esse virtute quam verbis, tamen
inter se spirituales magisque capaces vivifica et profunda parturiebat
eloquia. Brevibus innuebat quod erat ineffabille, et ignitos interserens
gestus et nutus, totos rapiebat auditores ad caelica. Non distinctionum
clavibus utebatur, quia quos ipse non inveniebat, non ordinabat sermones.
79
Sulla teatralità di Francesco rimando a E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale,
con un saggio introduttivo di A. Roncaglia, Torino, Einaudi 2000 10 voll. 2, I, pp. 177-86; S. CARANDINI,
Teatro e spettacolo nel medioevo, in Letteratura italiana, cit., VI, Teatro, musica, tradizione dei classici,
pp. 15-67.
80
1Cel, I, 6: «Cumque perductus esset coram episcopo, nec moras patitur nec cunctatur de aliquo, immo
nec verba exspectat nec facit, sed continuo, depositis et proiectis omnibus vestimentis, restituit ea patri»
(«Comparso davanti al vescovo, Francesco non esita né indugia per nessun motivo: senza dire o aspettar
parole, si toglie tutte le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti»); episodio
ricordato anche in LegM, II, 4.
81
1Cel, I, 30, episodio poi ripreso dalle altri fonti francescane. CARANDINI, Teatro e spettacolo nel
medioevo, cit., p. 26, spiega: «Vi è rappresentato il culmine di un evento spettacolare, magistralmente
“ripreso” dall‟interno della scena stessa. Siamo in chiesa, dentro il recinto del coro, dalla navata preme la
folla anonima dei fedeli e volti di donne compaiono sulla porta dell‟iconostasi. Dentro la scena si assiepano
spettatori di riguardo e monaci che cantano. Al centro, ai piedi dell‟altare, si svolge la scena principale: san
Francesco depone il Bambino in una culla vicino alle figurine di un asino e di un bue».
82
LegM, XII, 1: «inesperto nel parlare», frase comunque ambigua, perché può essere interpretata
retoricamente come captatio benevolentiae, biblicamente, oppure come riferimento al suo latino.
71
Dabat voci suae vocem virtutis vera virtus et sapientia Christus. Dixit
aliquando physicus quidam, vir eruditus et eloquens: «Cum caeterorum
praedicationem de verbo ad verbum retineam, sola me effugiunt quae
sanctus Franciscus eructat. Quorum si aliqua committo memoriae, non illa
mihi videntur quae sua prius labia distillarunt»83.
Illuminante è la testimonianza del medico, che non ricorda le parole del santo dette nella
sua esuberanza mentre riesce a ricordare quelle di tutti gli altri predicatori. L‟imitatio del
santo da parte dei frati, ai quali il Testamentum è diretto, dà ragione di essere al testo
stesso. Per questi motivi l‟opera è qui considerata come proto-autobiografica, in quanto
Francesco vuole offrire testimonianza autobiografica della propria vita e delle proprie
scelte per essere, anche dopo il trapasso, guida morale e continuo punto di riferimento
dell‟Ordine.
2.4. La tradizione manoscritta
Francesco voleva che il Testamentum fosse un atto pubblico da leggere assieme
alla Regula per poterla melius catholice osservare:
83
2Cel, II, 83: «Il predicatore del Vangelo Francesco, quando predicava a persone incolte, usava
espressioni semplici e materiali, ben sapendo che vi è più necessità di virtù che di parole. Tuttavia tra
persone spirituali e più colte cavava dal cuore parole profonde, che davano vita. Con poco spiegava ciò che
era inesprimibile, e unendovi movimenti e gesti di fuoco, trascinava tutti alle altezze celesti. Non si serviva
del congegno delle distinzioni, perché non dava ordine a discorsi, che non ideava da se stesso. Alla sua
parola dava voce di potenza Cristo, vera potenza e sapienza. Un medico, persona colta ed eloquente, disse
una volta: “Mentre ritengo parola per parola le prediche degli altri, solo mi sfugge ciò che Francesco dice
nella sua esuberanza. E, se cerco di ricordare alcune parole, non mi sembrano più quelle che prima hanno
stillato le sue labbra”».
72
Et generalis minister et omnes alii ministri et custodes per obedientiam
teneantur in istis verbis non addere vel minuere, et semper hoc scriptum
habeant secum iuxta regulam. Et in omnibus capitulis que faciunt, quando
legunt regulam legant et ista verba. Et omnibus fratribus meis clericis et
laycis precipio firmiter per obedientiam ut non mittant glosas in regula neque
in istis verbis dicendo ita volunt intelligi; sed sicut dedit michi Dominus
simpliciter et pure dicere et scribere regulam et ista verba, ita simpliciter et
sine glosa intelligatis et cum sancta operatione observetis usque in finem84.
Con la bolla Quo elongati del 28 settembre 1230, papa Gregorio IX negava il
valore vincolante delle parole del Testamentum, essendo Francesco un semplice frate e
non il ministro dell‟Ordine85. Sul piano legislativo la scelta del papa fu corretta, ma fu
suggerita anche dalla diplomazia onde evitare possibili contrasti che sarebbero comunque
nati in seguito alla volontà degli zelanti di tornare alle origini.
Il testo è tramandato da una ricca tradizione manoscritta, «ma di quella abbondanza
sono giunti fino a noi solo due testimoni [del XIII secolo] (As, V4), con l‟inevitabile,
conseguente difficoltà nel documentare le prime fasi della trasmissione del testo, mentre
a partire dal secolo XV si va incontro al problema opposto»86, essendoci rimasto un
elevato numero di testimoni che hanno reso impossibile la costruzione di uno stemma
codicum. Strano destino per l‟ultimo scritto del santo, in rapporto al numero elevatissimo
di frati e conventi sorti nel Duecento e alla volontà, seppur non rispettata, che il testo
fosse letto assieme alla Regula. Tra il 1226, anno della morte del santo, e il 1230, data
84
Test, 35-39: «E il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non
aggiungere né togliere [alcunché] in queste parole, e sempre abbiano questo scritto con sé accanto alla
regola; e in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la regola, leggano anche queste parole. E a tutti i miei
fratelli chierici e laici comando fermamente per obbedienza di non mettere glosse nella regola né in queste
parole dicendo: Così devono essere interpretate; ma come il Signore mi diede di dire e scrivere la regola e
queste parole in modo semplice e puro, così in modo semplice e senza glossa capite[le] e con santo agire
osservate[le] sin alla fine».
85
FLOOD, The Politics of «Quo elongati», cit., pp. 199-214.
86
Francisci Assisiensis Scripta, a cura di C. Paolazzi, Grottaferrata, Collegii S. Bonaventurae ad Claras
Aquas 2009, pp. 386-87; mio il corsivo
73
della promulgazione della bolla papale, dobbiamo infatti supporre che il testo venisse
copiato in decine e decine di esemplari e diffuso nelle varie province dell‟Ordine, ma di
tale abbondanza non è rimasta testimonianza codicologica.
Risulta oggi difficile ricercare le cause che portarono alla non circolazione del
Testamentum in un‟epoca in cui gli scritti del santo erano considerati delle reliquie, come
successe per la chartula autografa che Francesco donò a Leone87. Franceschini riporta
che nelle Marche il Testamentum venne addirittura confiscato da alcuni frati e bruciato
sulla testa dei confratelli che ne erano stati trovati in possesso88.
Credo che il Testamentum, a causa della sua natura ibrida (recordatio, ammonitio,
exhortatio et meum testamentum) e del suo messaggio autobiografico, abbia creato un
senso di disturbo negli uomini del XIII secolo e nella comunità francescana che sembra
trascendere gli aspetti religiosi e legislativi all‟interno dell‟Ordine. La familiarità dei
primi lettori con la vita e l‟opera di Francesco, ma anche la lettura di un testo che parla
dell‟io, soggetto e oggetto grammaticale del dettato, pare creare un senso di disagio.
L‟ostracismo di una parte dell‟Ordine, la distruzione materiale di alcuni esemplari e la
presenza di due soli testimoni duecenteschi dimostrano uno stato di malessere che non
può essere facilmente spiegato. La causa è forse ravvisabile nel documento stesso,
laddove il testo risulta avere quella matrice autobiografica di testimonianza della vita di
un uomo in una società che ancora non concepiva l‟esperienza del singolo come materia
87
Episodio probabilmente ricordato in 2Cel, II, 20 («De fratre tentato qui de manu sancti aliquod scriptum
habere volebat»). Sugli autografi di Francesco vd. A. BARTOLI LANGELI, Gli autografi di frate Francesco e
di frate Leone, Turnhout, Brepols 2000.
88
E. FRANCESCHINI, Nel segno di Francesco, a cura di F. Casolini-G. Giamba, premessa di E. Menestò,
Santa Maria degli Angeli – Assisi, Porziuncola 1988, p. 97. Il volume raccoglie le lezioni del professor
Franceschini e venne pubblicato postumo. Manca il riferimento bibliografico dell‟episodio riportato che, al
momento, non mi è stato possibile rintracciare.
74
da trattare. La forza del messaggio di Francesco potrebbe aver causato tra i suoi frati uno
smarrimento che ne compromise la comprensione e la diffusione, superato solamente due
secoli più tardi, come rivela lo studio della tradizione manoscritta.
75
3
Il parlar di se medesimo
in Dante
Dante è l‟autore dell‟io per eccellenza e nella sua produzione, definita un‟isola
autobiografica nel Medioevo1, parla di sé in ogni sua opera. La storia d‟amore tra il poeta
e Beatrice occupa buona parte della produzione dantesca, ma sembra trascendere
l‟aspetto strettamente autobiografico per lasciar spazio a una narrazione, caricata di un
significato allegorico, tra il lirico e l‟onirico, che fa emergere e pone in primo piano l‟io
poetico a scapito dell‟io storico. Difficile scindere la duplice lettura, reale e fittizia, legata
a doppio filo nel calamo del poeta, in cui i campi semantici sono volutamente intrecciati:
Beatrice, personaggio polisemantico, non è solo il nome dell‟amata, ma è anche colei che
beatifica l‟anima di Dante, così come lo stile delle petrose rimanda al nome di donna
Petra e la Donna gentile assume significati diversi che ancora fanno discutere la critica, e
così via, rendendo impossibile la separazione tra atto creativo e fatto reale.
L‟esegesi critica della Vita nova ha a lungo dibattuto la traccia autobiografica
presente nel testo, e tale approccio è stato spesso dominante. Senza ripercorrere una via
1
G. ANGIOLILLO, Un‟isola “autobiografica”. Viaggio nella mentalità di Dante, Salerno, EDISUD 1994;
vd. anche G. FALLANI, Dante autobiografico, Napoli, Società editrice napoletana 1975, che ricostruisce la
biografia del poeta basandosi quasi esclusivamente sui suoi scritti.
76
trita che risulterebbe superflua e infeconda all‟analisi che qui si presenta, vorrei tuttavia
riassumere la questione e spiegare le cause che hanno portato all‟esclusione dell‟opera
dalla presente indagine.
Varie sono state le proposte di dare una definizione dell‟opera, ma nessuna è
risultata vincente. Ricercando la presenza del tratto autobiografico nel prosimetro
dantesco, la Vita nova è stata interpretata come Bildungsroman, antologia poetica,
autobiografia poetica, agiografia oppure autoagiografia2. Seguendo una metafora
frequente nel Medioevo, i ricordi del poeta sono paragonati a un libro corredato di
rubriche e, alcuni di questi, scelti selettivamente, vengono inseriti nel libello che il poeta
sta componendo. Nell‟incipit sono già formulate le due chiavi di lettura che dirigono i
pensieri del poeta dal libro al libello:
In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si
potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la
quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento
d'assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia3.
A un primo livello vi sono ricordi rimasti impressi nella memoria; a un secondo la
scelta dello scrittore di selezionare e tramandare solo episodi specifici del suo passato,
2
Sulla questione vd. soprattutto M. PICONE, La «Vita nuova» fra autobiografia e tipologia, in Dante e le
forme dell‟allegoresi, a cura di M. Picone, Ravenna, Longo 1987, pp. 59-69 e D. DE ROBERTIS, Il libro
della «Vita Nuova», Firenze, Sansoni 1970; vd. inoltre E. GILSON, Dante et la philosophie, Paris, Vrin
1939; V. BRANCA, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella «Vita Nuova», in Studi in
onore di Italo Siciliano, Firenze, Olschki, 1966, voll. 2, I, pp. 123-43; ZUMTHOR, Autobiographie au
Moyen Age?, cit.; GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 42-72; ID., Biografia ed autobiografia,
cit., pp. 837-40; M. PICONE, «Vita Nuova» e tradizione romanza, Padova, Liviana 1979; LEE, Significato
dell‟autobiografia nel Medioevo, cit., pp. 809-11; E. PASQUINI, La «Vita Nova» di Dante: autobiografia
come «memoria selettiva», in «In quella parte del libro de la mia memoria», cit., pp. 57-67.
3
VN I, 1. L‟edizione di riferimento per le citazioni della Vita nova è D. ALIGHIERI, Vita nuova, a cura di D.
De Robertis, in Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi 1979-1984, voll. 3, tomo I, parte I, pp. 1-247.
77
trasformando aspetti del suo vissuto in materia d‟arte4: in sintesi, la scrittura lirica, dove
spazio e tempo sono elementi secondari, soffoca il tentativo di autorappresentazione in
quanto il poeta non sente il bisogno di parlare di sé5.
Dante stesso ci informa dell‟impossibilità di un‟apertura autobiografica nel cuore
dell‟opera. Dopo la loda di Beatrice, con la morte della donna e la successiva lamentatio,
mentre il lettore si aspetterebbe una riflessione sugli effetti della perdita dell‟amata sul
poeta, si arresta ogni apertura autobiografica:
E avvegna che forse piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita
da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima è
che ciò non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che
precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente
proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare come si
converrebbe di ciò; la terza si è che, posto che fosse l‟uno e l‟altro, non è
convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe
essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole
a chi lo fae; e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore6.
4
Vd. in particolare VN XVII («Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che
fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai
avere manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e
più nobile che la passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole a udire, la dicerò, quanto
potrò più brievemente») e VN XXX («Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade
quasi vedova dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a
li principi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta
che dice: Quomodo sedet sola civitas. E questo dico, acciò che altri non si maravigli perché io l‟abbia
allegato di sopra, quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene. E se alcuno volesse me
riprendere di ciò, ch‟io non scrivo qui le parole che seguitano a quelle allegate, escusomene, però che lo
intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare; onde, con ciò sia cosa che le
parole che seguitano a quelle che sono allegate, siano tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se le
scrivessi. E simile intenzione so ch‟ebbe questo mio primo amico a cui io ciò scrivo, cioè ch‟io li scrivessi
solamente volgare»), in cui è chiaro il riferimento alla materia d‟arte.
5
Sulla Vita nova intesa come opera onirica vd. T. BAROLINI, «Cominciandomi dal principio infino a la
fine»: Forging Anti-Narrative in the Vita Nuova, in La gloriosa donna de la mente: A Commentary on the
“Vita Nuova”, a cura di V. Moleta, Firenze, Olschki 1994, pp. 119-140; più in generale, su tempo e spazio
nell‟opera dantesca, vd. G. BARBERI SQUAROTTI, L‟artificio dell‟eternità, Verona, Fiorini 1972.
6
VN XVIII, 2.
78
Nel controverso passaggio è Dante stesso ad affermare che non parlerà di sé: come
evidenziato nella terza ragione, non può descrivere l‟evento che potrebbe aprire le porte
all‟io autobiografico poiché contravverrebbe alle regole retoriche del tempo che non
prevedevano l‟autoelogio o l‟autocelebrazione. L‟autoesegesi esclude consapevolmente
la matrice autobiografica, la quale rimane nella penna del poeta e non riesce a essere
vergata sulla pergamena del libello nonostante le premesse iniziali sul recupero
memoriale della vita passata.
A sostegno di una lettura non autobiografica dell‟opera ci vengono incontro anche
alcuni passi del Convivio, laddove il libello viene definito come un sogno: «per lo quale
ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come nella Vita Nova si può
vedere»7, chiosando come lo scritto non rappresenti una vita reale, ma un ricordo onirico
dell‟esperienza poetica giovanile. Il ruolo egemone della poesia relega la Storia della
prosa a un ruolo ancillare, soffocata dalla figura di Beatrice e dal racconto di una
formazione poetica8. Per questo motivo si è deciso di escludere la Vita Nova
dall‟indagine sull‟autorappresentazione dell‟io dantesco, in quanto non funzionale al
progetto che qui si presenta.
Simili ragioni hanno portato anche all‟esclusione della Comedia. Disseminando,
secondo il suo usus scribendi, particolari della propria vita nell‟opera, Dante mesce
episodi diversi che in alcuni casi accompagnano l‟immagine poetica e ci offrono un
7
Cv II, 12, 4. L‟edizione di riferimento per le citazioni del Convivio è D. ALIGHIERI, Convivio, a cura di F.
Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere 1995, voll. 3.
8
Per Picone il termine Vita «vuole indicare la rammemorazione di una serie di eventi topici capitati all‟io
durante la sua stagione giovanile; eventi rivissuti e commentati dall‟esegeta con lo scopo di dimostrare il
segno luminoso di una distinzione: l‟appartenenza del poeta (fusione del protagonista con l‟esegeta) al
canone ristrettissimo degli auctores romanzi», vd. PICONE, La «Vita nuova» fra autobiografia e tipologia,
cit., p. 64.
79
affresco di vita vissuta, come ad esempio, tra i casi più celebri, il dialogo con Brunetto
Latini in Inferno XV; il ricordo di Casella in Purgatorio II; o la confessione di
traviamento strappata da Beatrice in Purgatorio XXXI. La poesia è la trama su cui
l‟ordito del racconto autobiografico saltuariamente s‟innesta laddove, ancora a mo‟
d‟esempio, descrivendo la bolgia dei simoniaci, Dante paragona i fori che ospitano i
dannati a quelli del fonte battesimale nel battistero di Firenze, aggiungendo poi un
particolare che esula dalla narrazione:
l‟un de li quali, ancor non è molt‟anni,
rupp‟io per un dentro v‟annegava:
e questo sia suggel ch‟ogn‟omo sganni.
If XIX, 19-21
In anni recenti la Comedia è stata oggetto di una lettura autobiografica sia da parte
di Freccero9, che sovrappone all‟opera il modello di conversione agostiniano, senza però
penetrare nella struttura della fabula e limitando la sua analisi alla struttura generale; sia
da parte di Iannucci, che si sofferma in particolare sulla componente autobiografica del
canto XXXI del Paradiso10, in cui convergerebbe e si svelerebbe l‟historia Dantis
9
J. FRECCERO, Dante‟s Novel of the Self, «Christian Century», 82 (1965), pp. 1216-18; ID., The Prologue
Scene, «Dante Studies», 84 (1966), pp. 1-25, ristampato in Dante: The Poetics of Conversion, a cura di J.
Freccero-J. Jacoff, Cambridge, Harvard UP 1986, pp. 1-28; ID., Dante‟s Medusa: Allegory and
Autobiography, in By Things Seen: Reference and Recognition in Medieval Thought, a cura di D.L. Jeffrey,
Ottawa, Ottawa UP 1979, pp. 33-46; ID., Introduction to Inferno, in The Cambridge Companion to Dante,
a cura di R. Jacoff, Cambridge, Cambridge UP 1993, pp. 172-91. Già Contini scriveva: «la Commedia è,
dopo tutto, anche la storia, stavo per dire l‟autobiografia, di un poeta», vd. G. CONTINI, Dante come
personaggio-poeta della «Commedia», in ID., Un‟idea di Dante: Saggi danteschi, Torino, Einaudi 1976,
pp. 33-62, p. 40.
10
A.A. IANNUCCI, Dante e l‟autobiografia, in Scrivere la propria vita, cit., pp. 83-103; ID., Autoesegesi
dantesca: la tecnica dell‟„episodio parallelo‟ nella Commedia, «Lettere italiane», 33 (1981), pp. 305-28.
Ai due dantisti americani bisogna aggiungere A. CHARITY, Events and their Afterlife, Cambridge,
Cambridge UP 1966, che individua nell‟allegoria dantesca, intesa in senso figurale, una dimensione
autobiografica e, in generale, S. BATTAGLIA, Mitografia del personaggio, Milano, Liguori 1968.
80
disseminata lungo le pagine del poema. Tale progetto, per il momento, esula dal presente
studio poiché si tratta di un tema ad ampio respiro che esige una vita autonoma e pone
due problemi di non facile decifrazione: si tratta di autobiografia o di autobiografismo? E
qual è l‟io della Comedia? Riconosciuto il proprio status di exul immeritus, Dante non ha
più l‟esigenza del parlare di sé propria del Convivio. Il ricorso a diversi alter ego e la
scissione tra Dante-autore, Dante-narratore e Dante-attore pongono il primo ostacolo
all‟indagine autobiografica a venire in quanto i diversi soggetti non solo non coincidono,
ma hanno vita e pensiero propri11.
Per queste ragioni, si è qui deciso di analizzare la funzione dell‟io autobiografico
con particolare riguardo per il Convivio, prima opera dell‟esilio e testimone della crisi e
della conversione intellettuale dell‟esule, che presenta una forte cesura col periodo
precedente e pone le basi degli scritti seriori. Il problema dell‟autorappresentazione viene
infatti subito posto da Dante come punto focale del trattato, superando l‟impasse retorico
nella distinzione tra il parlare di sé in chiave esemplare o apologetica e differenziandosi
sia dall‟io lirico della Vita nova sia dall‟io polivalente della Comedia, per giustificare ciò
che per le regole retoriche dell‟epoca non poteva essere narrato: la propria vita12.
11
12
CONTINI, Dante come personaggio-poeta della Commedia, cit.
Lo stesso giudizio è stato espresso in GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 73-100 e p. 158.
81
3.1. lo parlare di sé è conceduto: il Convivio
In seguito all‟esilio, evento che segna la vita e la produzione del poeta, Dante
compone il Convivio, un‟opera filosofica scritta tra il 1304 e il 1307 per utilitade e
diletto13 sulla quale riversa molte speranze e aspettative per un possibile ritorno a
Firenze. Nella mente dell‟autore, l‟opera doveva essere inizialmente composta da
quindici capitoli: uno proemiale, in cui si dava ragione del testo, seguito da altri
quattordici trattati di struttura prosimetrica che avevano il compito di spiegare
allegoricamente «quattordici canzoni sì d‟amor come di vertù materiate»14. Dante tuttavia
interrompe la scrittura al termine del quarto trattato e abbandona l‟opera a se stessa,
lasciandoci un testo incompiuto e non divulgato, per dedicarsi ad altri lavori. Il Convivio
risulta così essere opera di passaggio tra lo Stilnovismo, superato da una revisione e
reinterpretazione della produzione giovanile, e la Comedia, della quale si può cogliere il
progetto e nella quale confluisce il banchetto filosofico15.
13
Cv III, 5, 22: «O ineffabile sapienza che così ordinasti, quanto è povera la nostra mente a te
comprendere! E voi a cui utilitade e diletto io scrivo, in quanta cechitade vivete, non levando li occhi suso
a queste cose, tenendoli fissi nel fango della vostra stoltezza!».
14
Cv I, 1, 14.
15
Come segnalato nell‟edizione curata da Simonelli, Cv III, 6, 7 («Dove è da sapere che ciascuna cosa
massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è
desiderata. E questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla
dilettazione è sì grande in questa vita che a l‟anima nostra possa [sì] tòrre la sete […]») e Cv IV, 12, 14-18
(«[…] lo sommo desiderio di ciascuna cosa […] è lo ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio
delle nostre anime […], essa anima massimamente desidera di tornare a quello. E sì come peregrino che va
per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l‟albergo, e non
trovando ciò essere, dirizza la credenza all‟altra, e così di casa in casa, tanto che all‟albergo viene; così
l‟anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al
termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia
esso. […] Per che vedere si può che l‟uno desiderabile sta dinanzi all‟altro alli occhi della nostra anima per
modo quasi piramidale, che ‟l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta dell‟ultimo desiderabile, che è
Dio, quasi base di tutti. […] Veramente così questo cammino si perde per errore come le strade della terra
82
A livello strutturale, lo scritto è diviso in temi cari in quel momento al poeta, dietro
ai quali non è arduo scorgere una captatio benevolentiae indirizzata ai suoi concittadini
in attesa dell‟agognato rientro in città. Il primo trattato ha come tema l‟ amicizia «a chi
bene intenderà»16 e insiste in maniera interessata sulla causa prima di un suo possibile
ritorno; il secondo parla dell‟amore di Dante per la Filosofia e ha il compito di
persuadere il lettore dell‟alta e ineccepibile condotta morale dell‟autore, poiché anima e
spirito, passato e presente, sono cittadino17, offrendo le coordinate necessarie per
comprendere la canzone ad esso preposta e per spiegare come la Donna gentile della Vita
nova non fosse già una donna reale. La terza parte tratta della sapienza e della carità, altro
tema non disinteressato; mentre l‟ultimo trattato parla della nobiltà d‟animo,
paragonando i comportamenti etici del poeta a quelli dei grandi uomini dell‟antichità18.
Il Convivio ha un carattere scientifico, filosofico e didattico che spesso ne scoraggia
la lettura, ma ha a monte la quaestio sulla liceità dell‟autobiografia, definita da Dante
come una macula da purgare:
[…]»), presentano già l‟idea della Commedia (D. ALIGHIERI, Il Convivio, a cura di M. Simonelli, Bologna,
Patron 1966). Sul rapporto tra Convivio e Comedia, vd. soprattutto B. NARDI, Dal “Convivio” alla
“Commedia” (Sei saggi danteschi), Roma, ISIME 1992, in particolare pp. 37-150; F. FERRUCCI, Il poema
del desiderio: poetica e passione in Dante, Milano, Leonardo 1990; A. MAZZUCCHI, Tra Convivio e
Commedia. Sondaggi di filologia e critica dantesca, Roma, Salerno 2004.
16
Cv I, 12, 2. Tra i numerosissimi i riferimenti all‟amicizia nel primo trattato riporto la considerazione fatta
da Dante in apertura dell‟opera in Cv I, 1, 8: «Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è
amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch‟elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati
non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire
mangiando».
17
Cv II, 6, 8: «Ma però che ancora l‟ultima sentenza della mente, cioè lo [con]sentimento, si tenea per
questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo io lui „anima‟ e l‟altro „spirito‟: sì come chiamare solemo
la cittade quelli che la tengono, e non coloro che la combattono, avegna che l‟uno e l‟altro sia cittadino».
18
Sulla struttura del Convivio vd. A. GAGLIARDI, La tragedia intellettuale di Dante. Il Convivio,
Catanzaro, Pullano 1994.
83
Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato convivio sogliono li sergenti
prendere lo pane apposito e quello purgare da ogni macula […]. L‟una è che
parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l‟altra è che parlare in
esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e ‟l non
ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma19.
L‟opera ha infatti all‟origine il problema del parlare di se medesimo e della scrittura
autobiografica poiché Dante ha il bisogno di reinterpretare la propria poesia giovanile in
chiave allegorica per difendersi dalle accuse che avevano portato al suo allontanamento
da Firenze, probabilmente legate alla sua produzione poetica. Secondo l‟Alighieri, lo
scoglio da superare sono i dettami retorici dell‟epoca che, come argomentato sia nella
Vita nova che nel Convivio, impediscono l‟atto autobiografico in quanto espressione
autoelogiativa dell‟io:
Non si concede per li rettorici alcuno di se medesimo sanza necessaria
cagione parlare, e da ciò è l‟uomo rimosso, perché parlare d‟alcuno non si
può che ‟l parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla20.
All‟interno della produzione del poeta fiorentino, il nome di Dante ricorre infatti
solamente nella Rima XCIII (Io Dante a te, che m‟hai così chiamato) e in Pg XXX, 55
(Dante, perché Virgilio se ne vada), giustificato nella Comedia in quanto Beatrice
richiama perentoriamente e rimprovera aspramente il poeta per il pianto che segue alla
19
Cv I, 2, 1-2.
Cv I, 2, 3 e VN XVIII, 2, vd. supra, p. 77 e n. 6. Dante riprende la tradizione classica: nell‟Etica
Nicomachea, IV 1125a, Aristotele sostiene che il magnanimo «non è persona che parla degli uomini:
giacchè non parlerà né di se stesso né di un altro; né infatti gli sta a cuore esser lodato né che gli altri siano
disprezzati» (ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di M. Zanatta, Milano, BUR 1986, voll. 2, I, p. 291);
nel De senectute IX, Cicerone afferma che «Nihil necesse est mihi de me ipso dicere» (M.T. CICERONE,
Cato Maior de senectute. La vecchiezza, a cura di E. Narducci, Milano, BUR 1983 2, pp. 172-73: «Nulla mi
è necessario dire su me stesso»). Vd. anche D. ALIGHIERI, Il convivio, a cura di G. Busnelli-G. Vandelli,
Firenze, Le Monnier 1964, pp. 12-13 e note. Anche Petrarca riprende le giustificazioni usate da Dante, vd.
infra, p. 124.
20
84
scomparsa di Virgilio. L‟uso del nome proprio è dunque accettato solamente in quanto
atto necessario di ripetizione testuale delle parole della nuova guida:
quando mi vuolsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra
Pg XXX, 62-63
È tuttavia possibile parlare della propria vita in due situazioni particolari, grazie
all‟auctoritas di due scrittori della tarda antichità: qualora l‟uomo debba scrivere una
propria apologia per difendersi da attacchi infamanti o calunniosi, e questo è l‟esempio
fornito dal De consolatione philosophiae di Boezio; oppure qualora la propria esistenza
serva da exemplum per le future generazioni, e questo è il caso delle Confessiones di
Agostino, come esposto nel celebre passaggio:
Veramente, al principale intendimento tornando, dico [che], come è toccato
di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: ed in tra l‟altre
necessarie cagioni due sono più manifeste. L‟una è quando sanza ragionare di
sé grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si concede, per la
ragione che delli due [rei] sentieri prendere lo men reo è quasi prendere un
buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò
che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo
essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si
levava. L‟altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue
altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino nelle sue
Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo de la sua vita, lo quale fu di
[meno] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne
diede essemplo e dottrina, la quale per [altro] sì vero testimonio ricevere non
si potea21.
21
Cv I, 2, 12-14. Sull‟uso dell‟auctoritas e il loro rapporto con Dante vd. A.R. ASCOLI, The Vowels of
Authority (Dante‟s Convivio IV.vi.3-4), in Discourses of Authority in Medieval and Early Modern
Romance Literature, a cura di K. Brownlee-W. Stephens, Hanover (NH), University Press of New England
1989, pp. 23-46; ID., The Unfinished Author: Dante‟s Rhetoric of Authority in Convivio and De vulgari
eloquentia, in Cambridge Companion to Dante, a cura di R. Jacoff, Cambridge-New York, Cambridge UP
1993, pp. 45-66.
85
L‟ostacolo retorico è qui aggirato: le imposizioni dell‟ars dictaminis vengono eluse in
quanto è in gioco la sopravvivenza del poeta e l‟impulso alla scrittura è dato dalla volontà
di difendersi contro l‟iniquo allontanamento da Firenze. La scrittura apologetica viene
quindi privilegiata per la naturale analogia tra Dante e Boezio, il quale dovette
similmente rigettare le accuse per «la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando
quello essere ingiusto».
Testimoniando la propria conversione dall‟amore terreno a quello filosofico,
l‟intentio del poeta è di persuadere i lettori della propria innocenza22 e di difendersi dagli
avversari23, non esprimendo biasimo24, ma esponendo in modo propositivo le proprie
vicende25. Ridefinendo la propria missione intellettuale e morale, la necessità della
scrittura nasce, oltre che dal desiderio di dottrina dare, dal timor d‟infamia:
Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le
sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa,
per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione
ma vertù sia stata la movente cagione26.
Le generiche accuse che gli erano state mosse e che avevano portato all‟esilio vengono
dal poeta subito legate alla propria produzione amorosa che, evidentemente, aveva dato
22
Cv II, 6, 6: «[...] lo dicitore massimamente dee intendere alla persuasione»; Cv IV, 8, 5; vd. anche
MAZZUCCHI, Tra Convivio e Commedia, cit., pp. 42-70.
23
Cv IV, 8, 10: «io, che al volto di tanti avversarii parlo in questo trattato, non posso lievemente parlare;
onde, se le mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli».
24
Cv I, 2, 5: «[…] nella camera de‟ suoi pensieri se medesimo riprender dee e piangere li suoi difetti, e non
palese», con chiaro riferimento alla camera della Vita nova.
25
Cv I, 2, 11: «e salva la via del debito onorare e magnificare, la quale passar non si può sanza far
menzione dell‟opere virtuose, o delle dignitadi virtuosamente acquistate».
26
Cv I, 2, 16.
86
adito a dubbi sulla sua condotta morale27. Per parare tali accuse, Dante scrive la propria
apologia con lo scopo di dimostrare che la Donna gentile di cui scriveva nella Vita nova
altro non fosse che un‟allegoria per indicare la Filosofia, superando la figura di Beatrice e
mettendo a tacere la supposta infamia e le calunnie di non meglio precisati detrattori 28.
Nonostante
le
premesse
esposte
dall‟Alighieri,
le
parti
propriamente
autobiografiche sembrano essere minime e riconducibili all‟autobiografismo. I pochi echi
di vita quotidiana paiono accidentali e portano il poeta a parlare della propria miopia:
E per essere lo viso debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di
spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la
nostra lettera in sulla carta umida […]. E io fui esperto di questo l‟anno
medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto a
studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano
tutte d‟alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi,
e con affreddare lo corpo dell‟occhio coll‟acqua chiara, riuni‟ sì la vertù
disgregata che tornai nel primo buono stato della vista29.
oppure di alcuni ricordi personali, laddove tratta la mancata corrispondenza tra il valore
morale e la ricchezza materiale, non sempre coincidenti:
Veramente io vidi lo luogo, nelle coste d‟un monte che si chiama Falterona,
in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d‟uno
27
Cv I, 11, 17: «Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima
quello che è materia della sua opera, per tòrre, dispregiando l‟opera da quella parte, a lui che dice onore e
fama: sì come colui che biasimasse lo ferro d‟una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l‟opera
del maestro».
28
Cv III, 4, 11: «Sì che, se la mia considerazione mi transportava in parte dove la fantasia venia meno allo
‟ntelletto, se io non potea intendere, non sono da biasimare. Ancora: è posto fine al nostro ingegno in
ciascuna sua operazione, non da noi ma dall‟universale natura; e però è da sapere che più ampi sono li
termini dello ‟ngegno [a pensare] che a parlare, e più ampî a parlare che ad accennare».
29
Cv III, 9, 14-15.
87
staio di santalene d‟argento finissimo vi trovò, che forse più di dumilia anni
l‟aveano aspettato30.
La macula del parlare di sé medesimo che apre il trattato va dunque ricercata
altrove e non nel ricordo di precisi avvenimenti, ma nella proposizione di un modello per
cui l‟io si delinea in suggestive risonanze. Con l‟esilio e l‟incertezza sulla propria
condizione futura, è ragionevole supporre che nell‟animo del poeta si sviluppi una crisi di
ordine psicologico e morale che portò all‟accantonamento degli stilemi stilnovistici.
Dante diviene più meditativo e razionale, come testimoniato dai due scritti di carattere
scientifico composti in quegli anni, il De vulgari eloquentia e il Convivio, rivolgendo la
propria ricerca e tensione al vero e alla verità, e ponendo uno iato con la produzione
giovanile, «veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa
temperata e virile esser conviene»31. In seguito a questa crisi interiore, punto di partenza
autobiografico nella definizione dello Starobinski32, Dante riparte da se stesso, dall‟io,
che nella scrittura si sovrappone e si fonde con l‟autore, non più celato dietro un velo
lirico ma protagonista della Storia. Dante pone ai margini della discussione la figura di
Beatrice, «de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento»33, per
focalizzare tutta l‟attenzione su di sé e sulla sua conversione:
30
Cv IV, 11, 8.
Cv I, 1, 16.
32
Vd. supra, pp. 15-16.
33
La Vita nova appare oramai al poeta come un‟opera superata: «E se nella presente opera, la quale è
Convivio nominata e vo‟ che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella
in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente
quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene» (Cv, I, 1, 16). Infatti, il nome di
Beatrice appare solamente in quattro occasioni e solamente nel secondo trattato (Cv II, 2, 1; Cv II, 2, 3; Cv
II, 6, 7; Cv II, 8, 7), laddove Dante spiega le cause che lo hanno portato a sostituire l‟amore per la donna
con l‟amore per la Donna gentile.
31
88
Onde, con ciò sia cosa che, come detto è di sopra, io mi sia quasi a tutti
l‟Italici apresentato, per che fatto mi sono più vile forse che ‟l vero non vuole
non solamente a quelli alli quali mia fama era già corsa, ma eziandio alli altri,
onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più
alto stilo dea [al]la presente opera un poco di gravezza, per la quale paia di
maggiore autoritade. E questa scusa basti alla fortezza del mio comento34.
Pur essendo la sua fama conosciuta in Italia, l‟Alighieri aveva compreso che la sua
immagine non corrispondeva al vero, ma alle aspettative e alla proiezione che vengono
create35. Nel tentativo di persuadere il proprio pubblico, Dante comprende il valore del
cosiddetto patto autobiografico tra lettore e autore, in modo tale che il primo creda che
l‟immagine offerta dall‟autore-attore, sia soggetto scrivente che soggetto grammaticale,
corrisponda al vero. La proposizione del problema mostra la lucidità del poeta sulla
questione autobiografica:
Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la persona di meno valore
ch‟ella non è: l‟una delle quali è puerizia, non dico d‟etate ma d‟animo; la
seconda è invidia, – e queste sono nello giudicatore –; la terza è l‟umana
impuritade, e questa è nello giudicato36.
Da un lato il giudicante, in generale essere sensibile prima che razionale, è come un
bambino che crede a quello che sente senza bisogno di ulteriori testimonianze o prove, ed
è sempre pronto a invidiare la persona famosa, qui Dante, diffamandone la memoria;
34
Cv I, 4, 13-14.
Cv I, 3, 11: «Apertamente adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre è
più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa imaginata nel vero stato».
36
Cv I, 4, 2.
35
89
dall‟altro l‟autore, impuro come ogni altro uomo37, non può descrivere il vero, ma una
proiezione di sé che si imponga a tutti l‟Italici.
L‟io di cui parla Dante è l‟imagine o la forma di sé che viene offerta al lettore e che
il Getto chiama interiore autobiografia38. L‟Alighieri vuole proporre un autoritratto
apologetico, ma ideale, in cui al ricordo della propria esperienza si mescoli la denuncia
dei vizi altrui, che si imponga sul pubblico:
Ahi, piaciuto fosse al dispensatore dell‟universo che la cagione della mia
scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto
avria pena ingiustamente, pena, dico, d‟essilio e di povertate. Poi che fu
piacere delli cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma,
Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in
fino al colmo della vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero
con tutto lo core di riposare l‟animo stancato e terminare lo tempo che m‟è
dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino,
quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga della
fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.
Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi
porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono
apparito alli occhi a molti che forse che per alcuna fama in altra forma
m‟aveano imaginato: nel conspetto de‟ quali non solamente mia persona
invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che
fosse a fare39.
Il ripiegamento su se stesso porta Dante a una confessione e considerazione sulla
propria condizione di peregrino: alla poenitenta dell‟esilio segue la confessio del
desiderio di un ritorno in patria. Pur essendo Boezio l‟auctoritas che giustifica l‟opera in
chiave apologetica, con continui richiami all‟ondivaga fortuna – nel passo appena citato:
37
Cv I, 4, 9: «come dice Agustino, nullo è sanza macula», riprendendo poi l‟affermazione biblica che
«ciascuno profeta è meno onorato nella sua patria» (Cv I, 4, 11).
38
G. GETTO, Aspetti della poesia di Dante, Firenze, Sansoni 1966, p. 148.
39
Cv I, 3, 3-5. Per Battaglia, Dante scrive «la più bella pagina autobiografica della nostra letteratura», vd.
S. BATTAGLIA, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli, Liguori 1967-74, voll. 2, p. 104.
90
mia scusa; io sofferto avria pena ingiustamente; la piaga della fortuna, che suole
ingiustamente al piagato molte volte essere imputata –, il modello confessionale
agostiniano non viene completamente rigettato, ma in parte ripreso e plasmato alle nuove
esigenze. Il richiamo più evidente è il desiderio di un rientro a Firenze, nella speranza di
una sepoltura in patria, che ricalca il proemio delle Confessiones:
desidero con tutto lo core di
riposare l‟animo stancato e
terminare lo tempo che m‟è dato40
fecisti nos ad te et inquietum est
cor nostrum, donec requiescat in
te41
A differenza dell‟ipponate, però, Dante cambia il destinatario della propria confessione,
spostando l‟obiettivo da Dio a Firenze, luogo in cui verrebbe ricomposto l‟animo
dell‟esule, condannato non dal peccato ma dall‟infamia42. La meditazione sulla propria
vita porta il poeta all‟autoaffermazione, rovesciando il risultato agostiniano: il parlare di
sé non ha un movimento centripeto, orientato verso l‟indagine introspettiva propria del
dialogo interiore del vescovo di Ippona, ma centripeto, tendente alla riabilitazione del
poeta al cospetto delle genti italiche. Dante non parla con la sua coscienza, ma con i
propri lettori, aprendo il monodico dialogo agostiniano io/tu a una conversazione tra
io/voi che non gli permette un‟indagine introspettiva. Il capovolgimento delle premesse
si riflette anche nei diversi obiettivi della quête: da un lato il desiderio di conoscenza di
40
Cv I, 3, 4.
AGOSTINO, Confessiones, I, 1.
42
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 75-76. Nella Comedia sembra esservi il rovesciamento
della prospettiva del Convivio: Firenze e Roma rappresenterebbero rispettivamente inferno e paradiso,
mutuando la divisione tra città terrena e città celeste descritta nel De civitate Dei di Agostino. Vd.
CHARITY, Events and their Afterlife, cit., pp. 237-45; J.M. FERRANTE, Florence and Rome: The two Cities
of Man, «Acta», 5 (1978), pp. 1-19; C.T. DAVIS, Rome and Babylon in Dante, in Rome in the Renaissance:
The City and the Myth, a cura di P.A. Ramsey, Binghamton (NY), Medieval and Renaissance Texts and
Studies 1982, pp. 19-40.
41
91
Agostino ha Dio come punto focale, ed infatti il primo capitolo delle Confessiones ha
come oggetto la conoscenza e l‟invocazione di Dio; dall‟altro lo scopo del Convivio,
rivolto all‟umanità intera, è di offrire la conoscenza a chiunque voglia partecipare al
banchetto allestito dal poeta.
La volontà di autorappresentazione laica è inserita in un luogo, Fiorenza, e in un
tempo post quem, l‟essilio, scandito ritmicamente dalle canzoni che testimoniano la
trasformazione del poeta tra un prima, Beatrice, e un dopo, la Filosofia43. Col recupero,
seppur non ancora puntuale, di coordinate spaziali e temporali, l‟io di Dante entra nella
Storia e ripropone consapevolmente, pur entro limiti strutturali e retorici, la questione
autobiografica agli occhi degli invitati.
A Firenze è legato lo stilo che la scrittura è in grado di offrire, poiché Dante, dopo
la premessa iniziale, affronta la questione della lingua difendendo la scelta del volgare.
L‟autorappresentazione passa così attraverso l‟autobiografia linguistica che definisce il
ruolo dell‟intellettuale esule. Dopo aver passato in rassegna le ragioni che definiscono il
latino superiore al volgare, Dante giustifica la propria scelta affermando di voler giovare
al più ampio pubblico possibile e sostenendo la dignità della lingua materna in modo
articolato e preciso44. Il linguaggio è lo strumento di comunicazione quotidiana che
definisce l‟uomo e non dovrebbe essere oggetto di meretricio, causa dell‟invettiva con
risvolti personali contro alcuni intellettuali che «non si deono chiamare litterati, però che
non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o
43
Cv II, 9; vd. anche T. BAROLINI, Autocitation and Autobiography, in Dante. The Critical Complex, a cura
di R. Lansing, New York-London, Routledge 2002-2003, voll. 8, I. Dante and Beatrice: The Poet‟s Life
and the Invention of Poetry, pp. 217-54.
44
Cv I, 5-13.
92
dignitate»45. La lunga disquisizione, parallela al coevo De vulgari eloquentia, mostra
un‟apertura autoconoscitiva in quanto il latino, lingua artificiale per il poeta, mal si adatta
al parlare di sé:
Questo mio volgare fu congiugnitore delli miei generanti, che con esso
parlavano, sì come ‟l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello;
per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere
alcuna cagione del mio essere. Ancora: questo mio volgare fu introduttore di
me nella via di scienza, che è ultima perfezione [nostra], in quanto con esso
io entrai nello latino e con esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a
più inanzi andare46.
Il volgare permette una libertà linguistica definita come transmutatio, un riordino cioè
della propria materia secondo un ordo artificialis più consono allo scopo prefissato47:
Onde vedemo nelle scritture antiche delle comedie e tragedie latine, che non
si possono transmutare, quello medesimo che oggi avemo; che non aviene del
volgare, lo quale a piacimento artificiato si transmuta48.
Dante spiega come il transmutare sia parte integrante del Convivio (il lemma torna in 32
occasioni, raramente nel significato di tradurre), in quanto il volgare gli serve per poter
disporre della lingua a proprio piacimento abbandonando la fissità del latino. Secondo le
parole dell‟esule fiorentino, il valore della transmutatio passa dalla lingua al testo49,
45
Cv I, 9, 3.
Cv I, 13, 4-5.
47
H. LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric: A Foundation for Literary Studies, a cura di D.E. OrtonR.D. Anderson, prefazione di G.A. Kennedy, Leiden, Brill 1998, pp. 398-400; Retorica generale: le figure
della comunicazione, a cura del gruppo μ, Milano, Bompiani 1976, in particolare pp. 188-222.
48
Cv I, 5, 8.
49
Cv I, 8, 11: «Onde, acciò che sia laudabile lo mutare delle cose, conviene sempre essere [al] migliore, per
ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo non [si] può fare nel dono se ‟l dono per
transmutazione non viene più caro; né più caro può venire, se esso non è più utile a usare al ricevitore che
46
93
divenendo più caro al ricevitore che allo scrittore, creando un mutamento dell‟anima50
nel passaggio dall‟«antico pensiero contra lo novo»51, da Beatrice alla Filosofia.
La transmutatio è anche una delle qualità della musica, quarta arte del quadrivio,
che permette a una canzone di passare indifferentemente da canzone d‟amore a filosofica,
per essere intesa nuovamente come canzone d‟amore52: è il caso di Amor che nella mente
mi ragiona, seconda canzone del Convivio reinterpretata secondo l‟uso a l‟amoroso
canto da Casella in Pg II, 107. Allo stesso modo, la scrittura permette lo spostamento
dell‟oggetto dei pensieri dell‟autore, reinterpretando le proprie parole poiché la poesia è
mutevole, in quanto «la veritade si discorda da l‟apparenza, e, altra, per diverso rispetto
si puote tra[nsmu]tare»53.
Il dispiegamento delle potenzialità del volgare si manifesta nel commento alle
canzoni, al quale spetta il compito di rappresentare il poeta. Secondo la famosa
distinzione attuata dall‟Alighieri, l‟esposizione può essere intesa in quattro modi:
letterale, allegorico, morale e anagogico54. Per poter più liberamente parlare di sé, Dante
afferma di sovrapporre una lettura allegorica alla lettura letterale:
al datore. Per che si conchiude che ‟l dono conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che sia in esso pronta
liberalitade».
50
Cv II, 8.
51
Cv IV, 24, 2-6.
52
Cv II, 13, 20-22. Sul ruolo della musica in Dante vd. F. CIABATTONI, Dante‟s Journey to Polyphony,
Toronto, Toronto UP 2010; M. CEROCCHI, Funzioni semantiche e metatestuali della musica in Dante,
Petrarca e Boccaccio, Firenze, Olschki 2010, in particolare pp. 17-46.
53
Cv III, 9, 5.
54
Cv II, 1, 2-8: «Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa esposizione conviene essere
litterale ed allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi
esponere massimamente per quattro sensi. L‟uno si chiama litterale, e questo è quello che [<non si stende
più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti>. L‟altro si chiama allegorico,
e questo è quello che] si nasconde sotto ‟l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella
menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le
pietre a sé muovere: che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce faccia mansuescere ed
94
E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di
fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo
mostrare, appresso la litterale istoria ragionata55.
La rappresentazione dell‟io risente così di una duplice chiave di lettura, in quanto il poeta
si serve del senso letterale, il cui significato «non si stende più oltre che la lettera delle
parole fittizie, sì come sono le favole dei poeti»56, e dell‟allegorico, definito come
«quello che si nasconde sotto ‟l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto
bella menzogna»57. L‟imagine di Dante si basa sull‟apparenza che passa attraverso delle
menzogne, date da parole fittizie seppur belle58. Paradossalmente, dunque, il solo modo di
umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere alla sua volontade coloro che [non] hanno vita di scienza e
d‟arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo
nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo
senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare,
prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è
quello che li lettori deono intentamente andare apostando per le scritture ad utilitade di loro e di loro
discenti: sì come apostare si può nello Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che delli
dodici Apostoli menò seco li tre: in che moralmente si può intendere che alle secretissime cose noi dovemo
avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando
spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [che sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose
significate significa delle superne cose dell‟etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta
che dice che nell‟uscita del popolo d‟Israel d‟Egitto Giudea è fatta santa e libera: ché avegna essere vero
secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s‟intende, cioè che nell‟uscita
dell‟anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo
litterale dee andare innanzi, sì come quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe
impossibile ed inrazionale intendere alli altri, e massimamente allo allegorico». L‟integrazione non si
stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti manca nell‟edizione
della Ageno per una lacuna d‟archetipo, e sostituita con la vulgata comune del Convivio.
55
Cv I, 1, 18.
56
Cv II, 1, 3.
57
Ibidem.
58
Nella chiusa del secondo trattato riprende il termine fittizia come sinonimo di lettura allegorica: «E
manifesto questo, vedere si può la vera sentenza del primo verso della canzone proposta, per la esposizione
fittizia e litterale» (Cv II, 15, 2); vd. inoltre LAUSBERG, Handbook of Literary Rhetoric, cit., pp. 398-400.
Sull‟allegoria nel Medioevo vd. G.C. ALESSIO, L‟allegoria nei trattati di grammatica e di retorica, in
Dante e le forme dell‟allegoresi, cit., pp. 21-42. Sul rapporto tra autobiografia e retorica vd. supra, p. 13 e
n. 29.
95
superare la macula iniziale e di parlar di sé è, per l‟Alighieri, di ricorrere alla stessa
retorica, nella forma dell‟allegoria, per collocarsi nella cultura della comunità cui
appartiene o vuole appartenere59.
Il ricorso al velo oratorio è manifesto sin dalla prima canzone, Voi che ‟ntendendo
il terzo cielo movete, in cui Dante si rivolge letteralmente a Venere, all‟amore, mentre
allegoricamente si riferisce alla Retorica per manifestare «il ragionar ch‟è nel mio core»:
E lo cielo di Venere si può comparare alla Rettorica per due propietadi: l‟una
si è la chiarezza del suo aspetto, ché è soavissima a vedere più che altra
stella; l‟altra si è la sua apparenza or da mane or da sera60.
All‟interno del tropo allegorico, l‟autobiografia segue così una duplice via: un modello
analogico, che permette a Dante di comparare se stesso alle virtù o a celebri figure del
passato senza usare degli alter ego che avrebbero inficiato l‟io autobiografico; e uno
negativo, che definisce ciò che il poeta non è, dando per silenzioso contrasto ciò che egli
in realtà è. Attraverso la prima strategia narrativa, l‟analogia, l‟Alighieri descrive quei
pochi echi di vita quotidiana che portano il poeta a parlare della propria miopia oppure di
alcuni ricordi personali61. Nella spiegazione del moto di rivoluzione del sole attorno alla
terra le città prendono nomi di donna62 e la Filosofia diviene una casa in cui andare, con
59
BRUNER-WEISSER, The invention of the self, cit.
Cv II, 13, 13. Il ricorso alla retorica come forma autoesegetica ritorna anche in Cv III, 4, 3: «Poi quando
dico: “e di quel che s‟intende”, dico che non pur a quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a
quello che io intendo sufficientemente, non [sono sufficiente], però che la lingua mia non è di tanta
facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona: per che è da vedere che, a rispetto della
veritade, poco fia quello che dirà. E ciò risulta in grande loda di costei, se bene si guarda: nella quale
principalmente s‟intende.E quella orazione si può dir bene che vegna dalla fabbrica del rettorico, nel[la]
quale ciascuna parte pone mano allo principale intento».
61
Vd. supra, pp. 86-87.
62
Cv III, 5, 10-22.
60
96
occhi e bocca che «si possono appellare balconi»63. È una figura che Dante non sente
parlare, ma che ha sempre davanti a sé64, possibile sovrapposizione assonante tra Firenze
e Filosofia.
L‟associazione analogica viene usata da Dante quando parla di altri e di altro per
parlare di sé, denunciando esplicitamente i vizi dell‟uomo e implicitamente affermando
le proprie virtù, nella ricerca del recupero della fama presso i contemporanei:
Ché se in alcuna parte di tutto questo libro inreverente mi mostrasse, non
sarebbe tanto laido quanto in questo trattato; nel quale, di nobilitade
trattando, me nobile e non villano deggio mostrare65.
Non a caso, nel descrivere come «la Fama vive per essere mobile, e acquista
grandezza per andare»66, elemento autobiografico e causa prima della scrittura, Dante
riprende l‟esempio tratto dal quarto dello Eneida in cui Virgilio narra l‟amore tra l‟eroe
troiano e Didone. Nonostante Enea abbia ritardato la sua missione, l‟amore per la regina
cartaginese non fu motivo d‟infamia, ma di Fama, poiché riesce comunque a raggiungere
il suo scopo ultimo e più alto, dando origine alla città di Roma67. Attraverso
dimostrazioni filosofiche, per analogia Dante è come Omero in quanto non deve essere
tradotto (Cv I, 7, 15); è come Orazio nel rinnovamento della lingua (Cv II, 13, 10); è il
novello Orfeo ovidiano (Cv II, 1, 3); Dante rivive la nobile unione di Marzia-Catone di
Lucano (Cv IV, 28, 13-19); per giungere a un paragone estremo con Dio: Dante scrive il
63
Cv III, 8, 9.
Cv III, 8, 12: «Ahi mirabile riso della mia donna, di cu‟ io parlo, che mai non si sentia se non
dell‟occhio!».
65
Cv IV, 8, 5.
66
Cv I, 3, 9.
67
Cv I, 3, 9-10.
64
97
Convivio perché «dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti è
pronto bene, in quanto prende simiglianza da li benefici di Dio, che è universalissimo
benefattore» (Cv I, 8, 3).
Le digressioni sono evidenti nel quarto trattato quando, per parlare della propria
nobiltà d‟animo, passa in rassegna la viltà altrui per poi identificarsi, per esclusione e
tacitamente, con la vera nobiltà. È questo secondo modello espositivo, in cui Dante usa
una figura che «è bellissima e utilissima, e puotesi chiamare ‟dissimulazione‟»68 che
consiste nel celare la propria opinione, o meglio, trattare quella altrui per dire la propria,
procedimento negativo di decostruzione/costruzione caro al poeta:
Ed è da guardare a ciò, che in questo proemio prima si promette di trattare lo
vero, e poi di riprovare lo falso, e nel trattato si fa l‟opposito; ché prima si
ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire a la
promessione. Però è da sapere che, tutto che all‟uno e all‟altro s‟intenda, al
trattare lo vero s‟intende principalmente; a riprovare lo falso s‟intende in
tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire69.
Dante, pur essendo giustificato ad aprire le porte dell‟io autobiografico, sembra sentire
ancora il disagio di contravvenire alle regole retoriche e di scrivere positivamente della
propria vita, limitandosi a contrapporla per antitesi a quella altrui. Tale procedimento,
che capovolge il metodo del sic et non della disputa medievale, coinvolge l‟intera opera:
con continue ripetizioni e antitesi, basi del procedimento dimostrativo negativo dantesco
in cui A è l‟opposto di non-A, i concetti espressi sembrano susseguirsi con variazioni
minime formando un testo di non facile lettura:
68
69
Cv III, 10, 7.
Cv IV, 2, 15.
98
E come io, secondo che vedere si può, contra la reverenza del Filosofo non
parlo ciò riprovando, così non parlo contra la reverenza dello Imperio: e la
ragione mostrare intendo. Ma però che, dinanzi da l‟avversario se ragiona, lo
rettorico dee molta cautela usare nel suo sermone, acciò che l‟avversario
quindi non prenda materia di turbare la veritade; io, che al volto di tanti
avversarii parlo in questo trattato, non posso lievemente parlare; onde, se le
mie digressioni sono lunghe, nullo si maravigli70.
L‟Alighieri non parla delle accuse che gli sono rivolte, lasciandoci solamente un
vago riferimento alla poesia lussuriosa e biasimevole per gli scritti degli anni giovanili;
ma soprattutto tace dei fatti dell‟esilio, celandoli dietro non precisati riferimenti
all‟invidia e al fallace giudizio di chi lo giudica secondo i sensi e non secondo ragione.
Dante, scrivendo il Convivio, ancora spera in un ritorno a Firenze – auspica che il libro
gli doni quella fama necessaria per il rientro –, e pare trovarsi quasi costretto a eliminare
riferimenti che potrebbero risultargli scomodi, divenendo, come Francesco, reticente sul
proprio passato considerato come qualcosa di non importante71. Come nel Testamentum,
è interessante notare un‟autocensura autoriale che nasconde dietro il silenzio gli episodi
più controversi della propria vita in quanto potrebbero forse oscurare il valore esemplare
o sminuire la forza del ritratto apologetico offerti al lettore.
Contrariamente a tutta la produzione dantesca, infatti, nel Convivio i riferimenti a
persone contemporanee sono quasi assenti. Dante arriva a sorprendenti prove di
equilibrio dialettico, laddove non vuole colpire direttamente i proprie avversari:
Per che, se io niego la reverenza dello Imperio, non sono inreverente, ma
sono non reverente: che non è contro alla reverenza, con ciò sia cosa che
quella non offenda; sì come lo non vivere non offende la vita, ma offende
70
Cv IV, 8, 10.
C. SEGRE, Lingua stile e società. Studi sulla prosa della lingua italiana, Milano, Feltrinelli 1963, pp.
227-37.
71
99
quella la morte, che è di quella privazione. Onde altro è morte e altro è non
vivere; ché non vivere è nelle pietre72.
Questi artifici retorici permettono al poeta di non rinnegare la produzione
precedente, ma di reinterpretarla, lasciandosi però alle spalle i motivi stilnovistici, non
intendendo «a quella in parte alcuna derogare» la sua immagine di poeta, ma
giudicandola come «trapassata»73:
[…] io, che cercava di consolar me, trovai non solamente alle mie lagrime
rimedio, ma vocabuli d‟autori e di scienze e di libri: li quali considerando,
giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste
scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una
donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non
misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che appena lo
potea volgere da quella. E da questo imaginare cominciai ad andare là
dov‟ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle
disputazioni delli filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi,
72
Cv IV, 8, 13.
Cv I, 1, 16-17, vd. supra, p. 87 e n. 31; vd. anche Cv II, 2, 1-5: «Cominciando adunque, dico che la stella
di Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina secondo diversi
tempi, apresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo colli angeli e in terra colla mia
anima, quando quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine de la Vita Nova, parve primamente,
accompagnata d‟Amore, alli occhi miei e prese luogo alcuno nela mia mente. E sì come [è] ragionato per
me nello allegato libello, più da sua gentilezza che da mia elezione venne ch‟io ad essere suo consentisse;
ché passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti delli occhi miei a
lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro [da me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fue
contento a disposarsi a quella imagine. Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene
perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che
lo ‟mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia [essere] intra lo
pensiero del suo nutrimento e quello che li era contrario, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora
la rocca della mia mente: però che l‟uno era soccorso della parte [della vista] dinanzi continuamente, e
l‟altro della parte della memoria di dietro; e lo soccorso dinanzi ciascuno die crescea, che far non potea
l‟altro, comen[dan]te quella, che impediva in alcuno modo a dare indietro il volto; per che a me parve sì
mirabile, e anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere. [E] quasi esclamando, e per iscusare me della
vari[e]tade, nella quale parea me avere manco di fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte onde
procedeva la vittoria del nuovo pensiero, che era virtuosissimo sì come vertù celestiale; e cominciai a dire:
Voi che ‟ntendendo il terzo ciel movete».
73
100
cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e
distruggeva ogni altro pensiero74.
La poetica dell‟Alighieri si carica di un soprasenso, non producendo nulla di nuovo
ma reinterpretando allegoricamente quanto già scritto75. Ecco che la Donna gentile
diviene la Filosofia e tutto ruota attorno a questa nuova interpretazione, anche
contraddicendo la produzione precedente, come nella seconda canzone del terzo trattato,
Amor che nella mente mi ragiona, quando afferma: Canzone, e‟ par che tu parli contraro
al dir d‟una tua sorella che tu hai. Si crea così un gioco di specchi per cui il lettore,
messo in guardia dall‟autore, vede il poeta nell‟imago offerta dal testo, filtrando quanto
scritto attraverso un doppio canale di comunicazione, la bella menzogna del poeta e
l‟autoesegesi del filosofo.
Per dimostrare come il Convivio abbia questa lettura parallela e come tutto giri
attorno ai cardini dell‟autobiografia, vorrei soffermarmi su un episodio del quarto
trattato, in cui Dante dice di non dare un‟interpretazione allegorica, ma solo letterale,
lasciando al lettore il compito di interpretare figuratamente il dettato: le rappresentazioni
di Catone e Marzia76, in cui il tema del ritorno è centrale. Catone è arditamente
paragonato a Dio77 e Marzia all‟anima che deve tornare a Dio78, che rappresentano per
74
Cv II, 12, 5-7.
Per la Barolini l‟autocitazione equivale in Dante a una forma di autobiografia poetica, vd. BAROLINI,
Autocitation and Autobiography, cit. La critica, infatti, tende a inquadrare l‟opera all‟interno della
tradizione esegetica medievale, vd. ad esempio L.J. MACLENNAN, Autocomentario en Dante y
comentarismo latino, «Vox Romanica», 19 (1960), pp. 82-123; G.R. SAROLLI, Autoesegesi dantesca e
tradizione esegetica medievale, «Convivium», 34 (1966), pp. 77-112, ristampato in Prolegomena alla
Divina Commedia, Firenze, Olschki 1961, pp. 1-39.
76
Cv IV, 28, 13-19.
77
Cv IV, 28, 15: «E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo».
78
Cv IV, 28, 15: «tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile
anima dal principio del senio tornare a Dio».
75
101
analogia l‟esule che deve tornare in patria. Marzia è la nobile anima che vuole tornare a
casa dopo essere stata scacciata e rappresenta simbolicamente il poeta stesso: vergine
nell‟adolescenza, definita come ubidiente, soave, vergognosa e bella, rappresenta il
giovanile periodo stilnovistico; maritatasi con Catone in gioventù figliando delle vertudi
atte agli uomini, lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza testimonianza
dell‟impegno civico del poeta; lasciando poi Catone per Ortensio e figliando nuove
vertudi atte alla senettute, prudenza, giustizia, larghezza e allegrezza, che rappresentano
la vita dell‟exul immeritus, con chiari riferimenti autobiografici anticipati nella
precedente invettiva. Descrivendo l‟omonima opera ciceroniana, il De senecutute, Dante
si lancia contro i tiranni e i ladri che imbadiscono tavole con oggetti rubati:
Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, che rapite alli men
possenti, che furate e occupate l‟altrui ragioni; e di quelle corredate conviti,
donate cavalli e arme, robe e denari, portate le mirabili vestimenta, edificate
li mirabili edifici, e credetevi larghezza fare! E che è questo altro a fare che
levare lo drappo di sull‟altare e coprire lo ladro la sua mensa? Non altrimenti
si dee ridere, tiranni, delle vostre messioni, che del ladro che menasse a la
sua casa li convitati, e la tovaglia furata di sull‟altare, con li segni
ecclesiastici ancora, ponesse in sulla mensa e non credesse che altri se
n‟accorgesse79.
L‟Alighieri sembra volersi rivolgere alle persone che l‟hanno esiliato e che non si erano
accorte di come il loro giudizio fosse fuorviato dall‟infelice ambasciata presso Bonifacio
VIII. Il poeta conclude che la nobile anima, torna al principio nel senio, ritornando
all‟origine e benedicendo quanto fatto, diritto e buono. Così infatti chiude il proprio
discorso Marzia, in cui è ovvio il riferimento autobiografico del ritorno, mostrando come
sia possibile il rientro grazie alle proprie forze morali testimoniate dal Convivio:
79
Cv IV, 27, 13-14.
102
E dice Marzia: «Due ragioni mi muovono a dire questo: l‟una si è che dopo
di me si dica ch‟io sia morta moglie di Catone; l‟altra, che dopo me si dica
che tu non mi scacciasti, ma di buono animo mi maritasti»80.
Catone è un personaggio polisemantico: è il luogo in cui l‟anima della persona
allontanata vuole rientrare; egli è l‟amata Firenze («Onde si legge di Catone che non a sé,
ma alla patria e a tutto lo mondo nato esser credea»81) che, nelle intenzioni del poeta, si
riunisce con Dante. È, inoltre, il filosofo per eccellenza, il campione delle virtù cardinali
che ha dato la vita per la propria patria, è colui che con le proprie forze morali è riuscito a
ribellarsi all‟ingiustizia politica. Come detto82, lo spostamento dell‟oggetto del desiderio
che spinge a parlare di sé fa sì che a Dio si sostituisca Firenze, spostando la confessione
dall‟ambito religioso a quello laico. La figura divina, infatti, viene sacrificata dinnanzi
alla Filosofia e il poeta non tiene conto della grazia celeste come causa della revoca
dell‟esilio. Scelta logica per un trattato filosofico, ma che sarà rivisitata e mutata nel
Catone della Comedia: Dante rivede il proprio giudizio il quanto la salvezza è dono
divino e non umano83. Il desiderio di Marzia, visto da Dante nel Convivio come auspicio,
torna nel poema sacro e continua a rimanere insoddisfatto. Marzia, come Virgilio e come
Ulisse, incapaci di soddisfare i loro desideri nonostante il loro intelletto, sono una
80
Cv IV, 28, 18.
Cv IV, 27, 3.
82
Vd. supra, pp. 90-91.
83
Dante modificherà il ruolo del filosofo che si è potuto salvare solamente grazie all‟intervento della grazia
divina nella Comedia. Nel poema sacro, infatti, Catone riprende le anime attardate nell‟ascoltare il canto di
Casella, Amor che nella mente mi ragiona, canzone e testimonianza ambivalente delle due fasi della vita di
Dante, una stilnovistica e l‟altra filosofica, che non permetteva l‟elevazione verso Dio, vd. A. GAGLIARDI,
Dalla Commedia al Convivio: Catone e Casella, «Tenzone», 3 (2002), pp. 59-107.
81
103
proiezione dell‟io dell‟autore che sembra riuscire ad esprimersi solo attraverso alias e
alia.
Con le due figure lucanee, termina anche il banchetto filosofico. L‟incompiutezza
dell‟opera non ci permette di immaginare una specifica trattazione autobiografica nei
dieci trattati mancanti, ma, basandoci sugli elementi testuali, possiamo desumere che
l‟autorappresentazione dantesca dei primi cinque capitoli del Convivio corrisponda
all‟idea del poeta di parlare di sé. Dante presenta e pone le basi della discussione
autobiografica e tenta di rappresentare se stesso nonostante le restrizioni retoriche
cristiano-medievali che, seppur aggirate grazie al ricorso alle auctoritates, non sembrano
pienamente superate. Il parlare di sé, infatti, non può limitarsi all‟autoesegesi, dal
momento che già nella Vita nova l‟autore interpreta le proprie poesie interrompendo però
con la morte di Beatrice l‟apertura verso l‟io storico che avrebbe portato a trattare di se
stesso. Date le premesse, l‟autobiografia dantesca, che ha come climax le figure di
Catone e Marzia, si risolve in un autoritratto in cui il volto dell‟artista si riflette in uno
specchio che dà sul mondo esterno, senza emergere ed imporsi sulla tela.
Come osservato dal Guglielminetti, «il “parlare di se medesimo” non divenne mai
per Dante in un ricordare di sé, ma rimase comunque un trattare di sé»84. Pur parlando di
sé, Dante non dialoga con il proprio io e risolve la traccia autobiografica nel «tentativo di
una crescita verso il possesso di sé»85. Lo stesso modello di dimostrazione negativa, che
cela la verità dietro l‟allegoria, si dimostra l‟unica via con cui il poeta poteva affrontare
un tema contravvenendo alle regole del tempo. La consapevolezza con cui Dante tratta
dei limiti della scrittura autobiografica ai primi del ‟300 testimonia che il problema era
84
85
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit, p. 82.
F. FERRUCCI, Dante: lo stupore e l‟ordine, Napoli, Liguori 2007, p. 62.
104
sentito nel Medioevo e il tempo maturo per il superamento del pelago oltre il quale Dante
non poteva andare.
3.2. La tradizione manoscritta
La tradizione manoscritta, con due soli testimoni trecenteschi, ha una storia molto
travagliata, a dimostrazione che l‟opera non venne divulgata da Dante. Alla sua morte, il
Convivio rimase tra le carte del poeta e solamente negli anni ‟40 del XIV secolo si
iniziano a trovare labili tracce della circolazione dell‟opera. Portato a Firenze
probabilmente dai figli di Dante, il testo lascia le prime testimonianze nel Commento di
Pietro Alighieri, nell‟Ottimo commento, con passi tratti dal solo secondo trattato, per poi
essere ripreso nelle chiose alla Comedia di Andrea Lancia. Tutte le testimonianze
evidenziano che l‟opera ebbe una minima diffusione in un ambiente familiare e culturale
prossimo a Dante86.
La corruzione testuale, dovuta ad un archetipo assai lacunoso, testimonia le
difficoltà della trasmissione manoscritta, e le interpretazioni e integrazioni si susseguono
fitte anche nell‟ultima edizione critica curata dalla Ageno. Il successo editoriale arriva
86
Sull‟argomento vd. G. FOLENA, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso
internazionale di studi danteschi, Firenze, Sansoni 1965, voll. 2, I, pp. 1-78; e lo studio di L. AZZETTA, La
tradizione del «Convivio» negli antichi commenti alla «Commedia»: Andrea Lancia, l‟«Ottimo commento»
e Pietro Alighieri, «Rivista di studi danteschi», 5 (2005), pp. 3-34, ristampato in Le antiche e le moderne
carte. Miscellanea in memoria di Giuseppe Billanovich, a cura di A. Manfredi-C.M. Monti, Roma-Padova,
Antenore 2007, pp. 3-40.
105
solo a metà del Quattrocento con la riscoperta del testo e un fiorire di copie manoscritte
fino all‟editio princeps del 1490 ad opera del Bonaccorsi87.
Per spiegare i motivi che hanno spinto Dante a chiudere nel cassetto un‟opera su
cui riversava molte speranze per un prossimo rientro a Firenze, si possono fare diverse
congetture. Seguendo le linee finora tracciate, la macula iniziale, il parlare di se
medesimo, può essere stata una delle cause dell‟imbarazzo, dell‟impaludamento e
dell‟accantonamento del progetto che soffocava l‟io lirico a favore dell‟io storico88. Non
solo l‟Alighieri sfidava i dettami retorici, ma apriva una porta che guardava all‟io chiusa
da molto tempo e che aveva bisogno dell‟auctoritas di due scrittori: Boezio, secondo
Dante non conosciuto da molti89, e Agostino, le cui Confessiones erano rimaste un
unicum nella letteratura cristiana, tanto letto quanto non seguito.
È dunque possibile ricercare la mancata circolazione del Convivio nella matrice
autobiografica del testo, che potrebbe aver trattenuto Dante sia dal completamento
dell‟opera, destino riservato comunque anche al De vulgari eloquentia90, sia dalla sua
pubblicazione. Le continue ricerche di un linguaggio che potesse superare le restrizioni
retoriche, linguistiche e strutturali hanno probabilmente attutito la spinta autobiografica
87
Sull‟argomento vd. la tesi di dottorato di B. ARDUINI, Il Convivio: da progetto incompiuto a icona
editoriale, Ph.D. Dissertation, Indiana University 2008.
88
Sull‟io storico del Convivio vd. FERRUCCI, Il poema del desiderio, cit., pp. 47-90; ID., Dante: lo stupore
e l‟ordine, cit., pp. 41-63.
89
Cv II, 12, 2.
90
Sulla scarsa fortuna del De vulgari eloquentia nel XIV secolo vd. P.V. MENGALDO, Introduzione a D.
ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, Padova, Antenore 1968, pp. VII-CII, in particolare p. XV; anche se
recentemente C. BOLOGNA, Un‟ipotesi sulla ricezione del De vulgari eloquentia: il codice Berlinese, in La
cultura volgare padovana nell'età del Petrarca, a cura di F. Brugnolo-Z.L. Verlato, Padova, Il Poligrafo
2006, pp. 205-256, ha messo in dubbio la non circolazione dell‟opera a favore di una sua diffusione,
almeno teorica, in diversi autori del Trecento italiano, tra i quali Dionigi da Borgo San Sepolcro, Petrarca e
Boccaccio, in quella che l‟autore chiama una equazione di compatibilità logica e storico-documentaria.
106
nelle corde del poeta che non apre un dialogo tra un io e un tu, come nelle Confessiones,
quanto piuttosto un monologo dell‟io in continuo paragone con un voi/loro.
A dispetto delle premesse iniziali, gli illustri esempi del passato, il ricorso al velo
allegorico per distinguere il linguaggio letterale da quello figurato, il Convivio venne
rifiutato in primis da Dante che, date le giustificazioni teoriche adottate per trattare di sé,
era probabilmente conscio della difficoltà dell‟impresa a cui si stava per accingere. La
sensazione di disturbo indotta nei frati francescani del XIII e XIV secolo, che provocò il
rifiuto e la distruzione del Testamentum di Francesco, può aiutare a spiegare il rigetto e
l‟abbandono dello scritto dantesco. Per queste ragioni penso che la penna sia stata riposta
nell‟atramentarium e il manoscritto dimenticato in un cassetto, non tanto perché l‟opera
venne superata dalla produzione successiva, quanto per la problematicità del parlare di sé
in uno scritto rivolto al grande pubblico91.
Lo scoglio della scrittura autobiografica, qui in parte aggirato, avrà un ulteriore
sviluppo nella Comedia con la frammentazione dell‟io in diversi alter ego, in ruoli e
personaggi, cioè, grammaticalmente non coincidenti con l‟autore.
91
Vd. FERRUCCI, Il poema del desiderio, cit., pp. 47-90, che nel primo canto dell‟Inferno interpreta la selva
oscura e gli ostacoli nell‟ascesa al colle come un probabile riferimento al Convivio.
107
4
Petrarca e la Posteritati:
l’opera quod ante me, ut arbitror, fecit nemo
I riscontri autobiografici all‟interno della produzione petrarchesca sono
innumerevoli e di difficile interpretazione e catalogazione, sia per la stesura sempre
meditata e mediata dall‟autore, sia per la compenetrazione tra letteratura e realtà che
impedisce di discernere l‟esperienza di vita, narrata, costruita e plasmata come opera
letteraria1. La contemporanea composizione e costante revisione legano logicamente e
filologicamente i vari testi, creando un‟osmosi tra un lavoro e l‟altro, «come componenti
di un ampio progetto letterario di carattere radicalmente autobiografico»2.
1
ANTOGNINI, Il progetto autobiografico delle Familiares, cit., del cui studio sono debitore nel riassumere il
rapporto tra autobiografia e Petrarca, ritiene che «la difficoltà di incasellare “l‟indubbia consapevolezza
autobiografica di Petrarca” possa essere la causa dell‟assenza di Petrarca in tre raccolte di saggi dedicati
all‟autobiografia» (ivi, p. 84, n. 8): Scrivere la propria vita, cit.; «In quella parte del libro de la mia
memoria», cit.; L‟autobiografia nel Medioevo, cit.
2
F. RICO, Il nucleo della Posteritati (e le autobiografie del Petrarca), in Motivi e forme delle Familiari di
Francesco Petrarca. Atti del Convegno di Gargnano del Garda (2-5 ottobre 2002), a cura di C. Berra,
Milano, Cisalpino 2003, pp. 1-19, p. 16. Sul rapporto tra Petrarca e l‟autobiografia vd. anche ID., Vida u
obra de Petrarca. I. Lectura del «Secretum», Padova, Antenore 1974, pp. 470-95; ID., Petrarca, in
Manuale di letteratura italiana, cit., I. Dalle origini alla fine del Quattrocento, pp. 812-29;
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 101-58; A.S. BERNARDO, Petrarch‟s Autobiography,
Circularity Revisited, «Annali d‟italianistica», 4 (1986), pp. 45-72; M. SANTAGATA, I frammenti
dell‟anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino 1992, in particolare pp. 76101; B. BELEGGIA, Autoritratto d‟autore nelle Familiari di Petrarca, in Motivi e forme delle Familiari, cit.,
pp. 675-705; R. ANTOGNINI, Familiarum rerum liber: tradizione materiale e autobiografia, in Petrarch and
the Textual Origins of Interpretations, a cura di T. Barolini-H.W. Storey, Leiden-Boston, Brill 2007, pp.
108
Cercando di districarci tra scritti che indubbiamente trattano temi autobiografici,
come le raccolte epistolari delle Familiares e delle Seniles, il Secretum o i Rerum
vulgarium fragmenta, che combinano la tradizione classica con i temi cristiani, si vuole
qui proporre, grazie alle parole di Petrarca, una reductio ad unum per trattare della sola
Posteritati, vero e proprio testo autobiografico.
Con il tramonto della Scolastica e delle sue leggi retoriche, l‟idea di un lavoro che
parlasse di sé era forse già presente nel poeta verso il 1350, durante la stesura della prima
lettera delle Familiares, laddove l‟autore vorrebbe offrire all‟amico Socrate un ritratto
che rappresenti l‟effigie del suo animo:
Illam vero non Phidie Minervam, ut ait Cicero, sed qualemcunque animi mei
effigiem atque ingenii simulacrum multo michi studio dedolatum, si unquam
supremam illi manum imposuero, cum ad te venerit, secure qualibet in arce
constituito3.
Il tema è ripreso nella celebre lettera a Dionigi da Borgo Sansepolcro che narra
l‟ascesa al Monte Ventoso col fratello Gherardo, avvenuta nel 1336, ma la cui redazione
205-29; EAD., Il progetto autobiografico delle Familiares, cit., pp. 83-114; vd. inoltre PJ. EAKIN, Fictions
in Autobiography. Studies in the Art of Self-Invention, Princeton, Princeton UP 1985.
3
Fam I, 1, 37: «Ma se un giorno riuscirò a dar l‟ultima mano non dico, come Cicerone, alla Minerva
fidiana, ma all‟effigie del mio animo, quale che sia, a quel ritratto del mio ingegno che ho inseguito con
tanta fatica, allora, quando l‟avrai, collocalo con tranquillità sull‟alto di qualsiasi rocca» (le citazioni sono
tratte da F. PETRARCA, Le familiari, a cura di U. Dotti, Urbino, Argalia 1974, voll. 2). Recentemente, è
stato messo in dubbio il significato del termine effigie come riferimento alla Posteritati da F. RICO, «Animi
effigies». L‟«Africa» nel prologo alle «Familiari», «Quaderni petrarcheschi», 11 (2001), pp. 215-28 (Verso
il Centenario petrarchesco. Prospettive critiche sul Petrarca, a cura di G.M. Anselmi-E. Pasquini), che vi
vede un riferimento non alla persona del Petrarca ma a un‟opera, l‟Africa (in precedenza, lo stesso Rico
aveva identificato l‟effigie nel Secretum, vd. RICO, Vida u obra, cit., pp. 479-80); mentre H. BARON,
Petrarch‟s «Secretum». Its Making and Its Meaning, Cambridge (Mass.), The Medieval Academy of
America 1985, identifica l‟effigie nel De vita solitaria, scartando le ipotesi che possa rappresentare l‟Africa
o il De viris illustribus. Per la bibliografia sull‟argomento vd. RICO, art. cit., in particolare pp. 217-18.
109
definitiva è del 13534. Non riuscendo a tenere il passo del fratello, che sale velocemente e
senza rallentamenti verso la vetta, Petrarca si attarda per percorsi meno impervi ma più
lenti, tipico topos medievale sul peso dei peccati e sulle distrazioni terrene. Accortosi
degli indugi, il poeta si ripromette di scrivere esemplarmente la propria vita sul modello
agostiniano:
Tempus forsan veniet quando eodem quo gesta sunt ordine universa
percurram, prefatus illud Augustini tui: «Recordari volo transactas feditates
meas et carnales corruptiones anime mee, non quod eas amem, sed ut amem
te, Deus meus»5.
Un simile passaggio è presente anche nel De otio religioso, composto in larga parte nel
1347, in cui le Confessiones sono nuovamente il riferimento petrarchesco per una
possibile opera sul parlar di sé:
[…] inter fluctuationes meas, quas si percurrere cepero et michi
confessionum liber ingens ordiendus erit, Augustini Confessionum liber
obvius fuit6.
4
G. BILLANOVICH, Petrarca e il Ventoso, «Italia medioevale e umanistica», 10 (1966), pp. 389-401,
ristampato in ID., Petrarca e il primo Umanesimo, Padova, Antenore 1996, pp. 168-84; G. GÜNTERT,
Petrarca e il Ventoso: dalla «cupiditas vivendi» al desiderio «scribendi». L‟epistola familiare IV, 1 come
autoritratto letterario-morale, in Petrarca e i suoi lettori, a cura di V. Caratozzolo-G. Güntert, Ravenna,
Longo 2000, pp. 143-56; B. MARTINELLI, Petrarca e l‟epistola del Ventoso: i diversi tempi della scrittura,
«Rivista di letteratura italiana», 19, 1 (2001), pp. 9-57.
5
Fam IV, 1, 20: «Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell‟ordine stesso in cui sono avvenute,
premettendovi le parole di Agostino: “Voglio ricordare le mie passate torpitudini, le carnali corruzioni
dell‟anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”»; vd. anche P. COURCELLE, Pétrarque
lecteur des Confessiones, «Rivista di cultura classica e medievale», 1 (1959), pp. 26-43; É. LUCIANI, Les
Confessions de saint Augustin dans les lettres de Pétrarque, Paris, Études Augustiniennes 1982; B. STOCK,
Petrarch‟s Portrait of Saint Augustine, in ID., After Augustine. The Meditative Reader and the Text,
Philadelphia, University of Philadelphia Press 2001, pp. 71-85.
6
De otio, II, 8, 34: «[…] in mezzo alle mie fluttuazioni – se comincerò a ripercorrerle, sarà necessario
anche a me tenere un gran libro di confessioni – mi venne incontro il libro delle Confessioni di Agostino»
(le citazioni sono tratte da F. PETRARCA, De otio religioso, a cura di G. Goletti, Firenze, Le Lettere 2006).
Per Rico e Fenzi il riferimento è al Secretum (RICO, Vida u obra, cit., pp. 480-81; FENZI, Introduzione a
110
I motivi edificanti, appartenenti a un‟opera di matrice autobiografica nella mente
del padre dell‟Umanesimo, mutano in seguito al soggiorno milanese presso i Visconti,
che aveva attirato molte critiche al Petrarca da parte, innanzitutto, dei suoi stessi amici7:
il baluardo della libertà si era messo al servizio dei tiranni di Milano. Petrarca muove
dall‟autolegittimazione,
riferita
a
una
vaga
opera
di
stampo
agostiniano,
all‟autogiustificazione: nell‟Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius
scientie aut virtutis, composta nel 1355, vi è un riferimento a uno scritto apologetico,
concepito per rispondere ad alcune calunnie che gli erano state rivolte, che richiama le
ragioni dantesche di difendersi dal timor d‟infamia:
Huic tamen calumnie multisque aliis quibus non nunc primum me stultitia
livorque impedit, uno pridem toto volumine respondisse videor et verborum
inanium tendiculas confregisset8.
PETRARCA, Secretum, cit., pp. 48-49); di parere diverso il Baron (BARON, Petrarch‟s «Secretum», cit., pp.
16-17).
7
Vd. il capitolo Gli anni milanesi (1353-1361) in U. DOTTI, Vita di Petrarca, Roma-Bari, Edizioni Laterza
(Biblioteca Storica Laterza) 2004, pp. 279-353, la cui prima parte inizia col significativo titolo di
Polemiche con gli amici: Ludovico di Beringen, il Socrate delle Familiares; Francesco Nelli, il Simonide
delle Seniles; Boccaccio, Zanobi da Strada; Giovanni Aghinolfi; Gano del Colle criticarono animatamente
la scelta del Petrarca.
8
Inv. magn.158: «Ma a questa calunnia, e a molte altre con le quali non ora per la prima volta la stoltezza e
il livore altrui mi assalgono, mi sembra di aver risposto qualche tempo fa con un intero volume, e di aver
spezzato i lacci di quelle vuote parole» (citazioni tratte da F. PETRARCA, Invectiva contra quendam magni
status hominem sed nullius scientie aut virtutis, in ID., Invective contra medicum. Invectiva contra
quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, a cura di F. Bausi, Firenze, Le Lettere
2005, pp. 170-209; che, in parte, differisce da ID., Invectiva contra quendam magni status hominem sed
nullius scientie aut virtutis, a cura di P.G. Ricci, Firenze, Le Monnier 1949 e da ID., Invectives, a cura di D.
Marsh, Cambridge (Mass)-London, The I Tatti Renaissance Library, Harvard UP 2003, pp. 180-221). Ricci
identifica il volumen dell‟Invectiva nel nucleo originario della Posteritati (F. PETRARCA, Invectiva contra
quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, a cura di P.G. Ricci, in ID., Prose, a cura
di Martellotti, Milano-Napoli, Ricciardi 1955, pp. 694-709 p. 698 n. 6, e pp. 1161-62); Rico esclude questa
possibilità (RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., p. 3 e n. 7); mentre Guglielminetti afferma che, se vale
l‟ipotesi del Ricci, «il “nucleo originario” non è stato sviluppato in maniera conseguente»
(GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 157 n. 19).
111
I medesimi motivi ritornano in un‟epistola indirizzata al Boccaccio, del 12 luglio 1357,
nella quale viene descritto un lavoro autobiografico (libellus), già iniziato (contexui) ma
probabilmente non ancora portato a termine (responsum erit; il futuro sottintende i lettori,
non propriamente il completamento dell‟opera)9, per difendere le proprie posizioni e la
scelta di lavorare per i signori di Milano:
[…] libellum de vitae meae cursu contexui: ubi si res meas: non dicam
irreprehensibiles aut laudabiles: sed tolerabiles excusabilesque […] puto
responsum erit10.
Per Petrarca, dunque, la scrittura autobiografica diviene un atto necessario per
giustificare le sue scelte di vita di fronte ai suoi amici e lettori e per respingere
disonorevoli accuse. Nella Dispersa 46, lettera accompagnatoria alle Invective contra
medicum inviate al Boccaccio, vergata il 18 agosto 1360, il poeta si propone nuovamente
di scrivere un‟opera sulla sua vita, la cui importanza è data dalla constatazione che
nessuno la compose prima di lui:
9
Sull‟argomento vd. E.H. WILKINS, On the Evolution of Petrarch‟s Letter to Posterity, «Speculum» 39
(1964), pp. 304-08, p. 305, ristampato in ID., Studies on Petrarch and Boccaccio, a cura di A.S. Bernardo,
Padova, Antenore 1978, pp. 286-92.
10
Disp 40: «[…] ho imbastito, per dare risposta a tutti, un trattatello concernente lo svolgersi della mia vita,
e con esso […] verrà dimostrato come le mie azioni siano state non dico irreprensibili o lodevoli, ma
quantomeno giustificabili e tollerabili» (le citazioni sono tratte da F. PETRARCA, Lettere disperse: varie e
miscellanee, a cura di A. Pancheri, Milano, Fondazione Pietro Bembo – Parma, Ugo Guanda 1994, 31819). Difficile identificare il libellus nella Posteritati in quanto, poche righe prima, Petrarca dichiara che il
lavoro apologetico non ha forma di singola epistola: «Responsionem meam ad omnes: quia non capiebat
epistola» («Le mie ragioni non erano tali da poterle restringere nello spazio di una lettera», ibidem). Sulla
questione vd. DOTTI, Vita di Petrarca, cit., pp. 310-11, secondo il quale il libellus non venne mai scritto; e
RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., p. 3 e p. 18, che individua il libellus nelle Familiares.
112
[…] suggerit ut quum singulis respondere difficile est […] simul omnibus
respondeam, et de ratione vitae meae integro volumine disputem, quod ante
me, ut arbitror, fecit nemo11.
L‟autobiografia apologetica che il Petrarca dichiara di voler scrivere negli ultimi
anni di vita, evidenzia un curioso e interessante parallelismo tra il proposito della Disp 46
e l‟incipit del primo libro delle Confessions di Rousseau:
Je forme une entreprise qui n‟eut jamais d‟éxemple, et dont l‟exécution
n‟aura point d‟imitateur. Je veux montrer à mes semblables un homme dans
toute la vérité de la nature; et cet homme, ce sera moi12.
Confrontando l‟entreprise del filosofo svizzero col volumen petrarchesco, è indiscutibile
la consapevolezza di entrambi gli scrittori che il parlare di sé, l‟autobiografia, era uno
spazio letterario inesplorato nel panorama romanzo. Indipendentemente dai risultati
raggiunti, Petrarca intuisce che dedicare un integrum volumen alla biografia di se stesso –
dopo aver dedicato ampia attenzione alle esperienze dei grandi uomini del passato e aver
scritto le vite di alcuni di loro nel De viris illustribus – sarebbe stata una novità assoluta
11
Disp 46: «[…] mi hanno suggerito, essendomi faticoso rispondere privatamente a ciascuno […], di
rispondere a tutti contemporaneamente, discutendo delle mie scelte di vita in un intero volume, cosa che,
ritengo, nessuno fece prima di me» (op. cit., pp. 346-47). Secondo alcuni studiosi, l‟integrum volumen
sarebbe da identificarsi con le Familiares (D. GOLDIN FOLENA, Familiarum Rerum Liber: Petrarca e la
problematica epistolare, in Alla lettera. Teorie e pratiche epistolari dai Greci al Novecento, a cura di A.
Chemello, Milano, Guerini 1998, pp. 51-82, pp. 54-56; ANTOGNINI, Il progetto autobiografico delle
Familiares, cit., in particolare pp. 92-93); per Dotti il volumen non venne mai scritto (DOTTI, Vita di
Petrarca, cit., p. 311); Rico suppone che dietro alla responsio ci sia effettivamente la Posteritati (RICO, Il
nucleo della Posteritati, cit., pp. 2-4).
12
J.J. ROUSSEAU, Les Confessions, a cura di B. Gagnebin-M. Raymond , in ID., Œuvres complètes, a cura
di B. Gagnebin-M. Raymond, Paris, Gallimard 1969-1995, voll. 5, I. Les Confessions. Autres textes
autobiographiques, pp. 1-656, p. 5. Gli accenti dell‟edizione di riferimento dipendono dall‟autografo delle
Confessions.
113
che avrebbe differito dal ritratto agostiniano delle Confessiones, una delle sue letture
predilette.
Le prime tre testimonianze tratte dalle Familiares e dal De otio religioso, che
includono l‟animi effigies e il liber ingens, sono riconducibili a un breve arco
cronologico e si riferiscono in modo opaco a un‟opera esemplare di stampo agostiniano
in potenza13. In seguito al soggiorno milanese si fa invece più pressante l‟esigenza di uno
scritto puntuale e preciso, di carattere apologetico, in atto e non ancora terminato, sulla
propria vita, a cui fanno riferimento le Disperse e l‟Invectiva attraverso il totum volumen,
il libellus e l‟integrum volumen.
Le Familiares sembrano corrispondere alla descrizione di scritto edificante, poiché
le lettere sono una «memoria del passato “sub specie agostiniana”»14 che trasfigurano in
exemplum vari episodi della vita del Petrarca. Il poeta non ha ancora l‟esigenza di
perseguire la strada della scrittura apologetica, poiché l‟altezza cronologica dei passi
citati che parlano di un‟opera agostiniana è antecedente al soggiorno lombardo 15. Non si
comprendono poi né il rimando interno, contenuto nella locuzione animi mei effigies,
riferito all‟intera opera, né la novità della raccolta (Disp. 46) in rapporto alle epistole di
Cicerone (Petrarca aveva scoperto le lettere Ad Atticum nella biblioteca capitolare di
13
Rico interpreta i passi della Familiares IV, 1 e del De otio religioso come dei riferimenti alla prima
versione del Secretum, che sarebbe però dovuta essere superata da un‟opera «più risolutamente narrativa»,
di cui la Posteritati potrebbe essere il nucleo originario (RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., pp. 16-17).
14
DOTTI, Vita di Petrarca, cit., p. 24.
15
Sulla composizione delle Familiares vd. G. BILLANOVICH, Dall‟Epystolarium mearum ad diversos liber
ai Rerum familiarum libri XXIV, in ID., Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di
storia e letteratura 1947, pp. 1-55.
114
Verona nel 134516), o alle Seniles17, che riprendono la forma e la struttura delle
Familiares.
Lo stile delle lettere petrarchesche, inoltre, è dominato dal tempo presente. Pur
essendo rielaborazioni successive all‟accaduto, le missive fissano l‟immagine del poeta
in un eterno presente che riproduce la forma dell‟ego-nunc-hic propria dell‟io lirico18: il
Petrarca delle Familiares vive in un tempo infinito che non si organizza in una struttura
autobiografica – esigenza, d‟altro canto, non ancora sentita dal poeta –, ma offre
«un‟applicazione sempre più articolata e profonda del principio contemplativo del “nosce
te ipsum”»19.
Anche il Secretum, un‟intima introspezione costruita su una struttura dialogica
mutuata dalle Confessiones tra due personaggi, Franscisus e Augustinus, entrambi
rappresentanti il poeta, rientra nel processo di autoconoscenza agostiniano. Lo
sdoppiamento dell‟autore in due interlocutori, alter ego di se stesso, rende impossibile
identificare l‟io autobiografico ed esula dallo scopo di questo studio20. L‟opera
16
DOTTI, Vita di Petrarca, cit., pp. 132-33.
Contro questa interpretazione vd. ANTOGNINI, Il progetto autobiografico delle Familiares, cit., pp. 93-97,
che scrive: «Gli epistolari di Cicerone e Seneca offrono il modello a cui attenersi, ma nessuno dei due è la
storia del loro autore, nel senso di un guardare indietro rivolto a recuperare il passato» (p. 95), mentre non
menziona le Seniles.
18
Vd. supra, p. 27. Antognini propone un‟erudita dimostrazione in cui Petrarca riprende l‟idea agostiniana
del tempo, secondo la quale non esistono passato né futuro, ma solo il tempo presente (vd. ANTOGNINI, Il
progetto autobiografico delle Familiares, cit., pp. 93-114); A. PIAZZONI, Epistolari autobiografici?, in
L‟autobiografia nel Medioevo, cit., pp. 155-76 afferma che tutti gli epistolari sono autobiografici, non
distinguendo però tra autobiografia e autobiografismo.
19
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., pp. 106-114, la citazione è a p. 113; A. SCAGLIONE,
Classical Heritage and Petrarchan Self-Consciousness in the Literary Emergence of the Interior «I», in
Petrarch, a cura di H. Bloom, New York-Philadelphia, Chelsea House Publishers 1989, pp. 125-37.
20
Per Rico, Francesco e Agostino raprresentano rispettivamente il Petrarca peripatetico del 1342, anno in
cui è ambientata l‟opera, e quello stoico della metà del Trecento, quando il testo venne scritto (RICO, Vida
u obra, cit., pp. 76-77, che rifiuta per il Secretum, opera stratificata nel tempo, l‟etichetta di autobiografia
pur riconoscendone le possibilità); per Tateo, Francesco non è una figura autobiografica, ma una finzione
17
115
rappresenta la vita del Petrarca «letterariamente e moralisticamente atteggiata o
trasfigurata o addirittura, se si preferisce, mistificata»21, a cui manca il lieto fine della
conversione, che «rivela non tanto l‟incapacità dello scrittore a scegliere tra due strade
ugualmente vere, ma piuttosto la sua risoluzione a non voler decidere»22. Uno dei
principi basilari che spingono a dare testimonianza della propria vita, la transformation
radicale, non fa ancora parte della biografia del poeta.
Nel proemio del Secretum ci troviamo, come nella Vita nova, in uno stato onirico
che rende apparente il mondo della Storia:
Attonito michi quidem et sepissime cogitanti qualiter in hanc vitam
intrassem, qualiter ve forem egressurus, contigit nuper ut non, sicut egros
animos solet, somnus opprimeret, sed anxium atque pervigliem mulier […]
incertum quibus viis adiisse videretur23.
Il ritorno al tempo storico si ha in quelle che il Guglielminetti chiama «memorie del
sottosuolo»24, vale a dire le note autografe lasciate dal Petrarca sul margine dei
manoscritti da lui posseduti. Il poeta, quasi sottoforma di scrittura diaristica, annotava le
date più importanti della sua vita sui suoi codici, come nel celebre Virgilio ambrosiano,
letteraria in quanto versione negativa di Agostino (F. TATEO, Dialogo interiore e polemica ideologica nel
Secretum di Petrarca, Firenze, Le Monnier 1965, pp. 15-38). Sulle diverse posizioni vd. FENZI,
Introduzione a PETRARCA, Secretum, cit., pp. 5-77, che passa criticamente in rassegna gli studi
sull‟argomento.
21
FENZI, Introduzione a PETRARCA, Secretum, cit., p. 74.
22
DOTTI, Vita di Petrarca, cit., p. 158. Vd. anche FENZI, Introduzione a PETRARCA, Secretum, cit., pp. 6263: non cambia l‟uomo Petrarca, ma, dopo un esame di autocoscienza, l‟atteggiamento di Petrarca nelle
scelte di vita, commisurate «all‟inesorabile trascorrere del tempo e all‟immanente attualità della morte».
23
Secr. I: «Non molto tempo fa ero assorto e pensavo con sgomento, come faccio spessissimo, in che modo
fossi entrato in questa vita e come ne sarei dovuto uscire. Non ero però oppresso dal sonno, come succede a
chi è spiritualmente debilitato, e mi parve allora di vedere – angosciato e ben desto com‟ero – una donna
[…]» (citazioni tratte da PETRARCA, Secretum, cit., pp. 94-95)
24
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 125.
116
sul cui verso del foglio di guardia, ad esempio, è vergata la nota funeraria sulla morte di
Laura assieme a quella degli amici più cari25. Le annotazioni difettano in organicità e
sistematicità, ma testimoniano l‟inclinazione dell‟autore a mettere per iscritto la propria
vita in uno spazio e in un tempo definiti.
Le Familiares e il Secretum dunque possiedono le qualità del testo edificante
vagheggiato negli stessi anni in cui vennero composti, ma non sono identificabili nel
libro de ratione vitae meae della tarda Disp. 46. L‟opera che nessuno fece prima di lui e
che il poeta sta scrivendo è identificabile solamente nella Posteritati, cominciata a metà
Trecento, ma rielaborata fino agli ultimi anni di vita.
4.1. Franciscus posteritati salutem
La Posteritati è la lettera che doveva chiudere, nelle intenzioni dell‟autore, la
raccolta dei Rerum senilium libri come diciottesimo e ultimo libro26. Le Seniles non
vennero diffuse dal Petrarca, che lavorò al loro compimento fino agli ultimi giorni di
25
Op. cit., pp. 123-39; G.C. ALESSIO-G. BILLANOVICH-V. DE ANGELIS, L‟alba del Petrarca filologo. Il
Virgilio del Petrarca, «Studi petrarcheschi», 2 (1985), pp. 15-84, ristampato in G. BILLANOVICH, Petrarca
e il primo Umanesimo, Padova, Antenore 1996, pp. 3-40; vd. inoltre Le postille al Virgilio ambrosiano, a
cura di M. Baglio-A. Nebuloni Testa-M. Petoletti, Padova, Antenore 2006, voll. 2.
26
Dopo aver sperimentato la forma dialogica nel Secretum, è possibile che il poeta abbia mutuato la
struttura epistolare per parlare di sé dall‟apologetica Historia calamitatum di Abelardo, di cui il poeta
possedeva una copia (M. GUGLIELMINETTI, Petrarca fra Abelardo ed Eloisa, in ID., Petrarca fra Abelardo
ed Eloisa e altri saggi di letteratura italiana, Bari, Adriatica 1969, pp. 11-45). È probabile, tuttavia, che
Petrarca considerasse l‟Historia come semplice storia d‟amore, poiché ne ricavò minimi stimoli
autobiografici e si servì del codice in suo possesso per annotare dei probabili appuntamenti amorosi, vd. P.
DE NOLHAC, Pétrarque et l‟humanisme, Paris, Champion 1907, voll. 2, II, pp. 217-23; F. RIZZI, Francesco
Petrarca e il decennio parmense, Torino, Paravia 1934, pp. 357-65; FENZI, Introduzione a PETRARCA,
Secretum, cit., pp. 20-23.
117
vita, ma furono riordinate e pubblicate dopo la morte del poeta dagli amici e dai discepoli
padovani. L‟ultima lettera, destinata ai posteri, non venne però inserita nella raccolta
poiché o non si riuscì a recuperarla tra le carte del poeta, oppure poiché era considerata
un abbozzo embrionale o un brogliaccio da limare.
La ricostruzione dell‟archetipo petrarchesco ha creato non pochi problemi agli
studiosi. La lettera, sin dal perduto originale, è un documento filologicamente molto
corrotto, lacunoso e carico di correzioni cui è difficile dare una precisa sistemazione, sia
che si trattasse di un testo base a cui si aggiunsero postille e marginalia, sia che fosse un
dossier di note parziali composte senza un ordine preciso27. Già un contemporaneo del
Petrarca, probabilmente uno degli amici che avevano accesso allo scrittoio di Arquà,
cercò di mettere ordine alla Posteritati offrendo una prima edizione, ma rimase fuorviato
nelle scelte dal disordine dell‟autografo, trasponendo alcuni paragrafi. Il testo ha trovato
una forma – ancora provvisoria – nell‟edizione critica proposta dal Ricci, ripresa e rivista
poi dal Villani, e recentemente nel lavoro dell‟Enenkel, le cui scelte, pur avvalendosi di
due nuovi codici, lasciano in alcuni casi perplessi28.
27
La prima ipotesi è del Ricci (P.G. RICCI, Sul testo della Posteritati, «Studi petrarcheschi», 6 (1956), pp.
5-21, p. 19, ristampato in ID., Miscellanea petrarchesca, a cura di M. Berté, Roma, Edizioni di storia e
letteratura 1999, pp. 137-53); la seconda del Rico (RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., pp. 2-3), che
aggiunge che la Posteritati è una lettera «sempre provvisoria e in continua metamorfosi» (p. 7).
28
Forma provvisoria in quanto manca ancora oggi un‟edizione critica di riferimento e di sicuro
affidamento. Sul testo della Posteritati vd. E. CARRARA, L‟epistola «Posteritati» e la leggenda
petrarchesca, «Istituto Superiore di Magistero del Piemonte», Annali, 3 (1929), pp. 309-24, ristampato in
Studi petrarcheschi ed altri scritti raccolti a cura di amici e discepoli, Torino, Bottega d‟Erasmo 1959, pp.
3-76, che basa l‟edizione su due manoscritti e, in sostanza, riprende l‟edizione Trecentesca; F. PETRARCA,
Posteritati, a cura di P.G. Ricci, in ID., Prose, cit., pp. 1-19, che basa l‟edizione sulla collazione tra tre
codici; edizione e traduzione riviste poi in ID., Lettera ai posteri, a cura di G. Villani, Roma, Salerno 1990
e ID., Posteritati, a cura di U. Dotti, in ID., Epistole, a cura di U. Dotti, Torino, UTET 1978, pp. 870-88,
che basano sostanzialmente l‟edizione sulle congetture del Ricci; K. ENENKEL, A Critical Edition of
Petrarch‟s Epistola Posteritati with an English Translation, in Modelling the Individual. Biography and
Portrait in the Renaissance, a cura di K. Enenkel-B. de Jong-Crane-P.Liebregts, Amsterdam-Atlanta,
118
Il dibattito sulla data di composizione, come per molte altre opere del Petrarca, è
tuttora aperto. Contrariamente all‟idea di una Posteritati iniziata durante il soggiorno
milanese29, studi recenti hanno proposto l‟anticipazione della stesura del nucleo
originario della lettera al 1347-1353 per la comunanza di temi, toni e stili con altri scritti
del periodo30. Il testo venne poi rivisto verso il 1361; ripreso nel 1368, corretto e
ampliato fino agli ultimi anni di vita del Petrarca, come evidenziano i riferimenti alla
morte di papa Urbano V che portano agli anni 1371-1372. È lo stesso Petrarca a
comunicarci il suo metodo di lavoro nella Posteritati:
[…] que [da intendersi: scripta, gli scritti] tam numerosi, ut usque ad hanc
etatem me exerceant ac fatigent. Fuit enim michi ut corpus sic ingenium:
magis pollens dexteritate quam viribus; itaque multa michi facilia cogitatu,
que executione difficilia pretermisi31.
Il lungo periodo di composizione ha quasi certamente portato a contenuti e obiettivi
mutevoli, che testimoniano diverse fasi di vita. Concordando con l‟avanzamento alla
Rodopi 1988, pp. 243-81, che basa l‟edizione su cinque codici per la scoperta di due nuovi manoscritti,
ignoti agli editori precedenti (vd. la scheda 163, a cura di S. Gentile e T. De Robertis in Codici latini del
Petrarca nelle biblioteche fiorentine. Catalogo della mostra 19 Maggio-30 Giugno 1991, a cura di M. Feo,
Firenze, Le Lettere 1991, pp. 203-204; e L. GUALDO ROSA, Un nuovo testimone della Posteritati ed altri
nuovi codici petrarcheschi, «Studi petrarcheschi», 9 (1992), pp. 221-242), ma le cui scelte non sempre
sono condivisibili. Vd. inoltre RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., che propone alcune letture che
differiscono dalle edizioni di cui sopra. Tutte le citazioni e i riferimenti ai paragrafi sono tratti dall‟edizione
curata dal Villani.
29
È questa l‟idea prevalente, vd. il commento di Ricci in PETRARCA, Prose, p. 1162; E.H. WILKINS,
Petrarch‟s Eight Years in Milan, Cambridge (Mass.), The Medieval Academy of America 1958, pp. 28692.
30
La proposta è in RICO, Il nucleo della Posteritati, cit.
31
Post 24: «[…] scritti così numerosi, che quasi ancora oggi continuano a tenermi impegnato e a non darmi
tregua. La natura del mio ingegno fu infatti molto simile a quella del mio corpo: efficace più in prontezza
che forza; sicché molte cose che erano per me facili a pensarsi, poi le tralasciavo perché difficili a
realizzarsi». Vd. M. PICONE, Petrarca e il libro non finito, «Italianistica», 33, 2 (2004), pp. 83-93,
ristampato in ID., Petrarch and the Unfinished Book, «Annali d‟italianistica», 22 (2004), pp. 46-60; e in Il
Canzoniere: lettura micro e macrotestuale, a cura di M. Picone, Ravenna, Longo 2007, pp. 9-23.
119
metà del Trecento del nucleo originario della Posteritati, il testo viene cronologicamente
a sovrapporsi ad altri lavori petrarcheschi, soprattutto agli scritti di carattere più intimo e
religioso. La produzione delle maggiori opere del poeta evidenzia, infatti, una dicotomia
tra i soggetti e i temi trattati, prima classici, poi cristiani. Il continuo labor limae non
permette datazioni sicure, ma i generali tempi di creazione e composizione considerati
dalla critica mostrano la presenza di un vero e proprio spartiacque nella sua produzione
che avvenne verso la metà degli anni Quaranta. Prima del 1345, il Petrarca iniziò la
scrittura dell‟Africa; del De viris illustribus; di alcuni dei Triumphi32; dei Rerum
memorandarum libri; e la prima redazione dei Rerum vulgarium fragmenta. In seguito,
lasciando cadere alcuni di questi progetti e reinterpretandone altri33, compose il De vita
solitaria; il De otio religioso; il Secretum; i Psalmi penitentiales; e le Familiares.
La semplice suddivisione, seppur schematica e parziale, mostra già chiaramente
una mutatio animi avvenuta nel Petrarca, che cambiò radicalmente l‟oggetto della propria
poetica34. Sulle cause del cambiamento, sia esso una vera crisi o una profonda riflessione
32
Da intendersi il primo nucleo dei Triumphi, coincidente col Triumphus Cupidinis. Gli altri, soprattutto i
trionfi della Morte, del Tempo e dell‟Eternità sono sicuramente scritti da un Petrarca maturo (DOTTI, Vita
di Petrarca, cit., pp. 70-74; M. ARIANI, Introduzione a F. PETRARCA, Triumphi, a cura di M. Ariani, Roma,
Mursia 1988, pp. 5-64).
33
Petrarca reinterpreta i Triumphi e diverse poesie del Canzoniere in chiave religiosa – basti pensare al
Triumphus Mortis, scritto in seguito alla peste del 1348 –, così come riprende le epistole che, pur essendo
alcune state composte precedentemente, subiscono un vero e proprio rifacimento in questi anni.
34
Così il RICO, Vida u obra, cit., pp. 484-ss. Di diverso parere il Dotti (DOTTI, Vita di Petrarca, cit., pp.
25-27; 36-42), che interpreta come artificio retorico l‟abbandono dei classici per le scritture sacre, sulla
scia della conversione agostiniana, proponendo una lettura parallela di opere sacre e profane sulla scorta di
postille in codici posseduti dal poeta sin da giovane (vd. G. BILLANOVICH, Dalle prime alle ultime letture
del Petrarca, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di studi nel VI centenario (1370-1374), Arquà
Petrarca, 6-8 novembre 1970, a cura di G. Billanovich-G. Frasso, Padova, Antenore 1975, pp. 13-50). La
conoscenza coeva di testi classici e degli autori cristiani non giustifica però la produzione distinta tra opere
di contenuto storico e retorico da un lato, e lavori d‟impronta religiosa dall‟altro, né l‟abbandono delle
prime per i secondi, senza considerare l‟idea di una mutatio animi avvenuta in quegli anni nel Petrarca (vd.
and esempio, la Fam. X, 4, 1 in cui Petrarca afferma che la teologia è la poesia che ha Dio per oggetto).
120
interiore, si possono fare diverse supposizioni: sicuramente, la monacazione di Gherardo
nel 1343 ebbe una notevole influenza sulla vita del poeta, così come l‟aver rischiato di
perdere la vita due anni dopo a Parma per la scabbia. Del 1347 sono poi il distacco dalla
famiglia Colonna e la volontà di rientrare stabilmente in Italia, coincidente con la prima
visita alla certosa di Montrieux, dove viveva il fratello, e con la caduta di Cola di Rienzo,
su cui il poeta riversava alte attese e speranze. Seguì l‟annus horribilis, il 1348, che vide
la morte viaggiare sulle strade dell‟Europa e portare via molti amici del poeta35.
Quale fosse il reale motivo del cambiamento, la Posteritati testimonia la necessità
di Petrarca di dar voce a una metamorfosi dell‟io, di cui rimangono tracce evidenti
nell‟uomo maturo che giudica il giovane se stesso:
Adolescentia me fefellit, iuventa corripuit, senecta autem correxit,
experimentoque perdocuit verum illud quod diu ante perlegeram: quoniam
adolescentia et voluptas vana sunt36.
Su uno sfondo retorico, il poeta compatisce le scelte giovanili di dedicarsi allo studio
delle lettere e della ventosa gloria37 degli studi classici, perché lo avevano distratto dalle
più importanti letture dei testi sacri («sacris literis delectatus»38). Il giovane Francesco è
35
DOTTI, Vita di Petrarca, cit., pp. 136-218: tra gli amici morti di peste, Petrarca ricorda espressamente,
oltre a Laura, Paganino da Bizzozzero; Franceschino degli Albizzi; Sennuccio del Bene; Giovanni
Colonna.
36
Post 3: «La giovinezza mi ingannò, la maturità mi catturò, la vecchiaia infine mi corresse,
dimostrandomi con l‟esperienza quanto fossero vere le cose che un tempo avevo letto e riletto: cioè che i
piaceri degli anni giovanili sono una cosa vana». Vd. anche la Fam. XXII, 10, 5-11, che tratta del
passaggio dalle letture classiche, mai rinnegate per la loro eloquenza, alle letture sacre, adottate come
modello di vita.
37
Post 12: («[…] ventosa gloria est de solo verborum splendore famam querere» («[…] poiché è gloria
fatta di vento cercare la fama unicamente attraverso lo splendore delle parole»).
38
Post 11.
121
una persona diversa dal Petrarca adulto39, e giudica benevolmente gli errori dovuti
all‟ardore dell‟età, mitigando ogni spirito polemico per lasciare spazio alla propria
autorappresentazione:
[…] imo etatum temporumque omnium Conditor, qui miseros mortales de
nichilo tumidos aberrare sinit interdum, ut peccatorum suorum vel sero
memores se se cognoscant40.
Il se se conoscere concesso da Dio porta all‟atto confessionale, che si svolge
seguendo la successione dei peccati capitali. I primi tre vizi, avarizia, ira e lusso, espressi
assieme analogicamente, vengono introdotti ma subito rigettati dal poeta in quanto gli
procuravano fastidio41. La colpa successiva, la lussuria, non è più la catena adamantina
del Secretum, ma un amore acerrimo completamente superato:
39
Post 32: «Quod quidem tunc iudicium regium et multorum et meo in primis iudicio consonum fuit; hodie
et ipsius et meum et omnium idem sentientium iudicium non probo: plus in eum valuit amor et etatis favor
quam veri studium» («Il giudizio del re fu insomma concorde con quello di tanti altri, e in primo luogo fu
concorde con il mio: mentre oggi non approvo il giudizio né suo, né mio, né di quanti la pensavano allo
stesso modo»). Simili argomenti ritornano in Post 18: «[…] cur autem nescire nunc me fateor et mirari,
tunc equidem non mirabar, ut qui michi, more etatis, omni honore dignissimus viderer» («[…] perché poi,
confesso ora di non sapere e di meravigliarmi, mentre un tempo non mi stupivo, per la naturale tendenza
dell‟età, di apparire pienamente degno di tutti gli onori»); e in Post 29: «A quo qualiter visus, et cui quam
acceptus fuerim, et ipse nunc miror et tu, si noveris, lector, puto mirabere» («Del modo in cui fui giudicato
e di quanto gli sia stato ben gradito, oggi mi meraviglio, e credo anche tu, o lettore, nel saperlo ti
meraviglierai»).
40
Post 3: «E anzi meglio me lo dimostrò Colui che è al fondamento di tutte le stagioni della vita e di tutti i
tempi, che a tratti concede ai miseri mortali, gonfi di nulla, di smarrire la loro strada, affinché poi riescano
a capire i propri errori e a conoscere se stessi».
41
L‟avarizia: Post 5: «Divitiarum contemptor eximius: non quod divitias non optarem, sed labores
curasque oderam, opum comites inseparabiles » («Più di tutto disprezzai la ricchezza: non perché non la
desiderassi, ma perché odiavo la sofferenza e gli affanni che immancabilmente si accompagnano al
benessere»); la gola: Post 5: «Non <michi>, ut ista cura esset, lautarum facultas epularum: ego autem tenui
victu et cibis vulgaribus vitam egi letius, quam cum exquisitissimis dapibus omnes Apicii successores»
(«Non ebbi mai sufficienti disponibilità per laute mense, ove mai una tal cosa mi potesse stare a cuore:
mentre con un‟alimentazione sobria e cibi semplici vissi più soddisfatto di quanto non riescano a fare tutti i
seguaci di Apicio con le loro prelibatissime vivande»); il lusso: Post 6: «Nichil michi magis quam pompa
displicuit, non solum quia mala et humilitati contraria, sed quia difficilis et quieti adversa est» («Nulla mi
122
Amore acerrimo sed unico et honesto in adolescentia laboravi […] Mox vero
ad quadragesimum etatis annum appropinquans, dum adhuc et caloris satis
esset et virium, non solum factum illud obscenum, sed eius memoriam
omnem sic abieci, quasi nunquam feminam aspexissem42.
Seguono altri tre peccati che richiamano probabilmente il periodo milanese: la
superbia, sofferta da altri («Sensi superbiam in aliis, non in me; et cum parvus fuerim,
semper minor iudicio meo fui»43); l‟ira, mai rivolta contro alcuni («Ira mea michi persepe
nocuit, aliis nunquam»44), e l‟invidia, presente solamente nei suoi nemici:
Principum atque regum familiaritatibus ac nobilium amicitiis usque ad
invidiam fortunatus fui. Multos tamen eorum, quos valde amabam, effugi:
tantum fuit michi insitus amor libertatis, ut cuius vel nomen ipsum illi esse
contrarium videretur, omni studio declinarem45.
La nobiltà d‟animo di Petrarca è testimoniata dai molti e influenti amici, e dall‟essere un
primus inter pares anche al cospetto di principi, re e nobili, rovesciando i termini dei
rapporti con i potenti dell‟epoca. È probabile qui il riferimento al volumen apologetico
menzionato nelle tarde epistole per l‟eccessiva accondiscendenza verso i Visconti,
disturbò di più dello sfoggio del lusso, non solo perché esso è perverso e contrario alla semplicità, ma
perché è scomodo e nemico del vivere tranquillo»).
42
Post 7-8: «In gioventù soffrii d‟un amore tremendo, ma irripetibile e onesto […] Anzi, non appena
cominciai ad avvicinarmi ai quarant‟anni, quando pure nel sangue vi sarebbero ancora state abbastanza
forze e calore, io presi a disprezzare non soltanto quel fatto osceno, ma addirittura ogni suo ricordo, come
se non avessi mai visto una femmina». Nella Sen. VIII, 1, del 1366, Petrarca afferma di essersi liberato
dalla libidine post Iubileum, dopo cioè il 1350 (notizia tratta da RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., p. 11).
43
Post 9: «La superbia la sperimentai negli altri, non in me; e benché io sia stato un piccolo uomo, a mio
parere fui sempre più piccolo».
44
Post 9: «La mia ira poté spesso nuocere a me, agli altri mai».
45
Post 10: «Ebbi tanti e tali rapporti di familiarità con principi e sovrani e di amicizia con i nobili, da far
morir d‟invidia. Nondimeno, evitai molti di quelli che pur fortemente amavo: l‟amore per la libertà mi fu
infatti così connaturato, che schivavo con ogni accortezza persino il nome di chi avesse potuto sembrarle
contrario».
123
considerati i tiranni di Milano che mettevano a repentaglio le libertà soprattutto di
Venezia e Firenze. Se l‟autogiustificazione spinge Petrarca all‟autobiografia, la lunga
gestazione ha forse appianato la vis polemica all‟interno della Posteritati.
Nella confessione, Petrarca non tratta dell‟acedia, la radice di tutti i mali nel
Secretum46, che non gli permette di scegliere e lo tiene legato, tramite Laura e il desiderio
di fama, al mondo terreno. La differenza tra il Franciscus del Secretum, lacerato e
incapace di tendere al divino, e il Francesco della Posteritati, distaccato e liberato dalle
passioni, credo testimoni l‟avvenuta conversione che dà il via al racconto autobiografico.
Nella lettera ai posteri sono dunque presenti i segnali di cambiamento che
languivano nella precedente produzione. Nell‟incipit dell‟epistola, riprendendo
probabilmente i Tristitia di Ovidio47, Petrarca si presenta e si rivolge a un tu, il lettore del
futuro, vestendo retoricamente i panni cristiani dell‟umiltà:
Fuerit tibi forsan de me aliquid auditum; quanquam et hoc dubium sit, an
exiguum et obscurum longe nomen seu locorum seu temporum perventurum
sit. Et illud forsitan optabis nosse: quid hominis fuerim aut quis operum
46
Secr. II, pp. 178-79: «Ad hec, et reliquarum passionum ut crebros sic breves et momentaneos experior
insultus; hec autem pestis tam tenaciter me arripit interdum, ut integros dies noctesque illigatum torqueat,
quod michi tempus non lucis aut vite, sed tartaree noctiset acerbissime mortis instar est» («Inoltre delle
altre malattie [i peccati] sperimento attacchi frequenti ma brevi e quasi momentanei: questo flagello
[l‟accidia] invece mi ghermisce a volte così tenacemente da tormentarmi nella sua stretta per giorni e notti
intere, e allora per me non è più tempo di luce e di vita, ma oscurità d‟inferno e strazio mortale»). La
confessione dei propri peccati occupa il secondo libro del Secretum, vd. U. DOTTI, Miti e forme dell‟«io»
nella cultura di Francesco Petrarca. Dal «Secretum» all‟epistolario e alle «Rime», «Revue des études
italiennes», 29 (1983), pp. 74-85; S. WENZEL, Petrarch‟s Accidia, «Studies in the Renaissance», 8 (1961),
pp. 36-48.
47
Nei Tristitia IV, 10, 1-2 si legge: «Ille ego qui fuerim, tenerorum lusor amorum / Quem legis, ut noris,
accipe, posteritatis» («Chi io fossi, il noto cantore di teneri amori, / ascolta, per apprenderlo, posterità che
mi leggi»; citazioni tratte da P. OVIDIO NASONE, Tristitia, a cura di R. Mazzanti-M. Bonvicini,
introduzione di D. Giordano, Milano, Garzanti 1991, pp. 158-59).
124
exitus meorum, eorum maxime quorum ad te fama pervenerit vel quorum
tenue nomen audieris48.
Dopo aver preso in esame, sul modello del Convivio, le diverse opinioni che il
lettore può avere49, la modestia viene abbandonata attraverso il paragone con Ottaviano
Augusto, che pone il poeta sullo stesso piedistallo del primo imperatore di Roma:
Vestro de grege unus fui autem, mortalis homuncio, nec magne admodum
nec vilis originis, familia – ut de se ait Augustus Cesar – antiqua50.
Il riferimento, ripreso dal De vita XII Caesarum di Svetonio51, collega uno dei grandi
interessi petrarcheschi, la biografia, all‟autobiografia. Petrarca vuole scrivere la biografia
48
Post 1 : «Forse di me avrai sentito dir qualcosa; quantunque poi sia dubbio che un nome piccolo e oscuro
come il mio possa essere giunto così lontano nello spazio e nel tempo. E probabilmente ti piacerà sapere
che uomo io fui o quale fu la ventura delle opere mie: innanzitutto quelle la cui fama sia pervenuta fino a te
o anche quelle che avrai sentito appena nominare». L‟apertura del Petrarca è simile a Fam. XXIV, 4, 11, e
riecheggia nel preambolo delle Confessions di Rousseau, soprattutto nel richiamo all‟eternità dell‟opera
d‟arte: «Voici le seul portrait d'homme, peint exactement d‟après nature et dans toute sa vérité, qui existe et
qui probablement existera jamais. Qui que vous soyez, que ma destinée ou ma confiance ont fait l‟arbitre
du sort de ce cahier, je vous conjure par mes malheurs, par vos entrailles, et au nom de toute l‟espéce
humaine, de ne pas anéantir un ouvrage unique et utile, lequel peut servir de prémiére piéce de
comparaison pour l‟étude des hommes, qui certainement est encore à commencer, et de ne pas ôter à
l‟honneur de ma mémoire le seul monument sûr de mon caractére qui n‟ait pas été défiguré par mes
ennemis. Enfin fussiez-vous vous-même un de ces ennemis implacables, cessez de l‟être envers ma cendre,
et ne portez pas votre cruelle injustice jusqu‟au tems où ni vous ni moi ne vivrons plus; afin que vous
puissiez vous rendre au moins une fois le noble témoignage d‟avoir été genereux et bon quand vous
pouviez être malfaisant et vindicatif: Si tant est que le mal qui s‟adresse à un homme qui n‟en a jamais fait,
ou voulu faire, puisse porter le nom de vengeance» (ROUSSEAU, Préambule a Les Confessions, cit., p. 3).
49
Post 2: «Et de primo quidem varie erunt hominum voces; ita enim ferme quisque loquitur, ut impellit non
veritas sed voluptas: nec laudis nec infamie modus est» («sul primo punto, di sicuro, molte saranno le voci
e le opinioni; ognuno tende infatti a parlare non per amore di verità ma come gli aggrada: e non c‟è misura
né per le lodi né per il vituperio»), vd. supra, pp. 88-89.
50
Post 2: «Io fui, in realtà, uno dei vostri: un piccolo uomo mortale, dai natali non proprio nobili ma
neppure plebei; di famiglia antica, come avrebbe detto di sé Augusto».
51
Svetonio, De vita XII Caesarum, II, 2: «[…] ipse Augustus nihil amplius quam equestri familia ortum se
scribit vetere ac locuplete […]» («[…] non da Augusto, che per parte sua si limita a scrivere di essere nato
da una famiglia equestre, antica e benestante […]», citazioni tratte da G. SVETONIO TRANQUILLO, Le vite
dei Cesari, a cura di P. Ramondetti-I. Lana, Tornio, UTET 2008, voll. 2, I, pp. 340-41).
125
del vir illustris, se stesso, in uno «shift of attention from bios to autos – from the life to
the self»52. Credo che questa sia la chiave di lettura con cui leggere la Posteritati: una
biografia dell‟autore stesso che ricostruisce le tappe più importanti della propria
esistenza, descrivendo, come Dante nel Convivio, le scelte e le azioni virtuose e morali
che possano meglio delineare la sua figura: «È molto probabile […] che Petrarca abbia
concepito la Posteritati prevedendo, o auspicandosi, un pubblico che, per quanto
concerne questo tipo di letteratura, tra le Confessiones di Agostino e le Vitae Caesarum
sceglierà solo le seconde»53. L‟opera quod ante me, ut arbitror, fecit nemo è dunque la
descrizione della vita di se stesso come opera letteraria, che, come ebbe a scrivere anche
Rousseau circa quattrocento anni dopo, nessuno compose prima.
Nella prima prefazione al De viris illustribus, Petrarca elenca le caratteristiche
biografiche che il lettore deve attendersi nel leggere la vita di un uomo:
Quid enim, ne res exemplo careat, quid nosse attinet quos servos aut canes
vir illustris habuerit, que iumenta, quas penulas, que servorum nomina, quod
coniugium artificium peculium ve, quibus cibis uti solitus, quo vehiculo,
quibus phaleris, quo amictu, quo denique salsamento, quo genere leguminis
delectatus sit? Hec et his similia quisquis nosse desideras, apud alios quere,
quibus non tam clara vel magna quam multa dicere propositum est. Apud me
ista frustra requiruntur, nisi quatenus ad virtutes vel virtutum contraria trahi
possunt54.
52
OLNEY, Autobiography and the Cultural Moment, cit., p. 19.
GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 151; vd. anche M. AURIGEMMA, Petrarca e la storia:
osservazioni sulle biografie del De viris illustribus da Adamo ad Ercole, in Scrittura e società. Studi in
onore di G. Mariani, Roma, Herder 1985, pp. 53-74; F. FERRUCCI, Modelli letterari e autobiografia
dell‟opera, in ID., Il giardino simbolico. Modelli letterari e autobiografia dell‟opera, Roma, Bulzoni 1980,
pp. 265-81, il quale afferma che la chiave di lettura vada cercata negli anfratti del testo e non nella poetica
dichiarata.
54
Vir. Ill., Prohemium: «A che giova, per fare un esempio, conoscere quali servi o cani un uomo illustre
abbia avuto, quali cavalli o mantelli; e quali siano stati i nomi dei servi, e la sua vita coniugale e l‟arte e il
peculio; quali i cibi più grati e i veicoli, e gli ornamenti e le vesti e infine le salse e i legumi preferiti? Chi
desidera conoscere tali cose le cerchi presso altri che hanno in animo di scrivere molto, non cose grandi e
53
126
Secondo Petrarca, l‟opera biografica deve descrivere solamente gli avvenimenti
importanti e celebri e tralasciare le vicende quotidiane: l‟immagine pubblica entra nella
Storia sovrastando e soffocando l‟io più profondo, relegato ai margini del racconto.
L‟analisi interiore viene sospesa: «Quid multa?»55 si chiede il poeta mentre divaga sul
suo incontro privato con re Roberto d‟Angiò. Tale concezione storico-biografica porta il
poeta a scrivere un‟autobiografia essenziale e a liquidare con poche parole due temi della
sua produzione, la costante polemica sul ritorno della curia pontificia a Roma («Sed hec
longior atque incidens est querela»56) e l‟invidia che seguì all‟incoronazione poetica
(«[…] sed hecquoque historia longior est quam poscat hic locus»57). Nel momento in cui
la vita privata di Petrarca sta per entrare nel dettato, subito ne esce: «Longa erit historia si
pergam exequi quidibi multos ac multos egerim per annos»58, per lasciar spazio al
monumento pubblico di se stesso, agli atti esteriori che hanno il compito di scolpire il suo
ritratto presso i posteri59.
famose. Presso di me si cercherebbero invano, se non in quanto possano trarsi alle virtù e ai loro contrari»
(citazioni tratte da F. PETRARCA, De viris illustribus, a cura di G. Martellotti, in ID., Prose, cit., pp. 217-67,
pp. 224-25: il curatore si serve della cosiddetta “Prefazione B”, del 1351-53, che differisce dalla
“Prefazione A” con cui Petrarca indirizza il libro a Francesco da Carrara negli anni Settanta e proposta in
F. PETRARCA, De viris illustribus, a cura di S. Ferrone, Firenze, Le Lettere 2006, pp. 2-5).
55
Post 30: «Ma perché dire tante cose?».
56
Post 15: «Ma questa potrebbe sembrare una lagnanza troppo lunga e fuori luogo».
57
Post 33: «[…] e anche questa sarebbe qui una storia troppo lunga».
58
Post 24: «Troppo lunga sarebbe la storia, se volessi metter per esteso quanto feci in quel luogo per tanti e
tanti anni».
59
Così, infatti, ancora nel proemio, Vir. Ill., Prohemium: «Scriberem libentius, fateor, visa quam lecta,
nova quam vetera, ut sicut notitiam vetustatis ab antiquis acceperam ita huius notitiam etatis ex me
posteritas sera perciperet» («Preferirei, lo confesso, narrare cose viste anziché lette, recenti anziché antiche,
in modo che i posteri lontani ricevessero da me la notizia di questa età, come io dagli antichi ebbi quella
delle età più vetuste»).
127
Petrarca, infatti, traccia per prima cosa i tratti fisionomici della sua figura con una
breve e accennata descrizione fisica che, pur risentendo di una medias virtus, offre una
sorta di fotografia e ci presenta il volto dell‟uomo:
Corpus iuveni non magnarum virium sed multe dexteritatis obtigerat. Forma
non glorior excellenti, sed que placere viridioribus annis posset: colore
vivido inter candidum et subnigrum, vivacibus oculis et visu per longum
tempus acerrimo […]60.
Il cambiamento interiore si riflette sull‟aspetto esteriore, che cambia per il trascorrere del
tempo, a testimonianza del distacco temporale tra la scrittura (o le scritture) e gli
avvenimenti della sua vita:
[…] qui preter spem supra sexagesimum etatis annum me destituit, ut
indignanti michi ad ocularium confugiendum esset auxilium. Tota etate
sanissimum corpus senectus invasit, et solita morborum acie circumvenit61.
L‟oggettivazione dell‟io si ricava anche dalla presenza di puntuali richiami a
documenti che comprovino quanto da lui affermato. Presso il cardinale Giovanni
Colonna si conservano due lettere sui dubbi per la scelta del luogo migliore per
l‟incoronazione poetica («et de petitione et de approbatione consilii eius mea duplex ad
60
Post 4: «Da giovane mi era toccato un corpo non tanto forte ma molto agile. Certo, non posso vantarmi
di un aspetto eccezionale, ma di un aspetto che poteva piacere negli anni migliori: color pieno di vita tra il
bianco e il bruno, occhi vivissimi e vista per lungo tempo acutissima […]».
61
Post 4: «[…] tranne che, contro ogni aspettativa, essa mi piantò dopo i sessant‟anni, sino a rendermi
indispensabile, con disappunto, l‟uso degli occhiali. Un corpo che era stato sanissimo per tutta la vita fu
infine assalito dalla vecchiaia, che lo strinse d‟assedio con la sua solita schiera di malanni».
128
illum extat epystola»62); mentre la veridicità della stessa è confermata da altri due suoi
componimenti («De quibus etiam et carmine et soluta oratione epystole mee sunt»63).
La sua persona viene successivamente descritta attraverso l‟ingenio acuto, che
conduce il poeta all‟amore per i classici, poi trascurato per studiare i testi sacri, e alla
produzione poetica, composta per puro diletto64. Diverso è l‟amore per la storia, che
porta il primo umanista alla filologia, con un chiaro riferimento al codice degli Ab Urbe
condita libri di Livio in suo possesso:
Historicis itaque delectatus sum; non minus tamen offensus eorum discordia,
secutus in dubio quo me vel veri similitudo rerum vel scribentium traxit
autoritas65.
Il poeta descrive la sua prima grande intuizione: il testo critico, dato dalla collazione tra
opere diverse per emendare i loci critici del dettato, che ha prodotto esiti felici nel codice
Harleiano 2493 della British Library66 offrendo il più completo e filologicamente corretto
62
Post 28: «Presso di lui tuttora si conservano le mie due lettere, sulla richiesta e sull‟accoglimento del suo
consiglio».
63
Post 33: «sull‟episodio si conservano alcune mie lettere, sia in versi che in prosa».
64
Post 11.
65
Post 11: «Fu per tale motivo che lessi con diletto gli storici; e rimanendo tuttavia turbato dalla loro
discordanza, nell‟incertezza mi orientai dove poteva spingermi o la verisimiglianza dei fatti o l‟autorità di
determinati scrittori». Sul Petrarca filologo vd. V. FERA, La filologia del Petrarca e i fondamenti della
filologia umanistica, «Quaderni petrarcheschi», 9-10 (1992-93), pp. 367-92; M. REGOGLIOSI, La filologia
testuale tra Petrarca e Valla, «Quaderni petrarcheschi», 11 (2001), pp. 189-214; P.O. KRISTELLER, Il
Petrarca nella storia degli studi, in ID., Quattro lezioni di filologia, a cura di L.C. Rossi, con due scritti di
L. Lehnus e G. Velli, Venezia, Centro di Studi medievali e rinascimentali «E.A. Cicogna» 2003, pp. 19-42;
T. BAROLINI, Petrarch at the Crossroads of Hermeneutics and Philology: Editorial Lapses, Narrative
Impositions, and Wilkins‟ Doctrine of the Nine Forms of the Rerum Vulgarium Fragmenta, in Petrarch and
the Textual Origins, cit., pp. 21-44.
66
Sull‟argomento vd. soprattutto G. BILLANOVICH, La tradizione del testo di Livio e le origini
dell‟Umanesimo, Padova, Antenore 1981, voll. 2.
129
testo delle Decadi. L‟amore per la filologia67 lo porta a viaggiare nell‟Europa
settentrionale, nel 1333, desideroso di nuove conoscenze68: a Liegi scopre due orazioni
ciceroniane, la Pro Archia e la falsa Ad equites romanos, alle quali seguono i
ritrovamenti delle epistole Ad Atticum; Ad Quintum; Ad Brutum; e dell‟apocrifa Ad
Octavianum a Verona. All‟amore per la parola è legato l‟eloquio del Petrarca, messo in
relazione a quello di Augusto:
Eloquio, ut quidam dixerunt, claro ac potenti; ut michi visum est, fragili et
obscuro. Neque vero in comuni sermone cum amicis aut familiaribus
eloquentie unquam cura me attigit; mirorque eam curam Augustum Cesarem
suscepisse69.
Contrariamente a Dante, Petrarca affronta rapidamente la propria autobiografia
linguistica, dichiarando l‟amore per la lingua latina di registro elevato e continuando la
lettura parallela tra la propria biografia e quella di Augusto.
Terminato il proprio ritratto esteriore, Petrarca tratta gli avvenimenti pubblici della
sua biografia, presentando nella Posteritati una legenda alla statua eretta:
67
Petrarca compose anche una commedia, oggi perduta, intitolata Philologia Philostrati, vd. DOTTI, Vita di
Petrarca, cit., pp. 59-60, e la bibliografia ivi citata.
68
Post 21: «Quo tempore iuvenilis me impulit appetitus ut et Gallias et Germaniam peragrarem. Et licet
alie cause fingerentur ut profectionem meam meis maioribus approbarem, vera tamen causa erat multa
videndi ardor ac studium. In qua peregrinatione Parisius primum vidi […]« («In quegli stessi anni l‟ardore
giovanile mi spinse a visitare successivamente la Francia e la Germania. Benché adducessi ragioni diverse
per giustificare la mia partenza ai miei signori, la causa vera consisteva nell‟ardente desiderio di vedere
cose sempre nuove. Messomi così in viaggio, visitai innanzitutto Parigi […]»); vd. anche G. BILLANOVICH,
Tra Italia e Fiandre nel Trecento: Francesco Petrarca e Ludovico Santo di Beringen, in ID., Lezioni di
filologia petrarchesca, a cura di D. Losappio, introduzione di G. Frasso, Venezia, Centro di Studi
medievali e rinascimentali «E.A. Cicogna» 2008, pp. 25-38.
69
Post 12: «La mia parola, a detta di alcuni, era chiara e forte; a mio parere, fragile e oscura. D‟altronde,
nella lingua di tutti i giorni non mi sfiorò mai il pensiero di esprimermi eloquentemente, e mi meraviglio
anzi che una simile preoccupazione l‟abbia potuta avere Cesare Augusto».
130
Honestis parentibus, florentinis origine, fortuna mediocri, et – ut verum
fatear – ad inopiam vergente, sed patria pulsis, Arretii in exilio natus sum,
anno huius etatis ultime que a Cristo incipit MCCCIV, die lune ad auroram
[…] kalendas Augusti70.
Solo ora cominciamo a leggere la vita e le opere del poeta che si avvinghiano alla Storia
e ne entrano a far parte dopo i generici resoconti di Francesco e Dante. Petrarca scandisce
il trascorrere del tempo offrendo al lettore quelle precise coordinate spaziali e temporali
che demarcano il genere autobiografico. L‟assenza dell‟esatta data di nascita sembra
essere una voluta omissione, poiché, nella Sen. VIII, 1 indirizzata al Boccaccio, afferma
di aver spesso dissimulato la sua età71. Le note biografiche del poeta continuano:
Primum illum vite annum neque integrum Arretii egi, ubi in lucem natura me
protulerat; sex sequentes Ancise, paterno in rure supra Florentiam
quattuordecim passuum milibus, revocata ab exilio genitrice; octavum Pisis,
nonum ac deinceps in Gallia Transalpina, ad levam Rodani ripam – Avinio
urbi nomen […]72.
Sembra tuttavia che Petrarca risiedette a Pisa nel settimo anno d‟età (Fam. I, 1, 24 e Sen.
X, 2), ma l‟inesattezza storica è un tratto comune a molti autobiografi. Alfieri, ad
esempio, compie molte inesattezze in materia familiare nel primo capitolo della sua Vita:
riferisce di essere nato il 17 gennaio 1749, mentre era venuto al mondo il giorno
70
Post 13: «Nacqui in esilio ad Arezzo, di lunedì, all‟alba del 20 agosto dell‟anno 1304 del Signore, da
onesti genitori di origine fiorentina. Questi, esiliati dalla loro patria, possedevano una certa fortuna, che
veramente s‟andava ormai volgendo in indigenza»; dettato vicino a Fam. I, 1, 22-23. ENENKEL, A Critical
Edition of Petrarch‟s Epistola Posteritati, cit., p. 256, anticipa questa parte nel mezzo del secondo
paragrafo, tra le parole antiqua e natura, rompendo però l‟armonia del dettato.
71
Notizia ricavata da RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., p. 9, n. 21.
72
Post 14: «Il primo anno d‟età – quello in cui la natura mi fece venire alla luce – non lo trascorsi ad
Arezzo nemmeno per intero; i sei successivi li passai a Incisa, in una campagna paterna a 14 miglia sopra
Firenze, dopo che era stato revocato l‟esilio a mia madre; l‟ottavo a Pisa; il nono e i seguenti in Provenza,
presso la riva sinistra del Rodano, nella città di Avignone […]»; dettato vicino a Fam. I, 1, 23-24.
131
precedente; narra della morte del padre avvenuta dopo sessant‟anni, quando ne aveva
invece 55; e dice di aver due sorellastre, quando in realtà ne ebbe una sola73. L‟errore
della memoria sembra dunque essere un fattore endemico del genere autobiografico.
Dopo una parentesi su papa Urbano, morto nel 1370 e incapace di riportare la sede
pontificia a Roma, lo spunto polemico è messo a tacere e Petrarca torna a parlare della
sua giovinezza e della prima istruzione sotto la guida di Convenevole da Prato, per
passare poi in rassegna gli studi universitari a Bologna, abbandonati per la morte del
padre:
Ibi igitur, ventosissimi amnis ad ripam, pueritiam sub parentibus, ac deinde
sub vanitatibus meis adolescentiam totam egi. Non tamen sine magnis
digressionibus: namque hoc tempore Carpentoras, civitas parva et illi ad
orientem proxima, quadriennio integro me habuit; inque his duabus
aliquantulum gramatice dyaletice ac rethorice, quantum etas potuit, didici;
quantum scilicet in scolis disci solet, quod quantulum sit, carissime lector,
intelligis. Inde ad Montem Pessulanum legum ad studium profectus,
quadriennium ibi alterum; inde Bononiam, et ibi triennium expendi et totum
iuris civilis corpus audivi […]. Ego vero studium illud omne destitui, mox ut
me parentum cura destituit74.
73
V. ALFIERI, Vita, a cura di A. Dolfi, Milano, Mondadori 1987, pp. 45-47 e pp. 383-84; ma anche, in
generale, A. BATTISTINI, L‟«io» autobiografico tra professione di veridicità e menzogne della scrittura,
«Revue des études italiennes», 41 (1995), pp. 39-46; B. ANGLANI, Le maschere dell‟io. Rousseau e la
menzogna autobiografica, Bari, Schena 1995.
74
Post 16-17: «Lì dunque, presso la riva del ventosissimo fiume, io trascorsi la fanciullezza all‟ombra dei
miei genitori, e tutta la giovinezza all‟ombra delle mie vanità. Me ne allontanai comunque per lunghi
periodi: mi trattenni infatti, a quel tempo, per quattro anni interi a Carpentras, che è un piccolo centro, dal
lato orientale il più vicino ad Avignone. In queste due città appresi abbastanza di grammatica, dialettica e
retorica, come era possibile per l‟età: voglio dire quanto di solito s‟impara a scuola, che quanto poco sia,
carissimo lettore, certo tu sai. Successivamente mi recai a Montpellier, a studiare diritto, trascorrendovi
altri quattro anni. Di lì passai a Bologna, dove spesi tre anni esclusivamente per imparare l‟intero corpo del
diritto civile […]. Invece io abbandonai definitivamente quel genere di studi non appena vennero meno le
premure dei miei genitori».
132
Interrotto il cursus honorum, tornato ad Avignone e lasciata la carriera giuridica
(«Itaque secundum et vigesimum annum agens domum redii. Domum voco avinionense
illud exilium […]75»), Petrarca entra al servizio della famiglia Colonna, descrivendo la
sua permanenza attraverso la rassegna di tre illustri figure, Giacomo 76, Giovanni77 e
Stefano78.
Rendendoci partecipe del passare del tempo, Petrarca, a 34 anni, si trasferisce a
Valchiusa, l‟Elicona francese, dove compone la maggior parte delle sue opere.
L‟autorappresentazione è così legata agli scritti composti, che hanno mutato il corso della
vita del poeta:
Inde etiam reversus, cum omnium sed in primis illius tediosissime urbis
fastidium atque odium, naturaliter animo meo insitum, ferre non possem,
diverticulum aliquod quasi portum querens, repperi vallem perexiguam sed
solitariam atque amenam, que Clausa dicitur, quindecim passuum milibus ab
Avinione distantem, ubi fontium rex omnium Sorgia oritur. Captus loci
dulcedine, libellos meos et meipsum illuc transtuli, cum iam quartum et
trigesimum etatis annum post terga relinquerem79.
75
Post 18: «A ventidue anni me ne ritornai pertanto a casa; e quando dico casa, intendo l‟esilio ad
Avignone […]».
76
Post 19: «Ante alios expetitus fui a Columnensium clara et generosa familia [….]. Ab illustri et
incomparabili viro Iacobo de Columna, Lomberiensi tunc epyscopo […], in Vasconiam ductus, sub
collibus Pireneis estatem prope celestem […]» («Fui richiesto, innanzitutto, dall‟illustre e generosa
famiglia Colonna […]. Quindi il signor Giacomo Colonna – all‟epoca vescovo di Lombez […] – mi
condusse in Guascogna, dove trascorsi alle falde dei Pirenei un‟estate quasi divina […]»).
77
Post 20: «Inde rediens sub fratre eius Iohanne de Columna, cardinali, multos per annos […]» («Partito di
lì, rimasi per molti anni sotto la protezione del fratello di lui, il cardinale Giovanni Colonna […]»).
78
Post 22: «Inde reversus Romam adii, cuius vidende desiderio ab infantia ardebam; et huius familie
magnanimum genitorem Stephanum de Columna […]» («Ripartito di là, andai a Roma, che ardevo dalla
smania di vedere da quando ero bambino. Ebbi così l‟opportunità di coltivare l‟amicizia con Stefano
Colonna, magnanimo patriarca della famiglia […]»).
79
Post 23: «E ripartii di nuovo; e siccome non riuscivo a sopportare una fastidiosa antipatia, in me
connaturata, per la noiosissima Avignone in primo luogo, ma del resto per tutte le città, cominciai a
cercarmi un rifugio, quasi un porto. Finalmente trovai una valle piccola ma solitaria e amena, detta appunto
Valchiusa, a 15 miglia da Avignone, dove nasce la Sorga, regina di tutte le sorgenti. Affascinato dalla
133
Tra tutti i suoi lavori, prima di parlare dell‟Africa, ne cita solamente due, uno in
versi, il Bucolicum carmen, e uno in prosa, il De vita solitaria, redatti nel periodo 134648:
Hic michi ipsa locorum facies suggessit ut Bucolicum carmen, silvestre opus,
aggrederer, et Vite solitarie libros duos ad Philippum, semper magnum
virum, sed parvum tunc epyscopum Cavallicensem, nunc magnum
Sabinensem epyscopum cardinalem; qui michi iam solus omnium veterum
superstes80.
Un nuovo confronto tra le parole del Secretum e il racconto della Posteritati evidenzia
ancora una volta una mutatio animi avvenuta lungo la scrittura dell‟ultima epistola delle
Seniles. Nel dialogo introspettivo, il racconto dell‟attività letteraria del Petrarca si
concentra su due testi di provenienza classica, il De viris illustribus e l‟Africa. Nella
lettera ai posteri, il poeta pone in primo piano il De vita solitaria, prima opera di
impianto cristiano e manifesto del cambiamento interiore del poeta, e il Bucolicum
carmen. Se sono facilmente intuibili le ragioni dell‟inserimento di un testo che testimoni
una conversione religiosa, più difficili da individuare sono i motivi che sottostanno alla
menzione delle egloghe. È possibile che Petrarca riversasse notevoli ambizioni sul lavoro
d‟impianto allegorico, ricco d‟intrecci «umanistico-filologici, retorico-poetici e
bellezza del posto, mi trasferii lì con i miei cari libri, quando già mi ero lasciato trentaquattro anni dietro le
spalle».
80
Post 25: «La stessa configurazione dei luoghi mi suggerì quindi di intraprendere il Bucolicum carmen,
opera boschereccia; e i due libri della Vita solitaria dedicati a Filippo, uomo di grande valore sempre; ma
all‟epoca piccolo vescovo di Cavillon, oggi gran cardinale vescovo di Sabina; costui, che è ormai l‟unico
superstite di tutti i miei vecchi […]».
134
ideologico-politici»81, ma credo, più concretamente, che il testo possa essere inteso come
momento di passaggio dalla poesia amorosa a quella trasfigurata e impegnata della
seconda metà degli anni Quaranta: del 1347 o dei primi mesi dell‟anno successivo è
l‟egloga Divortium, che sancisce la definitiva separazione dai Colonna e dalla
Provenza82. Superati gli impedimenti terreni del Secretum, i simboli della produzione
prosastica e poetica testimoniano la volontà di offrire un ritratto esemplare. Impossibile,
invece, dare una risposta sicura sul silenzio che copre alcuni testi di una certa rilevanza,
soprattutto il De otio religioso, composto nel 1347 in seguito alla visita presso il
monastero del fratello Gherardo. Sembra che i testi più personali siano stati volutamente
esclusi dalla lista dell‟uomo pubblico teso a tracciare la propria biografia.
Petrarca tratta a parte dell‟Africa, considerato il suo capolavoro e opera più degna
di essere tramandata ai posteri:
Illis in montibus vaganti, sexta quadam feria maioris hebdomade, cogitatio
incidit, et valida, ut de Scipione Africano illo primo, cuius nomen mirum
inde a prima michi etate carum fuit, poeticum aliquid heroico carmine
scriberem – sed, subiecti de nomine, Africe nomen libro dedi, operi, nescio
qua vel sua vel mea fortuna, dilecto multis antequam cognito – quod, tunc
magno ceptum impetu, variis mox distractus curis intermisi83.
81
DOTTI, Vita di Petrarca, cit., p. 149.
L‟egloga inizia con un emblematico: «Quo fugis?», vd. F. PETRARCA, Il Bucolicum Carmen e i suoi
commenti inediti, a cura di A. Avena, Bologna, Forni 1969 (ristampa anastatica dell‟edizione Padova
1906), pp. 132-36; N. MANN, The Making of Petrarch‟s «Bucolicum carmen», «Italia medioevale e
umanistica», 20 (1977), pp. 127-82.
83
Post 26: «Andavo una volta tra quei colli, nel sesto giorno di una settimana santa, quando con forza mi si
affacciò l‟idea di scrivere un poema epico sul primo celebre Scipione, l‟Africano, il cui nome mi era stato
caro dalla fanciullezza; tuttavia, dall‟ambientazione del soggetto, intitolai Africa il libro: da molti amato,
non so se più per mia o sua fortuna, prima ancora di esser conosciuto. Se non che, dopo avere avviata
l‟opera con grande impegno, subito la interruppi, distratto com‟ero dai più diversi pensieri».
82
135
Il rapporto tra autore e testo è di natura strettamente autobiografica, poiché, grazie
all‟Africa, Petrarca giunge al punto più alto della sua vita pubblica: l‟incoronazione
poetica84. Come premio per l‟ingegno del poeta arrivano due missive, una da Roma e
l‟altra da Parigi, per offrire la corona d‟alloro che gli avrebbe cinto il capo85. Sentendosi
indegno di tanto onore, Petrarca si dirige a Napoli per essere giudicato da re Roberto
d‟Angiò («Unde Neapolim primum petere institui; et veni ad illum summum et regem et
philosophum, Robertum […]»86). Il poeta descrive superficialmente il celeberrimo
esame:
Post innumeras verborum collationes variis de rebus, ostensamque sibi
Africam illam meam, qua usqueadeo delectatus est, ut eam sibi inscribi
magno pro munere posceret – quod negare nec potui certe, nec volui – super
eo tandem pro quo veneram certum michi deputavit diem, et a meridie ad
vesperam me tenuit. Et quoniam, crescente materia, breve tempus apparuit,
duobus proximis diebus idem fecit. Sic triduo excussa ignorantia mea, die
tertio me dignum laurea iudicavit87.
Nella lettera sono assenti i sentimenti dell‟uomo, descritto attraverso le tappe più
importanti della sua vita: l‟incoronazione si risolve in un rapido resoconto che non
84
Di questo parere anche GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 155; CARRARA, L‟epistola
«Posteritati», cit., p. 62; A.E. QUAGLIO, Francesco Petrarca, Milano, Garzanti 1967, p. 49.
85
Post 27: «Illis in locis moram trahenti […] uno die et ab urbe Roma senatus, et de Parisius cancellarii
studii ad me litere pervenerunt, certatim me ille Romam ille Parisius ad percipiendam lauream poeticam
evocantes» («Dimoravo ancora in quei luoghi, quando in uno stesso giorno […] mi giunsero due lettere:
dal senato di Roma e dalla cancelleria di Parigi, che a gara mi invitavano a ricevere, l‟una a Roma, l‟altra a
Parigi, la corona d‟alloro di poeta»).
86
Post 29: «Decisi comunque di presentarmi innanzitutto al cospetto di quel grandissimo e re e filosofo che
fu Roberto […]».
87
Post 31: «Dopo aver lungamente discusso degli argomenti più disparati, io gli feci ascoltare la mia
Africa, di cui s‟entusiasmò tanto, da chiedermi di dedicargliela, in conto di grande cortesia – e io non
potevo e d‟altra parte non volli dir di no. Finalmente mi assegnò un giorno esatto per il preciso motivo per
cui ero venuto; e siccome il tempo mi sembrò subito breve in rapporto agli argomenti sempre nuovi da
affrontare, si regolò allo stesso modo per i due giorni successivi. Pertanto, dopo aver frugato per ben tre
giorni nella mia ignoranza, al terzo mi ritenne degno della corona d‟alloro».
136
ammette emozioni. Come nel passo sopracitato del De viris illustribus, le facetiae e le
nugae non rientravano nelle notizie da tramandare ai posteri.
A Roma, Petrarca riesce finalmente a conquistare l‟agognata laurea poetica nel
1341 («[…] lauream poeticam adhuc scolasticus rudis adeptus sum»88) per dirigersi poi
verso Parma («Inde ergo digressus Parmam veni et cum illis de Corrigia […]»89). La
Posteritati non termina dunque con l‟apice della carriera del poeta90, ma continua
narrando le vicende che portano alla conclusione dell‟Africa91.
Lasciata Parma nel 1342, Petrarca torna in Provenza: «Inde reversus, ad fontem
Sorgie et ad solitudinem transalpinam redii [...]92». Il dettato della Posteritati rimane qui
interrotto per riprendere all‟epoca del nuovo soggiorno italiano nel 1348-49. Per Ricci,
«è certa l‟esistenza di una vasta lacuna (secondo soggiorno a Parma, 1343-54, e terzo a
88
Post 33: «[…] riuscii a conquistare, benché rude scolaro, l‟alloro di poeta».
Post 34: «Partito di lì, mi recai a Parma, dove vissi un po‟ di tempo presso i Da Correggio […]».
90
Differisco dal Guglielminetti, secondo il quale «la Posteritati […] deve considerarsi terminata con
l‟episodio che ne costituisce il culmine» (GUGLIELMINETTI, Memoria e scrittura, cit., p. 157), in quanto la
lettera continua con avvenimenti che coprono la vita del Petrarca fino al 1350 circa.
91
Post 35: «Et suscepti memor honoris, sollicitusque ne indigno collatus videretur, cum die quodam in
montana conscendens forte trans Entiam amnem reginis in finibus silvam que Plana dicitur adiissem, subito
loci specie percussus, ad intermissam Africam stilum verti, et fervore animi qui sopitus videbatur excitato,
scripsi aliquantulum die illo; post continuis diebus quotidie aliquid, donec Parmam rediens et repostam ac
tranquillam nactus domum – que postea empta nunc etiam mea est –, tanto ardore opus illud non magno in
tempore ad exitum deduxi, ut ipse quoque nunc stupeam» («Un giorno, mentre andavo su per un colle,
pensieroso dell‟onore ricevuto e preoccupato che potesse sembrarmi indegnamente conferito, ecco che mi
inoltrai nel bosco di Selvapiana, oltre il fiume Enza, in territorio di Reggio: colpito dall‟aspetto del luogo,
decisi di ritornare immediatamente all‟Africa interrotta, e ritrovato un fervore d‟animo che sembrava già
sopito, ne scrissi un po‟ quel giorno stesso. Dopodiché continuai a scrivere sempre qualcosa, giorno dopo
giorno, finché, tornato a Parma e trovata una casa appartata e tranquilla – che in séguito acquistai e tuttora
posseggo –, con così gran fervore portai in breve tempo l‟opera a compimento, da stupirmene io stesso
ancora oggi»). La notizia, seppur non corrispondente al vero, può essere agevolmente spiegata: il poeta si
era illuso di aver completato l‟Africa avendone terminato l‟abbozzo, ma la rielaborazione conclusiva non
avvenne mai e il poema abbandonò definitivamente l‟opera nel 1348, vd. G. MARTELLOTTI, Sulla
composizione del De viris e dell‟Africa, in ID., Scritti petrarcheschi, a cura di M. Feo-S. Rizzo, Padova,
Antenore 1983, pp. 3-26, in particolare pp. 15-26.
92
Post 36: «Andato via pure di lì, ritornai alla fonte della Sorga e alla mia solitudine d‟oltralpe [….]».
89
137
Valchiusa, 1346-47)»93; mentre Enenkel, seguendo la lezione di due nuovi testimoni,
sostenuta anche dalle parole di Vergerio, anticipa qui il riferimento al successivo
soggiorno a Parma e Verona (1348-49), considerato così come secondo94. Pur
concordando con la scelta editoriale del Ricci, ripresa poi dal Villani (non si
spiegherebbe altrimenti il longum post tempus riferito al secondo soggiorno italiano; né
la ripetizione della forma verbale redii a distanza di poche parole, né un ricordo così
rapido di esperienze cruciali nella vita del poeta95), la proposta di una lacuna filologica
lascia perplessi, se non attribuibile alla volontà del Petrarca stesso: non credo, infatti, sia
avvenuto un casuale guasto codicologico nell‟originale petrarchesco96.
Il vuoto corrisponde agli anni che hanno portato il poeta alla mutatio animi: sono
assenti i motivi e gli impulsi che hanno provocato il cambiamento interiore dell‟uomo. È
questo, credo, il motivo dell‟omissione del periodo che va alla monacazione del fratello
Gherardo all‟abbandono dei Colonna e alla peste: un silenzio volontario, una precisa
detractio propria di queste prime opere autobiografiche che nascondono gli spunti
polemici – si pensi alla compromissione con gli stessi Colonna in seguito all‟esperienza
di Cola di Rienzo e alla comparsa delle prime Sine nomine – e le crisi interiori, e che
ritengo abbiano poi portato all‟interruzione dell‟epistola. Il silenzio di Francesco d‟Assisi
93
RICCI, Sul testo della Posteritati, cit., pp. 17-21; PETRARCA, Posteritati, ed. Ricci, cit., p. 17, n. 8.
ENENKEL, A Critical Edition of Petrarch‟s Epistola Posteritati, cit., p. 278: «Et intra breve tempus
extincta illa Columnensium gloriosa, sed heu nimium caduca familia iterum ad Italiam redii, cum iam
quartum et quadragesimum etatis annum post terga relinquerem, diuque et Parme et Verone versatus, et
ubique Deo gratias carus habitus multo amplius quam valerem».
95
Vd. anche le obiezioni in RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., p. 7, n. 19.
96
Ricci conferma l‟ipotesi, pur rimanendo in un campo filologico: «Dobbiamo dunque credere che la
lacuna si sia verificata per un guasto sopravvenuto nell‟originale dopo che il Petrarca l‟aveva già ritoccato;
ed io fermissimamente sono convinto che a quel guasto medesimo si debba il brusco interrompersi della
Posteritati […]. Penso infatti che sia semplicemente caduta metà di una carta […]» (RICCI, Sul testo della
Posteritati, cit., p. 20).
94
138
sugli anni antecedenti all‟uscita dal secolo; l‟omissione di Dante dei fatti che hanno
condotto all‟esilio97; e, infine, il mancato trattamento del periodo cruciale della vita del
Petrarca, evidenziano che i momenti critici della vita dell‟autore, che hanno portato alla
conversione
e
al
nuovo
io
descritto
nelle
loro
opere,
vengono
esclusi
nell‟autorappresentazione medievale. Caratteristica comune dei testi trattati in questo
studio sembra dunque essere la reticenza, intesa come incapacità di aprire al pubblico
l‟interiorità dell‟io, che dantescamente si limita a offrire l‟imagine di sé.
Le fila del racconto riprendono, dopo che Petrarca decide di lasciare la famiglia
Colonna e di trasferirsi in Italia, con l‟arrivo a Padova nel 1349, in seguito a un lungo
corteggiamento da parte di Giacomo da Carrara:
Longum post tempus, viri optimi et cuius nescio an e numero dominorum
quisquam similis sua etate vir fuerit […] Iacobi de Carraria iunioris fame
preconio benivolentiam adeptus […]. Itaque, sero quidem diuque et Parme et
Verone versatus […], Patavum veni […]. Inter multa, sciens me clericalem
vitam a pueritia tenuisse, ut me non sibi solum sed et patrie arctius
astringeret, me canonicum Padue fieri fecit98.
Il poeta non tralascia di menzionare l‟indipendenza economica raggiunta, ma con
l‟assassinio del protettore e il seguente governo del figlio, Petrarca torna ad Avignone nel
1351 e lascia interrotto il dettato della Posteritati:
97
Vd. supra, pp. 98-99.
Post 37-38: «Molto tempo dopo, divenuto famoso dappertutto, mi guadagnai la benevolenza di un‟ottima
persona, Giacomo da Carrara il Giovane […]. E così, dopo essermi comunque a lungo trattenuto tra Parma
e Verona […], giunsi finalmente a Padova […]. Egli inoltre, sapendo che sin da giovinetto avevo assunta la
condizione di chierico, per non tenermi legato a sé soltanto, ma con vincoli più stretti alla sua stessa terra,
mi fece nominare canonico di Padova».
98
139
Et licet filius sibi successerit […], ego tamen […], redii rursus in Gallias,
stare nescius, non tam desiderio visa milies revisendi, quam studio more
egrorum loci mutatione tediis consulendi99.
Pur postulando il Ricci un‟altra lacuna in questo punto100, siamo comunque sicuri
dell‟incompletezza della lettera. Il racconto è sospeso, e la successione temporale
avrebbe imposto al poeta di parlare del servizio presso i Visconti, motivo primario della
scrittura apologetica dichiarata nelle due Disperse. Analogamente a quanto già visto nella
stessa Posteritati sui motivi della metamorfosi dell‟io, l‟esposizione degli avvenimenti
più ambigui e controversi è taciuta e la scrittura autobiografica è nuovamente, e
definitivamente, interrotta.
Petrarca, dunque, tratteggia la sua biografia come quella di un uomo illustre e
descrivendo con precisi rimandi spaziali e temporali la parte pubblica della sua esistenza,
ponendo la Posteritati come «colophon di un‟intera vita»101. Tralasciando definizioni
riprese da categorie autobiografiche moderne102, credo che la Posteritati, pur non
trattando la parte più profonda dell‟io, l‟anima del poeta, si possa considerare la prima
vera e propria auto-biografia, etimologicamente intesa come biografia della propria vita
scritta dall‟autore stesso103. La lettera ai posteri si differenzia dai resoconti di Francesco
d‟Assisi e di Dante, poiché l‟autore vuole dare testimonianza diretta della propria
99
Post 40: «Gli successe il figlio […]; ma io […] me ne tornai di nuovo in Francia: non tanto per la
nostalgia di rivedere cose mille volte viste, quanto per il desiderio di trovar rimedio ai miei affanni
cambiando posto, come fanno gli infermi».
100
RICCI, Sul testo della Posteritati, cit., pp. 20-21.
101
L‟espressione è in RICO, Il nucleo della Posteritati, cit., p. 19.
102
PASCAL, Design and Truth in Autobiography, cit., p. 26: lo studioso afferma che la Posteritati non è una
vera autobiografia perché Petrarca «was too intent on displaying himself as a type, in a ideal form, too
concerned with generalities».
103
J. OLNEY, Some Versions of Memory/Some Versions of Bios: The Ontology of Autobiography, in
Autobiography: Essays Theoretical and Critical, cit., pp. 236-67.
140
esperienza di vita, portando, per la prima volta dopo Agostino, il racconto autobiografico
al centro dell‟opera letteraria.
4.2. La tradizione manoscritta
La sola Posteritati doveva essere contenuta nel diciottesimo e ultimo libro delle
Seniles, ma lo stato d‟incompiutezza consigliò gli amici padovani del poeta a non
inserirla nella raccolta. Così, infatti, termina il diciassettesimo libro diffuso da questi
primi editori del Petrarca:
Rerum senilium liber XVII explicit. Amen. In originali sequitur: Incipit
XVIII. Posteritati. De successibus studiorum suorum104.
La tradizione manoscritta della Posteritati è quindi indipendente da quella delle
Seniles e sono finora noti cinque manoscritti contenenti l‟epistola: tra essi, tre sono stati
scoperti in anni recenti, perché uniti ad altri lavori di diversi autori, e due hanno scarso
valore per l‟edizione critica del testo105. Lo stato d‟indefinitezza sicuramente non
104
«Termina il diciassettesimo libro delle lettere senili. Nell‟originale [vale a dire nell‟apografo usato dal
copista] segue: comincia il diciottesimo. Posteritati. Sui progressi dei suoi studi» (la nota è ripresa da
DOTTI, Vita di Petrarca, cit., p. 431, e n. 135 sui manoscritti che riportano l‟explicit; vd. inoltre RICCI, Sul
testo della Posteritati, cit., pp. 5-6; F. PETRARCA, Res seniles: Libri I-IV, a cura di S. Rizzo-M. Berté,
Firenze, Le Lettere 2006, p. 9 e n. 9-10; ID., Le senili, a cura di E. Nota-U. Dotti, Roma, Archivio Guido
Rizzi 1993.
105
Vd. supra, p. 117 e n. 28.
141
contribuì alla diffusione del testo, che venne accorpato alla raccolta a cui è legato
solamente nell‟editio princeps, stampata a Venezia nel 1501106.
Se l‟ultimo libro delle Familiares guarda al passato, con lettere indirizzate a grandi
uomini della classicità, simmetricamente la chiusura delle Seniles guarda al futuro.
L‟epigrafe «Franciscus posteritati salutem», che si alterna alla forma «Ad posteritatem»,
già svela un importante punto di partenza: la lettera è rivolta a un indeterminato pubblico
postero che avrà forse memoria del suo nome. Il titolo, ricavato dal saluto, pone in primo
piano gli orizzonti d‟attesa dell‟autore e potrebbe già svelare sia le cause
dell‟incompiutezza dell‟epistola, sia la scarsa diffusione.
Le due opere in cui Petrarca parla più intensamente di sé, il Secretum e la lettera ai
posteri, rimasero tra le carte del poeta e vennero lette solamente dopo la sua morte
all‟interno della cerchia degli amici, che decisero di non pubblicarle. I motivi della
mancata circolazione possono essere molteplici, e tra essi credo si possa rintracciare quel
senso di disturbo causato nel lettore medievale, non ancora pronto per scritti che
ponessero l‟io al centro del discorso letterario. La Posteritati e l‟intimo dialogo tra
Francesco e Agostino vennero accantonati, così come alcuni testimoni del Testamentum
furono distrutti dagli stessi frati francescani, e il Convivio venne abbandonato dall‟autore,
lasciato a se stesso, ed è giunto fino a noi in un corrotto e lacunoso stato codicologico.
Il parlare di sé nella Posteritati, come in Francesco d‟Assisi e Dante, viene
interrotto dal suo stesso essere un testo di matrice autobiografica. I tempi non sono
maturi per un pubblico non ancora pronto a leggere la vita di un uomo scritta da lui
stesso, a tal punto che il seme piantato dal Petrarca non ottiene frutti, ritornando l‟io in
106
S. RIZZO, Introduzione a PETRARCA, Res Seniles, cit., pp. 7-28, p. 9.
142
terza persona nell‟autorappresentazione dell‟Umanesimo. L‟unica possibilità di narrare la
propria esperienza di vita è di inserire come destinatario della lettera il lettore del futuro,
che saprà probabilmente comprendere e accettare la novità di una nuova forma letteraria.
143
5
Conclusioni
La crisi e la tensione religiosa dei primi anni del XIII secolo hanno provocato un
notevole mutamento nella cultura medievale, sia su un piano teologico, con
l‟introduzione tra le altre cose del locus purgatorius e del dogma della confessione, sia a
livello socio-culturale, con la progressiva secolarizzazione della società nelle continue
dispute tra Chiesa e Stato, muovendo dall‟umiliazione imperiale di Canossa allo schiaffo
di Anagni. Il centro dell‟indagine speculativa non è più solamente l‟astrazione biblica:
l‟uomo si interroga sulle ragioni della propria esistenza cercando di trovare la divinità in
se stesso e, attraverso la pratica confessionale, inizia un intimo colloquio con la propria
anima. La ricerca filosofica si muove ora sui binari, spesso tangenti e intersecanti, dello
studio di Dio e dell‟io.
In un arco temporale di circa un secolo e mezzo – tra il 1226, termine post quem
dato dal Testamentum, e il 1374, sicuro limite ante quem della Posteritati –, tre fra le più
importanti figure letterarie della penisola italiana, Francesco d‟Assisi, Dante e Petrarca,
sentono l‟esigenza di mettere per iscritto la loro biografia. Spinti da ragioni diverse,
oscillanti e compenetranti tra autoelogio e autogiustificazione, pongono la loro vita al
144
centro del testo letterario, ripercorrendo la propria esistenza terrena e ricordando le loro
azioni virtuose o viziose.
Il Testamentum di Francesco d‟Assisi è un testo essenzialmente edificante, diretto
principalmente all‟intero Ordine francescano. Ripercorrere la propria vita significa per il
santo testimoniare le azioni che lo hanno portato a essere l‟uomo che è divenuto e offrire,
a partire dalla conversione, un modello esistenziale per gli altri frati in seguito ai
problemi sorti all‟interno della comunità. Il testo è qui considerato come scritto
autobiografico poiché per Francesco l‟autorappresentazione indica l‟exemplum da
imitare.
Lo stimolo a parlare di sé presente nel Convivio, invece, nasce in Dante dalla
necessità di difendersi dalle calunnie che hanno portato al suo esilio. L‟opera ha un
carattere fortemente apologetico e mostra la conversione del poeta dall‟amore per
Beatrice alla devozione per la Donna gentile, Filosofia, presentando al pubblico italico
l‟ideale autoritratto, che consiste nella creazione di un‟imagine o forma idealizzata
dell‟autore. L‟Alighieri ha piena consapevolezza del valore autobiografico del trattato,
ma le restrizioni retoriche della Scolastica non gli permettono di trattare liberamente di
sé: l‟autorappresentazione, che avviene principalmente attraverso la comparazione con
alia e alias, è lasciata in sospeso per l‟incompiutezza del trattato.
Col declino delle limitazioni scolastiche nella seconda metà del Trecento, Petrarca,
muovendo dalle premesse dantesche, pone la propria vita come materia letteraria al
centro della Posteritati, anch‟essa incompiuta, seguendo il modello svetoniano. L‟autore
diviene il vir illustris che passa in rassegna gli eventi storici della sua esistenza, scandita
da precise coordinate spazio-temporali, senza trattare i particolari quotidiani, ritenuti
145
superflui. La lettera ai posteri mostra la metamorfosi dell‟io, sia fisica che intellettuale, e
può considerarsi come una vera e propria autobiografia, corrispondente all‟unione tra
autos, bios e graphē: essa è la biografia della propria vita scritta dall‟autore stesso.
L‟autorappresentazione tracciata nel Testamentum, nel Convivio e nella Posteritati
rientra a pieno titolo nel novero della letteratura autobiografica, in quanto preistoria di un
genere letterario che nascerà come tale alla fine del XVIII secolo. Alla retorica domanda
di Zumthor sull‟esistenza di questo tipo di scrittura nel Medioevo non rimane dunque che
dare una risposta affermativa: mentre Francesco offre un lavoro complessivamente
disorganico, Dante dichiara la volontà di comporre un‟opera centrata su se stesso e
Petrarca dimostra la consapevolezza della novità del testo centrato sulla biografia
dell‟autore in rapporto alla letteratura preesistente. Tuttavia, se da un lato vi è un forte
stimolo all‟atto autobiografico, dall‟altro c‟è il suo mancato sviluppo e approfondimento.
La problematicità della scrittura si evidenzia nella reticenza degli autori nel
descrivere l‟io più profondo e si riflette nella scarsa circolazione dei testi. Tratto comune
di queste opere sul parlare di sé è, infatti, l‟omissione delle cause che hanno portato alla
mutatio animi ritratta nel testo letterario. Non descrivendo le crisi e i cambiamenti
interni, e presentando la conversione come dato attuale che non richiede ulteriori
commenti, l‟anima dello scrittore non entra nell‟autorappresentazione, ma lascia spazio
ai gesti e alle azioni esteriori che fanno parte della Storia. Si rileva così una reticenza che
limita l‟io all‟aspetto superficiale e testimonia, credo, un senso di disagio nell‟offrire la
propria interiorità al lettore, in assenza di una mediazione stilistica e retorica che filtri la
rappresentazione dell‟io: l‟assenza di modelli di riferimento ha portato a diverse
146
soluzioni formali, che spaziano dall‟atto pseudo-testamentario alla trattatistica,
all‟epistola.
La complessità del parlare di sé si rispecchia poi nella tradizione manoscritta che,
per molteplici ragioni, testimonia una fortuna posticipata di circa un secolo rispetto
all‟epoca di stesura dell‟opera. Il Testamentum venne probabilmente licenziato
dall‟assisiate ma rifiutato da una parte della comunità francescana e, in alcuni casi,
addirittura bruciato. Tra la morte del santo (1226) e la bolla pontificia Quo elongati
(1230), il testo fu probabilmente trascritto in centinaia di copie e diffuso in tutte le chiese
e monasteri dell‟ordine, poiché era volere del santo che fosse letto assieme alla Regula.
La presenza di soli due testimoni del XIII secolo desta molte perplessità e non è
facilmente spiegabile. Diverso destino, ma comuni difficoltà di circolazione, hanno avuto
il Convivio e la Posteritati: entrambi i lavori vennero abbandonati in uno stato di
incompiutezza e non furono pubblicati dai loro autori. La corruzione testuale e
l‟impossibilità di ricostruirne l‟archetipo dimostrano una diffusione limitata dei testi, che
rimasero negli scrittoi dei poeti per essere letti solo dopo la loro morte dalle persone a
loro più vicine: due testimoni del XIV secolo per l‟opera dantesca e cinque codici
quattrocenteschi, i soli a tramandare l‟epistola, per la lettera ai posteri. Il Convivio e la
Posteritati tornano in auge solamente tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, in
seguito alla riscoperta dei loro autori. Come detto in apertura di questo studio, un simile
destino ebbero le opere sul parlare di sé di Boezio, Guibert de Nogent e Abelardo.
Tra le cause della mancata circolazione, credo fermamente esserci gli orizzonti
d‟attesa, sia degli scrittori, sia del pubblico medievale. All‟interno di una società in
trasformazione ma ancora profondamente religiosa, gli autori sembrano non essere a loro
147
agio nel porre in primo piano la propria vita: come dimostrato, l‟io che emerge dalla
pagina rappresenta l‟immagine pubblica, mentre l‟immagine privata è celata. Laddove si
schiude uno squarcio interiore, l‟apertura viene immediatamente chiusa o lasciata
interrotta. Anche il pubblico doveva provare una certa difficoltà a leggere questi lavori
autobiografici, se i testi vennero distrutti o, quando copiati, non diffusi.
Questo disagio palesa una sensazione di disturbo e di estraneità nel presentare la
propria vita o nel leggere quella altrui. La singola esistenza, familiare in quanto
esperienza comune a tutti gli uomini, è allo stesso tempo estranea, poiché il lettore è
ridotto a un ruolo di spettatore passivo, incapace di divenire protagonista del racconto: lo
scrittore contemporaneo non è l‟auctoritas degna di imitazione, ma un uomo non ancora
entrato nel mito letterario. L‟autore medievale, dunque, non era ancora preparato a
presentare se stesso alla società, né il pubblico era predisposto a un moderno atto di
voyeurismo.
Il generale silenzio autobiografico dell‟Umanesimo, che chiude all‟io per
recuperare i modelli classici in terza persona, è interrotto agli inizi del Cinquecento in
seguito agli sconvolgimenti religiosi che richiedono la ricerca di un nuovo equilibrio
interiore, riprendendo e rielaborando un percorso lasciato interrotto dopo Petrarca. Se
l‟autobiografia moderna, secondo Gusdorf, nasce nel XVI secolo dalla necessità di
ritrovare la perduta stabilità, l‟esigenza di un ripiegamento e di una riflessione sull‟uomo
che dà origine all‟impulso autobiografico era già presente nell‟autunno del Medio Evo.
Lo studio qui proposto, concentratosi su tre opere, trova il suo naturale
proseguimento nell‟indagine della restante produzione, sia in prosa che in poesia, degli
148
autori qui esaminati, che può essere foriera di interessanti sviluppi: basti pensare, ad
esempio, al poliedrico io della Comedia.
149
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CURRICULUM VITAE
ROBERTO PESCE
EDUCATION
2011
Ph.D. Italian Literature
Rutgers University
2008
Ph.D. Dottorato di ricerca in Filologia classico-medievale
Università Ca‟ Foscari Venezia
2002
Laurea Laurea Summa cum laude in Lettere
Università Ca‟ Foscari Venezia
PROFESSIONAL EXPERIENCE
2010-present
Tulane University, Visiting Assistant Professor
Elementary Italian I
Elementary Italian II
Elementary Italian for Romance Language Students I
Elementary Italian for Romance Language Students II
Introduction to Italian Literature
Boccaccio‟s Decameron
2005-2010
Rutgers University, Instructor
Elementary Italian I
Elementary Italian II
Elementary Italian Lab I
Intermediate Italian I
Intermediate Italian II
Italian Composition and Stylistics
Advanced Conversation and Civilization I
Advanced Conversation and Civilization II
Italian Renaissance Literature
2007 Summer Rutgers University, Study Abroad Program (Urbino, Italy), Lecturer
Advanced Conversation and Civilization I
Advanced Conversation and Civilization II
PUBLICATIONS
Books:
Cronica di Venexia detta di Enrico Dandolo: origini-1362. Venezia:
Centro di studi medievali e rinascimentali «E.A. Cicogna», 2010
Reference Articles:
“Bernardino Arluno,” “Filippo Barbieri,” “Giovanni di Candida,” and
“Chronicon Gradense,” in The Encyclopedia of the Medieval Chronicle,
edited by R.G. Dunphy. Leiden: Brill, 2010