Esperienze di morte e trasformazione di Carl Gustav Jung

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Esperienze di morte e trasformazione di Carl Gustav Jung
Esperienze di morte e trasformazione di Carl Gustav Jung
Fabio Efficace
Psicologo-Associazione Medica Italiana per lo Studio dell’ipnosi
“INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria”, n°38-39,
settembre dicembre 1999 gennaio – aprile 2000, pagg. 64-69,
Roma
La morte è un grande
mistero, di cui comunque
sappiamo due cose: è
assolutamente certo che
moriremo, e: è incerto il
momento e il modo in cui
moriremo. L’unica
garanzia che abbiamo è
quindi l’incertezza dell’ora
della nostra morte, che
prendiamo a scusa per
rimandare il momento di
guadarla in faccia. Siamo
come bambini che si
coprono gli occhi con la
mano giocando a
nascondino, pensando che
così gli altri non possano
più vederli. (Sogyal
Rinpoche)
"Morte": una parola che suscita sentimenti
d’ansia, una parola che evoca fantasmi
antichi e che l’uomo moderno sembra aver
sepolto sotto le macerie della propria
frenetica esistenza. Viviamo infatti in una
società in cui la morte è considerata un tabù
e in cui il solo parlarne è considerato
morboso; come scrive Elisabeth Kubler-Ross,
"più avanziamo nella scienza, più sembriamo
temere e rifiutare la realtà della morte" (1977,
p. 16). Va comunque sottolineato che, più
che dalla morte in quanto tale - intesa come
limite della propria esistenza - quello da cui
l’uomo tenta disperatamente di fuggire è "il
riconoscimento e il confronto della sua stessa
caducità" (Carotenuto, 1997, p. 9). In
un’ottica più ampia, quindi, la negazione
della morte rientra nella ben più vasta
negazione della dimensione della sofferenza e
dell’estrema caducità della vita umana. E’
sorprendente, infatti, constatare come tutta
la cultura occidentale, di fronte alla morte,
abbia avuto - e tuttora abbia - la tendenza a
sfuggirla e quasi a nascondersi e a cercare
rifugio in un linguaggio eufemistico, che
mascheri il più possibile una realtà così
orribile e soprattutto inaccettabile.
A tal proposito, come scrive Giampiero
Morelli discutendo dell’immagine della morte
e del morire nella nostra società, sembra
proprio che il moderno atteggiamento di
rimozione e fuga dalla morte, dai morenti e
dalle manifestazioni del lutto sia una
"modalità peculiare delle società più
sviluppate ed avanzate" (Morelli, 1999, p. 37).
In questa società, in cui "morire è
vergognoso" (Zoja, 1980, p. 12) e in cui
l’unico imperativo sembra essere quello della
produzione ad ogni costo, l’uomo ha dovuto
sviluppare in breve tempo - quasi fosse una
funzione adattiva - le sue contromisure a
livello psicologico, e sembra che tra queste, la
rimozione dell’idea della morte sia la più
riuscita.
Nel campo della psicologia, l’importanza
dell’elaborazione del concetto di morte risiede
soprattutto nelle sue implicazioni con la più
ampia categoria delle trasformazioni
psichiche. A tal proposito James Hillman
diceva, infatti, che "è illusorio sperare che la
crescita non sia altro che un processo
aggiuntivo che non richiede né sacrificio né
morte. L’anima predilige l’esperienza della
morte per introdurre la trasformazione"
(Hillman, 1964, p. 52)
Laddove, infatti, il medico si oppone
ostinatamente alla morte quale estrema
patologia che deve essere rinviata
costantemente, l’analista, nel suo percorso
terapeutico, deve invece essere in grado di
elaborarla e attraversarla, sino a vedere
l’uscita del tunnel.
L’importanza dell’elaborazione del concetto di
morte nel processo terapeutico è stata posta
in evidenza soprattutto dalla "psicologia
esistenziale", che spesso ha sottolineato
quanto il nostro atteggiamento filosofico nei
confronti del tema della morte influenzi, in
modo più o meno consapevole, la nostra
disposizione nei confronti della vita. A tal
proposito, Herman Feifel affermava che "la
vita non è capita veramente e vissuta
pienamente se l’idea della morte non è
affrontata con onestà" e che "un passo avanti
necessario per la psicologia è riconoscere che
il concetto di morte rappresenta un fatto di
sostanziale importanza da un punto di vista
psicologico" (Feifel, 1969, p.61).
Sembra, comunque, che la consapevolezza,
ma soprattutto l’elaborazione della propria
morte, sia un privilegio di pochi eletti, poiché
soltanto quando ci si confronta con le
dimensioni della vera sofferenza, solo quando
si è messi di fronte a situazioni particolari specialmente eventi traumatici - si ha la
possibilità di sperimentare veramente sulla
propria pelle il senso di caducità della vita
umana (almeno quella che nel nostro stato di
coscienza ordinario riusciamo a concepire
come "vita").
Il tema della morte in psicologia è stato – e lo
è tuttora – un tema alquanto trascurato; tale
aspetto è tanto più evidente nell’ambito della
psicologia clinica, la quale raramente ha
rivolto il suo interesse alla tematica della
morte e dei relativi vissuti nella personalità
dei pazienti.[…]
Dall’analisi della letteratura in merito emerge
come l’autore che maggiormente sembra aver
accolto la sfida che il concetto di morte lancia
all’esperienza psichica dell’individuo sia stato
Carl Gustav Jung, che già negli anni
dell’università affermava: "Quando l’uomo
comune immagina che nulla di metafisico
mai accada nella sua vita, egli dimentica un
evento metafisico: la sua morte" (cit. in
Ellenberger, 1970, p. 796). E’ importante
comunque puntualizzare che Jung ha
principalmente affrontato il tema della morte
soprattutto nei suoi ultimi lavori, ribadendo
in particolare l’importanza di "interiorizzare
la realtà della morte" al fine di permettere "il
passaggio da una vita biografica e
incomprensibile a una esistenza dal
significato cosmico (...)" (Carotenuto, op. cit.,
p. 71).
Dopo una grave malattia che lo aveva portato
- a settant’anni - sull’orlo della morte, Jung
scriveva: "L’unica difficoltà sta nel liberarsi
dal corpo, nello spogliarsi e svuotarsi del
mondo e della volontà dell’Io. Quando si
riesce a rinunciare alla forsennata volontà di
vivere e succede di cadere come in una
nebbia senza fondo, allora inizia la vera vita
con tutto quello a cui si era destinati e che
non si era mai raggiunto. È un esperienza di
ineffabile grandezza" (cit. in Jaffé, 1980, p
25).
Emerge con chiarezza dagli scritti di Jung,
che l’uomo è in grado di aprirsi alla vita, e
quindi di goderla veramente, solo quando
diviene capace di accogliere dentro di sé la
morte. Anche la psicologia esistenziale ci
dice, infatti, che "la vita non ci appartiene
veramente finché non possiamo rinunciare
ad essa" (Feifel, op. cit., p. 61).
Jung ha avuto il coraggio di porsi in un’ottica
dialettica nei confronti del tema della morte;
"egli individuò il senso della vita nel continuo
ampliamento della coscienza, con tutte le
conseguenze spirituali, religiose ed etiche che
esso comporta" (cit. in Jaffe, op. cit., p. 28).
Come scrive Aldo Carotenuto, "la sua visione
del mondo, della vita e della morte, lo
condusse a ritenere che nella vita sulla terra
ognuno avesse il compito di ampliare la
consapevolezza di sé e del mondo, e che, una
volta raggiunta una certa comprensione del
segreto dell’esistenza e della natura, il
compito fosse terminato" (op. cit., p. 77). E’
interessante notare questo concetto espresso
nelle parole dello stesso Jung: "Viviamo per
raggiungere il maggiore sviluppo spirituale
possibile e per ampliare quanto più possiamo
la nostra coscienza. Finché la vita è possibile,
sia pur solo in misura minima (o finché essa
lascia intravedere un senso, sia pur minimo),
bisognerebbe tenere stretta la vita, e
sfruttarla fino in fondo per raggiungere
l’obiettivo della presa di coscienza" (cit. in
Jaffé, op. cit., p. 31).
Riallacciandoci, ora, all’esperienza alle soglie
della morte di Jung precedentemente
accennata, e descritta minuziosamente nella
sua biografia, possiamo dire che questa può
essere definita senza dubbio come una
"esperienza di pre-morte" (tema che verrà
trattato più avanti). Nel 1944, infatti, in
seguito ad un infarto si trovò al confine tra la
vita e la morte, in quell’oscura regione
dell’esperienza psichica che Liliane FreyRohn chiama "la notte dell’incoscienza"
(1980, p. 82), in cui sperimentò e - in seguito
raccontò - visioni di rara bellezza.[…]