Tammurriata amara

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Tammurriata amara
Tammurriata amara
Sabato 25 Maggio 2013 00:00
Nella prima domenica di maggio si celebra, a Portici, la festa del patrono, San Ciro. L’ evento
richiama sempre migliaia di fedeli che arrivano anche dai comuni limitrofi 1). Purtroppo
quest’anno, durante la solennità, è avvenuto un grave incidente. Mentre la processione
percorreva il Corso principale ed era quasi tornata nei pressi della Basilica, una lastra in pietra
lavica si è staccata con un forte tonfo da un balcone, causando la morte di quattro persone e
una quindicina di feriti. Un episodio analogo, che però non provocò morti, ma feriti, avvenne a
Catania il 4 febbraio 2009, durante la festa patronale di Sant'Agata.In quell’occasione, dal
balcone vennero giù dei calcinacci, per un cedimento provocato dall'eccessivo peso delle
persone che, affacciate, stavano seguendo la cerimonia.Guardando in Tv le immagini del
balcone che fa parte di un edificio del’700, la mia mente opera un flashback su un palazzo della
stessa epoca, ubicato a pochi metri dal luogo del disastro, dove un tempo c’era una scuola
elementare che frequentai da bambino, negli anni quaranta, in uno dei periodi più brutti della
mia esistenza, per via della guerra.
Ho dei ricordi tremendi di quell’epoca, per la fame che pativamo e lo stress che ci procuravano
le sirene notturne che ci buttavano giù dal letto e ci costringevano a rifugiarci in tutta fretta nei
ricoveri antiaerei, col dilemma poco interessante, se saremmo stati uccisi dalle bombe tedesche
o da quelle americane. La nostra vita non era però tranquilla neanche di giorno, perchè le
truppe naziste in fuga verso il nord attraverso la via chiamata: “Miglio d’oro”, operavano
rastrellamenti per deportare prigionieri in Germania. In questi momenti pericolosi, nel vicolo
dove abitavo, con noi a spiare tra le persiane chiuse, un giorno due tedeschi col mitra in mano,
si aggiravano a pochi metri da noi per tentare di stanare i giovani dai loro nascondigli. Non ebbi
pace neanche nel periodo successivo alla ritirata dell’esercito nazista, quando una divisione
alleata era accampata nella villa comunale di Portici. Durante il tragitto da casa a scuola
m’imbattevo spesso in scene raccapriccianti, dure da rimuovere nel tempo: soldati americani di
colore assassinati, per terra o a testa in giù nei bidoni dell’immondizia o un ragazzo schiacciato
sul muro da un carro armato sono immagini tremende che non si allontanano dalla mia mente
dopo tanti anni. Quest’ultimo episodio suscitò in mia madre tanta preoccupazione che, tutte le
mattine, prima di uscire da casa per recarmi a scuola, mi raccomandava di strisciare con la
schiena sul muro al passaggio dei cingolati, dicendomi che al ritorno avrebbe verificato sui miei
vestiti se avessi ottemperato o no a tale sua richiesta. Un giorno, sulla via del ritorno a casa,
passando per Piazza S.Ciro, quando allora stazionavano i tram e non esisteva Via Libertà,
trovai per terra vaste macchie di sangue. Due giovani porticesi, come in una scena di un film
western, erano stati uccisi poco prima da un uomo accecato dalla gelosia per una donna.
In questo clima di guerra, di vendette, di incertezze, di mercato nero e di malcostume,
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frequentai la scuola elementare privata gestita dell’anziana zitella Romita e dal “fascistone”
fratello Federico. I due “insegnanti”, ma si dovrebbe dire carnefici, sottoponevano gli scolari ad
una dura disciplina, senza disdegnare l’uso di punizioni corporali come tremende bacchettate
sulle mani La donna era bassa di statura, con due gambe fortemente arcuate, i capelli raccolti
in un grande “tuppo” di cui andava molta fiera: quei capelli, quando erano sciolti, arrivavano fino
alle scarpe, come si vedeva in una sua foto in mostra nella bacheca dell’atrio. Per tale motivo,
era soprannominata dagli scolari “la tuppessa”, termine che, se ben ricordo, era stato coniato
da me o da mia madre. La scuola si trovava in un appartamento di due ampie stanze più i
servizi igienici: la prima era occupata dai bambini che frequentavano la prima e la seconda
classe, mentre nell’altra stanza, comunicante e divisa da una porta, c’erano gli scolari che
frequentavano la terza, la quarta e la quinta classe.Dopo la perdita improvvisa del fratello, la
Romito per alleggerire il suo ruolo di direttrice e maestra, assunse due brave insegnanti, Norina
e Margherita. Ogni sabato apriva la porta comunicante e, disponendosi sull’uscio dei due locali,
minacciando “mazzate”,
pretendeva da
tutti il massimo silenzio al fine di leggere alcune pagine strappalacrime del
libro "Cuore"di De Amicis, non prima di averci invitato a ricordare il fratello morto e a pregare
per lui: il risultato era un pianto generale. Tra l’altro, non dimentico ch
e nelle due aule, eravamo ammucchiati, seduti in quattro, non tutti della stessa età, davanti a
logori e traballanti banchi con i calamai estraibili dalle cavità. Ricordo che un giorno una
bambina di nove anni si alzò in piedi e sollecitò l’attenzione della maestra Norina sulla propria
compagna, esclamando: Signurì, Russo ha vomitato! Tutti a ridere, anche perché l’accusante
ed io avevamo spruzzi di vomito sui vestiti: allora, purtroppo, nessuno poteva permettersi il
lusso di indossare un grembiule. Bisogna dire, però, che questi disagi erano poca cosa rispetto
a quelli subiti dai bambini di altre parti della città. A Poggiomarino, per esempio, come seppi in
seguito, i bambini, nello stesso periodo, erano rimasti senza la scuola, perchè distrutta dai
bombardamenti tedeschi ed erano costretti a recarsi negli uffici del Comune portandosi ognuno
di loro la sediolina dalla propria casa, sulla quale inginocchiati, appoggiavano i quaderni per
scrivere.
Via i germanici dal sud, giunsero le truppe alleate, composte di soldati americani, inglesi,
francesi e marocchini, che trovarono una popolazione stremata dalla paura e dalla
fame.L’immagine più significativa di quel momento è quella delle lunghe code fuori le
panetterie, per ritirare con la tessera un pessimo pane. La pacifica invasione degli alleati fu
accolta trionfalmente dappertutto, perché costoro portarono un po’ di benessere: via la pessima
farina di piselli dalle tavole ed ecco buone scatolette di carne, biscotti e grandi pezzi di pane a
forma di parallelepipedo, che più bianco non si può. Ma ci fu anche un costo da pagare. Al di là
degli stupri dei Goumiers 2) (Moravia, su uno di questi episodi, ha composto un gran romanzo:
La Ciociara),
molte ragazze, in cambio di pochi soldi, si
prostituivano, mentre molte altre si fidanzavano o si sposavano con i soldati americani con la
promessa di una vita migliore negli Stati Uniti. A guerra finita, gli americani non sempre
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rispettarono le promesse fatte alle giovani donne e ritornarono al loro paese lasciandole tristi
come un albero senza foglie e con le panze “annanze” come scandiscono i versi della celebre
canzone: ”Tammurriata nera”, scritta nel 1947 da Eduardo Nicolardi. Questa composizione, su
musica di E.A.Mario, racconta lo stupore della gente per un fatto di cronaca insolito: la nascita,
da una donna napoletana in un ospedale della città, di un bambino nero cui è dato il nome di
Ciro. In realtà questo caso non fu certo unico: vi furono molte ragazze che partorirono bambini
frutto di relazioni con soldati afro americani. Un momento significativo della canzone di Nicolardi
è quello in cui un ortolano sostiene che: “Addò pastina ‘o ggrano ‘, ’o ggrano cresce.Riesce o
nun riesce, sempe è ggrano chello ch’esce!”Il valore dell’uomo non dipende dal colore della
pelle! La saggezza napoletana rifugge da ogni razzismo. Nella nuova versione del 1974, con gli
arrangiamenti di Roberto De Simone, “Tammurriata nera” è cantata dalla Nuova Compagnia di
Canto Popolare. Il musicista napoletano, tra le altre variazioni rispetto al testo di Nicolardi, ha
inserito questa misteriosa strofetta: E levate 'a
pistuldà uè / e levate 'a pistuldà, / e pisti pakin mama / e levate 'a pistuldà.
Si tratta della napoletanizzazione del ritornello della canzone: “
Pistol Packin’Mama”
del 1942, cantata da Bing Crosby e Andrews Sisters, portata in Italia dalle truppe di
occupazione alleata. Le parole,
Lay that pistol down, / babe, Lay that pistol down / Pistol packin’mama, / Lay that pistol down
, tradotte in italiano, significano: "Metti giu' quella pistola, rimettila a posto". De Simone allude ai
tenutari dei bordelli napoletani dell’epoca che, per chiedere ai militari di lasciare fuori della
stanza l’arma personale prima di accoppiarsi con una prostituta, utilizzavano proprio il ritornello
di quella canzone assai in voga tra le truppe americane, storpiandone, ovviamente, le parole
con la buffa pronuncia napoletana.
Milano 25 maggio 2013 Antonio
Fomez
1) A.F. La festa di S.Ciro,Artecultura n° 7/2011
2) I goumiers sono soldati marocchini,arruolati e addestrati sulle montagne dell’Atlante in
Marocco, che prestarono servizio nelle unità ausiliarie allegata all’esercito francese. I goumiers
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dettero inizio ad un saccheggio senza precedenti: i goumiers devastano, rubano, uccidono,
violentano. Donne, bambini, ma anche uomini, sono il loro "bottino di guerra" Lo scrittore
marocchino Tahar Ben Jelloun li descrive così: "Era soprattutto gente che viveva sulle
montagne, i francesi li rastrellarono, li caricarono sui camion con un’azione violenta, di
sopraffazione e li portarono a migliaia di chilometri da casa a compiere altre violenze. Le loro
azioni brutali vanno inquadrate in questo contesto”.
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