cronicità: lessico e paradigma - Azienda per i Servizi Sanitari n. 6
Transcript
cronicità: lessico e paradigma - Azienda per i Servizi Sanitari n. 6
i quaderni di Cronicità: lessico e paradigma Come preservare la vita sociale nella cronicità ZADIG editore Copia non destinata alla vendita In copertina La signora Cézanne nella poltrona gialla Paul Cézanne, 1890 CRONICITÀ: LESSICO E PARADIGMA Cronicità: lessico e paradigma La questione della cronicità non è più eludibile per tutti coloro che si occupano di organizzazione dei servizi sociosanitari, delle diverse caratteristiche che devono avere, dello sguardo nuovo che li deve attraversare. Non più la frammentazione degli interventi, ma un’ottica complessiva che permetta di dare risposte innervate di contenuti umani, oltre che professionali, in una visione che tenga conto della complessità della persona, della sua totalità, dei suoi diritti. I contributi al convegno del 2008 e il dibattito che li ha accompagnati, che trovate in questo volume, dimostrano la necessità di confrontarsi su queste tematiche con approcci nuovi, sia dal punto di vista dei professionisti, sia da quello delle organizzazioni. Come preservare la vita sociale nella cronicità I quaderni di Janus © Zadig editore Via Ravenna 34, 00161 Roma tel. 06 8175 644 e-mail: [email protected] www.mhjanus.it supervisione testi e coordinamento editoriale: Paolo Gangemi progetto grafico e impaginazione: Corinna Guercini CRONICITÀ: LESSICO E PARADIGMA Come preservare la vita sociale nella cronicità 25-26 gennaio 2008 Ente Fiera di Pordenone – Sala Zuliani i n d i c e Presentazione Nicola Delli Quadri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche Rafael Bengoa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Epidemiologia della cronicità Stefania Maggi, Federica Limongi, Paola Siviero, Marianna Noale, Gaetano Crepaldi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Come preservare la vita sociale nella cronicità Ovidio Brignoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo Alberto Cester . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? Federico Spandonaro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? Sandro Spinsanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 L’approccio olistico al malato terminale Cosimo De Chirico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75 Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità: quale alleanza tra associazioni e istituzioni Vladimir Kosic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 “Friuli occidentale” Guido Lucchini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche Lucio Bomben . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 Presentazione di Nicola Delli Quadri L a questione della cronicità non è più eludibile per tutti quelli che si occupano di organizzazione dei servizi sociosanitari, delle caratteristiche diverse che devono avere, dello sguardo nuovo che le deve attraversare: non più la frammentazione degli interventi, ma un’ottica complessiva che permetta di dare risposte innervate di contenuti umani, oltre che professionali, in una visione che tenga conto della complessità della persona, della sua totalità, dei suoi diritti. Per questi motivi l’Ass 6 “Friuli Occidentale” ha organizzato il convegno di cui pubblica gli atti. È un’ulteriore occasione di riflessione e di approfondimento delle tematiche che sono state affrontate. Le relazioni e il dibattito che le ha accompagnate hanno dimostrato la necessità di confrontarsi su queste tematiche con approcci nuovi, sia dal punto di vista dei professionisti, sia delle organizzazioni. A tutti va il mio sincero ringraziamento per il grande aiuto che ci siamo dati nell’affrontare una delle questioni più gravi e complesse che caratterizzano le nostra comunità. Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche di Rafael Bengoa A fronte degli avvenuti cambiamenti sia a carico dei pazienti sia dei fattori di prevalenza epidemiologica, il sistema sanitario non sembra essere in grado di adeguarsi, in quanto non sa stare al passo con le priorità e le necessità odierne. Pertanto, senza un’attiva politica di riforma del sistema sanitario, lo sfasamento tra le azioni intraprese e le necessità andrà ad accrescersi. Il settore della salute è un settore altamente complesso, e difficilmente potrà evolversi e riformarsi se gli incentivi esistenti tendono a mantenere un determinato status quo, che favorisce alcuni attori del sistema ma non i pazienti, specialmente i pazienti affetti da malattie croniche. Per far fronte alla sfida posta dalle malattie croniche è dunque necessario intervenire globalmente nella cura della malattia, a partire dalla promozione della salute fino alla riorganizzazione dei servizi sanitari, in modo tale da attuare una medicina più proattiva e preventiva. Questo contributo si propone dunque di porre in luce i necessari cambiamenti che devono essere intrapresi nella gestione e nella riorganizzazione dei servizi sanitari. È una sfida certamente impegnativa, ma le prospettive di successo sono buone, se davvero verranno effettuati i dovuti cambiamenti a carico del settore sociosanitario. Attualmente esiste un vasta gamma di modelli, di nuovi obiettivi ed esperienze nazionali e internazionali nella gestione delle malattie croniche e nella qualità dei servizi al malato, a cui attingere per far fronte a questi auspicati cambiamenti. I pazienti stanno cambiando Oggigiorno, i pazienti si sono evoluti e continuano a evolversi, per una serie di motivi: in generale si tratta di pazienti cronici, affetti da due o tre malattie croniche 10 Cronicità: lessico e paradigma sono più attivi e chiedono di poter prendere parte alle decisioni riguardanti il proprio trattamento pretendono l’accesso alla propria cartella elettronica ascoltano e accettano il responso del medico ponendo molte domande e hanno un buon grado di conoscenza della propria malattia utilizzano attivamente Internet e i consulti telefonici per integrare i consulti forniti dall’equipe clinica si aspettano una assistenza continua da parte di tutto il sistema sociosanitario. I fattori di prevalenza epidemiologica stanno cambiando I fattori di prevalenza epidemiologica sono cambiati, con la conseguenza che attualmente il 70% delle spese sanitarie sono da mettere in relazione alla cura delle malattie croniche. Numerose malattie, come il diabete, l’artrite, le malattie respiratorie, l’obesità e alcune patologie legate alla salute mentale hanno conosciuto un aumento significativo; a titolo di esempio si può fare riferimento all’incidenza del diabete in Spagna, passata da un tasso del 4% dieci anni fa a un tasso attuale del 6%. Nella fascia d’età superiore ai 75 anni, questa incidenza è aumentata dal 7% al 19%. Patologie infettive come l’Aids e l’epatite, oggi considerate malattie croniche, sono anch’esse in notevole aumento. Solo le malattie cardiovascolari sono in diminuzione, nei Paesi a maggior tasso di sviluppo; queste malattie per definizione non possono essere soggette a cura, ma sono disponibili in numero crescente interventi e azioni che ne consentono il controllo preventivo e la gestione. Di fatto, le innovazioni maggiormente significative sono in questo caso avvenute a carico del sistema organizzativo. Il sistema sanitario non sta cambiando I cambiamenti avvenuti nei pazienti, come anche nei fattori di prevalenza epidemiologica, non sono accompagnati da un corrispondente adeguamento del sistema sanitario. Al contrario, la risposta del sistema è la stessa di trenta anni fa. La sfida che il sistema sanitario si trova ad affrontare in questo secolo è dunque quella di sapersi adattare a queste tipologie evolute di pazienti e di epidemiologie. Non si tratta di una problematica ristretta al Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche 11 caso spagnolo: è un problema globale; la differenza tra altri Paesi e la Spagna risiede nel fatto che quest’ultima ha a disposizione numerose risorse per far fronte al necessario mutamento e deve di conseguenza trarre profitto da queste risorse. Il mancato adattamento del sistema sanitario odierno in relazione alle problematiche emergenti è evidente a seguito dell’esame di numerosi indicatori. A titolo di esempio, le figure successive illustrano come generalmente i medici di base non siano in grado di fornire sufficienti informazioni riguardo ai pazienti cronici. Capacità di fornire informazioni riguardo ai pazienti cronici. 2006 100 92 81 88 80 72 75 63 55 74 68 59 50 3737 25 0 26 25 CAN US GER NET NZ AUS UK Nero: percentuale di equipe di AP che sanno fornire liste di pazienti per diagnosi Grigio: percentuale di equipe di AP che sanno fornire liste di medicine prese dai pazienti Fonte: 2006 Commonwealth Fund International Health Policy Survey of Primary Care Physicians Inoltre, è stato verificato come la maggior parte dei Paesi non abbiano ancora implementato un buon servizio di infermeria per la gestione dei casi, attività fondamentale per il controllo e la cura dei malati cronici. 12 Cronicità: lessico e paradigma Equipe che dispongono di infermieri per la gestione dei casi. 2005 75 52 50 47 41 36 25 16 19 0 AUS CAN NZ US GER UK Fonte: 2005 Commonwealth Fund International Health Policy Survey of Sicker Adults La stessa inchiesta, rivolta a medici di base, mette in luce come fino al 30% dei medici non sia preparato per fornire assistenza ai pazienti che presentano più di una patologia cronica. Si tratta di un dato di fondamentale importanza, poiché un quarto delle popolazione che si reca dal medico di base presenta da 2 a 3 malattie di tipo cronico. Le conseguenze di questo stato di fatto sono indubbiamente molto gravi per il paziente cronico che viene assistito da un sistema sanitario non preparato a fornire le adeguare prestazioni, non in grado di fornire le informazioni necessarie e che non dispone di capacità specifiche. Un paziente diabetico potrebbe per esempio morire 5-10 anni in anticipo a causa di malattie cardiovascolari, con un tasso di incidenza del 50%, mentre il 10-20% può morire per insufficienza renale. Da sottolineare inoltre come la retinopatia diabetica sia la principale causa di cecità dei Paesi a maggior tasso di sviluppo. La tabella 1 alla pagina seguente illustra la mortalità prevedibile se il sistema di assistenza rivolto ai pazienti affetti da patologie croniche fosse organizzato in maniera differente. Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche 13 Mortalità prevedibile Condizione Attenzione insufficiente Prevedibile Diabete Glucosio nel sangue non misurato nel 24% dei casi 2.600 cechi; 29.000 problemi renali Ipertensione Meno del 65 % riceve un trattamento adeguato 68.000 morti Post-infarto Tra il 39 e il 55% non riceve assistenza medica adeguata 37.000 morti Polmonite Il 36% con età superiore a 65 anni non era vaccinato 10.000 morti Tumore colorettale Il 62% non ha seguito uno screening quando indicato 9.600 morti Questo quadro indica il potenziale preventivo di perdita per un sistema che perde il controllo dei suoi pazienti. Per esempio, il 45% degli ipertesi non riceve un trattamento adeguato alle proprie necessità, il che implica, secondo questo studio inglese, la morte di 68.000 persone. I pazienti dal canto loro sono consapevoli di queste problematiche. Secondo uno studio recente di Cathy Schoen, è stato constatato che i pazienti affetti da malattie croniche si lamentano dell’inadeguatezza con cui vengono fornite risposte alle proprie esigenze, oltre che della passività del sistema sanitario per quanto riguarda i temi legati alla prevenzione. Questi dati confermano come l’attuale modello assistenziale sia in grado di trattare efficacemente gli episodi acuti dovuti alle malattie; per esempio se un paziente presenta un crisi ipertensiva o un’epatite acuta il sistema sanitario spagnolo dispone di adeguate capacità per trattare efficacemente questi casi. Ciò che invece non viene fatto con un grado sufficiente di qualità è gestire la cronicità, cioè gestire condizioni che necessitano di cure prolungate, oltre che implementare una medicina proattiva e preventiva. Di fatto, il sistema sanitario non è stato concepito per questo, ma per 14 Cronicità: lessico e paradigma trattare gli episodi acuti. E dunque, il modello assistenziale odierno non sarà in grado di affrontare questo problema se non attraverso cambiamenti abbastanza profondi. Riassumendo, risulta evidente come da un lato ci si trovi a dover fronteggiare un’epidemia di patologie croniche, dall’altro i sistemi sanitari della maggior parte dei Paesi non sono preparati per fornire cure adeguate ai malati cronici, il che porta a risultati negativi in termini di salute. Inoltre, la frammentazione dei servizi è incompatibile con un buon livello di attenzione ai pazienti cronici, i quali esigono invece modalità di cura e assistenza diverse. Prospettive verso nuovi modelli di organizzazione dei servizi sanitari Fattori storici, economici, tecnologici e culturali tendono a incentivare un sistema incentrato sulla gestione degli episodi acuti. Non c’è dubbio, d’altra parte, che i professionisti del settore, di concerto con i responsabili politici in tema di salute, siano consapevoli della necessità di un cambiamento, poiché nei paesi dell’Ocse il 90% degli incontri tra pazienti e professionisti della salute riguardano patologie croniche. In generale, si tratta di attuare una riforma del modello di sistema sanitario che preveda una maggiore continuità tra le diverse strutture che prestano i servizi, in cui siano implementati sistemi informativi in grado di garantire la connessione tra questi servizi; questa riforma deve inoltre consentire una maggiore partecipazione del paziente nel controllo della propria malattia, con un significativo cambiamento nell’educazione stessa del paziente, anche tramite l’appoggio a strutture domiciliari organizzate e a nuove professionalità assistenziali. I due modelli più accreditati a livello internazionale negli ultimi anni sono il modello detto della “piramide di rischio” (stratificazione del rischio), sviluppato negli Stati Uniti dalla Kaiser Permanente e il “Chronic Care Model” sviluppato dal Mc Coll Institute di Seattle (Stati Uniti). Il modello della piramide di rischio Questo modello identifica tre distinti livelli di intervento, a seconda del livello di complessità del paziente. Suddividendo i pazienti a seconda del rischio, è possibile dunque destinare in maniera più efficace i programmi di intervento a ciascun gruppo. Le risorse umane possono Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche 15 essere dunque concentrate nel prestare cure ai gruppi più complessi, evitando così ricoveri ospedalieri costosi e inutili (figura 1). Figura 1. Modello della piramide di rischio (Kaiser permanente) Livello3 Gestione dei casi più complessi; con molta co-morbilità e grande impiego di risorse Gestione dei casi Gestione delle patologie Livello 2 Gestione di patologie; morbilità intermedia e grande impiego di risorse Appoggio all’auto gestione del proprio paziente Livello 1 Pazienti malati cronici con buon autocontrollo della malattia Il “Chronic Care Model” Questo modello individua una struttura organizzativa finalizzata al coordinamento delle cure destinate ai malati cronici nel settore delle cure primarie. Si basa su una logica di “popolazione”, prevedendo una serie di interventi che consentono di ottenere migliori risultati dal punto di vista clinico e anche funzionale. Questi interventi consistono in: miglioramento della mobilità di risorse della comunità: per esempio stimolando i pazienti affetti da malattie croniche a partecipare a specifici programmi all’interno della comunità civile sviluppo di programmi di autoassistenza e di educazione rivolti ai pazienti, per renderli preparati a gestire la propria malattia ridisegno del sistema di prestazioni, per assicurare la continuità dell’assistenza, l’integrazione tra assistenza primaria e assistenza specializzata, cure pianificate attraverso un sistema organizzato di assistenza accertamento della disponibilità dei necessari sistemi di appoggio alle decisioni per i professionisti (protocolli, risultati ed evidenze aggiornati) 16 Cronicità: lessico e paradigma sviluppo di sistemi informativi che siano in grado di fornire ai professionisti un registro dei malati affetti da patologie croniche, in modo tale da poter monitorare e identificare i gruppi all’interno della popolazione che devono essere sottoposti a particolari programmi, oltre che per destinare loro risorse preventive promozione dell’utilizzo del modello da parte dell’intero sistema sanitario, attraverso lo sviluppo di incentivi per la sua messa in pratica (figura 2). L’Organizzazione mondiale della sanità ha adattato questo modello, dando ancora più risalto al concetto di “comunitario”1. Figura 2. Il Chronic Care Model È dimostrato come molte equipe di assistenza sia primaria sia specializzata, in Spagna, abbiano già attivato interventi di questo tipo. Senza dubbio, il fulcro dei modelli fin qui illustrati è quello della necessità di intervenire in maniera organizzata e simultanea nei confronti delle diverse problematiche. 1. http://www.who.int/chronic_conditions/en/ Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche 17 Il secondo concetto fondamentale intrinseco a questi modelli è che sviluppano un “sistema” locale, rompendo così la frammentazione esistente tra le diverse strutture, fenomeno comune ai servizi sanitari di molti Paesi. Quando questi sistemi vengono gestiti in modo integrato, la tendenza è quella di rafforzare i servizi extraospedalieri, oltre che i servizi e le risorse che possono essere svolti all’interno della comunità. Gli studi (fra cui Improving Chronic Disease Management) indicano che l’utilizzo di questi nuovi modelli determina un impatto positivo sulla qualità delle cure e un effetto sociale di miglioramento dell’assistenza riservata ai pazienti affetti da malattie croniche, anche se è necessario attendere i risultati in termini di riduzione dei costi. È da sottolineare inoltre come numerosi studi2 abbiano dimostrato la capacità di evitare ricoveri ospedalieri a seguito dell’adozione di misure innovative. Tuttavia è possibile che altri costi aumentino in conseguenza dell’intensificazione dei servizi in ambito ambulatoriale. Sono disponibili sul Kroniker numerosi studi che valutano le esperienze attuate in diversi Paesi. In conclusione, risulta interessante mettere in evidenza come fino a ora gli esiti delle innovazioni nella gestione delle malattie croniche siano stati sufficienti perché vari governi (Inghilterra, Danimarca, Scozia, Canada e Nuova Zelanda) stiano promuovendo questi modelli come politiche prioritarie. In Spagna, sarebbe quanto meno opportuno dare inizio a una serie in esperienze dimostrative, per valutare l’applicazione di questi modelli nel contesto nazionale. Rafael Bengoa Bibliografia C. Schoen et al., “Primary Care And Health System Performance: Adults’ Experiences In Five Countries”. In: Health Affairs, Web Exclusive, 2004. Improving Chronic Disease Management. An Anglo-American exchange. King’s Fund. 2007 2. http://www.improvingchronicillnesscare.org 18 Cronicità: lessico e paradigma Epidemiologia della cronicità di Stefania Maggi, Federica Limongi, Paola Siviero, Marianna Noale, Gaetano Crepaldi L’ Italia, per l’elevata longevità della sua popolazione, ha la più alta proporzione al mondo di popolazione ultrasessantacinquenne (circa il 20%), mentre per la sua prolungata bassa fecondità ha la più bassa proporzione al mondo di ragazzi con meno di 15 anni (circa il 14%). L’azione congiunta di questi due fenomeni demografici fa sì che la popolazione italiana sia considerata la più vecchia del mondo e che, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, resterà nel gruppo delle più vecchie anche per i prossimi decenni. Le conseguenze del processo di invecchiamento sono le più varie e coinvolgono tutti gli aspetti della popolazione, della società e dell’economia. In particolare, gli sforzi della scienza medica si concentrano sulla lotta alle malattie croniche e alla disabilità, ma anche sulle nuove opportunità emerse dalle ricerche sulla qualità di vita delle persone anziane, che dipende strettamente dalle relazioni tra fenomeni biologici e aspetti economici e sociali. Inoltre, la ricerca si focalizza sugli interventi che diminuiscono l’incidenza, la gravità e la progressione delle malattie croniche invalidanti, attraverso strategie di prevenzione e di promozione della salute. Queste strategie, poi, andrebbero implementate a livello di politiche sanitarie e sociali, mentre purtroppo spesso succede che il trasferimento dei risultati della ricerca si arresta. Di seguito analizzeremo due esempi di patologie altamente invalidanti e per le quali esistono indicazioni ben precise sulla prevenzione e sul trattamento, ma che a oggi non ottengono un’adeguata attenzione. La sintomatologia depressiva e la malattia cardiovascolare La depressione nelle persone anziane rappresenta un problema rilevante, sia per l’alta frequenza che per le conseguenze negative sullo stato di salute e sulla qualità di vita di chi ne è affetto. Se si utilizza l’indice Daly (Disability Adjusted Life Year), che valuta gli anni di vita persi a causa di mortalità precoce o insorgenza di disabi20 Cronicità: lessico e paradigma lità per cause specifiche, si vede che la depressione, oggi quinta causa di perdita di vita attiva nel mondo, nei prossimi 20 anni passerà a essere la seconda causa. L’aspetto più preoccupante per il paziente anziano, infine, è rappresentato dal fatto che non solo la depressione clinicamente diagnosticata, ma anche la semplice sintomatologia depressiva, valutata con le comuni scale psicometriche, rappresenta un fattore prognostico negativo, sia in termini di mortalità sia di morbilità. In Italia la prevalenza di sintomatologia depressiva è stimata intorno al 58% nelle donne e 34% nei maschi ultrasessantacinquenni. Si tratta quindi di una condizione nettamente più frequente nelle donne, anche se le conseguenze negative sullo stato di salute sono molto significative in entrambi i sessi. I tassi di prevalenza in Italia sono simili a quelli riportati in uno studio condotto in Spagna e più elevati di quelli riportati in studi su popolazioni anglosassoni, che riferivano una prevalenza mediamente di due o tre volte inferiori, come evidenziato nella tabella. Tassi di prevalenza (%) di sintomatologia depressiva Autori Totale Maschi Femmine Berkman, ‘86 16.4 11.3 19.2 Kennedy, ‘89 17 11.1 19.9 Blazer, ‘91 9.0 6.4 10.7 Callahan, ‘94 15.0 11.0 15.0 Beekman, ‘95 13.2 7.0 17.9 Zunzunegui, ‘98 34.9 29.6 45.9 Minicuci, 2001 42.9 34.1 58.0 In tutti gli studi, comunque, si evidenzia la più elevata prevalenza tra le donne rispetto agli uomini; diverse ragioni, biologiche o legate ai tassi più elevati di comorbidità, disabilità, isolamento sociale, sono Epidemiologia della cronicità 21 state ipotizzate per spiegare questa differenza. Tra i vari fattori associati alla sintomatologia depressiva, per esempio, vengono spesso citate le condizioni funzionali e di salute scadenti, variabili sociali come la mancanza di rapporti familiari e sociali, la bassa scolarità, eccetera, indubbiamente più frequenti nella donna che nell’uomo. Associazione della sintomatologia depressiva con la malattia cardiovascolare Nei 12 mesi successivi all’infarto, un paziente su tre va incontro a depressione maggiore e circa il 65% dei pazienti con infarto del miocardio acuto presenta sintomi depressivi. Persone depresse e con malattia cardiovascolare hanno un rischio di morte di 3,5 volte maggiore rispetto ai soggetti con malattia cardiovascolare ma non depressi. Il rischio di morte diminuisce al diminuire della gravità dei sintomi depressivi, ma anche la sola sintomatologia depressiva comporta un valore significativamente maggiore del rischio. Per quanto riguarda la popolazione geriatrica in particolare, si è recentemente dimostrato nello studio Systolic Hypertension in the elderly che in oltre 4500 pazienti con ipertensione sistolica isolata seguiti per più di 5 anni la sintomatologia depressiva ha aumentato significativamente il rischio di infarto miocardico e di scompenso cardiaco congestizio, anche dopo aver aggiustato per i tradizionali fattori di rischio. Anche in un recente studio italiano su 265 pazienti con infarto del miocardio, la presenza di sintomatologia depressiva è risultata tra i determinanti negativi più significativi di declino della funzionalità fisica. Un aspetto molto interessante resta comunque il fatto che la depressione, e anche solo la sintomatologia depressiva, sia un fattore predittivo indipendente di sviluppo della malattia coronarica, sia fatale sia non fatale, in soggetti inizialmente privi di patologia cardiovascolare. Risultati interessanti sono emersi dall’Italian Longitudinal Study on Aging, che ha seguito dal 1992 una coorte di oltre 5.600 individui di 65-84 anni. Al primo follow up, nel 1996, abbiamo visto che nella donna con sintomatologia depressiva all’inizio dello studio era significativamente aumentato il rischio di mortalità generale (RR = 1,43 (CI = 1,04-1,95), ma non di eventi coronarici fatali e non fatali. Nella coorte maschile, di oltre 2800 soggetti, la sintomatologia depressiva al baseline era associata a una più elevata incidenza di eventi coronarici 22 Cronicità: lessico e paradigma sia fatali sia non fatali coronarici (HR = 1,66, CI = 1,06-2,60) e alla mortalità sia coronarica (HR = 2,49, CI = 1,60-3,87) sia totale (HR = 2,02, CI = 1,58-2,58). Questi dati sembrano suggerire che, mentre nel maschio la sintomatologia depressiva si associa a un elevato rischio cardiovascolare, nella donna non aumenta il rischio cardiovascolare, bensì di altre patologie che portano a un incremento della mortalità generale. Questo dato, comunque, andrà confermato nel follow up successivo: potrebbe infatti essere che le donne abbiano un cluster di fattori di rischio cardiovascolari inferiore ai maschi e, quindi, che semplicemente sviluppino la patologia in tempi più lunghi. In conclusione, comunque, sia nei maschi sia nelle femmine con sintomatologia depressiva in età anziana la mortalità è significativamente aumentata. Inoltre, una recente metanalisi, che ha incluso 11 studi longitudinali con follow up variabili da 3 a 37 anni, conclude che la sintomatologia depressiva è associata allo sviluppo di coronaropatia in soggetti, maschi e femmine, inizialmente sani. Implicazioni per la prevenzione cardiovascolare L’elevata prevalenza di sintomatologia depressiva nell’anziano rappresenta una seria sfida per il geriatra che deve considerare, oltre alla comorbidità usualmente presente in questi pazienti, anche l’aumentato rischio di declino funzionale fisico, di eventi cardiovascolari e di mortalità che a essa si associano. Studi longitudinali, con lunghi periodi di follow up, hanno dimostrato che questa condizione comporta un aumentato rischio cardiovascolare, indipendentemente dalla presenza di fattori di rischio tradizionali. La plausibilità biologica di questa associazione, sia in termini eziologici sia prognostici, è forte e coerente in diversi studi clinici e sperimentali e si basa sull’ipotesi di alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, dell’aggregazione piastrinica e della regolazione neurovegetativa del ritmo cardiaco. Da non dimenticare, in questa panoramica generale, che per quanto riguarda i fattori di rischio comportamentali i soggetti con depressione tendono ad avere una scarsa compliance nell’assunzione di farmaci e nel mantenere uno stile di vita sano, con adeguata attività fisica, corretta alimentazione e moderata assunzione di alcol, cessazione del fumo di sigaretta, ecc. Seppure il ruolo della sintomatologia depressiva come fattore di rischio per malattie cardiovascolari e per mortalità generale sia ormai Epidemiologia della cronicità 23 ben definito, pur tuttavia il trattamento farmacologico e non di questa condizione è tuttora largamente inferiore alle necessità. Le gravi complicanze a essa associate potrebbero essere largamente prevenute e le evidenze scientifiche al riguardo sono solide e incontrovertibili: non c’è giustificazione per la mancanza di azioni al riguardo. Il profilo di cura delle fratture del femore La rilevanza dell’impatto sociosanitario dell’osteoporosi in Italia ha comportato un crescente interesse da parte di organismi governativi e non, e ha portato alla promozione di iniziative di ricerca dirette a migliorare le conoscenze sulla malattia e sul profilo di cura e a rispondere a quesiti di ricerca clinica ed epidemiologica, fra cui: analisi della distribuzione dei fattori di rischio nei diversi segmenti della popolazione formulazione di linee guida per la diagnosi e la terapia dell’osteoporosi e delle sue complicanze definizione del profilo di cura per le fratture del femore e variazioni tra diverse aree geografiche. In particolare, ai fini della pianificazione della cura delle complicanze, risulta fondamentale lo sforzo per creare un registro delle fratture del femore, che già in altri Paesi ha dato un contributo fondamentale nel rendere omogeneo il profilo di cura di questi pazienti. I registri sulle fratture del femore, basati sulle diagnosi ospedaliere e sui dati di mortalità, esistono già in alcuni Paesi europei e sono in corso di implementazione in altri. Particolarmente significativa l’esperienza della Svezia, dove il registro è stato attivato nel 1988 e attualmente include due terzi degli ospedali svedesi. Dato che le fratture del femore sono uno dei gruppi diagnostici che consumano più risorse economiche, in Svezia questo è diventato il modello per altri registri che mirano a valutare gli outcome clinici di malattie con elevato impatto economico e con necessità di assistenza continuativa. Attraverso il monitoraggio dell’utilizzo delle strutture sociali e sanitarie nei primi quattro mesi dopo la frattura, il registro ha portato a una stretta collaborazione tra ospedali e strutture territoriali, permettendo quindi la dimissione più precoce dai reparti per acuti. Collaborazioni internazionali sono in corso con la Finlandia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, la 24 Cronicità: lessico e paradigma Scozia, la Spagna, l’Ungheria e la Grecia nell’ambito della Concerted Action Standardization of Hip Fracture Audit in Europe. L’Italia ha avviato negli ultimi anni un progetto multicentrico, coordinato dal Cnr, per entrare a far parte di questa rete internazionale. Infatti, nella ricerca finalizzata ministeriale del 2001, coordinata dagli Istituti Rizzoli, uno dei sottoprogetti condotti dal Cnr, Sezione invecchiamento di Padova, ha riguardato la valutazione retrospettiva dei dati di ospedalizzazione per frattura del femore in alcuni ospedali di Padova, Genova, Parma, Matera e Napoli. La frequenza delle fratture del femore nella popolazione ultrasessantacinquenne delle aree incluse non sembra segnalare differenze regionali significative (tra 62/10.000 e 74/10.000 nella popolazione ultrasessantacinquenne). Come previsto, in ogni centro le donne rappresentano il 70% dei casi e circa l’80% ha 70 anni e oltre. La durata della degenza è, mediamente, superiore ai 10 giorni in tutti i centri e per tutte le fasce di età. Interessante notare come la modalità di dimissione presenti importanti differenze tra centri, per esempio: il 9,5% dei pazienti è deceduto in ospedale a Genova, contro meno del 3% negli altri centri. Questo può essere dovuto alla degenza media più lunga, mediamente di 4-6 giorni a Genova rispetto agli altri centri. In questi casi, quindi, per poter confrontare la mortalità come outcome in setting assistenziali diversi, bisognerebbe avere a disposizione anche i dati sulla mortalità postospedaliera l’80% viene dimesso a domicilio a Napoli, contro il 40% a Genova meno dell’1% viene trasferito in un istituto a Parma e Matera, contro il 19% a Genova nessun paziente viene trasferito in residenze sanitarie assistenziali, eccetto a Genova, dove vi viene trasferito il 14%. La dimissione a domicilio piuttosto che in istituto o in residenza sanitaria assistenziale dipende, ovviamente, dalla diversa disponibilità, accesso e utilizzo delle strutture per l’assistenza continuativa all’anziano nel territorio. Il fatto che, per esempio, a Napoli l’80% dei pazienti venga dimesso a domicilio può dipendere dal fatto che esiste Epidemiologia della cronicità 25 una rete di assistenza domiciliare, formale e informale, tale da permettere l’assistenza continuativa e programmi di riabilitazione a domicilio, o semplicemente dal fatto che sono carenti gli istituti o le residenze sanitarie assistenziali adatti alla cura di questi pazienti. Per quanto riguarda i pazienti sottoposti a trattamento chirurgico, dall’analisi delle cartelle cliniche risulta che in alcuni centri sono circa il 90%, in altri meno del 60%. Il numero medio di giorni di attesa dall’ingresso in ospedale all’intervento varia da 2,2 a 6,2. In sintesi, questo studio dimostra che: la frequenza delle fratture del femore è rilevante in diverse aree rappresentative della realtà nazionale il profilo di cura varia profondamente da centro a centro, sia per diverso approccio clinico che per utilizzo o accesso alla rete dei servizi postospedalieri è essenziale attivare un sistema di monitoraggio degli outcome, per valutare l’impatto sulla mortalità e disabilità dei diversi profili di cura per la frattura del femore. Risulta quindi evidente la criticità del profilo di cura dei pazienti con frattura del femore e la necessità di un suo monitoraggio, se si vuole garantire una buona ed equa qualità assistenziale su tutto il territorio nazionale. Impatto sulla prevenzione della disabilità e della mortalità Linee guida internazionali sul trattamento chirurgico delle fratture del femore concordano nel trovare indicazione al trattamento chirurgico in oltre il 90-95% dei pazienti con frattura del femore. Sottolineano inoltre la necessità di intervenire precocemente, per evitare complicanze. Gli studi in letteratura enfatizzano in particolare che il rischio di complicanze è particolarmente elevato nei pazienti più fragili, con comorbidità, nei quali il tempo di attesa per l’intervento è superiore alle 48 ore. La larga maggioranza delle linee guida disponibili raccomanda l’intervento chirurgico entro le prime 24 ore o entro 36-48 ore. Queste linee guida, supportate da solide metanalisi, identificano associazioni tra ritardo nell’intervento con più elevati tassi di mortalità, morbosità, ridotta possibilità di osteointegrazione 26 Cronicità: lessico e paradigma della protesi, peggiori risultati dei programmi di riabilitazione, trombosi venosa profonda, embolia polmonare e piaghe da decubito. Anche studi recenti confermano questi risultati. In conclusione, la conoscenza scientifica sugli effetti avversi di diversi fattori di rischio modificabili nella popolazione è sostanziale, ma spesso l’implementazione delle politiche sanitarie non riflette adeguatamente queste conoscenze. L’analisi e il confronto con legislazioni e iniziative internazionali possono essere di notevole aiuto, soprattutto se identificano comportamenti e indirizzi molto diversificati. Per esempio, i dati epidemiologici citati dimostrano, senza alcun dubbio, la necessità di rivolgere un’attenzione particolare al trattamento della sintomatologia depressiva e al profilo di cura delle fratture nell’anziano. Occorre però un impegno forte di medici, operatori e manager del sistema sanitario perché l’insieme delle conoscenze possa tradursi in interventi di prevenzione di sicura efficacia. Stefania Maggi Federica Limongi Paola Siviero Marianna Noale Gaetano Crepaldi Bibliografia J. Abramson et al., “Depression and risk of heart failure among older persons with isolated systolic hypertension”. In: Arch Intern Med, 2001, 161. D.G. Blazer ET AL., “The association of depression and mortality in elderly persons: a case for independent pathways”. In: J Gerontol A Biol Sci Med Sci, 2001, 56 (8). A. Bottle, P. Aylin, “Mortality associated with delay in operation after hip fracture: observational study”. In: Bmj, 2006, 332. J.A. Casaletto, R. Gatt. “Post-operative mortality related to waiting time for hip fracture surgery”. In: Injury, 2004, 35 (2). M.N. Chilov et al., “Evidence-based guidelines for fixing broken hips: an update”. In: Mja, 2003, 179 (9). Epidemiologia della cronicità 27 Davis et al., “Prospective multi-centre trial of mortality following general or spinal anaesthesia for hip fracture surgery in the elderly”. In: Br J Anaesth, 1987, 59. T. Dolk, “Operation in hip fracture patients. Analysis of the time factor”. In: Injury 1990, 21. M. Gdalevich et al., “Morbidity and mortality after hip fracture: the impact of operative delay”. In: Archives of Orthopaedic and Trauma Surgery, 2004, 124 (5). A. Golini, “L’invecchiamento della popolazione: un fenomeno che pone interrogativi complessi”. In: G.F. Genuini et al. (a cura di), Rapporto Sanità 2005. Il Mulino, Bologna, 2005 T.P. Guck et al., “Assessment and treatment of depression following myocardial infarction”. In: Am Fam Phys, 2001, 15 H.H. Hartgrink et al., “Pressure sores and tube feeding in patients with a fracture of the hip: a randomized clinical trial”. In: Clin Nutr 1998, 17. F.G. Hefley et al., “Effect of delayed admission to the hospital on the preoperative prevalence of deep-vein thrombosis associated with fractures about the hip”. In: J Bone Joint Surg Am, 1996, 78. J.A. Langlois et al., “Workshop on Hip Fracture Registries in Europe”. In: Aging, 2000, 12 (5). F. Lespérance, N. Frasuer-Smith, “Depression in patients with cardiac disease: A practical review”. In: J Psychosoms Res, 2000, 48. N. Marchionni et al., “Determinants of exercise tolerance after acute myocardial infarction in older persons“. In: J Am Geriatr Soc, 2000; 48. C. Marzari et al., “Depressive symptoms and development of Chd events: The Italian Longitudinal Study on Aging”. Apparirà su: J Gerontol Med Sc. C.M. Michaud et al., “Burden of disease- Implications for future research”. In: Jama, 2001, 285. N. Minicuci et al., “Prevalence rate and correlates of depressive symptoms in old individuals. The Veneto Study”. In: J Gerontol Biol Sci, 2002, 57 (3). J.V. Perez, “Death after proximal femoral fracture. An autopsy study”. In: Injury, 1995, 26. R. Rugulies, “Depression as a predictor for coronary Heart Disease”. In: Am J Prev Med, 2002, 23 (1). K.G. Thorngren, “Fractures in older persons”. In: Disabil Rehabil, 1994, 16 (3). R.N. Villar et al., “Hip fractures in healthy patients: operative delay versus prognosis”. In: Bmj, 1986, 293. M.V. Zunzunegui et al., “Gender difference in depressive symptoms among Spanish elderly”. In: Soc Psychiatry and Psych Epidemiol, 1998, 33 (5). 28 Cronicità: lessico e paradigma Come preservare la vita sociale nella cronicità di Ovidio Brignoli L a vera sfida del futuro che coinvolgerà i servizi sanitari, con grande ripercussione sull’economia e sull’organizzazione dei servizi dei Paesi più sviluppati del mondo, sarà legata alla cronicità. Le malattie croniche sono da circa dieci anni la principale causa di malattia e di morte nelle nazioni del Nord del mondo. L’8 aprile del 2007 un articolo del New York Times intitolato “Six killers” informava i lettori che le malattie cardiovascolari, il cancro, l’ictus, le malattie respiratorie croniche, il diabete e l’Alzheimer sono, nell’ordine, le principali cause di malattia e di morte negli Stati Uniti, e che hanno molti aspetti in comune. Il problema in Europa In alcuni Paesi, come per esempio la Danimarca,circa il 40% della popolazione convive con malattie croniche, percentuale destinata probabilmente ad aumentare visto il progressivo invecchiamento della popolazione europea. Il 70-80% delle spese sanitarie sono stanziate proprio per queste patologie, anche perché questi pazienti gravano a lungo sui servizi di cura e assistenza. I costi sanitari e il rischio di ricoveri inutili aumentano notevolmente al crescere delle comorbilità. Il Regno Unito ha stimato che, delle undici principali cause di ricovero ospedaliero, otto sono malattie croniche, e che il 5% dei ricoverati, spesso con una patologia a lungo termine, è associato al 42% di tutti i giorni di degenza per problemi acuti. In Italia il numero di soggetti affetti da malattie croniche si attesta intorno al 35%, come viene documentato da una sistematica e continua valutazione della Banca dati assistito dell’Asl di Brescia. Le malattie croniche hanno un impatto significativo sulla salute e sull’assistenza sociosanitaria, in termini di morte prematura, cronicità o disabilità. La situazione attuale in Italia Come medico di medicina generale fortemente coinvolto nella gestio30 Cronicità: lessico e paradigma ne del paziente con malattia cronica, mi pongo a questo punto una serie di domande che dovrebbero aiutarmi a valutare l’impatto del problema sulla mia attività professionale. quanti sono i miei malati cronici? come sono (che bisogni hanno) i miei malati cronici? quali sono i supporti organizzativi di cui posso disporre nella gestione dei miei malati cronici? Alla prima domanda posso rispondere interrogando il mio database: 270/315 pazienti oltre i 65 anni (17/21)% 110/140 pazienti oltre i 75 anni (8/9)% 490/530 pazienti con patologia cronica (35,2)% 280/305 1 patologia cronica (19,5)% 125/130 2 patologie croniche (9,3)% 85/90 > 3 patologie croniche (6,5)%. Questi dati confermano la grandezza del problema e introducono anche il tema della comorbidità e della complessità. La tabella successiva fornisce ulteriori dati sulla composizione della Numero di persone Prevalenza (per 1000) Cardiovasculopatie Patologie 297 198,1 Diabete 84 56,6 E/g/duodenopatie 66 44,3 Neoplasie 42 28,8 Neuropatie 38 25,8 Broncopneumopatie 38 25,5 Malattie endocrine 25 16,2 Epato ed enteropatie 15 9,2 Malattie autoimmuni 5 3,5 Insufficienza renale 5 3,0 Hiv/Aids 4 2,8 Trapianti 1 0,5 Come preservare la vita sociale nella cronicità 31 popolazione di un medico di medicina generale individuando le prevalenti patologie croniche in forma isolata. È evidente che alcuni pazienti avranno più di una di queste malattie. Un medico di famiglia che disponga di una buona cartella informatizzata e di buoni dati sanitari è in grado di costruire un discreto case mix della propria popolazione di assistiti e quindi di fornire dati interessanti al gestore della programmazione sanitaria in tema di consumo di risorse di bisogni sanitari e assistenziali. Ma di fronte a questa situazione la domanda successiva è quella di sapere quali sono a oggi le risorse organizzative su cui un medico di medicina generale possa contare per la gestione sul territorio dei malati cronici: servizi dell’Asl: • assistenza domiciliare programmata • voucher • unità di valutazione geriatrica strutture pubbliche: • ospedali di comunità • residenza sanitaria assistenziale servizi del Comune: • infermieri • assistenti sociali. In teoria sembra che sul territorio esistano una serie di strutture e servizi in grado di far fronte ai bisogni assistenziali e sanitari dei malati cronici; in realtà, nell’Asl di Brescia non esistono dati che evidenziano un beneficio dei servizi e delle strutture che intervengono sul malato cronico in termini di: esiti delle cure riduzione dei ricoveri miglioramento della qualità di vita riduzione dei costi. Esiste quindi un problema vero di coordinamento e di integrazione tra i servizi e gli operatori che intervengono sui pazienti con patologia cronica. 32 Cronicità: lessico e paradigma Considerazioni e proposte È facilmente intuibile che il problema della cronicità non possa essere affrontato con gli strumenti culturali e organizzativi tradizionali perché la riorganizzazione dei servizi sanitari ha riservato l’ospedale ai pazienti acuti e scaricato sul territorio, completamente privo di strumenti e servizi, i pazienti con patologie croniche. Come giustamente scrive Halsted Holman, le malattie croniche: hanno sostituito quelle acute come problema dominante per la salute, essendo diventate la principale causa di disabilità e di utilizzo dei servizi hanno cambiato il ruolo del medico, che da unico protagonista della cura diventa membro di un team multiprofessionale in grado di elaborare un piano di cura che tenga conto della molteplicità dei bisogni, così come di garantire la continuità dell’assistenza hanno cambiato il ruolo del paziente, che da soggetto passivo diventa protagonista attivo della gestione del proprio stato di salute. Una proposta interessante e da valutare sotto gli aspetti della praticabilità nel nostro Paese ci viene dal “Chronic Care Model”. I principio su cui si basa questo modello sono: le risorse della comunità. Per migliorare l’assistenza ai pazienti cronici, le organizzazioni sanitarie devono stabilire solidi collegamenti con le risorse della comunità: gruppi di volontariato, gruppi di autoaiuto, centri per anziani autogestiti le organizzazioni sanitarie. Una nuova gestione delle malattie croniche dovrebbe entrare a far parte delle priorità degli erogatori e dei finanziatori dell’assistenza sanitaria. Se ciò non avviene, difficilmente saranno introdotte innovazioni nei processi assistenziali e ancora più difficilmente sarà premiata la qualità dell’assistenza il supporto all’autocura. Nelle malattie croniche il paziente diventa il protagonista attivo dei processi assistenziali. Il paziente vive con la sua malattia per molti anni; la gestione di queste malattie può essere insegnata alla maggior parte dei Come preservare la vita sociale nella cronicità 33 pazienti e un rilevante segmento di questa gestione – la dieta, l’esercizio fisico, il monitoraggio della pressione, del glucosio, del peso corporeo, ecc., l’uso dei farmaci – può essere trasferito sotto il loro diretto controllo l’organizzazione del team. La struttura del team assistenziale (medici di famiglia, infermieri, educatori) deve essere profondamente modificata. I medici trattano i pazienti acuti, intervengono nei casi cronici difficili e complicati e formano il personale del team. Il personale non medico è formato per supportare l’autocura dei pazienti, per svolgere alcune specifiche funzioni (test di laboratorio per i pazienti diabetici, esame del piede, ecc.) e assicurare la programmazione e lo svolgimento del follow up dei pazienti. Le visite programmate sono uno degli aspetti più significativi del nuovo disegno organizzativo del team il supporto alle decisioni. L’adozione di linee guida basate sull’evidenza e di percorsi assistenziali fornisce al team gli standard per fornire un’assistenza ottimale ai pazienti cronici. Le linee guida e i percorsi sono rinforzati da un’attività di sessioni di aggiornamento per tutti i componenti del team i sistemi informativi. I sistemi informativi computerizzati svolgono tre importanti funzioni • come sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie ad attenersi alle linee guida • come feedback per i medici, mostrando i loro livelli di performance nei confronti degli indicatori delle malattie croniche come i livelli di emoglobina glicata e di lipidi • come registri di patologia per pianificare la cura individuale dei pazienti e per amministrare un’assistenza “populationbased”. I registri di patologia – una delle caratteristiche centrali del “Chronic care model” – sono liste di tutti i pazienti con una determinata condizione cronica in carico a un team di cure primarie. In conclusione: l’levato numero di soggetti e la complessità sono gli elementi che caratterizzano l’assistenza al paziente cronico sul territorio 34 Cronicità: lessico e paradigma ci sono molti servizi disponibili, ma tutti scollegati tra loro e privi di un progetto comune condiviso è assolutamente necessario aumentare le risorse economiche e di personale per permettere al medico di medicina generale di prendersi in carico i malati cronici (secondo un progetto condiviso con gli altri operatori socioassitenziali) è necessario individuare e monitorare nel tempo gli esiti di questi interventi in tema di efficacia, efficienza e soddisfazione del paziente. Ovidio Brignoli Bibliografia H. Holman, “Chronic disease: The need for new clinical education”. In: Jama, 2004, 292 (9). Come preservare la vita sociale nella cronicità 35 Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo di Alberto Cester I l termine cronicità declinato in geriatria, specialmente per i grandi anziani, assume una connotazione di “falsa” o presunta stabilità del quadro clinico. Spesso infatti in geriatria non esiste nulla di più instabile dal punto di vista clinico di un quadro di definita cronicità; ciò è frutto della comorbilità e della polifarmacoterapia oltre che della fragilità intrinseca al processo di invecchiamento. Queste affermazioni contrastano innanzitutto con la visione organizzativa odierna dei processi assistenziali: non può infatti esistere separazione della geriatria da un setting assistenziale di lungodegenza. Le competenze cliniche in questi complicati processi devono infatti essere alte, specialistiche, spesso subintensive. Non si può gestire questa delicata area di degenza solo con competenze limitate all’area riabilitativa: deve essere una struttura organizzativa a doppia matrice clinico-geriatrica a forte impronta riabilitativa. Questo non deriva da valutazioni relative alle gerarchie organizzative di un sistema arcaico basato su caste culturali, ma su una necessità della medicina moderna di attrezzarsi culturalmente verso i veri bisogni della popolazione anziana senza preconcetti culturali o egoismi specialistici. Questo vale per le problematiche cliniche ma anche sociali del soggetto anziano. Basta infatti una piccola disabilità per indurre nel vecchio, magari in una famiglia mononucleare, una dipendenza. Sembra accertato che l’ospedale è per gli acuti (e quindi esiste un diritto alla cura dell’acuzie), con degenze sempre più brevi, tentativi spesso goffi e demagogici di agire sulle attese delle prestazioni; ora bisogna interessarsi della cronicità. Dovremo cioè dare il diritto di continuità di cure? Ma di quali cure? Abbiamo a oggi “scimmiottato” diversi modelli, riducendo al limite la degenza media dei ricoveri, salvo poi non monitorare le reospedalizzazioni che avvengono magari in altri reparti, e non dichiarando che uno scompenso cardiaco o una broncopolmonite devono avere nel 38 Cronicità: lessico e paradigma paziente anziano tempi di trattamento, ripresa e di degenza nettamente diversi rispetto al giovane. Tutti gli operatori geriatrici, anche chi si occupa di programmazione, progettazione e legiferazione in materia di sanità pubblica, dovrebbero avere il coraggio di affermare che poiché siamo pressoché tutti “cronicabili” nel medio periodo, a questa fascia di utenti si dovrebbero dedicare più attenzioni e risorse. In un Paese civile l’approvazione della tassa di scopo per la salvaguardia e cura della non autosufficienza dovrebbe essere un must anche della politica. I vari modelli di dimissione protetta dei casi difficili raramente trovano una vera continuità di cure nel territorio, nonostante gli sforzi della medicina territoriale e generale. L’ospedale è ancora troppo spesso utilizzato come succedaneo alle incapacità di governo di una medicina territoriale che trova scarso dialogo e comprensione nella rigida organizzazione ospedaliera. A volte la stessa continuità di cure territoriali si arena su problemi di turnazione notturna o del week end e magari per piccole emergenze. È ancora molto il lavoro che ci aspetta per realizzare modelli credibili, ma soprattutto efficaci ed efficienti, di continuità di cure per l’anziano malato cronico. Ma qual è lo scenario attuale della cronicità? Le solite curve di crescita della popolazione anziana sono ormai stranote a tutti, così come la crescente speranza di vita, le note piramidi che vedono ormai una prevalenza delle fasce di età di mezzo e avanzate in tutte le società avanzate. Fenomeni per ora poco noti sono invece quelli citati da Michael Marmot della disuguaglianza sociale e della status syndrome: per esempio a Washington, dai quartieri poveri neri a sud-est fino alla ricca contea di Montgomery, si guadagna 1 anno e mezzo di speranza di vita ogni miglio In totale sono quasi vent’anni di differenza tra i 2 estremi. Così è anche a Londra e, in Italia, a Torino, dove il divario di sopravvivenza in pochi chilometri è di circa 3 anni. Questo significa che emarginazione, povertà, livelli culturali e disagio anche abitativo condizionano la nostra sopravvivenza. E qui in Italia almeno esiste un Servizio sanitario nazionale che tutela tutti, anche chi non ha diritto di cittadinanza. Ma fino a quando reggerà il nostro sistema? L’Italia è il Paese occidentale con la maggiore incidenza di nascite da madri sopra i 40 anni. Nel 2005 sono state il 4,6%, con punte del 7,2% Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo 39 in Sardegna e valori oltre il 6% in alcune grandi Province come Bologna, Firenze, Genova e Roma. E poi? Ci saranno prevedibili problemi dell’adolescenza da gestire con madri vicine ai 60 anni e padri “nonni”. Certo, a ciò almeno in parte risponderà la variazione della biologia dell’invecchiamento: saremo sempre più longevi, duraturi ed efficienti fino a tarda età, ma fino a un certo punto. Quando queste vere “mutazioni” del vivere sociale arriveranno a intersecare la longevità potenziale della specie umana prevista intorno ai 110-115 anni, cosa succederà? Quale domani previdenziale, pensionistico e di tutela sociale della vecchiaia potremo mai promuovere? La società dei vecchi avrà un futuro? Altro problema: il “badantato”. L’incremento della popolazione anziana comincia a diventare preoccupante anche nei Paesi in via di sviluppo, che fino a oggi avevano rappresentato il serbatoio di sostegno delle badanti per molte famiglie europee. Ora anche in questi Paesi l’ingente mole di forza lavoro al femminile, alla quale avevamo facile accesso per sostenere la nostra lotta alla disabilità in vecchiaia a costi contenuti, dovrà occuparsi dei propri vecchi. Quindi queste popolazioni dovranno presto fare i conti con un miglioramento della qualità di vita e un allungamento dei loro indici di vecchiaia, che imporranno altre scelte anche per le loro donne, che a loro volta si dovranno occupare dei “loro” vecchi. Quindi per noi i modelli di “affiancamento sociale” di queste figure ai servizi forniti dal pubblico, fino a oggi gestiti a cavallo tra il lecito e l’illecito, dovranno essere ridimensionati: si ridurrà l’offerta e si moltiplicheranno i costi, rendendo questi servizi “accessori” non più competitivi nemmeno in termini di costo. Il costo attuale di una badante in regola, oltre ai diritti di merito (ore e giornate di libertà da contratto, ecc), non risulta più tanto favorevole rispetto ad altre forme di delega assistenziale. E allora quale rete dei servizi potrà rispondere alla domanda di assistenza e salute nella cronicità geriatrica? Una rete che si deve culturalmente alla geriatria, ma che stenta a trovare applicazioni realistiche in virtù di una serie di difficoltà gestionali e applicative tutte italiane. Infatti assistiamo a una vera e propria polverizzazione dei sistemi di valutazione multidimensionale, vero strumento prezioso per creare i presupposti dell’assessment geriatrico, il fonendoscopio del geriatra. Ma l’abuso del fai da te, l’impermeabilità culturale di certi 40 Cronicità: lessico e paradigma ambiti politico-gestionali, la volontà spesso di paternità da parte di apparati scientifici e una certa ottusità di sistema hanno creato un sottobosco di innumerevoli sistemi di valutazione e classificazione del soggetto anziano: scheda di valutazione dell’anziano ospite di residenza, valutazione multidimensionale dell’adulto e dell’anziano, breve indice sulla non autosufficienza, scheda osservazione intermedia assistenza, scheda di valutazione multidimensionale longitudinale dell’anziano dei servizi geriatrici, solo per citarne alcuni. Si crea di fatto un iniziale fermento culturale positivo sul tema della valutazione multidimensionale, impedendo però a oggi un corretto confronto dei dati e un benchmarking organizzativo tra le varie Regioni. Il risultato è che a distanza di pochi chilometri non possiamo parametrare né bisogni né valutazioni dei nostri anziani. Pertanto questo influirà anche sui modelli organizzativi che dovrebbero nascere dalla porta unica di accesso alla rete dei servizi, che deve aprirsi dopo una completa e competente valutazione multidimensionale. Ora il progetto Mattoni del ministero sta faticosamente cercando indicatori e modelli per tentare di far dialogare questi sistemi polverizzati sul territorio. Figura 3. La rete dei servizi Medicina generale territoriale 2 1 Ospedale per acuti Day Hospital 6 Centro diurno ADI 5 UVG 8 9 10 RSA UVG: Unità di Valutazione Geriatrica ADI: Assistenza Domiciliare Integrata RSA: Residenza Sanitaria Assistenziale 4 3 Degenza post-acuzie Transizione Fonte: www.sigg.it Nemmeno i tanto citati modelli di riferimento culturale, come quello della figura 3, hanno trovato quindi una chiara e univoca applicazioCronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo 41 ne condivisa su tutto il territorio del nostro Servizio sanitario nazionale. Questa è la prima difficoltà, apparentemente paradossale nel terzo millennio: non c’è condivisione dei sistemi di valutazione e classificazione degli anziani tra le varie Regioni italiane. Il risultato è una babele di modelli e sistemi di riferimento culturale, spesso senza nemmeno una matrice scientifica comune. Ciò impedisce anche veri studi di confronto su popolazione. Abbiamo dato dignità di scienza alla geriatria, ora dobbiamo occuparci dei modelli gestionali. Ciò non può che essere pensato dalla nostra scienza e deve avere partire dall’Unità di geriatria per acuti, che è il centro del sistema, che da lì si sviluppa e poi si dipana anche sul territorio attraverso specifiche competenze, senza primogeniture né conflitti con le cure primarie. La gerarchia del Dipartimento geriatrico è solo quella del naturale contenitore, è la base culturale da cui si dipartono i servizi, ma se non c’è cultura geriatrica approfondita non c’è assistenza di qualità al malato anziano, specie per le grandi sindromi geriatriche. In un articolo apparso sull’American Journal of Medicine, Nasiya Ahmed, Richard Mandel e Mindy Fain scrivono: «Il fatto che la fragilità non sia presente in tutte le persone anziane suggerisce che è sì associata all’invecchiamento, ma non ne è un effetto inevitabile, e può essere prevenuta o trattata». Come si evince da questa citazione abbiamo individuato e studiato vecchiaia e fragilità, e sappiamo quanto i sistemi dell’invecchiamento, pur essendo specifici e con percorsi univoci e riproducibili, nascano da una sorta di individualità che caratterizza l’invecchiamento, che ci fa distinguere quindi come variabili l’età cronologica da quella fisiologica. Due modelli di confronto e di studio sulla fragilità in geriatria – quello di Linda Fried e Jack Guralnik con i suoi 5 criteri, quasi tutto basato su studi su community-dwelling, e quello di Kenneth Rockwood con i suoi innumerevoli criteri, oltre al Frailty Index del Canadian Study of Health and Aging – animano ancora il dibattito e la ricerca scientifica geriatrica, rappresentando per la nostra scienza una delle più alte rappresentazioni di confronto culturale. Certo tutti invecchiamo ugualmente in anni, ma con una estrema soggettività nel nostro percorso, che a volte a parità di anni ci fa apparire molto diversi. Gli studi su questi temi e sui predittori di disabilità ci fanno pensare che dalla genericità della complessità del malato geriatrico dovremo passare alla specificità della diagnosi sindromica 42 Cronicità: lessico e paradigma da fragilità del malato geriatrico. Molta della ricerca geriatrica più avanzata è ormai orientata su questo tema. Cura della cronicità, continuità di cure e gestione dei codici bianchi sono i punti fondamentali rilevati anche dal Forum Ambrosetti a Cernobbio, vero Gotha della programmazione sanitaria nazionale, come base per risolvere i problemi della riorganizzazione delle cure primarie. Non dobbiamo perdere di vista questa istanza che sta portando a una nuova crisi delle istituzioni sanitarie. Gli stessi sistemi di pagamento e classificazione delle dimissioni dei diagnosis related groups delle nostre schede di dimissione ospedaliera ormai sono palesemente insufficienti e superati per gestire e governare la comorbilità geriatrica del grande anziano. La cronicità richiede sistemi di gestione più avanzati e non più correlabili a sole giornate di degenza o a codici di ricovero particolari. Per studiare, classificare e curare questi malati anziani si deve ricorrere a sistemi evoluti tipo il Risk Adjustement, come per esempio nei modelli proposti dall’All Patient Refined, un sistema adatto a pazienti di ogni età che incorpora un sistema di aggiustamento per gravità come parte integrante del sistema (sistema iso-gravità). Ma cosa servirebbe al sistema per occuparsi correttamente degli anziani di un territorio aziendale? Bisognerebbe intercettare il più precocemente possibile i problemi di salute dell’anziano, avendo come punti di partenza e di arrivo la sede del Dipartimento e l’Unità di geriatria per acuti. Si dovrebbe articolare la rete dei servizi avendo a disposizione: una rete con un “filtro” (medici di medicina generale e distretti) un sistema unico di valutazione multidimensionale in stretto rapporti con le cure primarie sostegni socio assistenziali come assegni di cura, invalidità civile con indennità di accompagnamento, rapida nomina dell’amministratore di sostegno (se necessario), ecc. dimissioni protette, fornitura di ausili e presidi in tempi rapidissimi servizi “globali” domiciliari (assistenza domiciliare integrata, ospedalizzazione domiciliare, pasti a domicilio, telesoccorso, Rete Argento, altre reti parentali e amicali, caregiver, banche del tempo, volontariato, gruppi di autoaiuto, ecc.): quindi risorse Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo 43 alloggi protetti case di riposo residenze sanitarie assistenziali (generiche e specialistiche?) centri diurni e notturni per anziani “moduli respiro”: strutture agili disponibili per tempi definiti per emergenze dei singoli nuclei familiari familiari, badanti, ecc. hospice, posti per stati vegetativi permanenti, ecc. Ma serve soprattutto rapidità d’accesso alla rete di valutazione e dei servizi e risoluzione rapida dei problemi: un requisito difficile in un sistema come il nostro ancora troppo spesso incline alla burocratizzazione dei problemi e alla difficoltà di erogazione da fonte unica delle prestazioni. Tutto ciò probabilmente costerebbe molto meno che una serie di ricoveri impropri o peggio sociali. La nostra risposta al problema degli anziani e della continuità delle cure in un territorio di circa 260 mila abitanti, con 37.000 ultrasessantacinquenni, è da oltre 10 anni quella del Dipartimento di geriatria. Il nostro territorio di 17 Comuni è in un’area abbastanza vasta e pianeggiante tra le province di Padova e Venezia; è fornito di tre ospedali (due per acuti a Dolo e Mirano, sedi polispecialistiche, e uno a Noale, ad alta integrazione di rete a fini riabilitativi). Il nostro Dipartimento di geriatria è in estrema sintesi così organizzato: una Unità operativa geriatrica per acuti a Dolo con disponibilità di 40 posti letto per acuti e 14 per lungodegenza geriatrica riabilitativa. È la sede del Dipartimento, e ha un day hospital geriatrico dotato di 8 posti letto, valutazione ambulatoriale integrata, day service con palestra. Gli ambulatori sono: • divisionale • Unità valutativa Alzheimer-Centro invecchiamento cerebrale, con valutazione neuropsicologica • counselling genetico per marcatori bioumorali di malattia di Alzheimer • centro di ricondizionamento cognitivo • “Banca degli encefali” con diagnostica anatomopatologica in sede 44 Cronicità: lessico e paradigma • diabetologia geriatrica • reumatologia geriatrica e metabolismo dell’osso (con densitometria “Finger” e Dexa. All’esterno della degenza nel parco antistante è situato un Senior Park caratterizzato da semplici postazioni per esercizi di facile utilizzazione, scale, piani inclinati, parallele con ostacoli, piani in varo e valgo, una semplice ercolina, ecc., usato dai pazienti afferenti all’Unità, al DH e anche dai bambini che a vario titolo frequentano il nostro ospedale. Lo staff è composto da un direttore medico, un direttore di Dipartimento, 8 dirigenti medici di primo livello, una psicologa borsista (più una in formazione), una segretaria. una Unità operativa geriatrica a Mirano con disponibilità di 18 posti letto per acuti e 28 per lungodegenza geriatrica a Noale, con aggregato Centro di terapia occupazionale (uno dei pochi presenti in Italia). Comprende un day hospital geriatrico con 8 posti letto, valutazione ambulatoriale integrata, day service con palestra. Gli ambulatori sono: • divisionale • Unità valutativa Alzheimer-Centro invecchiamento cerebrale, con valutazione neuropsicologica • servizio di ecografia diagnostica interna. Lo staff è composto da un direttore medico, 8 dirigenti medici di primo livello, due segretarie. nel territorio operano anche 4 geriatri territoriali tutti dipendenti, dirigenti medici ospedalieri di primo livello. Questi hanno il coordinamento sanitario delle sei residenze per anziani del territorio (per un totale di circa 700 posti letto) e attuano consulenze presso i nostri due distretti sociosanitari. Sono il vero collante tra ospedale e territorio. Questa attività risulta funzionalmente collegata al Dipartimento. I geriatri territoriali dedicano le loro competenze a: • unità valutative multidisciplinari con valutazioni multidisciplinari per ogni caso trattato (con scheda di valutazioni multidisciplinari dell’adulto e dell’anziano) Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo 45 • consultorio geriatrico distrettuale • consulenze e valutazioni domiciliari su richiesta del medico di medicina generale • consulenze ai medici di medicina generale e coordinamento delle 7 strutture residenziali per anziani del nostro territorio (sedi di Mirano, Salzano, Noale, Scorzè, Spinea, Dolo e Strà), attività normata da presenza con apposita convenzione oraria • valutazione ed eventuale prescrizione per ausili di uso geriatrico • attività di screening precoce della demenza sul territorio in collegamento con il nostro Centro per l’invecchiamento cerebrale • frequenza di corsia e di Dipartimento. Molta è ancora la strada da fare, ma è nostro orgoglio affermare come l’armonizzazione e la qualità delle prestazioni erogate agli anziani dalla nostra organizzazione siano in linea per outcome e qualità con le più efficienti e moderne esperienze italiane ed estere. Il nostro modello è condiviso e vincente; si deve partire innanzitutto dall’avere rispetto per il lavoro degli altri attori del sistema. Il segreto in fondo è lavorare per gli anziani e non per le nostre singole aspettative di successo. Alberto Cester Bibliografia N. Ahmed, R. Mandel, M.J. Fain, “Frailty: An Emerging Geriatric Syndrome”. In: The American Journal of Medicine, 120, 9 (September 2007). 46 Cronicità: lessico e paradigma Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? di Federico Spandonaro S econdo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, ripresa dal Rapporto sulle politiche della cronicità realizzato dal Coordinamento nazionale associazioni malati cronici – Cittadinanzattiva, VII edizione, la patologia cronica possiede una o più delle seguenti caratteristiche: è permanente è causata da un’alterazione patologica non reversibile tende a sviluppare un tasso di disabilità variabile richiede una formazione speciale per il raggiungimento di una buona qualità della vita necessita di un lungo periodo di controllo, osservazione e cura. Secondo l’Istat (“Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” – 2004-2005), le malattie croniche più diffuse sono: Per 100 persone con le stesse caratteristiche Malattia cronica Tutta la popolazione Persone di 65 anni e più 1999-2000 1999-2000 2005 2005 Diabete 3,7 4,5 12,5 14,5 Cataratta 3,2 2,8 15,4 12,4 Ipertensione arteriosa 11,9 13,6 36,5 40,5 Infarto del miocardio 1,1 1,7 4,0 6,3 Angina pectoris 0,9 0,7 3,4 2,5 Altre malattie del cuore 3,4 3,2 12,5 11,3 Asma 3,1 3,5 6,9 6,5 Malattie della tiroide 2,8 3,2 4,6 5,0 Artrosi, artrite 18,4 18,3 52,5 56,4 Osteoporosi 4,7 5,2 17,5 18,8 48 Cronicità: lessico e paradigma Per 100 persone con le stesse caratteristiche Malattia cronica Tutta la popolazione Persone di 65 anni e più 1999-2000 1999-2000 2005 2005 Ulcera gastrica o duodenale 3,0 2,3 7,3 5,3 Cirrosi epatica 0,2 0,3 0,6 0,7 Tumore maligno (inclusi linfomi e leucemie) 0,9 1,0 2,7 2,7 Cefalea o emicrania ricorrente 9,0 7,7 10,5 8,7 Fra i costi della cronicità si riconoscono: costi diretti, legati a diagnosi, cura, ecc costi indiretti, legati a: • effetti negativi sulla qualità della vita delle persone colpite • morti premature • effetti economici negativi sulle famiglie, sulle comunità e sulla società in generale. A fini di programmazione, occorre legare valutazioni cliniche e valutazioni di impatto economico. Le scelte di programmazione vanno assunte in termini di costo-utilità, adottando il punto di vista della società. Le malattie croniche hanno un impatto significativo sulla salute e sull’assistenza sociosanitaria, in termini di morte prematura e sviluppo di tassi di disabilità elevati. Il 60% dei decessi è dovuto alle malattie croniche e questo significa che, se non si interverrà subito, dei 64 milioni di morti previsti entro il 2015, 41 milioni saranno dovuti a malattie croniche. In Italia, secondo i più recenti dati Istat, la percentuale di cittadini affetti da cronicità è in crescita e oggi arriva a toccare il 36,6% della popolazione (mentre nel 2001 arrivava al 35,9%); le realtà più colpite sono quelle del Centro Italia, con una percentuale che arriva a toccare il 40,1%. Se prendiamo soltanto la popolazione anziana, le cronicità Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? 49 colpiscono l’80,7% del totale; ma non ne sono immuni neanche i giovani sotto i 24 anni: se nel 2001 i malati cronici giovani erano il 9,7% della popolazione, oggi sono il 9,9%. Cronicità e multicronicità (2005) Per 100 persone della stessa zona Regioni o Province autonome Con almeno una malattia cronica Con almeno due malattie croniche Piemonte 37,7 18,7 Valle d’Aosta 30,2 12,5 Lombardia 38,3 18,6 Trentino-Alto Adige 30,9 12,4 Bolzano - Bozen 29,6 11,7 Trento 32,1 13,1 Veneto 38,3 18,4 Friuli-Venezia Giulia 37,2 18,6 Liguria 39,4 20,1 Emilia-Romagna 41,6 20,9 Toscana 37,1 20,0 Umbria 40,7 23,8 Marche 36,6 19,7 Lazio 37,1 20,4 Abruzzo 40,7 21,9 Molise 36,6 20,6 Campania 31,4 17,0 Puglia 33,9 18,6 Basilicata 36,7 21,9 Calabria 40,9 25,7 Sicilia 32,4 19,0 Sardegna 37,3 19,9 50 Cronicità: lessico e paradigma Differenze di genere È emersa nelle donne una maggior incidenza di patologie a lungo termine: secondo una recente indagine Istat, le malattie per le quali le donne presentano una maggiore prevalenza rispetto agli uomini sono l’ipertensione arteriosa (+ 30%), alcune malattie cardiache (+ 5%), le malattie della tiroide (+ 500%), l’artrosi e artrite (+ 49%), l’osteoporosi (+ 736%), la calcolosi (+ 31%), cefalea ed emicrania (+23%), depressione e ansia (+ 138%), l’Alzheimer (+ 100%), le allergie (+ 8%), il diabete (+ 9%), la cataratta (+ 80%). Inoltre, secondo altri studi, le donne ultracinquantenni presentano percentuali doppie di disabilità rispetto agli uomini quanto a confinamento nell’abitazione, a difficoltà di movimento, di svolgimento delle funzioni quotidiane e nella comunicazione. È auspicabile sviluppare la ricerca di genere con l’obiettivo di evidenziare le specificità nell’estrinsecarsi delle patologie, anche perché le donne consumano più farmaci degli uomini, sono più soggette degli uomini alle reazioni avverse e sono da sempre paradossalmente sottorappresentate nelle sperimentazioni cliniche. Disabilità Il Rapporto Ceis 2007 conferma la maggior diffusione della disabilità fra le donne: il 13,2% delle donne ultracinquantenni è disabile, a fronte del 7,3% degli uomini della stessa età. La quota di donne, sempre ultracinquantenni, confinate nella propria abitazione è pari al 6,3%, contro il 3,0% degli uomini; il 6,9% delle donne ha difficoltà di movimento e l’8,6% ha difficoltà nello svolgimento delle funzioni quotidiane, contro il 3,5% e il 4,7% rispettivamente fra gli uomini. Le difficoltà nella comunicazione interessano il 2,7% delle donne contro l’1,7% degli uomini. Lo svantaggio delle donne non si può giustificare solo con la loro maggiore longevità in quanto, a partire dai 50 anni, emerge in tutte le classi di età e per tutti i tipi di disabilità. Inoltre sono da considerare differenze da un lato di ordine geografico, con maggiore prevalenza di disabilità al Sud (12,9%) rispetto al Nord (9,0%) e, dall’altro, di ordine socioeconomico, per cui i soggetti disabili dotati di laurea e diploma rappresentano il 3,7%, a fronte del 15,2% delle persone disabili che hanno conseguito la licenza elementare. Pertanto, la condizione di cui ci stiamo interessando comprende aspetti di multicronicità o multipatologia, differenze di genere, geoIl sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? 51 grafiche e socioeconomiche: è necessaria una risposta articolata, multidimensionale in senso lato, che travalica il Servizio sanitario nazionale. Costi della cronicità Dagli anni Cinquanta, nei Paesi a economia evoluta la sanità ha conosciuto una notevole espansione che da un lato ha contribuito a migliorare lo stato di salute delle popolazioni e a ridurre le tradizionali disparità nell’accesso alle cure mediche fra gruppi sociali e aree territoriali, ma, dall’altro, ha concorso a produrre un notevole incremento dei costi per i sistemi di welfare. Infatti, come sottolinea Franca Maino, negli ultimi trent’anni in molti Paesi la spesa sanitaria totale è più che raddoppiata rispetto al Pil. Osservando la tabella, ricavata dal World Health Report 2004 pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità, è possibile notare come la crescita della spesa sanitaria totale, nel raffronto 1997-2001, superi l’incremento del Pil in quasi tutti i Paesi presi a confronto. Percentuale della spesa sanitaria totale rispetto al Pil in alcuni Paesi del mondo 16 199 12 200 8 4 0 Cina Russia Giappone Regno Unito Italia Australia Canada Francia Svizzera Germania USA I dati dell’Oms evidenziano che in Danimarca la spesa per le malattie croniche rappresenta il 70-80% della spesa per l’assistenza sanitaria; negli Stati Uniti rappresenta invece il 55-60% della spesa sanitaria, ossia circa l’8% del Pil, pari a circa 950 milioni di dollari. 52 Cronicità: lessico e paradigma Considerando una categoria specifica come le cardiopatie, nel 199495 nel Regno Unito rappresentavano il 6% della spesa sanitaria, mentre in Austria i costi diretti per le stesse patologie costituiscono circa il 2% della spesa sanitaria totale. La situazione italiana Proviamo a esaminare i costi di alcune patologie a livello nazionale: i costi per la cura dello scompenso cardiaco rappresentano l’1,9% del costo dell’assistenza ospedaliera erogata attraverso il Servizio sanitario nazionale; i costi per la cura del diabete costituiscono il 6,65% della spesa sanitaria complessiva, le malattie reumatiche e la gonartrosi sono responsabili, nell’anno 2005, di costi diretti per 1.070 euro e indiretti per 2.500 euro per ciascun paziente all’anno. Infine malattie reumatiche e artrite reumatoide, sempre nell’anno 2005, sono responsabili di costi diretti e indiretti per 4.400 euro e 2.500 euro rispettivamente. Inoltre, il rapporto Ceis segnala i seguenti dati, relativi agli anni 19982000: Soggetti coinvolti Patologie Costi sociosanitari annui (miliardi di euro) Totali Costi diretti Costi indiretti Alzheimer 500.000 39.500 9.480 30.020 Nefropatie croniche 39.000 2.700 1.998 702 Sclerosi multipla 50.000 2.000-2.500 1.500-1.875 500-625 Disabili gravi 733.000 n.d. n.d. n.d. Anziani disabili sopra i 65 anni 1.967.000 21.652 12.277 9.375 Asma bronchiale 1.710.000 2.686 1.800 886 Osteoporosi (costo diretto) 5.000.000 1.000 n.d. n.d. Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? 53 Impatto degli studi sul sistema sanitario ed economico in Italia Anno Patologia Costo diretto sanitario attualizzato al 2000 (milioni di euro) 1989 (solo diretti); popolazione femminile sopra i 45 anni Osteoporosi 1.302,00 1,5% 1.302,00 0,11% 1993 Alzheimer 1.837,40 2,1% 5.638,90 0,48% 1997 Asma 1.125,50 1,3% 1.229,00 0,11% 1999 Asma 1.040,40 1,2% 1.991,70 0,17% % Costo diretto su spesa sanitaria Costo totale attualizzato al 2000 (milioni di euro) % Costo totale su Pil Fonte: Igiene e sanità pubblica 2002. La ricerca sul costo sociale delle malattie Sostenibilità L’impatto dell’invecchiamento sul sistema sanitario è oggetto di studi e analisi da almeno un ventennio; in Italia non mancano le previsioni a lungo termine sull’evoluzione della spesa sanitaria, come quella di Aldo Piperno. Paradossalmente, manca invece una conoscenza approfondita del contesto attuale. L’invecchiamento della popolazione determina un incremento della cronicità e della disabilità, da cui deriva un incremento futuro della spesa sanitaria. Si tratta di una sorta di determinismo demografico, che in questi termini fu messo in evidenza già da Robert Evans a metà degli anni Ottanta, introducendo nel dibattito il concetto dell’illusione in base a cui le ragioni principali per riformare il welfare sanitario scaturivano dalle variabili “demografiche in sé”, più che da altri aspetti correlati con il contesto sociale e gli assetti istituzionali e di gestione dei sistemi sanitari. 54 Cronicità: lessico e paradigma Teorie La quota degli anziani nella popolazione cresce progressivamente, a causa del declino della fertilità e della mortalità. Poiché gli anziani consumano relativamente più prestazioni sanitarie, l’invecchiamento progressivo della popolazione porterà a un incremento della spesa sanitaria. Invece gli studi evidenziano come la situazione sia molto più complessa, legata non solo all’andamento demografico, ma anche allo stato di salute delle persone e alla spesa attribuibile a ciascuna di queste condizioni, a quanto, cioè, il sistema decide di garantire. A questo proposito sono state avanzate tre teorie: 1 teoria dell’invecchiamento. Per Morton Kramer l’invecchiamento della popolazione con allungamento dell’aspettativa di vita, e quindi di spostamento in avanti dell’età di morte, sarebbe accompagnato dall’aumento delle malattie mentali, delle malattie croniche e della disabilità 2 teoria della compressione della morbilità: per James Fries c’è uno spostamento in avanti della cronicità e della morte 3 teoria dell’equilibrio dinamico: per Kenneth Manton c’è un incremento della prevalenza delle malattie croniche, ma anche un livello medio di gravità più basso. L’evidenza empirica più recente propende per la seconda e la terza teoria. In particolare, alcuni studi mostrano come la variabile età riveste rilevanza minore rispetto ad altre misure dello stato di salute in termini d’impatto sulla spesa. In particolare David Cutler e Louise Sheiner, nel 1998, hanno dimostrato che, se non si tiene conto della disabilità, si evidenzia che al crescere dell’età (da 70-74 anni a più di 85) cresce anche il livello della spesa. Quando la disabilità entra nel modello, l’effetto dell’età sulla spesa (a parità di disabilità) tende a ridursi, soprattutto nelle classi di età più anziane. Peter Zweifel e altri, nel 1999, hanno evidenziato che la spesa sanitaria registrata negli ultimi cinque anni di vita non dipende dall’età: la fase terminale della vita è quindi costosa a prescindere dall’età, cioè se si muore a 50 o a 90 anni. Pertanto un incremento della quota di anziani nella popolazione sposta la maggior parte della spesa verso le classi di età più elevate, lasciando inalterata la spesa pro capite: Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? 55 diventa allora importante considerare come s’intende affrontare la fase terminale della vita, sia come tipologia di assistenza, sia come organizzazione dei servizi offerti. L’attenzione di molti studiosi, a partire da Victor Fuchs nel 1986, si è concentrata sui cosiddetti “costi di morte”: se non si tiene in considerazione che i costi assistenziali tendono a concentrarsi alla fine della vita, si corre il rischio di sovrastimare la spesa futura. Molti studi in vari Paesi confermano quest’affermazione. In Danimarca, Mette Madsen ha studiato un ampio campione della popolazione danese nel 2000 (24.000 morti in un periodo di due anni): la spesa è funzione della distanza rispetto all’età di morte e il 62% dei costi si verificano negli ultimi tre mesi di vita. Reinhard Busse ha analizzato nel 1999 i dati relativi a 70.000 persone iscritte nelle casse mutue più grandi della Germania: i consumi ospedalieri dei morti erano dalle quattro alle dodici volte superiori a quelli dei sopravvissuti. Mårten Lagergren e Ilija Batljan nel 2000 hanno comparato i costi dei morti e dei sopravvissuti in Svezia in termini di incidenza sul Pil. L’incidenza della spesa ospedaliera attribuibile ai morti era il 25% del Pil pro capite a fronte dell’1,9% attribuibile ai sopravvissuti. Negli Stati Uniti, gli studi principali più recenti sono stati condotti da Alan Garber nel 1998: nei due anni precedenti la morte la spesa è più elevata, anche se riguarda quella per il ricovero nelle nursing home invece che negli ospedali. Le determinanti dei costi quindi non sono tanto il cambiamento demografico, ma le variabili legate all’offerta: la quantità e la tipologia di servizi consumati, in particolare correlati con l’introduzione e la massiccia diffusione di nuove tecnologie; inoltre, costi e prezzi dei servizi (personale, altri fattori produttivi, ecc.). La spesa sanitaria è una variabile delle politiche: solo entro certi limiti si può decidere di garantire o meno una gamma di servizi o alcuni servizi piuttosto che altri. In sintesi: in Italia è carente l’analisi dei costi: le valutazioni a livello internazionale, tuttavia, evidenziano che sono molto rilevanti i costi sono in aumento per l’invecchiamento della popolazione: spesso i costi indiretti sono maggiori di quelli diretti 56 Cronicità: lessico e paradigma il rapporto tra invecchiamento e spesa sanitaria non è né lineare né semplice, e neppure quello fra demografia e cronicità: le variabili demografiche non sono determinanti in sé. Possiamo quindi concludere che: cronicità e disabilità sono, da un lato, strettamente legate e, dall’altro, sono fenomeni di genere la cronicità va prevenuta la risposta alla cronicità va organizzata attraverso la presa in carico della persona, l’empowerment, l’integrazione, gli investimenti è un problema equitativo: occorre cioè porre attenzione nel garantire risposte eque alle persone se vale la compressione della morbilità, conviene la capitalizzazione è un problema di qualità della vita, ma ripaga in termini di customer satisfaction. Federico Spandonaro Bibliografia Coordinamento nazionale associazioni malati cronici – Cittadinanzattiva, VII Rapporto sulle politiche della cronicità, 2007. Istat, “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”, 2004-2005. “La ricerca sul costo sociale delle malattie”. In: Igiene e sanità pubblica, 2002. F. Maino, La politica sanitaria. Il mulino, Bologna, 2001. A. Piperno, “Avremo le risorse per curarci?”. In: Economia & Lavoro, 2002, 1. Rapporto Ceis, 2007. Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità? 57 Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? di Sandro Spinsanti I pazienti vanno dal medico per essere guariti, non per essere educati. Ogni programma di educazione terapeutica rivolto al paziente deve tener conto di questa fondamentale asimmetria di attese, dalla quale possono scaturire dolorosi malintesi. Eppure niente è più tradizionale in medicina dell’intento educativo, parallelo a quello terapeutico. Se ne possono rintracciare le radici nella stessa medicina greca, che contiene in sé il codice genetico di tutta la medicina occidentale. È vero che Platone nella Repubblica non risparmia frecciate ironiche contro la medicina che insegna ai pazienti a «prolungare la loro morte». Propone come esemplare il comportamento degli artigiani, che conoscono solo la medicina curativa, non quella che permetterebbe loro di prolungare la vita nello stato di patologia cronica: Un falegname, quando si ammala, chiede al medico di dargli una pozione che gli permetta di vomitare o di evacuare la malattia, oppure lo prega di guarirlo cauterizzando o incidendo. Se però gli viene prescritta una lunga cura, se deve avvolgersi il capo con berretti di lana o cose del genere, dice subito che non ha tempo di essere malato, e vivere ascoltando la sua malattia e trascurando il lavoro che lo attende non gli serve nemmeno. Poi egli congeda un medico simile, ritorna al regime consueto, recupera la salute e vive del suo mestiere; se invece non sarà abbastanza forte per sopravvivere, si libererà dai suoi malanni con la morte. La medicina applicata alla cura delle malattie che non guariscono è per Platone una deviazione dall’arte medica originale: «Asclepio aveva celato questo aspetto della medicina non per ignoranza o per inesperienza, ma perché sapeva che in uno Stato con buone leggi ogni cittadino ha il suo compito e deve eseguirlo, e non ha tempo di passare la vita a farsi curare le sue malattie». Dietro la posizione di apparente predilezione per una selezione naturale di tipo darwiniano, si può leggere un alto apprezzamento per la natura (physis) e la sua sag60 Cronicità: lessico e paradigma gezza, congiuntamente a una messa in guardia rispetto alla deformazione antropologica e allo squilibrio sociale che si creano quando la salute da mezzo diventa fine. Malgrado le riserve formulate da Platone, la medicina antica ha sviluppato un carattere profondamente pedagogico. Lo documentano i testi dietetici e igienici che compaiono fin dagli esordi del pensiero medico e che sono parte cospicua del Corpus hippocraticum. Il motivo va rintracciato nella teorizzazione antropologica che ipotizzava uno stato “neutro”, intermedio tra la salute e la malattia. Coloro che, né sani né malati, si trovano in questo stato intermedio, sono soggetti alle cure mediche, almeno sotto l’aspetto della diaita (come ricorda Dietrich von Engelhardt la dietetica greca regolamentava sei ambiti: aria e luce, mangiare e bere, movimento e riposo, sonno e veglia, secrezioni, affetti). Secoli più tardi, all’alba delle trasformazioni culturali che condurranno alla medicina dei nostri giorni, Jules Romains nella commedia Knock o il trionfo della medicina mette in bocca al protagonista una dura requisitoria contro la “neutralità”. Perché si possa celebrare “il trionfo della medicina” – sostiene il dottor Knock, partigiano della teoria che «ogni sano è un malato che si ignora» – è necessario condurre la popolazione ignara all’“esistenza medica”. Al medico suo predecessore nella condotta rurale spiega la propria strategia di “promozione della salute”: Voi mi date un cantone popolato da qualche migliaio di individui neutri, indeterminati. Il mio ruolo è quello di determinarli, di condurli all’esistenza medica. Io li metto a letto e guardo ciò che ne potrà venir fuori: un tubercolotico, un neuropatico, un arteriosclerotico, ciò che si vorrà, ma qualcuno, buon Dio!, qualcuno! Niente mi irrita come quell’essere né carne né pesce che voi chiamate essere sano. È sempre più difficile allontanare il sospetto che dietro i programmi di educazione alla salute, come quelli che nell’immaginario paese di Saint Maurice lancia l’intraprendente dottor Knock, ci sia un’abile strategia di “medicalizzazione” della vita. Con la conseguenza che più ci si occupa della salute, più peggiora la qualità della vita: come osservava Proust nella Strada di Swann «Per ogni patologia che cerca di curare, il medico ne provoca dieci volte tante tra la gente che tranquillamente si gode la propria buona salute, inoculando un subdolo virus più nocivo di tutti gli altri: il timore di potersi ammalare da un momento all’altro». Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 61 Per quanto l’educazione si presenti come altruisticamente orientata “al bene del paziente”, si sviluppa sotto il segno del potere medico: un potere nei confronti del quale ai nostri giorni sta crescendo la diffidenza. Poche sono le esperienze storiche di educazione alla salute nate con un esplicito intento di costituire un contropotere medico. Tra queste andrebbe almeno segnalato il movimento americano noto come “Popular Health Movement”, sviluppatosi negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, in vivace contrasto con la medicina accademica. Il movimento non era che il fronte medico di un’agitazione sociale più vasta, fomentata dai movimenti operaio e femminista. L’attacco all’elite medica era accompagnato da una vigorosa affermazione della tradizionale medicina del popolo. “Every man his own doctor” era il motto di un’ala estremista del “Popular Health Movement”. Per certe sue iniziative il movimento per la salute confluiva negli obiettivi del movimento femminista, come le “Ladies Physiological Societies”, che impartivano semplici istruzioni di anatomia e igiene personale, sotto la spinta a “riappropriarsi del corpo”. Il movimento non rivendicava una maggiore quantità di cure mediche, ma prospettava piuttosto una cura della salute di tipo radicalmente differente. Era una sfida alla medicina ufficiale, sia al modo in cui veniva praticata, sia alle basi concettuali del suo edificio. Per quanto intendesse differenziarsi dall’approccio medico, anche questo modello di educazione alla salute ne conservava, tuttavia, un tratto caratteristico: l’atteggiamento paternalistico. Un’asimmetria radicale nel rapporto tra educatore ed educando contraddistingue la letteratura fondata sull’igiene individuale diffusa nel XIX secolo. Sia la letteratura di matrice religiosa sia quella laica sono espressioni di una borghesia che si prende cura del proletariato, con intenti di tutela. Si possono individuare due filoni sinergici: quello che parte dall’ordine sociale e religioso costituito per incitare a condurre una vita sana e moralmente integra e quello più sensibile ai movimenti tendenti al progresso sociale e politico. L’impegno scientifico-sociale si tramuta con naturalezza in un impegno scientifico-pedagogico; l’educazione rimane tuttavia un’attività che scende dall’alto di un sapere specialistico e di un atteggiamento filantropico. Il paternalismo che caratterizza l’educazione sanitaria è duro a morire, ed è rintracciabile anche in programmi educativi nati in contesti culturali del tutto diversi, come quelli lanciati nel nostro secolo 62 Cronicità: lessico e paradigma dall’Organizzazione mondiale della sanità sotto lo slogan “salute per tutti”. La denuncia è formulata dallo stesso ex direttore generale dell’Oms, Halfdan Mahler, nell’introduzione con cui presenta nel 1988 il manuale Education for health, rivolto all’insegnamento della “Primary health care”: «Dobbiamo smettere di cercare di far entrare le comunità in sistemi e programmi che noi escogitiamo, senza una vera e profonda sensibilità per gli aspetti sociali dei programmi sanitari o per le restrizioni economiche – per non parlare delle dissonanze culturali, che spesso provocano una reazione di rifiuto di tali programmi». A quanto sembra, la preoccupazione educativa è oggi presente nel mondo sanitario in misura crescente. Questo almeno è il linguaggio dei numeri, se ci si lascia guidare dalle voci bibliografiche riportate da Medline sotto “Patient education”: se dal 1983 al 1990 si registrano 6632 pubblicazioni, il numero sale a 9048 per gli anni dal 1991 al 1996. Ancora più convincente è la crescita se si confrontano i numeri per singoli anni: a fronte di 787 pubblicazioni nel 1983, se ne hanno 1312 per il 1997 e ben 1563 per il periodo gennaio-ottobre 1998. Ma la quantità non è sinonimo di qualità; e soprattutto è necessario verificare se l’educazione del paziente è concepita in modo compatibile con la cultura della modernità, che sta entrando anche in medicina. La cronicità e il nuovo profilo epidemiologico Ci sono due trasformazioni che devono avere luogo se vogliamo che l’educazione alla salute abbia un reale impatto sui nostri contemporanei: le cure rivolte ai malati cronici da marginali devono diventare centrali in medicina e il rapporto di potere tra sanitari e malati deve modificarsi nel senso di un maggiore empowerment dei secondi. La prima condizione richiede una ristrutturazione del rapporto reciproco che hanno in medicina il trattamento delle malattie acute e quello delle malattie croniche. La ricerca internazionale coordinata dallo Hastings Center Gli scopi della medicina è esplicita nell’indicare, tra le nuove priorità, l’assistenza ai malati per i quali non è prevista la guarigione: Nelle società sempre più vecchie del nostro tempo, dove le malattie croniche sono la causa più comune di dolore, di sofferenza e di morte – dove, in altre parole, le infermità sono destinate a continuare indipendentemente da quello che fanno i medici – l’assistenza alla persona, il prendersi cura di lei, diventa ancora più importante, riacquistando un primato Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 63 dopo un’epoca in cui è sempre apparsa una seconda scelta. Nei casi di infermità cronica i pazienti devono essere aiutati a dare un senso personale alla propria condizione, ad affrontarla e a conviverci, magari in permanenza. A sessant’anni per lo più hanno una malattia cronica, e a ottanta ne hanno tre o più. Dopo gli ottanta almeno nella metà dei casi hanno bisogno di un aiuto significativo per far fronte alle comuni attività della vita quotidiana. Nei confronti dei malati cronici, che devono imparare ad adattarsi a un sé nuovo e alterato, il lavoro del personale medico dovrà concentrarsi non già sulla terapia, ma sulla gestione della malattia – dove per “gestione” si intende l’assistenza psicologica empatetica e continua a una persona che, in un modo o nell’altro, deve accettare la realtà della malattia e conviverci. Qualcuno ha osservato che la medicina a volte deve aiutare il malato cronico a forgiarsi di una nuova identità. Anche l’Oms sta puntando decisamente in questa direzione, come comprova il documento del 1988 Therapeutic patient education. Nel 1996 l’Ufficio regionale europeo dell’Oms ha richiesto un documento che indicasse i contenuti di uno specifico programma educativo per sanitari nell’ambito della prevenzione delle malattie croniche e dell’educazione terapeutica dei pazienti. Rispondendo a questa richiesta, un gruppo di studio ha proposto il curriculum necessario per far acquisire agli erogatori delle cure la competenza necessaria per aiutare i pazienti a gestire autonomamente le loro malattie croniche. Il principio ispiratore è permettere ai discenti di diventare gradualmente gli architetti della propria educazione. L’osservazione relativa agli infermieri è uno dei numerosi spunti innovativi contenuti nel documento: «La Regione europea dell’Oms ha almeno cinque milioni di infermieri, che costituiscono il più numeroso gruppo di sanitari. Il loro contributo effettivo e potenziale nella gestione delle malattie croniche è sottostimato e non utilizzato come sarebbe possibile». Il secondo cambiamento riguarda il rapporto che si instaura tra i professionisti sanitari e chi a loro fa ricorso. Non si tratta di una realtà astorica, ma una relazione che cambia nel tempo. Una documentazione convincente delle rapide trasformazioni in corso è fornita dal confronto tra due ricerche, condotte dal Censis a distanza di un decennio sui comportamenti e i valori dei pazienti italiani. Sul finire degli anni Ottanta si poteva distinguere un duplice atteggiamento degli intervistati nei confronti della salute. Nei confronti del nucleo “hard”, costi64 Cronicità: lessico e paradigma tuito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte e di cronicità, permanevano gli atteggiamenti più tradizionali: il corpo inteso come “pezzi di ricambio”, l’apparato sanitario come struttura a cui affidarsi per la riparazione dell’organismo-macchina, la prevalenza del paradigma malattia-medicina-servizi sanitari. Al di fuori di questo ambito, la domanda di salute acquistava connotati più morbidi, con la richiesta di promozione del benessere psicofisico, comportamenti di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma dell’offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi. La rivisitazione della domanda di salute che è andata prendendo forma negli anni Novanta ha evidenziato la crescita di atteggiamenti di non-compliance e sostanzialmente ambigui: i pazienti sono sempre più informati e tendono a negoziare spazi di autogestione per la propria salute (attraverso il self-care e la ridefinizione della terapia farmacologica); tuttavia in presenza di malattie gravi si affidano in modo pressoché completo alla capacità curativa e riabilitativa dei “tecnici”. Di fronte al medico prevalgono atteggiamenti più pragmatici e disincantati, con un apprezzamento maggiore rivolto alla funzione riparativa. È istruttiva a questo proposito la tabella che riporta le opinioni degli intervistati sulle qualità che contraddistinguono un buon medico: mentre è molto apprezzata la capacità tecnico professionale, quella pedagogica, che si esprime nella capacità di spiegare al paziente la sua malattia, è la meno richiesta: Le qualità di un buon medico secondo le opinioni degli intervistati (%) Capacità professionale/esperienza 58,4 Capacità di rapporto umano con il paziente 34,9 Disponibilità, reperibilità quando si ha bisogno di visite 15,1 Curare la prevenzione, seguire il paziente anche dopo la cura 14,7 Impegno nello studio, nell’aggiornamento 11,4 Amore per la professione, non pensare solo al guadagno 29,8 Capacità di spiegare esattamente al paziente la sua malattia 12,9 Nota. I totali sono diversi da 100 perché erano possibili più risposte Fonte: indagine Censis, 1998 Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 65 Le ambivalenze che si registrano nella popolazione rispetto alla figura del medico come educatore alla salute portano a concludere che la crescita culturale, quale condizione previa per un rapporto “adulto” con i professionisti sanitari e per un’autogestione responsabile della propria salute, non è un fatto spontaneo. È necessaria perciò la messa in opera di politiche pubbliche specifiche. Cosa chiedono i cittadini alla medicina L’attività di cura non è così lineare come il termine lascia intendere. Si possono immaginare tre diversi scenari, nei quali sono diversi il ruolo dei curanti e quello delle persone curate, e quindi è diversa la formazione necessaria per esercitare adeguatamente il compito. Il primo scenario ha a che fare con le situazioni in cui abbiamo bisogno di cura a causa di una malattia della quale vogliamo liberarci. Il modello si realizza con la massima linearità ed efficacia nelle situazioni in cui ha luogo una guarigione. Possiamo visualizzarle pensando al giorno felice in cui diciamo: «Dottore, mi sento bene, adesso»; o alla scena in cui è il dottore a venire al nostro letto di malato per comunicarci: «Lei adesso è guarito, da domani si può alzare». Pensiamo che finalmente la cura ha raggiunto il suo obiettivo: siamo “curati”, perché siamo giunti alla guarigione. Attraverso la cura si chiude la parentesi aperta della malattia. Con un’espressione latina, questa guarigione si chiama restitutio ad integrum. Il secondo modello di cura è quello che i classici dell’antichità, sia medici sia filosofi, chiamavano la “guarigione sufficiente”. Si tratta della misura di guarigione necessaria per continuare a vivere. Quello che per gli antichi poteva essere un’evenienza rara, quasi eccezionale, ai nostri giorni è diventato l’esito più frequente del processo di cura. Il primo modello di cura si realizza ormai solo nel 20% delle nostre malattie, cioè in una minoranza delle situazioni. Nell’altro 80% di casi patologici avviene che la medicina non riesce a dare la guarigione, intesa come restituzione all’integrità e alla salute piena, ma dà la guarigione sufficiente, in quanto capacità di continuare a progettare e a vivere la propria vita malgrado la malattia. Sempre più spesso, quindi, quando andiamo dal medico dobbiamo abbandonare il sogno ingenuo che usciremo prima o poi, con un percorso lungo o contorto, dal tunnel della malattia per tornare alla salute. In questo contesto il significato di cura è dunque diverso. Ciò vuol 66 Cronicità: lessico e paradigma dire che per un numero crescente di persone la medicina non dà risposte risolutive: offre solo, se riusciamo a coglierla, la capacità di continuare a vivere con il nostro diabete, con il nostro asma, con la nostra insufficienza cardiaca, con le due (o tre o quattro o cinque) malattie croniche che si avvolgono le une sulle altre dopo una certa età. Lo scenario prevalente ai nostri giorni dunque è per lo più caratterizzato da cure che non sono rivolte alla restituzione della salute, ma sono finalizzate a darci la capacità necessaria per continuare il nostro processo vitale, malgrado le patologie dalle quali non possiamo liberarci. A questo scenario di cura bisogna aggiungere una terza e più ampia categoria di salute, che dà luogo a un terzo modello di cura. La prima accezione di salute è la mancanza di sintomi: sono in salute quando non ho nessuna patologia, oppure, qualora fossi malato, la medicina ha le riposte giuste per farmi ritornare di nuovo in salute e quindi liberarmi dal sintomo. Il secondo modello presuppone la salute intesa come un equilibrio continuo e instabile tra sintomi dai quali non sempre sono in grado di liberarmi, ma con i quali posso continuare a convivere e sviluppare il mio progetto esistenziale. Per indicare il terzo concetto di salute si può prendere un’espressione da un filosofo che ha avuto personalmente una lunga e tribolata storia di malattie, ed è morto relativamente giovane: Friedrich Nietzsche. Si può quasi parlare della sua filosofia come di una risposta alle sue malattie, alla sua salute carente. In una lettera Nietzsche afferma, in modo molto incisivo, che attraverso le sue malattie è arrivato alla “Grande salute”. Proprio con questa espressione ci si può riferire alla salute che non presuppone né l’assenza di malattie, né la convivenza con esse, bensì la realizzazione del nostro progetto di uomini e donne che, attraverso le vicende del corpo, realizzano un destino che dipende da loro e che trascende il piano corporeo. Possiamo descrivere la nostra storia di uomini e donne dicendo che attraverso la nostra “patografia” (cioè il pathos che viviamo) scriviamo la nostra autobiografia; o ancora che la nostra autobiografia non è altro che la nostra patografia, cioè una serie di sofferenze, dolori, prove, legati alla nostra esistenza corporea. Elementi centrali di questa patografia sono le malattie, ma non solo. Non è sicuramente una malattia generare un figlio, ma forse nella storia di una donna l’aver Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 67 generato un figlio è un elemento costruttivo della sua biografia “corporea” come pochi altri elementi. La salute non è soltanto quello che risulta nel libretto sanitario, ma è l’equivalente della nostra vita. Anche invecchiare è un momento della salute. Basta pensare a coloro che rifiutano l’invecchiamento come fenomeno naturale, per avere un’immagine molto chiara di come accettare o non accettare la decadenza del corpo sia un elemento critico della salute. Ancora un esempio: la menopausa non è solo un evento di tipo clinico ma biografico, in senso più ampio, che richiede l’accettazione della fine della fase feconda della propria vita. In sintesi, si potrebbe dire che la “grande salute” non è altro che la storia del nostro corpo attraverso momenti patologici o fisiologici che possiamo registrare come la storia della nostra realizzazione. In quanto esseri umani corporei, la nostra storia, con il suo significato immanente e anche quello trascendente, la scriviamo con il nostro corpo: con il nascere, crescere, ammalarsi e guarire, ammalarsi e non poter guarire e perciò dover convivere con la malattia; con il nostro invecchiare, decadere, morire. Da questo punto di vista la “grande salute” non è il contrario della morte. Anche la morte si può definire come un momento della “grande salute”. È un paradosso, ma il saper morire non è in contraddizione con la salute. Anzi, si può definire come un momento fondamentale della “grande salute”. I tre modelli di cura possono essere presentati sinteticamente con uno schema grafico. Restitutio ad integrum La guarigione sufficiente La “grande salute” Descrizione del processo terapeutico Togliere il sintomo o la condizione patologica Rendere possibile la continuazione del progetto esistenziale Giungere, attraverso la patologia, a una più piena autorealizzazione della persona Ruolo del terapeuta ProfessionistaEducatore: favotecnico: propone risce l’empowerla cura efficace ment del malato (to cure) Counselor (testimone partecipe): si prende cura (to care) Partecipazione consapevole del paziente Auspicabile Indispensabile 68 Cronicità: lessico e paradigma Necessaria La formazione dei curanti cambia a seconda che si parli della cura intesa come restituzione della salute come integrità, della cura come aiuto per vivere con le nostre malattie, oppure della cura intesa come l’appoggio di cui abbiamo bisogno per diventare uomini e donne realizzati attraverso quello che la vita, dalla nascita alla morte, ci fornisce. Ognuno dei tre modelli ha bisogno di curanti diversi, così come diversi siamo noi in quanto persone che beneficiano della cura. Nello schema cambiano, rispettivamente, il ruolo del terapeuta e la partecipazione consapevole del paziente. Nel primo modello si deve registrare un cambiamento abbastanza notevole, che sta avvenendo sotto i nostri occhi, in questi anni. Il fatto è tanto più notevole in quanto questo modello si è mantenuto inalterato nel tempo durante molti secoli. Questo schema di comportamento regolava i rapporti in modo molto lineare: per restituire la salute, là dove è possibile, faceva intervenire un professionista che conosce l’arte del curare, sa cosa va fatto quando c’è una frattura, un infarto, una ferita. È lui che, in scienza e coscienza, decide per il paziente. La partecipazione del paziente a questo processo era tradizionalmente sintetizzata nella richiesta di docilità alle prescrizioni mediche. Un medico spagnolo che ha riflettuto su questi temi, Gregorio Marañon, diceva, fotografando quella che era la tradizione medica: «Il paziente comincia a guarire quando obbedisce al medico». Nel modello tradizionale della cura il paziente doveva esercitare esclusivamente le virtù dell’obbedienza. Sulla cura, intesa in questa accezione, si sarebbe potuto mettere il cartello: «Non parlate al conducente». Qualche medico l’interpretava anche in maniera letterale, proibendo al malato di fare domande sul proprio stato di salute. Il medico è il capitano della nave o dell’aereo; lui conosce la rotta e lavora tanto meglio quanto meno viene disturbato. La consapevolezza richiesta al paziente era minima. Anche questo modello sta cambiando nel nostro tempo. Oggi, sempre di più, la partecipazione consapevole è opportuna, auspicabile. Tra chi propone la cura efficace, con tutta la competenza professionale richiesta – “scienza e coscienza” sono sempre necessarie! – e chi la riceve si richiede una maggiore simmetria, che esclude l’affidamento passivo nelle mani del medico. Non sono però rari i pazienti che rifiutano ogni coinvolgimento nelle decisioni diagnostico terapeutiche: «È lei il dottore, non voglio sapere niente, faccia lei». Nella nostra società Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 69 questo comportamento, definito paternalistico, oggi non è più accettato da buona parte dei cittadini. Tuttavia, finché ci muoviamo all’interno di questo modello di cura, in fondo i ruoli sono abbastanza ben definiti. La formazione necessaria per il curante può essere definita dalle attese del paziente: dal medico il malato si aspetta in primo luogo la competenza. La formazione che fa di lui un medico oggi si riassume sotto l’etichetta di evidence based medicine, cioè una medicina basata non sulle opinioni o le credenze, ma sulle prove di efficacia. È necessario che sappia quale trattamento è meglio rispetto a un altro ai fini della restituzione della salute e si regoli secondo linee guida scientificamente valide e non secondo tradizioni di scuola che hanno fissato certi comportamenti. Oggi il cittadino non è più disposto ad accettare delle disparità di trattamento, per cui la stessa patologia viene curata diversamente a seconda dell’ospedale a cui ci si rivolge (qualche volta, all’interno dello stesso ospedale, il trattamento cambia a seconda dell’unità operativa o del medico, all’interno di uno stesso servizio). Questo non basta ancora: la competenza professionale richiede oggi che il medico – il luminare – non solo sappia come va trattata una patologia, ma che lo comunichi al paziente, coinvolgendolo nelle scelte che lo riguardano. È quello che oggi si chiama “consenso informato”. La formazione scientifica seria oggi si completa con la formazione anche al rispetto dei diritti civili delle persone. Il malato non va trattato come un povero cristo: non è un “paziente”, nel senso anche morale della parola, cioè qualcuno a cui è chiesto solo di sopportare con pazienza dolori e disagi. Educazione alla salute ed empowerment Quando ci orientiamo alla restitutio ad integrum richiediamo che da parte del sanitario ci siano la competenza, la scienza e anche il rispetto delle regole, secondo lo stile del rapporto che nella nostra società esprime la nuova cultura dei diritti. Per ritornare in salute questo ci basta. Se invece lo scenario è il secondo, la situazione diventa più complessa. Il rapporto che si instaura quando lo scenario è quello della salute sufficiente, o necessaria a convivere con una patologia inalienabile, è diverso da quello che predomina nelle malattie acute. Mentre nella medicina acuta il medico si occupa dell’emergenza e il paziente è passivo, nella medicina cronica il medico ha l’obiettivo di 70 Cronicità: lessico e paradigma portare il paziente a contare su se stesso. Nella medicina acuta il rapporto è spesso genitore-figlio: il medico prende un ruolo di genitore e guida con autorevolezza; invece nella medicina cronica la relazione si modella piuttosto sul rapporto adulto-adulto. Nella medicina acuta, quella che si risolve nella guarigione, il rapporto con il medico è caratterizzato da gratitudine e ammirazione: il medico che risolve il mio caso è un grande medico. Nel rapporto con la malattia cronica, invece, c’è spesso scarsa gratitudine: ogni volta il medico mi dice le stesse cose; lui si annoia – me ne rendo conto – e anch’io mi annoio, perché il mio problema di salute è sempre lì. Il rapporto è pervaso da un risentimento profondo, da una parte e dall’altra. Il medico è frustrato, perché si trova a combattere sempre con la stessa situazione, e anche il paziente ce l’ha con il medico, che non risponde alle sue attese. In generale, la medicina per i malati che non vanno verso la guarigione ma si trovano in una situazione di stabile cronicità richiede un numero maggiore di aspetti educativi. L’educazione non sta per indottrinamento. Spesso si intende l’educazione sanitaria come insegnare al paziente ad assumere determinati comportamenti (non fumare, non assumere sostanze dannose, non mangiare dolci se si è diabetici, ecc.). L’educazione di cui parliamo non si limita a insegnare determinate regole. Come avviene nell’educazione degli adulti, vuol dire sostanzialmente cercare insieme obiettivi, negoziarli, verificarli, per poi ridefinirli da capo. È un rapporto adulto-adulto, fondato sul rispetto e la stima; quello che è importante non è un’autorità che uno può giocare dall’alto, ma il rapporto che si stabilisce con il tempo. La personalità del paziente cronico si modifica progressivamente: si può gradualmente arrivare a delle decisioni che forse qualche tempo prima non erano condivise o condivisibili. In questo contesto nell’attività di cura l’accento va a cadere sull’attenzione da prestare alla persona malata, per capire cosa sta vivendo, per ascoltarla e accompagnarla nelle sue decisioni. Questo atteggiamento del curante è necessario soprattutto se ci spostiamo nel terzo modello di cura, dove la cura non è più soltanto un’attività di tipo professionale. La cura necessaria per poter arrivare alla “grande salute” non è esclusivamente quella che fornisce il medico o l’infermiere, ma è un’attività in parte professionale e in parte non professionale. Un mito molto suggestivo, riportato da Igino, uno scrittore romano del II secolo, ci parla di una dea molto singolare: Cura. Secondo il mito, «Cura, menCronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 71 tre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Era intenta a osservare che cosa aveva fatto, quando intervenne Giove. Cura lo pregò allora di dare lo spirito alla forma: Giove acconsentì volentieri e la forma divenne un uomo. Cura allora pretese di imporre il proprio nome alla forma umana, ma Giove non acconsentì e volle che fosse imposto il proprio. I due disputavano sul nome, quando intervenne anche la Terra, reclamando che fosse imposto il proprio nome, perché lei aveva dato alla forma una parte di se stessa. I contendenti elessero Saturno a giudice, che emise la seguente salomonica sentenza: “Tu, Giove, hai dato lo spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, hai dato il corpo, e riceverai il corpo. Ma fu Cura che per prima diede forma a questo essere, e per questo fin che vive essa lo possederà”». Finché noi viviamo, dalla nascita alla morte, siamo figli di Cura. Questa non è rappresentata solo dai professionisti con il camice bianco, ma anche da padri, madri, fratelli, vicini, volontari, ecc. Essere curanti in questo grande e più ampio significato vuol dire che attraverso le vicende del nostro corpo, quelle felici e quelle tristi, la generazione della vita, la crescita, la decadenza e la morte, noi possiamo autorealizzarci. Per questo più che un sapere tecnico si rende necessaria la capacità di essere presenti e di esercitare un ascolto attivo: l’ascolto che guarisce. Lo si può chiamare counseling, non intendendo però la consulenza nel senso di indurre un altro a fare qualcosa. Counseling è una presenza all’altra persona, sapendo che la cosa di cui abbiamo più bisogno non è tanto qualcuno che faccia qualcosa per noi o che ci dia consigli, ma fondamentalmente che sia presente. La misura della consapevolezza necessaria per entrare in questo processo è massima: nessuno ci può far crescere, se noi non lo vogliamo. Non è detto che questi processi di nascita, crescita, decadenza, vita, morte producano automaticamente degli esseri consapevoli. Non è per niente scontato che noi moriamo come quegli “uomini” che saremmo dovuti diventare. La fine della nostra vita come pienezza non è un dolo sicuro, ma un processo molto aleatorio. L’esperienza quotidiana ce lo conferma: ci sono delle persone che attraverso le dure vicende del corpo diventano migliori, maturano, nel senso che acquisiscono maggiore umanità; ce ne sono altre che attraverso vicende analoghe si chiudono, diventano più ostili, più egoiste, ancora meno apprezzabili dal punto di vista dell’autorealizzazione umana. 72 Cronicità: lessico e paradigma Nessuno ci può condurre per mano alla “grande salute”: è la nostra autorealizzazione. Neppure la persona che mi ama di più può darmi la possibilità di realizzarmi come essere umano. Soltanto io posso farlo; ma per questo ho bisogno dell’aiuto di persone che mi amano, mi rispettano e mi ascoltano. Se queste persone hanno anche il camice bianco, benissimo; ma sono benvenuti tutti coloro che possono garantire una vera presenza. Sandro Spinsanti Bibliografia B. Bernardi, “Salute per tutti: prospettiva XXI secolo”. In: L’Arco di Giano 16, 1998. Censis, La domanda di salute in Italia. Comportamenti e valori dei pazienti degli anni Ottanta. FrancoAngeli, Milano, 1989. Censis, La domanda di salute degli anni Novanta. Comportamenti e valori dei pazienti italiani. FrancoAngeli, Milano, 1998. G. Cosmacini, G. Gaudenzi, R. Satolli (a cura di), Dizionario di storia della salute. Einaudi, Torino, 1996. Hastings Center, “Gli scopi della medicina: nuove priorità”. In: Notizie di Politeia 45, 1997. J. Kett, The formation of the American medical profession: The role of institutions, 1780-1860. Yale University Press, New Haven, 1968. Organizzazione mondiale della sanità, Education for health. Ginevra, 1988. Organizzazione mondiale della sanità, Therapeutic patient education, Report of a Who Working Group. Ginevra, 1998. Platone, La Repubblica. Mondadori, Milano, 1990. J. Romains, Knock o il trionfo della medicina. Liberilibri, Macerata, 2007. Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura? 73 L’approccio olistico al malato terminale di Cosimo De Chirico O listico è un termine che deriva dal greco “olos” e letteralmente significa “tutto”. Applicato alla biosfera, olismo indica la posizione etica che riconosce rilevanza morale alla natura come ecosistema. Come riporta il Dizionario di bioetica di Maurizio Balistreri, l’ecosistema è un organismo vivente con un interesse di benessere non riconducibile a quello dei suoi componenti. Restringendo lo sguardo all’uomo, il termine olistico gli riconosce valore in quanto viene considerato nella sua unione di corpo, mente, emozioni e spirito. La sua condizione di benessere non può essere riconducibile singolarmente ai suoi componenti. Il concetto assume contorni di maggiore chiarezza quando ci si riferisce all’uomo con problemi di salute che necessita di cure; in questo caso si parla di “terapia olistica”, espressione che sta a significare la cura di una condizione fisica o mentale (terapia) considerando il soggetto che ne è affetto, l’uomo, nella sua unione di corpo, mente, emozioni e spirito (olistica). Dunque la caratteristica principale delle terapie olistiche è quella di mettere su un unico piano gli aspetti fisici, mentali, emotivi e spirituali della persona che si ha in cura, invece di separarli come succede nella medicina tradizionale, dove viene data la priorità a un unico campo con la contemporanea esclusione degli altri. Forse più che di terapie olistiche si potrebbe parlare di “approccio olistico” alla malattia, da cui poi derivano le conseguenti terapie. L’approccio olistico trova la sua massima espressione di fronte alla malattia inguaribile, in una fase avanzata, quando la sofferenza coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni. Approccio al malato terminale I fondamenti dell’approccio al malato terminale sono contenuti nella definizione dell’Oms di cure palliative: «Approccio che migliora la qualità della vita dei pazienti e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie mortali, attraverso la prevenzione e il 76 Cronicità: lessico e paradigma sollievo dalla sofferenza per mezzo dell’identificazione precoce, dell’impeccabile valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali». Le parole chiave della definizione di cure palliative sono: approccio, problemi, qualità della vita. L’approccio al malato terminale va inteso nel senso di un diverso paradigma di cure, che non è più quello orientato al malato potenzialmente guaribile che giustifica ogni tipo di intervento, compresi quelli invasivi, per conseguire la guarigione o un significativo allungamento della vita, ma quello orientato al malato inguaribile che giustifica solo gli interventi che danno sollievo. L’approccio al malato terminale va inteso anche nel senso olistico, che invita a prendersi cura di un malato che sta soffrendo un dolore così profondo e complesso che viene definito “totale”; totale perché coinvolge la dimensione fisica (dolore fisico, dispnea, vomito, ecc.), la dimensione psicologica (paura, senso di impotenza, rabbia, ecc.), la dimensione sociale (perdita del ruolo, problemi economici, ecc.) e la dimensione spirituale (il senso della vita). I problemi sono quelli che interessano maggiormente il malato, perché lo fanno soffrire. Figura 1 L’approccio olistico al malato terminale 77 Il malato è poco interessato ai meccanismi fisiopatologici delle malattie o alle caratteristiche istologiche: è interessato agli effetti che il tumore ha sulla sua salute, che gli impediscono di continuare a vivere e lavorare come prima. Parlare con il malato di problemi, piuttosto che di diagnosi, aiuta a comprendere l’oggetto su cui entrambi, medico e paziente, si impegnano per trovare le strategie di cura finalizzate al sollievo dalla sofferenza e a migliorare la qualità della vita. Per questa ragione, accanto alla classificazione internazionale delle malattie (International Classification Disease), l’Oms ha ritenuto opportuno affiancare la classificazione degli esiti delle malattie sulla vita delle persone (International Classification of Functioning, Disability and Health). L’attenzione verso i problemi apre prospettive concrete di interventi da parte degli operatori, in quanto favorisce la contestualizzazione dell’intervento; ciò è giustificato anche dalla constatazione che a parità di diagnosi le conseguenze sulla vita di due persone possono essere profondamente differenti; per esempio l’amputazione del quinto dito della mano di un pianista ha conseguenze diverse rispetto alla stessa lesione che colpisce un calciatore. L’approccio per problemi aiuta a trovare soluzioni personalizzate. La qualità della vita è utilizzata a volte in medicina per misurare gli esiti delle cure. L’attenzione alla qualità della vita è fondamentale per gli operatori che devono orientare le strategie assistenziali in grado di affrontare le questioni che stanno più a cuore al paziente. Gli elementi che caratterizzano la qualità della vita, diffusamente riconosciuti, sono la multidimensionalità e la soggettività. Dalla prospettiva degli esperti, secondo Anita Stewart, la multidimensionalità si riferisce in particolare ad aspetti obiettivabili, fisici, psicosociali, spirituali, l’autonomia fisica e le capacità cognitive. Dalla prospettiva del malato, come spiega invece Peter Singer, gli elementi che consentono di vivere meglio alla fine della vita hanno a che fare con la dignità, cioè vivere senza dolore, conservare la capacità di autocontrollo e di autonomia decisionale, conservare le relazioni sociali e gli affetti, non essere di peso sulla famiglia e non ricevere interventi che prolunghino inutilmente la vita. Nel contesto delle cure palliative la qualità della vita va intesa come soddisfacimento dei desideri e delle aspettative del malato; è condizionata da due ordini di fattori: dalla gravità dei problemi di salute e dalla consapevolezza della diagnosi e dell’inguaribilità. Da un lato le 78 Cronicità: lessico e paradigma cure devono essere efficaci (controllo del dolore, mobilità, tono dell’umore, ecc.), dall’altro le aspettative del malato, informato, devono essere coerenti con il proprio stato di salute che, ovviamente, peggiora progressivamente. Meno divario c’è tra le condizioni attuali di salute e le aspettative del malato, più elevata sarà la qualità della vita. Figura 2 Situazione ideale (atteso, desiderato) Qualità di vita Situazione reale (osservato) L’accompagnamento del malato alla fine della vita rappresenta la prospettiva etica che da un senso al progetto di cura, in quanto risponde a un bisogno fondamentale del malato, cioè di non restare solo ad affrontare i problemi che la sua condizione impone. L’accompagnamento è sostenuto da quattro pilastri: alleviare la sofferenza: nel pensiero di molti non c’è tanto l’angoscia del morire, quanto quella del patire; il dolore inchioda la persona nella solitudine, impedendole di vivere. Dare sollievo dal dolore e dagli altri sintomi consente al malato di continuare a vivere il quotidiano, di guardare la televisione, di leggere un libro, di ascoltare la musica, di godere della presenza dei familiari comprendere i bisogni: il malato ha bisogno di sapere la verità, di essere compreso, di sentirsi persona capace di decidere, di vivere la spiritualità. La comunicazione da parte degli operatori deve essere fondata su principi di verità, così da consentire al malato di esprimere i suoi bisogni, nella convinzione che saranno compresi dall’equipe L’approccio olistico al malato terminale 79 cure proporzionate: sono le cure che il malato ritiene adeguate alla propria condizione e che rappresentano l’antidoto ai due approcci estremi, quello dell’accanimento terapeutico e quello dell’abbandono terapeutico. L’appropriatezza di un intervento volto ad affrontare un problema di salute spetta al medico, che ha le competenze scientifiche; mentre al malato spetta decidere se accettare o meno quell’intervento, sulla base delle proprie convinzioni e dei propri desideri decodificare le richieste di essere aiutato a morire, che in realtà nascondono spesso un bisogno di essere aiutato più efficacemente nel controllo dei sintomi, nel sentirsi persona fino alla fine, nel non sentirsi di peso sui propri familiari. L’organizzazione delle cure L’organizzazione delle cure al malato terminale deve consentire all’equipe di mettere in pratica i principi dell’approccio olistico, con cui vengono esplorate le dimensioni complessive della persona gravemente malata e che coinvolgono i problemi di natura fisica, sociale, psicologica e spirituale. Da tutti gli esperti è riconosciuta l’utilità di organizzare l’assistenza su due pilastri: il lavoro d’equipe e il coordinamento della rete. Lo confermano anche il Decreto della Giunta regionale del Veneto n. 2989/2000 “Linee di indirizzo per l’assistenza al malato neoplastico grave e in condizioni di terminalità, e per lo sviluppo delle cure palliative” e il Decreto ministeriale n. 39/1999 “Piano Nazionale per lo sviluppo della rete degli hospice”. Dall’esperienza dell’Ulss n. 7 del Veneto l’equipe, denominata Nucleo di cure palliative, è un gruppo multidisciplinare (comprende un esperto in cure palliative, un medico di medicina generale, un infermiere, uno psicologo, un assistente sociale, esponenti del volontariato) che si propone come unico referente per il malato e la famiglia, governa l’assistenza in tutte le fasi della malattia e coordina i livelli di assistenza (domicilio, ospedale, oncologia, hospice) di cui il malato può avere bisogno lungo il decorso della sua malattia. Tutti i malati vengono valutati e assistiti dal medico di medicina generale, dall’infermiere e dall’esperto coordinatore; gli altri componenti dell’equipe entrano in gioco in base alle necessità del malato e della famiglia (figura 3). L’equipe multidisciplinare riesce a garantire una qualità di assistenza 80 Cronicità: lessico e paradigma largamente soddisfacente, dedotta dall’analisi delle schede “support team assessment schedule” utilizzate in audit clinico nel corso delle riunioni d’equipe di verifica e monitoraggio dell’assistenza. Il peso dei quattro problemi viene valutato secondo un punteggio da 0 a 4, indicando progressivamente la gravità dei problemi e quindi la capacità dell’equipe di fronteggiarli (figura 4). Altro indicatore di qualità dell’assistenza è rappresentato dal consumo degli oppioidi, risultato nel 2006 triplo rispetto alla media nazionale, con 11,79 mg di morfina procapite. In f. Co or d. M /M M ed G .C u. Pr . 11 8 C. A s. so ci al ba i da nt e vo lon ta ri sp ec ia lis ti ps ic ol og o % di competenze attivate Figura 3. Attivazione della rete Figura 4. STAS: primi 4 item ansia fam. ansia paz. sintomi dolore L’approccio olistico al malato terminale 81 In conclusione, l’approccio olistico al termine della vita consente di focalizzare l’attenzione sul malato in quanto persona che vive il resto della vita in condizione di fragilità clinica, sociale e psicologica. L’organizzazione dell’assistenza basata sul lavoro d’equipe e sul coordinamento della rete consente di affrontare i problemi del malato complessivamente e di accompagnarlo fino alla fine, nel rispetto dei propri desideri e della propria dignità. Cosimo De Chirico Bibliografia M. Balistreri, Dizionario di bioetica. Laterza, Roma-Bari, 2002. P. Singer et al., “Quality End-of-Life Care. Patients’ Perspectives”. In: Jama 1999, 281 (2). A. Stewart et al., “The Concept of Quality of Life of Dying Persons in the Context of Health Care”. In: Journal of Pain and Symptom Management 1999, 17. 82 Cronicità: lessico e paradigma Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità: quale alleanza tra associazioni e istituzioni di Vladimir Kosic L a Consulta regionale delle associazioni dei disabili, costituita in Regione Friuli Venezia Giulia presso l’Assessorato regionale alla sanità e alle politiche sociali, riconosce le seguenti finalità: coordinare a livello regionale la politica delle associazioni relativa a: • ricerca delle cause e prevenzione delle forme di handicap psico-fisico-sensoriali • diagnosi precoce e servizi riabilitativi • istruzione scolastica e formazione professionale • inserimento nel mondo del lavoro e integrazione sociale • servizi sociosanitari territoriali per tutti • servizio domiciliare, trasporti, assistenza e sostegno sociale alla famiglia, specie per i casi gravi • tempestiva e corretta informazione agli handicappati e alle loro famiglie tutelare, su mandato delle associazioni, gli interessi degli handicappati, formulando proposte e richieste alle amministrazioni competenti, rifiutando qualsiasi forma di assistenza passiva che ne possa ledere i diritti raccogliere, classificare e distribuire informazioni relative alla piena realizzazione personale degli handicappati diffondere la conoscenza dei problemi degli handicappati, utilizzando tutti i mezzi di comunicazione come presa di coscienza sociale e strumento di sensibilizzazione presso i pubblici poteri e l’opinione pubblica stimolare una legislazione regionale nella quale tutti i problemi degli handicappati trovino una giusta collocazione e una adeguata risposta proporsi come organo consultivo per la formulazione di tutta la normativa regionale in materia di assistenza sociale, sanitaria, 84 Cronicità: lessico e paradigma scolastica e lavorativa, chiedendo la partecipazione lavorativa dei propri rappresentanti a tutte le commissioni o organismi previsti dalle leggi e ordinamenti regionali e degli enti locali, anche con funzione di verifica e controllo di servizi informare il mondo del lavoro in tutte le sue espressioni su particolari tecnologie che permettano anche agli handicappati un più ampio accesso ottenere nel campo dell’edilizia pubblica e privata e dei pubblici trasporti l’abolizione di tutte le barriere architettoniche che ne rendono disagevole l’utilizzo da parte degli handicappati promuovere una politica assistenziale previdenziale e pensionistica volta a tutelare il diritto dell’handicappato a ottenere una completa autonomia economico finanziaria operare in qualsiasi campo per la tutela dei diritti-doveri degli handicappati e dei loro familiari. I comitati provinciali di coordinamento delle associazioni per handicappati, legalmente costituiti, costituiscono la struttura organizzativa della Consulta, oltre alla Giunta esecutiva, composta da 9 membri, il presidente e due delegati per ciascuna delle quattro Province. Caratterizzazioni e contraddizioni Il modello medico e il modello sociale presentano delle contraddizioni: modello medico: per quanto declinato fuori dalle mura ospedaliere, si è rivelato incompiuto e discriminante perché non si può vivere nella condizione di “paziente” per decenni, la maggior parte dell’esistenza umana, tutta la vita modello sociale: malgrado le sue buone intenzioni, non è stato da meno quando, per esempio, ha quasi ritenuto che chiudendo i manicomi si potesse eliminare la stessa malattia mentale. Configurazione delle associazioni Ci sono diversi tipi di associazioni: associazioni su base “malattia” (per esempio Associazione italiana sclerosi multipla, Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, Alzheimer) associazioni su base “malattie e categorie” (associazioni genitoPersistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità 85 ri con handicap, Associazione per il bambino in ospedale) o per categorie (psichici-down, fisici-paraplegici, sensoriali-Ente nazionale sordi), “sociale” (Unione regionale associazione per la salute mentale) organizzazione “ombrello”, cioè espressione di persone con ogni tipo di disabilità per “malattia” e per categorie. Sono i comitati di coordinamento provinciali e la Consulta delle associazioni dei disabili. I problemi e le risposte Le sfide che la disabilità oggi ci pone dovrebbero essere affrontate a livello multidimensionale. In base al documento International Classification of Functioning, Disability and Health dell’Oms, l’Onu ha formulato una convenzione per l’antidiscriminazione e l’inclusione, secondo cui: è necessario superare la contrapposizione tra modello sociale e modello medico i due modelli sono complementari: hanno saputo entrambi produrre risultati in futuro si deve puntare a un processo inclusivo e antidiscriminatorio, senza però perdere le specificità di ciascuno perché sono risultate e risultano ancora rilevanti. Nel giugno 2005 l’Assemblea delle autonomie locali, l’Associazione nazionale Comuni italiani – Friuli Venezia Giulia, Federsanità/ANCI Friuli Venezia Giulia, la Conferenza permanente programmazione sanitaria, sociale e sociosanitaria Friuli Venezia Giulia e la Consulta disabili del Friuli Venezia Giulia hanno prodotto il “Documento sulla disabilità”. In base a questo documento, la gravità della disabilità deve diventare l’indicatore principale nell’orientare le scelte politiche di settore e l’indirizzo verso cui collocare le risorse. I servizi prestati sul territorio devono essere erogati, anche e soprattutto, per soddisfare i bisogni più gravi e per combattere l’istituzionalizzazione. I dati dal territorio dell’ultimo decennio del Friuli Venezia Giulia indicano che la riduzione dell’ospedalizzazione ha dato due risultati: il primo, positivo, è una maggiore appropriatezza nell’uso degli ospedali; il secondo, negativo, è legato all’aumento delle risposte territoriali, 86 Cronicità: lessico e paradigma al loro interno contraddittorie. Infatti l’aumento dell’assistenza domiciliare integrata è stato accompagnato dall’aumento: del carico alle famiglie (10 mila badanti), dell’istituzionalizzazione (10 mila ospiti case riposo) e della spesa per contributi economici. I dati del Piano sociosanitario regionale 2006-2008 indicano che: il servizio infermieristico domiciliare è passato da 343.637 accessi a 409.539 e da 26.665 utenti a 30.402 nello stesso periodo, il servizio riabilitativo domiciliare è passato da 27.971 accessi a 38.652 e da 3.845 utenti a 6.631 in particolare, sono i posti letto per non autosufficienti ad aver subito un continuo aumento (3.963 nel 1994 e 5.722 nel 2003) la dotazione complessiva di personale distrettuale al 30 giugno 2004 è pari a 1.882 unità, di cui quasi il 50% è costituito da personale infermieristico-ostetrico al 31 dicembre 2004 i distretti della Regione contano 488 dipendenti dedicati all’assistenza domiciliare. Fra questi il 79,3% è costituito da personale infermieristico-ostetrico, il 7,4% da personale della riabilitazione e il 6,6% da personale di supporto per comprendere meglio l’esigua dimensione dell’attuale intervento domiciliare bisogna considerare che le ore di assistenza domiciliare infermieristica per utente con bisogni complessi del servizio infermieristico domiciliare non superano le 40 ore all’anno e che in questo dato sono ricomprese le attività di supporto (preparazione materiale, imputazione dati, ecc.) e i tempi di percorrenza, che complessivamente possono superare il 50% del tempo totale. È difficile mettere in relazione le risorse utilizzate e i risultati di salute conseguiti. Nell’Ass 1, dove il rapporto fra infermieri e popolazione è più alto (5,1 infermieri ogni 10.000 abitanti), c’è anche il più alto numero di non autosufficienti istituzionalizzati. Integrazione dei servizi, gestione diretta e indiretta Nessun contributo economico sarà mai in grado di garantire i bisogni connessi alla “salute” a tutti i cittadini. Il “carico della malattia” connesso alla disabilità e alla cronicità grave (non autosufficienza) deve coinvolgere anche la riorganizzazione del sistema sanitario (long term Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità 87 care), tanto in ospedale quanto sul territorio, e quanto più grave è la condizione tanto più efficace deve essere l’integrazione con i servizi sociali1. I servizi sanitari prestati sul territorio devono essere erogati per soddisfare i bisogni più gravi e per prevenire e combattere l’istituzionalizzazione. Incrementare solo le risorse per i contributi assistenziali può risultare rischioso se non si procede anche a una rivisitazione della qualità e dell’efficacia dei servizi sanitari. Il pericolo più grave è creare percorsi paralleli, nella forma di contributi economici, e scaricare solo alle famiglie o alle associazioni i casi più gravi. L’insostituibilità del ruolo della famiglia non va confusa né con la sua esclusività rispetto alla comunità di appartenenza, né, purtroppo, con la sua eterna durata. I disabili gravi le risposte delle associazioni sul territorio Il 29 maggio 2006 si costituisce l’associazione “Comitato regionale delle associazioni/enti ‘Dopo-durante noi’ del Friuli Venezia Giulia”. L’associazione nasce dalla volontà e dall’esigenza maturata da alcuni soggetti che operano nel privato sociale e nel no profit, per costituire un tavolo unico di dialogo sulle tematiche e sui bisogni legati al “Dopo di noi”, finalizzato a implementare, valorizzare e promuovere efficaci modelli gestionali di servizi, di progettualità riabilitative, di inclusione delle persone disabili nelle comunità, di integrazione dei servizi privati e pubblici. Inoltre, si propone per un confronto sui criteri da inserire nella programmazione sociale e sanitaria ai vari livelli (regionale, provinciale, locale, ambito, distretto, area vasta) in merito alle problematiche dei servizi degli utenti del “Dopo di noi”, con particolare riguardo alla gravità della disabilità, continuità nei confronti delle realtà esistenti, superamento della precarietà e finalizzazione delle risorse, sviluppo di nuove progettualità condivise. L’associazione si pone l’obiettivo di transitare «dal principio di accoglienza per tutti al progetto personalizzato per ciascuno». Ogni anno sono necessari 3 miliardi di ore per assicurare assistenza 1. La riorganizzazione della long term care, come emerge da alcuni interventi del convegno, significa anche empowerment dei cittadini, capacità di autocura da parte dei cittadini; significa coinvolgere le risorse della comunità: gruppi di volontariato, gruppi di autoaiuto, centri per anziani autogestiti e quindi anche la Consulta dei disabili. 88 Cronicità: lessico e paradigma alle persone con disabilità. Il 94% di questo “tempo-lavoro” proviene da reti di solidarietà familiare. Lo Stato, le Regioni, i Comuni, le aziende sanitarie, oggi, rispondono solo per il 5% alle esigenze delle persone con disabilità grave. Le “difficoltà” sono la conseguenza della rigidità del sistema pubblico basato sul principio che sono i cittadini che si devono adeguare ai servizi, non viceversa. Da qui deriva il fallimento dei buoni propositi sul territorio. Se i cittadini accettano un “servizio disponibile” si fa; se c’è solo il “disservizio disponibile”, se ne fa a meno. A domicilio (i soldi dovrebbero essere spesi in primis per questa finalità) servizio disponibile e bisogni della persona non si incastrano. Per una materia importante come il disegno di legge delega sulla non autosufficienza, in uno Stato non dittatoriale, l’approvazione dovrebbe essere interamente attraverso una legge del Parlamento. È prevista la consultazione dei principali sindacati, ma non quella delle organizzazioni di disabili. Vengono messi insieme disabili e anziani. I disabili gravi: la residenzialità Per Michele Mangano, presidente nazionale dell’Auser Risorsanziani Onlus, «al centro delle relazioni tra enti locali e organismi del cosiddetto terzo settore c’è un enorme paradosso. Infatti, a fronte del rilevante apporto che associazioni e imprese sociali forniscono alla gestione dei servizi sociali, le autonomie locali sono ancora inadempienti nella creazione di un sistema di regole davvero efficiente e trasparenti, per consentire al terzo settore di erogare servizi di qualità e svolgere una funzione importante anche in termini di programmazione e di sussidiarietà orizzontale». I pericoli sono: le amministrazioni locali predispongono bandi poco chiari e generici nelle parti che riguardano i rapporti gestionali tra ente committente e affidatario, e soprattutto sulla base della formula del massimo ribasso rispetto alla base d’asta tra maggio e settembre 2007, i Comuni hanno indetto 157 selezioni pubbliche e ristrette per appaltare a imprese sociali e associazioni la gestione di servizi sociali il criterio aggiudicazione del “massimo ribasso” Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità 89 Ci sono poi gravi inadempienze da parte delle Regioni: a 7 anni dall’approvazione della Legge 328/2000, non hanno ancora completato le procedure per rendere operativo l’istituto dell’accreditamento dei servizi sociali, necessario a regolamentare il rapporto tra enti locali e imprese sociali e a fissare standard di funzionamento e di gestione delle strutture e dei servizi. A oggi 3 amministrazioni (Marche, Veneto, Provincia autonoma di Trento) hanno concluso il percorso modernizzazione dei sistemi di offerta dei servizi sociali. Basilicata, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Sardegna e Sicilia non hanno ancora definito alcun sistema di accreditamento. Le altre Regioni (Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta) e la provincia di Bolzano hanno avviato procedure senza risultati concreti. Nel settore residenziale si registra nelle diverse Regioni una marcata variabilità dei modelli autorizzativi e organizzativi, nonché delle modalità di erogazione del servizio, tali da imporre una ricognizione delle diverse tipologie di prestazioni e la loro riconduzione a un modello unitario condiviso. È apparso inoltre necessario costruire un modello di correlazione tra prestazioni, livelli assistenziali, remunerazione degli erogatori, al fine di definire criteri omogenei di valutazione degli ambiti prestazionali. Il 40,3% della spesa sociale dei Comuni capoluogo di Provincia risultava nel 2006 gestita attraverso l’intervento delle cooperative sociali e del volontariato, una percentuale che si innalza fino al 60% nelle città più grandi, come Bari e Firenze. Una tendenza sempre più evidente e diffusa consiste in un pubblico che arretra e un privato che avanza: è un andamento accompagnato da problemi di trasparenza, di regole poco chiare, di carenti controlli sulla qualità delle prestazioni. Per un settore importante come quello della salute e dell’assistenza, per la nostra Regione sono maturi i tempi affinché l’idea di welfare state, in cui è lo Stato che garantisce i servizi primari attraverso le amministrazioni pubbliche locali, sia sostituita dall’idea di welfare community: è la società che con tutte le sue risorse, soprattutto di qualità (sia pubbliche sia private), fa fronte alle sfide contemporanee, 90 Cronicità: lessico e paradigma come comunità in grado di sostenere e condividere le soluzioni migliori e disponibili. È ormai evidente che per fronteggiare le emergenze l’istituzione pubblica non basta più: perciò è la società, nel suo insieme, che deve farsene carico (come, di fatto già accade) nelle sue diverse articolazioni e forme di servizi a cui ha saputo dar vita aggregando bisogni e risposte, a maggior ragione dove l’ente pubblico si è dimostrato incapace o inefficiente. Condividere scelte e responsabilità con i cittadini L’articolo 13 bis della Legge regionale 41/96 (Consulta regionale delle associazioni dei disabili) recita: 1. Ai fini della promozione delle politiche regionali di integrazione delle persone disabili nella società e della consultazione in materia di interventi e servizi a favore delle persone disabili, la Regione Friuli Venezia Giulia riconosce il ruolo della Consulta regionale delle associazioni dei disabili quale organismo rappresentativo e di coordinamento dell’associazionismo nel settore della disabilità 2. Per le finalità di cui al comma 1 la Consulta in particolare: a. partecipa alla Commissione regionale per le politiche sociali di cui all’articolo 27 della Legge regionale 06/2006 b. esprime parere sul Piano sanitario e sociosanitario di cui all’articolo 8 della Legge regionale 23/2004 c. formula proposte in materia di politiche regionali per le persone disabili d. esprime parere su ogni altro atto legislativo o amministrativo relativo all’azione regionale in materia di disabilità e. individua le proprie rappresentanze locali per l’espressione del parere di cui all’articolo 24, comma 6 della Legge regionale 06/2006 3. La Direzione centrale della salute e della protezione sociale pone a disposizione della Consulta le dotazioni necessarie allo svolgimento delle funzioni di cui ai commi 1 e 2 4. In relazione alle funzioni svolte ai sensi del presente articolo, l’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere alla Consulta un contributo annuo nella misura massima di 25.000 euro per le spese di funzionamento Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità 91 5. Ai fini della concessione ed erogazione del contributo di cui al comma 5, la Consulta presenta alla Direzione centrale della salute e protezione sociale entro il 31 marzo di ogni anno apposita istanza corredata di una relazione sull’attività prevista nell’anno di riferimento e del relativo preventivo di spesa». Vladimir Kosic 92 Cronicità: lessico e paradigma Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 “Friuli occidentale” di Guido Lucchini L o scopo del presente lavoro è illustrare il cambiamento del rapporto tra il medico di medicina generale e il territorio all’interno del quale è inserito, in riferimento all’evoluzione dei sistemi sanitari sviluppatisi dal 1983 al 2007 nell’ambito della provincia di Pordenone, con particolare riferimento alla gestione della cronicità. L’obiettivo del Piano sanitario dell’Azienda territoriale pordenonese (Ass 6 “Friuli Occidentale”), realizzato attraverso l’istituzionalizzazione di un sistema di comunicazione tra ospedale e territorio e la ridefinizione dei ruoli del medico di medicina generale e del medico ospedaliero, è stato quello di fornire agli utenti garanzia di continuità terapeutico assistenziale, nel rispetto di un’equa e razionale distribuzione delle risorse. L’evoluzione delle risorse territoriali riguarda: l’aumento del numero di medici di medicina generale (da 160 a 235), di infermieri professionali dedicati all’assistenza domiciliare integrata (da 0 a 90 unità), di case di riposo (da 7 a 15) e di residenze sanitarie assistenziali (da 0 a 6); la diminuzione del numero degli ospedali (da 7 a 4), delle Usl (da 4 a 1) e dei distretti (da 9 a 5); la costituzione di un ospedale di comunità, che prevede la gestione diretta dei pazienti cronici da parte del medico di medicina generale; l’istituzione del Centro regionale di formazione per l’area delle cure primarie; lo sviluppo delle forme associative tra medici (10 medicine di gruppo avanzate, 5 gruppi di medicina in rete). Un’ulteriore impulso al rafforzamento delle azioni della medicina generale sul territorio è stato l’avvio dell’Ufficio distrettuale della medicina generale, strumento innovativo nella politica distrettuale e composto da tre medici di medicina generale che lavorano in stretto rapporto con il direttore di distretto. La riduzione dei posti letto ospedalieri, l’omogeneizzazione dei distretti, l’aumento del numero di medici di medicina generale e di altre figure professionali operanti sul territorio, la crescita di strutture 94 Cronicità: lessico e paradigma sociosanitarie residenziali per la gestione delle cure intermedie, la presenza del Centro di formazione regionale e l’avvio dell’Ufficio distrettuale hanno avuto come conseguenza il maggior coinvolgimento del medico di medicina generale nell’assistenza alle persone croniche multiproblematiche e nella politica aziendale, attraverso lo sviluppo di azioni quali: la realizzazione di linee guida condivise con lo specialista, progetti obiettivo su patologie croniche prevalenti e sviluppo di percorsi diagnostico terapeutici miranti alla gestione delle persone inserite nel percorso delle cure a lungo termine. L’esigenza di coinvolgere maggiormente gli operatori sociosanitari per progettare e migliorare l’assistenza territoriale comporta il riconoscimento del ruolo del medico di medicina generale. Tra le molte azioni che il medico di medicina generale realizza nel territorio per la gestione della cronicità, in questo contesto ne saranno citate alcune: 1. il ruolo dell’Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali e dell’Ufficio distrettuale della medicina generale nella politica sociosanitaria nel distretto 2. il progetto obiettivo Clinical Governance “Diabete mellito tipo 2” 3. il ruolo del medico di medicina generale nell’implementazione della vaccinazione antinfluenzale 4. il progetto obiettivo “Scompenso cardiaco cronico”. IL RUOLO DELL’UFFICIO DI COORDINAMENTO DELLE ATTIVITÀ DISTRETTUALI E DELL’UFFICIO DISTRETTUALE DELLA MEDICINA GENERALE NELLA POLITICA SOCIOSANITARIA NEL DISTRETTO La costituzione dell’Ufficio distrettuale della medicina generale (Decreto della Giunta regionale 1007 del 6 maggio 2005), che è parte del più ampio Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali, ha il compito di rendere omogeneo il ruolo e il coinvolgimento del medico di medicina generale nella gestione del distretto in campo regionale. L’obiettivo è quello di intendere il territorio come organizzazione sanitaria che intercetta il bisogno, lo soddisfa a partire dal primo soccorso e ne governa i percorsi successivi. Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 95 L’Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali costituisce una risorsa del distretto, con lo scopo di favorire l’integrazione e la promozione della salute. È finalizzato alla condivisione di: informazioni relative ai bisogni di salute della popolazione analisi quantitativa e qualitativa dell’offerta dei servizi sanitari programmazione, monitoraggio e coordinamento delle attività inerenti le cure primarie e intermedie svolte nel distretto. All’Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali vengono concordate le misure, le azioni e gli interventi in merito all’accessibilità, appropriatezza e qualità delle cure erogate e in merito alla capacità di presa in carico dei casi complessi, dei pazienti multiproblematici e delle malattie cronico degenerative. I compiti dei medici di medicina generale operanti nell’Ufficio distrettuale della medicina generale sono: collaborare con il direttore del distretto alla costituzione di una “rete di relazione” con tutti i medici di medicina generale condividere con i medici di medicina generale il monitoraggio e l’analisi sull’utilizzo appropriato, efficace ed efficiente delle risorse individuare, nonché attivare, eventuali strategie alternative nella logica complessiva del governo clinico, come la promozione di momenti di verifica e revisione di qualità, l’autovalutazione e la verifica tra pari, per promuovere l’adesione a pratiche cliniche di provata efficacia promuovere la continuità dell’assistenza e il rapporto tra ospedale e medicina generale, anche attraverso l’utilizzo di commissioni ospedale-territorio promuovere la qualità e ricerca nelle cure primarie condividere l’andamento degli obiettivi degli accordi aziendali della medicina generale territoriale e l’individuazione di eventuali azioni e interventi per migliorarne l’esito promuovere, in collaborazione con il responsabile provinciale della formazione aziendale e con il responsabile di distretto, l’organizzazione del programma formativo annuale per la medicina generale e la sua valutazione 96 Cronicità: lessico e paradigma partecipare, in relazione ai Piani di attività territoriali sanitarie e ai Piani di zona sociali, all’identificazione delle attività attinenti al ruolo dei medici di medicina generale nelle aree ad alta integrazione sociosanitaria, alla loro programmazione, al monitoraggio e all’eventuale attivazione di misure correttive. IL PROGETTO OBIETTIVO CLINICAL GOVERNANCE “DIABETE MELLITO TIPO 2” Il progetto “Prevenzione delle complicanze del diabete mellito attraverso l’attuazione del Disease Management in un contesto di Clinical Governance nelle cure primarie”, descritto da Fabio Samani, è rivolto a cittadini diabetici residenti in aree distrettuali urbane, suburbane, rurali e montane della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. Si propone il miglioramento della qualità delle cure e del controllo della malattia diabetica, anche attraverso la proposta di adeguati stili di vita. In particolare, con il progetto si intende: a. identificare i soggetti affetti da diabete mellito di tipo 2 iscritti negli elenchi degli assistiti della medicina generale, attraverso i dati desumibili dalle diverse fonti disponibili (sistema informativo sanitario regionale, medici di medicina generale, centri diabetologici), contribuendo alla realizzazione del registro regionale della patologia diabetica b. descrivere lo stato di controllo clinico attuale della patologia diabetica attraverso una serie di indicatori espliciti e condivisi, parte monitorati su sistema informativo sanitario regionale e parte nei database dei medici di medicina generale c. offrire alla popolazione inclusa nella ricerca-intervento, la “migliore cura possibile”, sulla base delle evidenze disponibili, ai fini della prevenzione e della limitazione delle complicanze, applicando principi e azioni di buona pratica clinica in un processo di Clinical Governance e Disease Management condiviso tra i diversi attori professionali, per innalzare il grado di attuazione di pratiche di provata efficacia in ciascun diabetico, seguendo l’andamento nel tempo di eventi e indicatori specifici che consentano di misurare l’eventuale miglioramento avvenuto. Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 97 Obiettivi È obiettivo di processo innalzare il grado di attuazione di pratiche di provata efficacia in ciascun diabetico (per esempio avvenuta esecuzione di determinati parametri metabolici o di controlli sugli organi bersaglio delle complicanze in ciascun assistito diabetico di medici di medicina generale), provato che queste pratiche costituiscono il prerequisito per prevenire efficacemente le complicanze della malattia diabetica. Si sperimenterà anche, in via preliminare, l’applicazione di alcuni indicatori di esito, fra cui la percentuale di diabetici in cui viene conseguito un risultato efficace di controllo metabolico o lipidico e l’adozione di stili di vita appropriati. Gli obiettivi secondari sono: elevare il grado di inserimento e integrazione del medico di medicina generale nella rete delle cure primarie distrettuali per la realizzazione dei percorsi diagnostico terapeutici stabiliti nella ricerca costituire e mantenere aggiornato il registro regionale di patologia perfezionare il sistema regionale di rilevazione dati, allineandolo con quelli reperibili negli archivi dei medici di medicina generale e dei centri diabetologici monitorare nel campione in studio l’andamento degli eventi specifici di complicanze. Piano delle attività La prima fase del progetto si basa primariamente sulla registrazione delle persone diabetiche nelle cartelle cliniche dei singoli medici di medicina generale partecipanti. Ognuno di loro costituirà un registro di studio delle persone affette da diabete mellito tipo 2 e contribuirà, successivamente, alla realizzazione del registro regionale di patologia. È previsto quindi un percorso di raccolta e analisi dei dati, di revisione tra pari delle informazioni derivanti dal Sistema informativo sanitario regionale e, laddove possibile, dalle cartelle elettroniche dei singoli partecipanti, per realizzare iniziative di formazione sul campo, nell’idea che dalla riflessione su questi dati derivino lo stimolo e l’impegno per un miglior controllo della malattia. 98 Cronicità: lessico e paradigma La dimensione territoriale di riferimento del progetto è il distretto, identificato come il “luogo di aggregazione e di facilitazione” in cui gli interventi e le azioni dei medici di medicina generale possono più facilmente compiersi, attraverso le attività dell’Ufficio distrettuale della medicina generale (nell’analisi complessiva dei dati) e degli esperti di formazione (a supporto dei percorsi di audit e di formazione sul campo). Nel corso del 2007 e dei primi mesi del 2008 sono state pertanto organizzate occasioni di incontro a livello distrettuale e un’iniziativa regionale, quali eventi formativi accreditati, in cui sono stati discussi i dati aggregati (relativi al gruppo di partecipanti a livello di distretto e di Regione) e individuali (anonimi). La reportistica che verrà prodotta si baserà sull’aggiornamento delle informazioni desumibili dal Sistema informativo sanitario regionale, quali per esempio l’effettuazione nel corso dell’anno di esami laboratoristici (come l’emoglobina glicata, la creatininemia, l’esame delle urine, la microalbuminuria, l’assetto lipidico) o strumentali (come il fundus oculi o l’elettrocardiogramma), nonché sulla prescrizione dei farmaci utilizzati in questi pazienti. I medici di medicina generale dotati di cartelle cliniche informatiche che consentano l’estrazione di dati relativi a questi processi di cura potranno, inoltre, contribuire in maniera attiva alla produzione di informazioni di maggior dettaglio o non altrimenti disponibili, come per esempio la presenza di comorbilità e complicanze, l’indice di massa corporea, l’abitudine al fumo, la pressione arteriosa, e con la descrizione non solo del numero di indagini di laboratorio effettuate nel periodo, ma anche del relativo valore, laddove disponibile. Ciò consentirà una ben più accurata descrizione dello stato di controllo clinico della patologia diabetica e rappresenterà il presupposto per una ancor più approfondita attività di audit e di formazione sul campo e per un’attività di produzione scientifica. IL RUOLO DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE NELL’IMPLEMENTAZIONE DELLA VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE La campagna di vaccinazione antinfluenzale è tra i più importanti e Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 99 complessi interventi di prevenzione effettuati dal Servizio sanitario nazionale, in termini di popolazione raggiunta, diversità delle professionalità e strutture coinvolte, significatività dei risultati ottenuti. Disposizioni nazionali e internazionali individuano le categorie da raggiungere e la composizione del vaccino, ma l’operatività dell’offerta vaccinale è affidata ai dipartimenti di prevenzione che in autonomia scelgono, tra i diversi modelli di organizzazione, le strategie per realizzare la copertura vaccinale. Nell’Ass 6, prima di iniziare la campagna vaccinale, vengono realizzati degli incontri interlocutori tra il Dipartimento di prevenzione e gli uffici distrettuali della medicina generale, finalizzati a definire le strategie più adeguate al miglior coinvolgimento degli operatori sanitari e alla migliore implementazione dell’attività. Nell’Azienda 6 “Friuli Occidentale” la campagna di vaccinazione è stata condotta, come negli anni precedenti, in collaborazione tra i centri vaccinali territoriali, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta. Allo scopo di ridurre l’incidenza dell’influenza nella categoria di persone maggiormente a rischio per l’insorgenza di complicanze, per la campagna 2006-2007 è stato proposto, come target operativo nazionale, il raggiungimento di coperture vaccinali pari ad almeno il 75% nei soggetti nati prima del 31 dicembre 1941. L’Agenzia regionale per la sanità ha stabilito di raggiungere entro il termine del 31 gennaio 2007 l’obiettivo pari ad almeno il 70% di copertura vaccinale per gli ultrasessantacinquenni residenti. Il Servizio igiene e sanità pubblica ha organizzato, in collaborazione con i vari uffici distrettuali della medicina generale, l’attività di coordinamento tra le varie strutture coinvolte, trasmettendo ai medici di medicina generale partecipanti alla campagna la documentazione necessaria: moduli per la segnalazione di eventuali reazioni da vaccino, recapiti telefonici per informazioni e orari circa la distribuzione del vaccino, ecc. Il Servizio igiene e sanità pubblica ha inoltre fornito le indicazioni operative per consentire la corretta registrazione dei soggetti vaccinati e della categoria di rischio. Per gli ospiti delle case di riposo e delle residenze sanitarie assistenziali è stato acquistato il vaccino antinfluenzale virosomale (esalta la risposta anticorpale), che è stato recapitato direttamente in loco. Periodicamente sono state fatte azioni informative tramite stampa, radio e televisione e, all’inizio della campagna, sono stati predisposti poster divulgativi collocati in punti strategici: ambulatori dei medici 100 Cronicità: lessico e paradigma di medicina generale, ospedali, farmacie, uffici pubblici (comuni, poste, biglietterie, ecc.), supermercati, panifici, autobus, ecc. Da quest’anno, in via sperimentale, è stata introdotta la possibilità di registrare i dati vaccinali su supporto informatico (floppy, cd, ecc.), predisposto dalla società Insiel. Ai medici che hanno aderito a questa iniziativa è stato fornito il cd contenente il programma per l’inserimento dei dati, con relative spiegazioni e l’elenco di tutti i loro assistiti. Il personale del Dipartimento di prevenzione ha provveduto all’inserimento dei dati, sia cartacei che informatici, nell’apposito sistema informatico regionale predisposto dall’Insiel. Gli uffici distrettuali della medicina generale hanno organizzato riunioni negli ambiti territoriali competenti per informare i medici di medicina generale dell’importanza della pratica vaccinale e durante l’intera campagna antinfluenzale hanno monitorato l’andamento della stessa, affinché i medici di medicina generale proponessero agli assistiti la vaccinazione dopo aver dato loro una corretta informazione sui suoi rischi e benefici. Risultati Nella stagione 2006-2007 la copertura vaccinale raggiunta nell’Ass 6, relativamente alla popolazione degli ultrasessantacinquenni, è pari al 73,4%, valore inferiore ai risultati ottenuti nel quinquennio precedente. Prima di coinvolgere il medico di medicina generale come attore principale nella pratica della vaccinazione antinfluenzale, la copertura vaccinale nell’Ass 6, sempre relativamente alla popolazione degli ultrasessantacinquenni, si aggirava attorno al 20-30%. I risultati in termini di copertura vaccinale ottenuti nell’Ass 6 a partire dalla campagna 1996-97 sono riportati nel grafico seguente: Copertura vaccinale percentuale nei soggetti di età > 65 nell’Ass 6 Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 101 Alla campagna vaccinale 2006-2007 hanno aderito tutti i medici di medicina generale convenzionati dell’Ass 6 del Friuli Venezia Giulia (in tutto 230). Tra i medici di medicina generale le coperture vaccinali raggiunte relative agli ultrasessantacinquenni sono state le seguenti: Distretto Anno (%) 19971998 19981999 19992000 20002001 20012002 20022003 20032004 20042005 20052006 20062007 Nord 62,6 58,2 67 66,5 69,9 71,9 72,1 69,5 70,9 69,2 Sud 64,3 68,4 72 73,7 75,2 74,5 75,4 73,8 76,6 75,0 Est 66,7 75,8 79 80,8 81 82,2 81,7 81,1 81,4 78,8 Ovest 70,8 73,8 77 77,4 78 76,6 77,3 74,6 77,8 74,1 Urbano 59,2 62,8 69 71,3 73,3 73,7 74,3 72,8 75,1 73,3 Soggetti > 65 anni vaccinati nell’Ass 6, per distretto di residenza PROGETTO OBIETTIVO “SCOMPENSO CARDIACO CRONICO” Tra i progetti sviluppati dalla medicina generale dell’Ass 6, quello relativo allo scompenso cardiaco cronico è senza dubbio il più significativo. È stato avviato nel 2002 e ha la finalità di sperimentare un modello di gestione degli utenti affetti da patologie croniche attraverso la condivisione di linee guida e percorsi diagnostico terapeutici integrati tra tutti gli operatori coinvolti. La valutazione dell’impatto delle raccomandazioni viene effettuata mediante l’utilizzo di indicatori, quali: prescrizione di Ace-inibitori o sartani, esecuzione di almeno un ecocardiogramma, ricoveri e ricoveri ripetuti. Per la raccolta delle informazioni necessarie all’elaborazione degli indicatori, il progetto prevede che ciascun medico di medicina generale compili, per ogni suo assistito affetto da scompenso cardiaco, una prima scheda di arruolamento nel programma e un’ulteriore scheda a ogni visita successiva, in formato cartaceo o in formato elettronico. 102 Cronicità: lessico e paradigma • Formazione Grande importanza è stata data alla fase formativa dei medico di medicina generale sulle linee guida dello scompenso cardiaco, attraverso incontri ripetuti che hanno coinvolto anche gli infermieri professionali. La formazione è stata indirizzata anche all’acquisizione di capacità informatiche per la registrazione e il trasferimento dei dati. • Organizzazione Il progetto ha previsto: l’istituzione, presso l’Unità operativa di cardiologia dell’Ospedale di Pordenone, di un numero telefonico dedicato, a disposizione dei medici di medicina generale, attraverso il quale avere un contatto immediato con il cardiologo e, a seconda delle caratteristiche del singolo paziente, ottenere pareri su quesiti di tipo diagnostico terapeutico (teleconsulto) o ottimizzare il percorso diagnostico, clinico e strumentale la creazione di un’organizzazione di supporto al progetto, attraverso l’individuazione di un medico di medicina generale in qualità di referente provinciale e di un dirigente medico in qualità di referente distrettuale Il supporto del servizio epidemiologico dell’Ass 6 per l’elaborazione dei dati. • Creazione del sistema di trasmissione dati per via informatica L’Accordo fra Ass 6 e medici di medicina generale del 2003 prevede inoltre che la procedura di raccolta dati, per i medici di medicina generale che hanno un personal computer, venga effettuata in maniera informatizzata. Per questi medici di medicina generale viene omessa pertanto la compilazione della scheda cartacea. Risultati Al progetto hanno partecipato 70 medici di medicina generale. Gli assistiti presi in carico sono stati complessivamente 1.143, di cui 650 (56,9%) donne e 493 (43,1%) uomini (vedi tabella seguente). L’età media è di 78,8 anni (81,3 per le donne e 75,6 per gli uomini). Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 103 Classe d’età F M Totale 10-19 - 1 1 30-39 1 - 1 40-49 4 8 12 50-59 11 33 44 60-69 55 84 139 70-79 166 167 333 80-89 290 159 449 90 e più 123 41 164 Totale 650 493 1.143 La classificazione della New York Heart Association della gravità clinica non è stata effettuata in 415 pazienti (36,3%). Gravità Numero % 1 145 12,7 1-2 10 0,9 2 327 28,6 2-3 15 1,3 2-3 15 1,3 3 188 16,4 3-4 7 0,6 4 36 3,1 NC 415 36,3 Totale 1.143 100 Nel periodo di presa in carico da parte del medico di medicina generale risultano aver ricevuto prescrizioni di Ace-inibitori o sartani 719 pazienti sul totale di 1.143 (62,9%). La percentuale di pazienti che ha effettuato almeno un esame ecocardiografico è di 88,9% (1.106 pazienti su 1.143). I ricoveri effettuati per scompenso cardiaco sono stati 142 nel 2002 e 185 nel 2003. I tassi di ricoveri ripetuti oscillano intorno al 20%. Conclusioni Per individuare gli effetti significativi prodotti dal Progetto obiettivo “Scompenso cardiaco”, realizzato nel periodo 2002-2003, è necessario 104 Cronicità: lessico e paradigma confrontare i risultati ottenuti con lo studio realizzato nel 2004 nella Provincia di Pordenone da Gian Luigi Nicolosi, che valutava l’impatto dell’implementazione delle linee guida sullo scompenso cardiaco utilizzando i dati del Sistema informativo sanitario regionale per il periodo 2000-2002. Le caratteristiche demografiche delle popolazioni affette da scompenso cardiaco considerate nei due studi sono sovrapponibili, così come i valori di alcuni indicatori, fra cui in particolare: i ricoveri ripetuti nell’anno intorno al 20%; l’età media dei ricoverati nel 2002 di 79 anni; l’incremento della percentuale di pazienti in terapia con Aceinibitori, di quelli seguiti in assistenza domiciliare e di quelli sottoposti a esame ecocardiografico. Rispetto a quest’ultimo punto, la percentuale di pazienti risulta più elevata nello studio condotto dai medici di medicina generale. Sicuramente i dati raccolti dai medici di medicina generale sono più completi in quanto comprendono anche gli esami non registrati nel Sistema informativo regionale della specialistica ambulatoriale (per esempio durante un ricovero o privatamente). L’analisi dei dati mostra che l’implementazione delle linee guida per lo scompenso cardiaco nella Provincia di Pordenone ha prodotto complessivamente risultati positivi per quanto riguarda l’adesione a pratiche cliniche efficaci (terapia farmacologia e procedure diagnostiche). Abbastanza elevato rimane tuttavia il numero di ospedalizzazioni e riospedalizzazioni di questi pazienti, che può essere spiegato con l’età più avanzata della popolazione affetta da scompenso cardiaco nella nostra Provincia rispetto a quella considerata nella letteratura sull’argomento. Infatti l’età media dei soggetti considerati nel presente studio è di 79 anni, decisamente più elevata di quella dei soggetti considerati negli studi nazionali e internazionali. I dati finora raccolti con grande impegno da parte dei medici di medicina generale ed elaborati con altrettanto impiego di risorse da parte dell’Ass 6 danno informazioni preziose e soddisfacenti per quanto riguarda l’adesione a pratiche cliniche efficaci (terapia farmacologia e procedure diagnostiche). Non consentono però di valutare l’impatto che le linee guida hanno nella Provincia di Pordenone sulla modalità di gestione dei pazienti e, in particolare, sulla continuità dell’assistenza e sull’approccio integrato e condiviso tra operatori delle cure primarie e specialisti ospedalieri. Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6 105 Per il futuro bisogna quindi prevedere una sempre maggiore integrazione tra i dati del Sistema informativo sanitario regionale e le informazioni dei singoli database dei medici di medicina generale. Inoltre è necessario ridurre al minimo la raccolta dati cartacea, in quanto comporta grande dispendio di risorse. Soltanto grazie a una capillare raccolta di dati qualitativamente adeguati, da parte di tutti i medici (medici di medicina generale, internisti, cardiologi, ecc.) che concorrono alla gestione del paziente, effettuata attraverso strumenti informatici in rete, sarà possibile una reale valutazione dell’impatto dei progetti, nell’ottica di promuovere strumenti per il governo clinico. È fondamentale che le azioni rivolte alla gestione della cronicità proseguano ma, per poter garantire la continuità dell’assistenza tra ospedale e territorio, occorre riconoscere la centralità della figura del “paziente” e non della “prestazione” o del servizio dedicato. Ciò deve avvenire in un quadro più ampio di presa in carico integrata dei pazienti cronici e multiproblematici. In quest’ottica, il medico di medicina generale continuerà a rivestire un ruolo essenziale nell’ambito dello sviluppo delle cure primarie erogate sul territorio. Guido Lucchini Bibliografia G. Lucchini, G. De Gregorio, “Il cambiamento del ruolo del medico di medicina generale in rapporto all’evoluzione delle risorse sociosanitarie territoriali dal 1981-2001”. In: Atti del Congresso nazionale società italiana di medicina generale. Firenze, 2002. G.L. Nicolosi et al., “The effects of implementation of heart failure guidelines in the Pordenone province: analysis of the results following databases of the regional health guide system”. In: Ital Heart J 2004, 5 (5). F. Samani et al., Progetto Clinical Governance “Diabete mellito tipo 2”. Centro di formazione area delle cure primarie Friuli Venezia Giulia, 2007. E. Zamparo et al., Relazione sulla campagna di vaccinazione antinfluenzale. Ass 6 “Friuli occidenatale”, 2006-2007. 106 Cronicità: lessico e paradigma L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche di Lucio Bomben P er cercare di orientare il fenomeno della cronicità nel territorio della Provincia di Pordenone si utilizzano alcuni dati epidemiologici ricavati dalla Relazione sanitaria 2006 dell’Ass 6 “Friuli Occidentale”. Anno 2001 2002 2003 2004 2005 Dimissioni 18.743 18.932 19.752 20.060 20.661 Tassi di ospedalizzazione 346,1 343,7 351,9 349,6 351,3 Dimissioni dei residenti nell’Ass 6 e tassi di ospedalizzazione classe di età 65 e oltre da ospedali regionali ed extra-regionali. Anni 2001-2005 Come si vede, si è avuta una costante crescita dal 2001 al 2005 delle persone ultrasessantacinquenni dimesse da ospedali regionali ed extraregionali, con relativo incremento del tasso di ospedalizzazione. Numero % rispetto al totale dei ricoveri Tumori 508 17,5 Malattie dell’apparato circolatorio 784 20,9 80-89 Malattie dell’apparato circolatorio 1.004 30,7 90 e oltre Malattie dell’apparato circolatorio 418 35,8 Classe d’età Causa di ricovero 60-69 70-79 Prima causa di ricovero delle femmine residenti nell’Ass 6 per classe di età 60 e oltre da ospedali regionali ed extraregionali. Anno 2005 108 Cronicità: lessico e paradigma Numero % rispetto al totale dei ricoveri Malattie dell’apparato circolatorio 924 23,6 Malattie dell’apparato circolatorio 1108 27,5 80-89 Malattie dell’apparato circolatorio 615 28,5 90 e oltre Malattie dell’apparato circolatorio 118 29,0 Classe d’età Causa di ricovero 60-69 70-79 Prima causa di ricovero dei maschi residenti nell’Ass 6 per classe di età 60 e oltre da ospedali regionali ed extraregionali. Anno 2005 L’analisi di queste due tabelle evidenzia come l’unico dato discordante delle cause di ricovero tra maschi e femmine riguarda la fascia di età 60-69 anni, dove per le femmine la prima causa di ricovero sono i tumori, mentre per i maschi sono le malattie dell’apparato circolatorio. Anno 2006 Copertura (% sulla popolazione oltre i 64 anni) Ass 1 “Triestina” 8300 11,6 Ass 2 “Isontina” 2591 6,8 Ass 3 “Alto Friuli” 2520 13,2 Ass 4 “Medio Friuli” 7381 8,3 Ass 5 “Bassa Friulana” 3531 13,0 Ass 6 “Friuli Occidentale” 6402 9,6 30.725 9,9 Azienda Friuli Venezia Giulia Assistenza domiciliare integrata È estremamente significativo il tasso di copertura degli assistiti oltre i 64 anni seguiti dal Servizio infermieristico domiciliare nelle aziende regionali, che evidenzia i buoni tassi di copertura aziendali. Cronicità e persona Per cercare alcuni spunti di riflessione in merito alla relazione tra cronicità e persona, si può partire da una frase di Roberto Alfieri: «La cronicità pone in evidenza il divario esistente tra la mappa delle conoscenze mediche e il territorio della sofferenza umana: tra quello che L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche 109 rappresentiamo attraverso le astrazioni delle nostre teorie e quello che viviamo concretamente nella realtà quotidiana». Certamente la cronicità in quanto tale sfata il mito del progresso e delle conquiste della tecnoscienza, mettendo in crisi una concezione della medicina legata all’ultraspecializzazione. Forse è il caso di ipotizzare un nuovo modo di agire e comunicare nella medicina, dando la giusta importanza alla soggettività, alla sua comprensione, con il giusto ascolto del narrare la malattia da parte della persona; forse è il caso di dare nuovo significato all’agire medico, iniziando nel territorio, per la sfida che pone la cronicità in quanto tale. La parola “persona” deriva dal latino per se unum, mentre in greco si utilizzava la parola prósopos, cioè “colui che mi sta di fronte”. Sono chiari il diverso modello culturale alla base di questa differenza e le inevitabili ripercussioni che ha sull’agire quotidiano del soggetto, come di chi svolge una professione sanitaria: la persona è colui che mi sta di fronte, con cui parlo, mi confronto. Risulta quindi del tutto vera la frase di Platone: «Chi, con la parte migliore del suo occhio, guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso». Cronicità e tempo La cronicità è espressione del tempo; ma di quale tempo? Il tempo ciclico: il tempo che fa giustizia (chrónos), rispetto a cui ogni epoca sorge e svanisce; nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma semplicemente una fine, dove la fine è il suo fine (télos: la temporalità che esprime la regolarità del ciclo). Da qui nascono l’irreversibilità, l’uniformità e la memoria, che sono le basi dello svelamento (alétheia, verità). Il tempo progettuale: il mito di Prometeo, colui che pensa (metheùs) in anticipo (pro); la temporalità che guarda al futuro, al raggiungimento di una meta; il tempo dell’individuo, delle sue intenzioni e illusioni. È il tempo opportuno (kairòs), il tempo della giusta proporzione, del limite. In base all’etimologia, è proprio della malattia cronica il tempo ciclico ed è proprio della persona e dell’organizzazione il tempo progettuale: il tempo rubato all’eternità degli dei, quello che ha permesso all’uomo di impadronirsi della technè. Risulta comprensibile la sfida tra malattia cronica e servizi sanitari: sono due tempi diversi. Come ricomporre la frattura? 110 Cronicità: lessico e paradigma Cronicità e sfida culturale La cronicità comporta la capacità di saper gestire i fenomeni in continuità; inoltre, deve avere come obiettivo la globalità dell’intervento, inteso come raccordo tra servizi sanitari, servizi sociali, famiglie, risorse territoriali e istituzionali, per destrutturate la frammentazione. Infine, deve utilizzare la flessibilità, intesa come capacità di leggere gli eventi, di reinterpretarli man mano che accadono, riuscendo a produrre una razionalità prossimale, complessa, capace di ascoltare gli affetti, le relazioni e i legami. Tutto questo accade se si riesce trovare un consenso sui livelli di responsabilità tra i vari attori, reinventando o riorganizzando un sistema di welfare. Cronicità e complessità Facendo riferimento alla teoria della complessità, le organizzazioni sanitarie vanno intese come sistemi adattivi complessi, che interagiscono, si adattano e coevolvono con l’ambiente di cui sono parte: come nota ancora Alfieri, i condizionamenti maggiori «derivano dalla personalità dei malati, dalle diverse doti umane e professionali, dai ruoli rivestiti e dalle tecnologie disponibili. Provengono […] dalle caratteristiche culturali, socioeconomiche, abitative e ambientali di una comunità». Solo accettando la complessità dei sistemi sanitari si può cercare di reinterpretare la variabilità, la flessibilità e l’appropriatezza degli stessi; utilizzando i criteri propri della complessità Si arriva a un approccio sistemico alle organizzazioni sanitarie. Bisogna evitare di precipitare nell’area della semplicità, terreno dei tecnocrati e dei fanatici, e nell’area del caos, regno dell’incertezza e del disaccordo, ma bisogna saper vivere all’orlo del caos. Cronicità e organizzazione La cronicità crea anche problemi organizzativi alle aziende: le forme classiche di organizzazione (struttura gerarchico elementare, gerarchico funzionale, gerarchico divisionale) non sono in grado, vista la loro verticalità, di rispondere in maniera adeguata ai nuovi bisogni del territorio, che richiedono orizzontalità strutturale, maggiormente in grado di rispondere in maniera più o meno puntuale ai nuovi valori emergenti. La possibilità di utilizzare il lavoro per progetti garantisce la valorizzazione delle competenze professionali specifiche, nonché la flessibilità, la valutazione della contingenza e l’adattabilità del L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche 111 sistema al variare delle situazioni: lavorare per progetti consente la gerarchizzazione orizzontale su base matriciale. Alcune articolazioni delle strutture orizzontali sono: struttura per progetti: è il modello matriciale classico, nel quale su una o più strutture complesse o semplici si innesta una nuova organizzazione per progetti, trasversale struttura a matrice piatta: si verifica quando la struttura per progetti si consolida, assume la morfologia di “matrice” e scompare ogni verticalizzazione struttura a matrice top down: in questo caso, c’è una compenetrazione nell’azienda madre (per esempio l’Ass 6) di due aziende necessarie allo sviluppo del processo, che però non possono espandersi all’esterno dell’azienda madre struttura amatrice tridimensionale: si verifica quando un’intera linea funzionale (trasversale) di know-how viene messa al servizio di uno o più progetti che interessano più servizi aziendali. L’obiettivo generale è fare sì che i processi vadano a costituire la parte dinamica della struttura, rappresentando sequenze strutturate e stabilizzate di attività; le attività generano aggregati per competenza (aggregazione verticale per funzioni) e per obiettivi (lungo la linea orizzontale di progetto), alimentando la rete dei rapporti interni e la dinamicità delle azioni. In un’organizzazione per team, la struttura funzionale viene cancellata e sostituita da un top team, dove le risorse vengono assegnate alle linee di progetto, con la scomparsa delle apicalità funzionali verticali, che vengono sostituite da una cooperazione interna. Il processo comporta una deverticalizzazione della struttura, assegnando piena autonomia al team in funzione dell’utente; inoltre, il team dispone di autonomia di budget, con un sistema di valutazione condiviso con l’utente. In sanità, la forma più vicina a questo modello organizzativo può essere quella della medicina di gruppo dei medici di medicina generale, nonché della sua evoluzione in unità territoriali di assistenza primaria. Con una brillante intuizione, Mauro Moruzzi ha associato le forme ondulate del Museo Guggenheim di Bilbao di Gehry e del Park Güell di Gaudí, indici di avvicinamento architetturale alla complessità 112 Cronicità: lessico e paradigma e alla fluidità delle cose, alla relazione tra complessità ambientale e forme organizzative economico produttive. Secondo questa analogia è forse giunto il tempo, ormai, di rompere la griglia delle funzioni aziendali, attraverso progetti aziendali in grado di ricercare un’identità sempre più stretta tra domanda e organizzazione. Saper “debordare” rappresenta un modo di superare gli ostacoli, di armonizzare le soluzioni e di garantire adeguati modelli organizzativi sempre in divenire. Lucio Bomben L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche 113 I PARTECIPANTI Rafael Bengoa, Direttore dell’Osservatorio internazionale sulla qualità e la gestione delle malattie croniche (Kroniker) – Bilbao; ex Direttore di sistemi e politiche della salute dell’Organizzazione mondiale della sanità Lucio Bomben, Direttore distretto Ass 6 “Friuli Occidentale” Ovidio Brignoli, Medico di medicina generale, Brescia; Vicepresidente della Società italiana di medicina generale Alberto Cester, Direttore del Dipartimento di geriatria e riabilitazione, Azienza Ulss 13, Regione Veneto Gaetano Crepaldi, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova Cosimo De Chirico, Coordinatore del Nucleo di cure palliative interdistrettuale Ulss 7 – Pieve di Soligo (TV) Nicola Delli Quadri, Direttore generale Azienda per i servizi sanitari n. 6 “Friuli Occidentale” Vladimir Kosic, Assessore Regionale alla salute, integrazione sociosanitaria e politiche sociali, già consulta regionale delle associazioni dei disabili Federica Limongi, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova Guido Lucchini, Medico di medicina generale, Aviano (PN) e Ass 6 “Friuli occidentale”; membro esecutivo del Centro formazione area delle cure primarie Friuli Venezia Giulia Stefania Maggi, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova Marianna Noale, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova Paola Siviero, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova Federico Spandonaro, Università di Roma “Tor Vergata” Sandro Spinsanti, Direttore Istituto Giano, Roma Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 da Iacobelli, Via Catania 8, Pavona di Albano Laziale (Roma)