cronicità: lessico e paradigma - Azienda per i Servizi Sanitari n. 6

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cronicità: lessico e paradigma - Azienda per i Servizi Sanitari n. 6
i quaderni di
Cronicità: lessico e paradigma
Come preservare la vita sociale nella cronicità
ZADIG editore
Copia non destinata alla vendita
In copertina
La signora Cézanne nella poltrona gialla
Paul Cézanne, 1890
CRONICITÀ:
LESSICO E PARADIGMA
Cronicità: lessico e paradigma
La questione della cronicità non è più eludibile per
tutti coloro che si occupano di organizzazione dei
servizi sociosanitari, delle diverse caratteristiche che
devono avere, dello sguardo nuovo che li deve
attraversare.
Non più la frammentazione degli interventi, ma
un’ottica complessiva che permetta di dare risposte
innervate di contenuti umani, oltre che professionali,
in una visione che tenga conto della complessità
della persona, della sua totalità, dei suoi diritti.
I contributi al convegno del 2008 e il dibattito che li
ha accompagnati, che trovate in questo volume,
dimostrano la necessità di confrontarsi su queste
tematiche con approcci nuovi, sia dal punto di vista
dei professionisti, sia da quello delle organizzazioni.
Come preservare la vita sociale nella cronicità
I quaderni di Janus
© Zadig editore
Via Ravenna 34, 00161 Roma
tel. 06 8175 644
e-mail: [email protected]
www.mhjanus.it
supervisione testi e coordinamento editoriale: Paolo Gangemi
progetto grafico e impaginazione: Corinna Guercini
CRONICITÀ: LESSICO E PARADIGMA
Come preservare la vita sociale nella cronicità
25-26 gennaio 2008
Ente Fiera di Pordenone – Sala Zuliani
i n d i c e
Presentazione
Nicola Delli Quadri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche
Rafael Bengoa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
Epidemiologia della cronicità
Stefania Maggi, Federica Limongi, Paola Siviero,
Marianna Noale, Gaetano Crepaldi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
Come preservare la vita sociale nella cronicità
Ovidio Brignoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29
Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo
Alberto Cester . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
Il sistema Italia
come può permettersi di sostenere la cronicità?
Federico Spandonaro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
Sandro Spinsanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59
L’approccio olistico al malato terminale
Cosimo De Chirico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75
Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità:
quale alleanza tra associazioni e istituzioni
Vladimir Kosic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
Evoluzione nell’approccio alla cronicità
nella medicina generale dell’Ass 6 “Friuli occidentale”
Guido Lucchini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche
Lucio Bomben . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107
Presentazione
di Nicola Delli Quadri
L
a questione della cronicità non è più eludibile per tutti quelli che si occupano di organizzazione dei servizi sociosanitari, delle caratteristiche diverse che devono avere, dello sguardo
nuovo che le deve attraversare: non più la frammentazione
degli interventi, ma un’ottica complessiva che permetta di dare
risposte innervate di contenuti umani, oltre che professionali,
in una visione che tenga conto della complessità della persona,
della sua totalità, dei suoi diritti.
Per questi motivi l’Ass 6 “Friuli Occidentale” ha organizzato il
convegno di cui pubblica gli atti. È un’ulteriore occasione di
riflessione e di approfondimento delle tematiche che sono
state affrontate.
Le relazioni e il dibattito che le ha accompagnate hanno dimostrato la necessità di confrontarsi su queste tematiche con
approcci nuovi, sia dal punto di vista dei professionisti, sia
delle organizzazioni. A tutti va il mio sincero ringraziamento
per il grande aiuto che ci siamo dati nell’affrontare una delle
questioni più gravi e complesse che caratterizzano le nostra
comunità.
Aspetti innovativi
nella gestione
delle malattie croniche
di Rafael Bengoa
A
fronte degli avvenuti cambiamenti sia a carico dei pazienti sia dei
fattori di prevalenza epidemiologica, il sistema sanitario non
sembra essere in grado di adeguarsi, in quanto non sa stare al passo
con le priorità e le necessità odierne. Pertanto, senza un’attiva politica di riforma del sistema sanitario, lo sfasamento tra le azioni intraprese e le necessità andrà ad accrescersi.
Il settore della salute è un settore altamente complesso, e difficilmente potrà evolversi e riformarsi se gli incentivi esistenti tendono a mantenere un determinato status quo, che favorisce alcuni attori del sistema ma non i pazienti, specialmente i pazienti affetti da malattie croniche.
Per far fronte alla sfida posta dalle malattie croniche è dunque necessario intervenire globalmente nella cura della malattia, a partire dalla
promozione della salute fino alla riorganizzazione dei servizi sanitari,
in modo tale da attuare una medicina più proattiva e preventiva.
Questo contributo si propone dunque di porre in luce i necessari
cambiamenti che devono essere intrapresi nella gestione e nella riorganizzazione dei servizi sanitari.
È una sfida certamente impegnativa, ma le prospettive di successo
sono buone, se davvero verranno effettuati i dovuti cambiamenti a
carico del settore sociosanitario. Attualmente esiste un vasta gamma
di modelli, di nuovi obiettivi ed esperienze nazionali e internazionali
nella gestione delle malattie croniche e nella qualità dei servizi al
malato, a cui attingere per far fronte a questi auspicati cambiamenti.
I pazienti stanno cambiando
Oggigiorno, i pazienti si sono evoluti e continuano a evolversi, per una
serie di motivi:
in generale si tratta di pazienti cronici, affetti da due o tre malattie croniche
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Cronicità: lessico e paradigma
sono più attivi e chiedono di poter prendere parte alle decisioni
riguardanti il proprio trattamento
pretendono l’accesso alla propria cartella elettronica
ascoltano e accettano il responso del medico ponendo molte
domande e hanno un buon grado di conoscenza della propria
malattia
utilizzano attivamente Internet e i consulti telefonici per integrare i consulti forniti dall’equipe clinica
si aspettano una assistenza continua da parte di tutto il sistema
sociosanitario.
I fattori di prevalenza epidemiologica stanno cambiando
I fattori di prevalenza epidemiologica sono cambiati, con la conseguenza che attualmente il 70% delle spese sanitarie sono da mettere
in relazione alla cura delle malattie croniche. Numerose malattie,
come il diabete, l’artrite, le malattie respiratorie, l’obesità e alcune
patologie legate alla salute mentale hanno conosciuto un aumento
significativo; a titolo di esempio si può fare riferimento all’incidenza
del diabete in Spagna, passata da un tasso del 4% dieci anni fa a un
tasso attuale del 6%. Nella fascia d’età superiore ai 75 anni, questa
incidenza è aumentata dal 7% al 19%.
Patologie infettive come l’Aids e l’epatite, oggi considerate malattie
croniche, sono anch’esse in notevole aumento. Solo le malattie cardiovascolari sono in diminuzione, nei Paesi a maggior tasso di sviluppo; queste malattie per definizione non possono essere soggette a
cura, ma sono disponibili in numero crescente interventi e azioni che
ne consentono il controllo preventivo e la gestione. Di fatto, le innovazioni maggiormente significative sono in questo caso avvenute a
carico del sistema organizzativo.
Il sistema sanitario non sta cambiando
I cambiamenti avvenuti nei pazienti, come anche nei fattori di prevalenza epidemiologica, non sono accompagnati da un corrispondente
adeguamento del sistema sanitario.
Al contrario, la risposta del sistema è la stessa di trenta anni fa. La
sfida che il sistema sanitario si trova ad affrontare in questo secolo è
dunque quella di sapersi adattare a queste tipologie evolute di pazienti e di epidemiologie. Non si tratta di una problematica ristretta al
Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche
11
caso spagnolo: è un problema globale; la differenza tra altri Paesi e la
Spagna risiede nel fatto che quest’ultima ha a disposizione numerose
risorse per far fronte al necessario mutamento e deve di conseguenza
trarre profitto da queste risorse.
Il mancato adattamento del sistema sanitario odierno in relazione
alle problematiche emergenti è evidente a seguito dell’esame di
numerosi indicatori.
A titolo di esempio, le figure successive illustrano come generalmente i medici di base non siano in grado di fornire sufficienti informazioni riguardo ai pazienti cronici.
Capacità di fornire informazioni riguardo ai pazienti cronici. 2006
100
92
81
88
80
72
75
63
55
74
68
59
50
3737
25
0
26 25
CAN
US
GER
NET
NZ
AUS
UK
Nero: percentuale di equipe di AP che sanno fornire liste di pazienti per
diagnosi
Grigio: percentuale di equipe di AP che sanno fornire liste di medicine prese
dai pazienti
Fonte: 2006 Commonwealth Fund International Health Policy Survey
of Primary Care Physicians
Inoltre, è stato verificato come la maggior parte dei Paesi non abbiano ancora implementato un buon servizio di infermeria per la gestione dei casi, attività fondamentale per il controllo e la cura dei malati
cronici.
12
Cronicità: lessico e paradigma
Equipe che dispongono di infermieri per la gestione dei casi. 2005
75
52
50
47
41
36
25
16
19
0
AUS
CAN
NZ
US
GER
UK
Fonte: 2005 Commonwealth Fund International Health Policy Survey
of Sicker Adults
La stessa inchiesta, rivolta a medici di base, mette in luce come fino al
30% dei medici non sia preparato per fornire assistenza ai pazienti
che presentano più di una patologia cronica. Si tratta di un dato di
fondamentale importanza, poiché un quarto delle popolazione che si
reca dal medico di base presenta da 2 a 3 malattie di tipo cronico.
Le conseguenze di questo stato di fatto sono indubbiamente molto
gravi per il paziente cronico che viene assistito da un sistema sanitario non preparato a fornire le adeguare prestazioni, non in grado di
fornire le informazioni necessarie e che non dispone di capacità specifiche. Un paziente diabetico potrebbe per esempio morire 5-10
anni in anticipo a causa di malattie cardiovascolari, con un tasso di
incidenza del 50%, mentre il 10-20% può morire per insufficienza
renale.
Da sottolineare inoltre come la retinopatia diabetica sia la principale
causa di cecità dei Paesi a maggior tasso di sviluppo.
La tabella 1 alla pagina seguente illustra la mortalità prevedibile se il
sistema di assistenza rivolto ai pazienti affetti da patologie croniche
fosse organizzato in maniera differente.
Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche
13
Mortalità prevedibile
Condizione
Attenzione insufficiente
Prevedibile
Diabete
Glucosio nel sangue
non misurato nel 24% dei casi
2.600 cechi;
29.000 problemi
renali
Ipertensione
Meno del 65 % riceve
un trattamento adeguato
68.000 morti
Post-infarto
Tra il 39 e il 55% non riceve
assistenza medica adeguata
37.000 morti
Polmonite
Il 36% con età superiore
a 65 anni non era vaccinato
10.000 morti
Tumore colorettale
Il 62% non ha seguito
uno screening quando indicato
9.600 morti
Questo quadro indica il potenziale preventivo di perdita per un sistema che perde il controllo dei suoi pazienti. Per esempio, il 45% degli
ipertesi non riceve un trattamento adeguato alle proprie necessità, il
che implica, secondo questo studio inglese, la morte di 68.000 persone.
I pazienti dal canto loro sono consapevoli di queste problematiche.
Secondo uno studio recente di Cathy Schoen, è stato constatato che i
pazienti affetti da malattie croniche si lamentano dell’inadeguatezza
con cui vengono fornite risposte alle proprie esigenze, oltre che della
passività del sistema sanitario per quanto riguarda i temi legati alla
prevenzione.
Questi dati confermano come l’attuale modello assistenziale sia in
grado di trattare efficacemente gli episodi acuti dovuti alle malattie;
per esempio se un paziente presenta un crisi ipertensiva o un’epatite
acuta il sistema sanitario spagnolo dispone di adeguate capacità per
trattare efficacemente questi casi. Ciò che invece non viene fatto con
un grado sufficiente di qualità è gestire la cronicità, cioè gestire condizioni che necessitano di cure prolungate, oltre che implementare
una medicina proattiva e preventiva.
Di fatto, il sistema sanitario non è stato concepito per questo, ma per
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Cronicità: lessico e paradigma
trattare gli episodi acuti. E dunque, il modello assistenziale odierno
non sarà in grado di affrontare questo problema se non attraverso
cambiamenti abbastanza profondi.
Riassumendo, risulta evidente come da un lato ci si trovi a dover fronteggiare un’epidemia di patologie croniche, dall’altro i sistemi sanitari della maggior parte dei Paesi non sono preparati per fornire cure
adeguate ai malati cronici, il che porta a risultati negativi in termini di
salute. Inoltre, la frammentazione dei servizi è incompatibile con un
buon livello di attenzione ai pazienti cronici, i quali esigono invece
modalità di cura e assistenza diverse.
Prospettive verso nuovi modelli di organizzazione dei servizi sanitari
Fattori storici, economici, tecnologici e culturali tendono a incentivare un sistema incentrato sulla gestione degli episodi acuti. Non c’è
dubbio, d’altra parte, che i professionisti del settore, di concerto con i
responsabili politici in tema di salute, siano consapevoli della necessità di un cambiamento, poiché nei paesi dell’Ocse il 90% degli incontri tra pazienti e professionisti della salute riguardano patologie croniche.
In generale, si tratta di attuare una riforma del modello di sistema
sanitario che preveda una maggiore continuità tra le diverse strutture
che prestano i servizi, in cui siano implementati sistemi informativi in
grado di garantire la connessione tra questi servizi; questa riforma
deve inoltre consentire una maggiore partecipazione del paziente nel
controllo della propria malattia, con un significativo cambiamento
nell’educazione stessa del paziente, anche tramite l’appoggio a strutture domiciliari organizzate e a nuove professionalità assistenziali.
I due modelli più accreditati a livello internazionale negli ultimi anni
sono il modello detto della “piramide di rischio” (stratificazione del
rischio), sviluppato negli Stati Uniti dalla Kaiser Permanente e il
“Chronic Care Model” sviluppato dal Mc Coll Institute di Seattle (Stati
Uniti).
Il modello della piramide di rischio
Questo modello identifica tre distinti livelli di intervento, a seconda del
livello di complessità del paziente. Suddividendo i pazienti a seconda
del rischio, è possibile dunque destinare in maniera più efficace i programmi di intervento a ciascun gruppo. Le risorse umane possono
Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche
15
essere dunque concentrate nel prestare cure ai gruppi più complessi,
evitando così ricoveri ospedalieri costosi e inutili (figura 1).
Figura 1. Modello della piramide di rischio
(Kaiser permanente)
Livello3
Gestione dei casi più complessi;
con molta co-morbilità e grande
impiego di risorse
Gestione
dei casi
Gestione delle
patologie
Livello 2
Gestione di patologie;
morbilità intermedia e grande
impiego di risorse
Appoggio all’auto
gestione del proprio
paziente
Livello 1
Pazienti malati cronici con
buon autocontrollo della
malattia
Il “Chronic Care Model”
Questo modello individua una struttura organizzativa finalizzata al
coordinamento delle cure destinate ai malati cronici nel settore delle
cure primarie. Si basa su una logica di “popolazione”, prevedendo una
serie di interventi che consentono di ottenere migliori risultati dal
punto di vista clinico e anche funzionale. Questi interventi consistono in:
miglioramento della mobilità di risorse della comunità: per
esempio stimolando i pazienti affetti da malattie croniche a partecipare a specifici programmi all’interno della comunità civile
sviluppo di programmi di autoassistenza e di educazione rivolti ai pazienti, per renderli preparati a gestire la propria malattia
ridisegno del sistema di prestazioni, per assicurare la continuità
dell’assistenza, l’integrazione tra assistenza primaria e assistenza specializzata, cure pianificate attraverso un sistema organizzato di assistenza
accertamento della disponibilità dei necessari sistemi di appoggio alle decisioni per i professionisti (protocolli, risultati ed evidenze aggiornati)
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Cronicità: lessico e paradigma
sviluppo di sistemi informativi che siano in grado di fornire ai
professionisti un registro dei malati affetti da patologie croniche, in modo tale da poter monitorare e identificare i gruppi
all’interno della popolazione che devono essere sottoposti a
particolari programmi, oltre che per destinare loro risorse preventive
promozione dell’utilizzo del modello da parte dell’intero sistema sanitario, attraverso lo sviluppo di incentivi per la sua messa
in pratica (figura 2).
L’Organizzazione mondiale della sanità ha adattato questo modello,
dando ancora più risalto al concetto di “comunitario”1.
Figura 2. Il Chronic Care Model
È dimostrato come molte equipe di assistenza sia primaria sia specializzata, in Spagna, abbiano già attivato interventi di questo tipo.
Senza dubbio, il fulcro dei modelli fin qui illustrati è quello della
necessità di intervenire in maniera organizzata e simultanea nei confronti delle diverse problematiche.
1. http://www.who.int/chronic_conditions/en/
Aspetti innovativi nella gestione delle malattie croniche
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Il secondo concetto fondamentale intrinseco a questi modelli è che
sviluppano un “sistema” locale, rompendo così la frammentazione
esistente tra le diverse strutture, fenomeno comune ai servizi sanitari
di molti Paesi.
Quando questi sistemi vengono gestiti in modo integrato, la tendenza
è quella di rafforzare i servizi extraospedalieri, oltre che i servizi e le
risorse che possono essere svolti all’interno della comunità. Gli studi
(fra cui Improving Chronic Disease Management) indicano che l’utilizzo di questi nuovi modelli determina un impatto positivo sulla qualità delle cure e un effetto sociale di miglioramento dell’assistenza
riservata ai pazienti affetti da malattie croniche, anche se è necessario
attendere i risultati in termini di riduzione dei costi. È da sottolineare
inoltre come numerosi studi2 abbiano dimostrato la capacità di evitare ricoveri ospedalieri a seguito dell’adozione di misure innovative.
Tuttavia è possibile che altri costi aumentino in conseguenza dell’intensificazione dei servizi in ambito ambulatoriale. Sono disponibili
sul Kroniker numerosi studi che valutano le esperienze attuate in
diversi Paesi.
In conclusione, risulta interessante mettere in evidenza come fino a
ora gli esiti delle innovazioni nella gestione delle malattie croniche
siano stati sufficienti perché vari governi (Inghilterra, Danimarca,
Scozia, Canada e Nuova Zelanda) stiano promuovendo questi modelli come politiche prioritarie. In Spagna, sarebbe quanto meno opportuno dare inizio a una serie in esperienze dimostrative, per valutare
l’applicazione di questi modelli nel contesto nazionale.
Rafael Bengoa
Bibliografia
C. Schoen et al., “Primary Care And Health System Performance: Adults’
Experiences In Five Countries”. In: Health Affairs, Web Exclusive, 2004.
Improving Chronic Disease Management. An Anglo-American exchange.
King’s Fund. 2007
2. http://www.improvingchronicillnesscare.org
18
Cronicità: lessico e paradigma
Epidemiologia
della cronicità
di Stefania Maggi, Federica Limongi,
Paola Siviero, Marianna Noale,
Gaetano Crepaldi
L’
Italia, per l’elevata longevità della sua popolazione, ha la più alta
proporzione al mondo di popolazione ultrasessantacinquenne
(circa il 20%), mentre per la sua prolungata bassa fecondità ha la più
bassa proporzione al mondo di ragazzi con meno di 15 anni (circa il
14%). L’azione congiunta di questi due fenomeni demografici fa sì che
la popolazione italiana sia considerata la più vecchia del mondo e
che, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, resterà nel gruppo
delle più vecchie anche per i prossimi decenni. Le conseguenze del
processo di invecchiamento sono le più varie e coinvolgono tutti gli
aspetti della popolazione, della società e dell’economia. In particolare, gli sforzi della scienza medica si concentrano sulla lotta alle malattie croniche e alla disabilità, ma anche sulle nuove opportunità emerse dalle ricerche sulla qualità di vita delle persone anziane, che dipende strettamente dalle relazioni tra fenomeni biologici e aspetti economici e sociali. Inoltre, la ricerca si focalizza sugli interventi che diminuiscono l’incidenza, la gravità e la progressione delle malattie croniche invalidanti, attraverso strategie di prevenzione e di promozione
della salute. Queste strategie, poi, andrebbero implementate a livello
di politiche sanitarie e sociali, mentre purtroppo spesso succede che
il trasferimento dei risultati della ricerca si arresta.
Di seguito analizzeremo due esempi di patologie altamente invalidanti e per le quali esistono indicazioni ben precise sulla prevenzione e sul trattamento, ma che a oggi non ottengono un’adeguata
attenzione.
La sintomatologia depressiva e la malattia cardiovascolare
La depressione nelle persone anziane rappresenta un problema rilevante, sia per l’alta frequenza che per le conseguenze negative sullo
stato di salute e sulla qualità di vita di chi ne è affetto.
Se si utilizza l’indice Daly (Disability Adjusted Life Year), che valuta gli
anni di vita persi a causa di mortalità precoce o insorgenza di disabi20
Cronicità: lessico e paradigma
lità per cause specifiche, si vede che la depressione, oggi quinta causa
di perdita di vita attiva nel mondo, nei prossimi 20 anni passerà a
essere la seconda causa.
L’aspetto più preoccupante per il paziente anziano, infine, è rappresentato dal fatto che non solo la depressione clinicamente diagnosticata, ma anche la semplice sintomatologia depressiva, valutata con le
comuni scale psicometriche, rappresenta un fattore prognostico
negativo, sia in termini di mortalità sia di morbilità.
In Italia la prevalenza di sintomatologia depressiva è stimata intorno
al 58% nelle donne e 34% nei maschi ultrasessantacinquenni. Si tratta quindi di una condizione nettamente più frequente nelle donne,
anche se le conseguenze negative sullo stato di salute sono molto
significative in entrambi i sessi.
I tassi di prevalenza in Italia sono simili a quelli riportati in uno studio
condotto in Spagna e più elevati di quelli riportati in studi su popolazioni anglosassoni, che riferivano una prevalenza mediamente di due
o tre volte inferiori, come evidenziato nella tabella.
Tassi di prevalenza (%) di sintomatologia depressiva
Autori
Totale
Maschi
Femmine
Berkman, ‘86
16.4
11.3
19.2
Kennedy, ‘89
17
11.1
19.9
Blazer, ‘91
9.0
6.4
10.7
Callahan, ‘94
15.0
11.0
15.0
Beekman, ‘95
13.2
7.0
17.9
Zunzunegui, ‘98
34.9
29.6
45.9
Minicuci, 2001
42.9
34.1
58.0
In tutti gli studi, comunque, si evidenzia la più elevata prevalenza tra
le donne rispetto agli uomini; diverse ragioni, biologiche o legate ai
tassi più elevati di comorbidità, disabilità, isolamento sociale, sono
Epidemiologia della cronicità
21
state ipotizzate per spiegare questa differenza. Tra i vari fattori associati alla sintomatologia depressiva, per esempio, vengono spesso
citate le condizioni funzionali e di salute scadenti, variabili sociali
come la mancanza di rapporti familiari e sociali, la bassa scolarità,
eccetera, indubbiamente più frequenti nella donna che nell’uomo.
Associazione della sintomatologia depressiva con la malattia cardiovascolare
Nei 12 mesi successivi all’infarto, un paziente su tre va incontro a
depressione maggiore e circa il 65% dei pazienti con infarto del miocardio acuto presenta sintomi depressivi. Persone depresse e con
malattia cardiovascolare hanno un rischio di morte di 3,5 volte maggiore rispetto ai soggetti con malattia cardiovascolare ma non depressi. Il rischio di morte diminuisce al diminuire della gravità dei sintomi
depressivi, ma anche la sola sintomatologia depressiva comporta un
valore significativamente maggiore del rischio. Per quanto riguarda la
popolazione geriatrica in particolare, si è recentemente dimostrato
nello studio Systolic Hypertension in the elderly che in oltre 4500
pazienti con ipertensione sistolica isolata seguiti per più di 5 anni la
sintomatologia depressiva ha aumentato significativamente il rischio
di infarto miocardico e di scompenso cardiaco congestizio, anche
dopo aver aggiustato per i tradizionali fattori di rischio.
Anche in un recente studio italiano su 265 pazienti con infarto del
miocardio, la presenza di sintomatologia depressiva è risultata tra i
determinanti negativi più significativi di declino della funzionalità
fisica.
Un aspetto molto interessante resta comunque il fatto che la depressione, e anche solo la sintomatologia depressiva, sia un fattore predittivo indipendente di sviluppo della malattia coronarica, sia fatale sia
non fatale, in soggetti inizialmente privi di patologia cardiovascolare.
Risultati interessanti sono emersi dall’Italian Longitudinal Study on
Aging, che ha seguito dal 1992 una coorte di oltre 5.600 individui di
65-84 anni. Al primo follow up, nel 1996, abbiamo visto che nella
donna con sintomatologia depressiva all’inizio dello studio era significativamente aumentato il rischio di mortalità generale (RR = 1,43 (CI
= 1,04-1,95), ma non di eventi coronarici fatali e non fatali. Nella coorte maschile, di oltre 2800 soggetti, la sintomatologia depressiva al
baseline era associata a una più elevata incidenza di eventi coronarici
22
Cronicità: lessico e paradigma
sia fatali sia non fatali coronarici (HR = 1,66, CI = 1,06-2,60) e alla mortalità sia coronarica (HR = 2,49, CI = 1,60-3,87) sia totale (HR = 2,02, CI
= 1,58-2,58). Questi dati sembrano suggerire che, mentre nel maschio
la sintomatologia depressiva si associa a un elevato rischio cardiovascolare, nella donna non aumenta il rischio cardiovascolare, bensì di
altre patologie che portano a un incremento della mortalità generale.
Questo dato, comunque, andrà confermato nel follow up successivo:
potrebbe infatti essere che le donne abbiano un cluster di fattori di
rischio cardiovascolari inferiore ai maschi e, quindi, che semplicemente sviluppino la patologia in tempi più lunghi. In conclusione,
comunque, sia nei maschi sia nelle femmine con sintomatologia
depressiva in età anziana la mortalità è significativamente aumentata. Inoltre, una recente metanalisi, che ha incluso 11 studi longitudinali con follow up variabili da 3 a 37 anni, conclude che la sintomatologia depressiva è associata allo sviluppo di coronaropatia in soggetti,
maschi e femmine, inizialmente sani.
Implicazioni per la prevenzione cardiovascolare
L’elevata prevalenza di sintomatologia depressiva nell’anziano rappresenta una seria sfida per il geriatra che deve considerare, oltre alla
comorbidità usualmente presente in questi pazienti, anche l’aumentato rischio di declino funzionale fisico, di eventi cardiovascolari e di
mortalità che a essa si associano. Studi longitudinali, con lunghi periodi di follow up, hanno dimostrato che questa condizione comporta un
aumentato rischio cardiovascolare, indipendentemente dalla presenza
di fattori di rischio tradizionali. La plausibilità biologica di questa associazione, sia in termini eziologici sia prognostici, è forte e coerente in
diversi studi clinici e sperimentali e si basa sull’ipotesi di alterazioni
dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, dell’aggregazione piastrinica e
della regolazione neurovegetativa del ritmo cardiaco.
Da non dimenticare, in questa panoramica generale, che per quanto
riguarda i fattori di rischio comportamentali i soggetti con depressione tendono ad avere una scarsa compliance nell’assunzione di farmaci e nel mantenere uno stile di vita sano, con adeguata attività fisica,
corretta alimentazione e moderata assunzione di alcol, cessazione del
fumo di sigaretta, ecc.
Seppure il ruolo della sintomatologia depressiva come fattore di
rischio per malattie cardiovascolari e per mortalità generale sia ormai
Epidemiologia della cronicità
23
ben definito, pur tuttavia il trattamento farmacologico e non di questa condizione è tuttora largamente inferiore alle necessità. Le gravi
complicanze a essa associate potrebbero essere largamente prevenute e le evidenze scientifiche al riguardo sono solide e incontrovertibili: non c’è giustificazione per la mancanza di azioni al riguardo.
Il profilo di cura delle fratture del femore
La rilevanza dell’impatto sociosanitario dell’osteoporosi in Italia ha
comportato un crescente interesse da parte di organismi governativi
e non, e ha portato alla promozione di iniziative di ricerca dirette a
migliorare le conoscenze sulla malattia e sul profilo di cura e a rispondere a quesiti di ricerca clinica ed epidemiologica, fra cui:
analisi della distribuzione dei fattori di rischio nei diversi segmenti della popolazione
formulazione di linee guida per la diagnosi e la terapia dell’osteoporosi e delle sue complicanze
definizione del profilo di cura per le fratture del femore e variazioni tra diverse aree geografiche.
In particolare, ai fini della pianificazione della cura delle complicanze, risulta fondamentale lo sforzo per creare un registro delle fratture
del femore, che già in altri Paesi ha dato un contributo fondamentale
nel rendere omogeneo il profilo di cura di questi pazienti. I registri
sulle fratture del femore, basati sulle diagnosi ospedaliere e sui dati di
mortalità, esistono già in alcuni Paesi europei e sono in corso di
implementazione in altri. Particolarmente significativa l’esperienza
della Svezia, dove il registro è stato attivato nel 1988 e attualmente
include due terzi degli ospedali svedesi. Dato che le fratture del femore sono uno dei gruppi diagnostici che consumano più risorse economiche, in Svezia questo è diventato il modello per altri registri che
mirano a valutare gli outcome clinici di malattie con elevato impatto
economico e con necessità di assistenza continuativa. Attraverso il
monitoraggio dell’utilizzo delle strutture sociali e sanitarie nei primi
quattro mesi dopo la frattura, il registro ha portato a una stretta collaborazione tra ospedali e strutture territoriali, permettendo quindi la
dimissione più precoce dai reparti per acuti. Collaborazioni internazionali sono in corso con la Finlandia, i Paesi Bassi, l’Inghilterra, la
24
Cronicità: lessico e paradigma
Scozia, la Spagna, l’Ungheria e la Grecia nell’ambito della Concerted
Action Standardization of Hip Fracture Audit in Europe. L’Italia ha
avviato negli ultimi anni un progetto multicentrico, coordinato dal
Cnr, per entrare a far parte di questa rete internazionale. Infatti, nella
ricerca finalizzata ministeriale del 2001, coordinata dagli Istituti
Rizzoli, uno dei sottoprogetti condotti dal Cnr, Sezione invecchiamento di Padova, ha riguardato la valutazione retrospettiva dei dati di
ospedalizzazione per frattura del femore in alcuni ospedali di Padova,
Genova, Parma, Matera e Napoli.
La frequenza delle fratture del femore nella popolazione ultrasessantacinquenne delle aree incluse non sembra segnalare differenze
regionali significative (tra 62/10.000 e 74/10.000 nella popolazione
ultrasessantacinquenne). Come previsto, in ogni centro le donne rappresentano il 70% dei casi e circa l’80% ha 70 anni e oltre.
La durata della degenza è, mediamente, superiore ai 10 giorni in tutti
i centri e per tutte le fasce di età.
Interessante notare come la modalità di dimissione presenti importanti differenze tra centri, per esempio:
il 9,5% dei pazienti è deceduto in ospedale a Genova, contro
meno del 3% negli altri centri. Questo può essere dovuto alla
degenza media più lunga, mediamente di 4-6 giorni a Genova
rispetto agli altri centri. In questi casi, quindi, per poter confrontare la mortalità come outcome in setting assistenziali
diversi, bisognerebbe avere a disposizione anche i dati sulla
mortalità postospedaliera
l’80% viene dimesso a domicilio a Napoli, contro il 40% a
Genova
meno dell’1% viene trasferito in un istituto a Parma e Matera,
contro il 19% a Genova
nessun paziente viene trasferito in residenze sanitarie assistenziali, eccetto a Genova, dove vi viene trasferito il 14%.
La dimissione a domicilio piuttosto che in istituto o in residenza sanitaria assistenziale dipende, ovviamente, dalla diversa disponibilità,
accesso e utilizzo delle strutture per l’assistenza continuativa all’anziano nel territorio. Il fatto che, per esempio, a Napoli l’80% dei
pazienti venga dimesso a domicilio può dipendere dal fatto che esiste
Epidemiologia della cronicità
25
una rete di assistenza domiciliare, formale e informale, tale da permettere l’assistenza continuativa e programmi di riabilitazione a
domicilio, o semplicemente dal fatto che sono carenti gli istituti o le
residenze sanitarie assistenziali adatti alla cura di questi pazienti.
Per quanto riguarda i pazienti sottoposti a trattamento chirurgico,
dall’analisi delle cartelle cliniche risulta che in alcuni centri sono circa
il 90%, in altri meno del 60%.
Il numero medio di giorni di attesa dall’ingresso in ospedale all’intervento varia da 2,2 a 6,2.
In sintesi, questo studio dimostra che:
la frequenza delle fratture del femore è rilevante in diverse aree
rappresentative della realtà nazionale
il profilo di cura varia profondamente da centro a centro, sia per
diverso approccio clinico che per utilizzo o accesso alla rete dei
servizi postospedalieri
è essenziale attivare un sistema di monitoraggio degli outcome,
per valutare l’impatto sulla mortalità e disabilità dei diversi profili di cura per la frattura del femore.
Risulta quindi evidente la criticità del profilo di cura dei pazienti con
frattura del femore e la necessità di un suo monitoraggio, se si vuole
garantire una buona ed equa qualità assistenziale su tutto il territorio
nazionale.
Impatto sulla prevenzione della disabilità e della mortalità
Linee guida internazionali sul trattamento chirurgico delle fratture
del femore concordano nel trovare indicazione al trattamento chirurgico in oltre il 90-95% dei pazienti con frattura del femore.
Sottolineano inoltre la necessità di intervenire precocemente, per evitare complicanze. Gli studi in letteratura enfatizzano in particolare
che il rischio di complicanze è particolarmente elevato nei pazienti
più fragili, con comorbidità, nei quali il tempo di attesa per l’intervento è superiore alle 48 ore. La larga maggioranza delle linee guida
disponibili raccomanda l’intervento chirurgico entro le prime 24 ore
o entro 36-48 ore. Queste linee guida, supportate da solide metanalisi, identificano associazioni tra ritardo nell’intervento con più elevati
tassi di mortalità, morbosità, ridotta possibilità di osteointegrazione
26
Cronicità: lessico e paradigma
della protesi, peggiori risultati dei programmi di riabilitazione, trombosi venosa profonda, embolia polmonare e piaghe da decubito.
Anche studi recenti confermano questi risultati.
In conclusione, la conoscenza scientifica sugli effetti avversi di diversi fattori di rischio modificabili nella popolazione è sostanziale, ma
spesso l’implementazione delle politiche sanitarie non riflette adeguatamente queste conoscenze. L’analisi e il confronto con legislazioni e iniziative internazionali possono essere di notevole aiuto, soprattutto se identificano comportamenti e indirizzi molto diversificati.
Per esempio, i dati epidemiologici citati dimostrano, senza alcun dubbio, la necessità di rivolgere un’attenzione particolare al trattamento
della sintomatologia depressiva e al profilo di cura delle fratture nell’anziano.
Occorre però un impegno forte di medici, operatori e manager del
sistema sanitario perché l’insieme delle conoscenze possa tradursi in
interventi di prevenzione di sicura efficacia.
Stefania Maggi
Federica Limongi
Paola Siviero
Marianna Noale
Gaetano Crepaldi
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Epidemiologia della cronicità
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28
Cronicità: lessico e paradigma
Come preservare la vita
sociale nella cronicità
di Ovidio Brignoli
L
a vera sfida del futuro che coinvolgerà i servizi sanitari, con grande ripercussione sull’economia e sull’organizzazione dei servizi
dei Paesi più sviluppati del mondo, sarà legata alla cronicità.
Le malattie croniche sono da circa dieci anni la principale causa di
malattia e di morte nelle nazioni del Nord del mondo.
L’8 aprile del 2007 un articolo del New York Times intitolato “Six killers” informava i lettori che le malattie cardiovascolari, il cancro, l’ictus, le malattie respiratorie croniche, il diabete e l’Alzheimer sono,
nell’ordine, le principali cause di malattia e di morte negli Stati Uniti,
e che hanno molti aspetti in comune.
Il problema in Europa
In alcuni Paesi, come per esempio la Danimarca,circa il 40% della
popolazione convive con malattie croniche, percentuale destinata
probabilmente ad aumentare visto il progressivo invecchiamento
della popolazione europea. Il 70-80% delle spese sanitarie sono stanziate proprio per queste patologie, anche perché questi pazienti gravano a lungo sui servizi di cura e assistenza.
I costi sanitari e il rischio di ricoveri inutili aumentano notevolmente
al crescere delle comorbilità. Il Regno Unito ha stimato che, delle undici principali cause di ricovero ospedaliero, otto sono malattie croniche,
e che il 5% dei ricoverati, spesso con una patologia a lungo termine, è
associato al 42% di tutti i giorni di degenza per problemi acuti.
In Italia il numero di soggetti affetti da malattie croniche si attesta
intorno al 35%, come viene documentato da una sistematica e continua valutazione della Banca dati assistito dell’Asl di Brescia. Le malattie croniche hanno un impatto significativo sulla salute e sull’assistenza sociosanitaria, in termini di morte prematura, cronicità o disabilità.
La situazione attuale in Italia
Come medico di medicina generale fortemente coinvolto nella gestio30
Cronicità: lessico e paradigma
ne del paziente con malattia cronica, mi pongo a questo punto una
serie di domande che dovrebbero aiutarmi a valutare l’impatto del
problema sulla mia attività professionale.
quanti sono i miei malati cronici?
come sono (che bisogni hanno) i miei malati cronici?
quali sono i supporti organizzativi di cui posso disporre nella
gestione dei miei malati cronici?
Alla prima domanda posso rispondere interrogando il mio database:
270/315 pazienti oltre i 65 anni (17/21)%
110/140 pazienti oltre i 75 anni (8/9)%
490/530 pazienti con patologia cronica (35,2)%
280/305 1 patologia cronica (19,5)%
125/130 2 patologie croniche (9,3)%
85/90 > 3 patologie croniche (6,5)%.
Questi dati confermano la grandezza del problema e introducono
anche il tema della comorbidità e della complessità.
La tabella successiva fornisce ulteriori dati sulla composizione della
Numero di persone
Prevalenza (per 1000)
Cardiovasculopatie
Patologie
297
198,1
Diabete
84
56,6
E/g/duodenopatie
66
44,3
Neoplasie
42
28,8
Neuropatie
38
25,8
Broncopneumopatie
38
25,5
Malattie endocrine
25
16,2
Epato ed enteropatie
15
9,2
Malattie autoimmuni
5
3,5
Insufficienza renale
5
3,0
Hiv/Aids
4
2,8
Trapianti
1
0,5
Come preservare la vita sociale nella cronicità
31
popolazione di un medico di medicina generale individuando le prevalenti patologie croniche in forma isolata.
È evidente che alcuni pazienti avranno più di una di queste malattie.
Un medico di famiglia che disponga di una buona cartella informatizzata e di buoni dati sanitari è in grado di costruire un discreto case
mix della propria popolazione di assistiti e quindi di fornire dati interessanti al gestore della programmazione sanitaria in tema di consumo di risorse di bisogni sanitari e assistenziali.
Ma di fronte a questa situazione la domanda successiva è quella di
sapere quali sono a oggi le risorse organizzative su cui un medico di
medicina generale possa contare per la gestione sul territorio dei
malati cronici:
servizi dell’Asl:
• assistenza domiciliare programmata
• voucher
• unità di valutazione geriatrica
strutture pubbliche:
• ospedali di comunità
• residenza sanitaria assistenziale
servizi del Comune:
• infermieri
• assistenti sociali.
In teoria sembra che sul territorio esistano una serie di strutture e servizi in grado di far fronte ai bisogni assistenziali e sanitari dei malati
cronici; in realtà, nell’Asl di Brescia non esistono dati che evidenziano
un beneficio dei servizi e delle strutture che intervengono sul malato
cronico in termini di:
esiti delle cure
riduzione dei ricoveri
miglioramento della qualità di vita
riduzione dei costi.
Esiste quindi un problema vero di coordinamento e di integrazione
tra i servizi e gli operatori che intervengono sui pazienti con patologia
cronica.
32
Cronicità: lessico e paradigma
Considerazioni e proposte
È facilmente intuibile che il problema della cronicità non possa essere affrontato con gli strumenti culturali e organizzativi tradizionali
perché la riorganizzazione dei servizi sanitari ha riservato l’ospedale
ai pazienti acuti e scaricato sul territorio, completamente privo di
strumenti e servizi, i pazienti con patologie croniche.
Come giustamente scrive Halsted Holman, le malattie croniche:
hanno sostituito quelle acute come problema dominante per la
salute, essendo diventate la principale causa di disabilità e di
utilizzo dei servizi
hanno cambiato il ruolo del medico, che da unico protagonista
della cura diventa membro di un team multiprofessionale in
grado di elaborare un piano di cura che tenga conto della molteplicità dei bisogni, così come di garantire la continuità dell’assistenza
hanno cambiato il ruolo del paziente, che da soggetto passivo
diventa protagonista attivo della gestione del proprio stato di
salute.
Una proposta interessante e da valutare sotto gli aspetti della praticabilità nel nostro Paese ci viene dal “Chronic Care Model”.
I principio su cui si basa questo modello sono:
le risorse della comunità. Per migliorare l’assistenza ai pazienti
cronici, le organizzazioni sanitarie devono stabilire solidi collegamenti con le risorse della comunità: gruppi di volontariato,
gruppi di autoaiuto, centri per anziani autogestiti
le organizzazioni sanitarie. Una nuova gestione delle malattie
croniche dovrebbe entrare a far parte delle priorità degli erogatori e dei finanziatori dell’assistenza sanitaria.
Se ciò non avviene, difficilmente saranno introdotte innovazioni nei processi assistenziali e ancora più difficilmente sarà premiata la qualità dell’assistenza
il supporto all’autocura. Nelle malattie croniche il paziente
diventa il protagonista attivo dei processi assistenziali. Il
paziente vive con la sua malattia per molti anni; la gestione di
queste malattie può essere insegnata alla maggior parte dei
Come preservare la vita sociale nella cronicità
33
pazienti e un rilevante segmento di questa gestione – la dieta,
l’esercizio fisico, il monitoraggio della pressione, del glucosio,
del peso corporeo, ecc., l’uso dei farmaci – può essere trasferito
sotto il loro diretto controllo
l’organizzazione del team. La struttura del team assistenziale
(medici di famiglia, infermieri, educatori) deve essere profondamente modificata. I medici trattano i pazienti acuti, intervengono nei casi cronici difficili e complicati e formano il personale del team. Il personale non medico è formato per supportare l’autocura dei pazienti, per svolgere alcune specifiche
funzioni (test di laboratorio per i pazienti diabetici, esame del
piede, ecc.) e assicurare la programmazione e lo svolgimento
del follow up dei pazienti. Le visite programmate sono uno degli
aspetti più significativi del nuovo disegno organizzativo del
team
il supporto alle decisioni. L’adozione di linee guida basate sull’evidenza e di percorsi assistenziali fornisce al team gli standard per fornire un’assistenza ottimale ai pazienti cronici. Le
linee guida e i percorsi sono rinforzati da un’attività di sessioni
di aggiornamento per tutti i componenti del team
i sistemi informativi. I sistemi informativi computerizzati svolgono tre importanti funzioni
• come sistema di allerta che aiuta i team delle cure primarie ad
attenersi alle linee guida
• come feedback per i medici, mostrando i loro livelli di performance nei confronti degli indicatori delle malattie croniche
come i livelli di emoglobina glicata e di lipidi
• come registri di patologia per pianificare la cura individuale
dei pazienti e per amministrare un’assistenza “populationbased”. I registri di patologia – una delle caratteristiche centrali del “Chronic care model” – sono liste di tutti i pazienti con
una determinata condizione cronica in carico a un team di
cure primarie.
In conclusione:
l’levato numero di soggetti e la complessità sono gli elementi
che caratterizzano l’assistenza al paziente cronico sul territorio
34
Cronicità: lessico e paradigma
ci sono molti servizi disponibili, ma tutti scollegati tra loro e
privi di un progetto comune condiviso
è assolutamente necessario aumentare le risorse economiche e
di personale per permettere al medico di medicina generale di
prendersi in carico i malati cronici (secondo un progetto condiviso con gli altri operatori socioassitenziali)
è necessario individuare e monitorare nel tempo gli esiti di questi interventi in tema di efficacia, efficienza e soddisfazione del
paziente.
Ovidio Brignoli
Bibliografia
H. Holman, “Chronic disease: The need for new clinical education”. In: Jama,
2004, 292 (9).
Come preservare la vita sociale nella cronicità
35
Cronicità grave
e fragilità: l’emergere
del modello innovativo
di Alberto Cester
I
l termine cronicità declinato in geriatria, specialmente per i grandi
anziani, assume una connotazione di “falsa” o presunta stabilità del
quadro clinico.
Spesso infatti in geriatria non esiste nulla di più instabile dal punto di
vista clinico di un quadro di definita cronicità; ciò è frutto della
comorbilità e della polifarmacoterapia oltre che della fragilità intrinseca al processo di invecchiamento. Queste affermazioni contrastano
innanzitutto con la visione organizzativa odierna dei processi assistenziali: non può infatti esistere separazione della geriatria da un setting assistenziale di lungodegenza. Le competenze cliniche in questi
complicati processi devono infatti essere alte, specialistiche, spesso
subintensive. Non si può gestire questa delicata area di degenza solo
con competenze limitate all’area riabilitativa: deve essere una struttura organizzativa a doppia matrice clinico-geriatrica a forte impronta
riabilitativa. Questo non deriva da valutazioni relative alle gerarchie
organizzative di un sistema arcaico basato su caste culturali, ma su
una necessità della medicina moderna di attrezzarsi culturalmente
verso i veri bisogni della popolazione anziana senza preconcetti culturali o egoismi specialistici.
Questo vale per le problematiche cliniche ma anche sociali del soggetto anziano. Basta infatti una piccola disabilità per indurre nel vecchio, magari in una famiglia mononucleare, una dipendenza.
Sembra accertato che l’ospedale è per gli acuti (e quindi esiste un
diritto alla cura dell’acuzie), con degenze sempre più brevi, tentativi
spesso goffi e demagogici di agire sulle attese delle prestazioni; ora
bisogna interessarsi della cronicità. Dovremo cioè dare il diritto di
continuità di cure? Ma di quali cure?
Abbiamo a oggi “scimmiottato” diversi modelli, riducendo al limite la
degenza media dei ricoveri, salvo poi non monitorare le reospedalizzazioni che avvengono magari in altri reparti, e non dichiarando che
uno scompenso cardiaco o una broncopolmonite devono avere nel
38
Cronicità: lessico e paradigma
paziente anziano tempi di trattamento, ripresa e di degenza nettamente diversi rispetto al giovane.
Tutti gli operatori geriatrici, anche chi si occupa di programmazione,
progettazione e legiferazione in materia di sanità pubblica, dovrebbero avere il coraggio di affermare che poiché siamo pressoché tutti
“cronicabili” nel medio periodo, a questa fascia di utenti si dovrebbero dedicare più attenzioni e risorse.
In un Paese civile l’approvazione della tassa di scopo per la salvaguardia e cura della non autosufficienza dovrebbe essere un must anche
della politica.
I vari modelli di dimissione protetta dei casi difficili raramente trovano una vera continuità di cure nel territorio, nonostante gli sforzi della
medicina territoriale e generale. L’ospedale è ancora troppo spesso
utilizzato come succedaneo alle incapacità di governo di una medicina territoriale che trova scarso dialogo e comprensione nella rigida
organizzazione ospedaliera. A volte la stessa continuità di cure territoriali si arena su problemi di turnazione notturna o del week end e
magari per piccole emergenze. È ancora molto il lavoro che ci aspetta
per realizzare modelli credibili, ma soprattutto efficaci ed efficienti, di
continuità di cure per l’anziano malato cronico.
Ma qual è lo scenario attuale della cronicità? Le solite curve di crescita
della popolazione anziana sono ormai stranote a tutti, così come la crescente speranza di vita, le note piramidi che vedono ormai una prevalenza delle fasce di età di mezzo e avanzate in tutte le società avanzate.
Fenomeni per ora poco noti sono invece quelli citati da Michael
Marmot della disuguaglianza sociale e della status syndrome: per
esempio a Washington, dai quartieri poveri neri a sud-est fino alla
ricca contea di Montgomery, si guadagna 1 anno e mezzo di speranza
di vita ogni miglio In totale sono quasi vent’anni di differenza tra i 2
estremi. Così è anche a Londra e, in Italia, a Torino, dove il divario di
sopravvivenza in pochi chilometri è di circa 3 anni.
Questo significa che emarginazione, povertà, livelli culturali e disagio
anche abitativo condizionano la nostra sopravvivenza. E qui in Italia
almeno esiste un Servizio sanitario nazionale che tutela tutti, anche
chi non ha diritto di cittadinanza. Ma fino a quando reggerà il nostro
sistema?
L’Italia è il Paese occidentale con la maggiore incidenza di nascite da
madri sopra i 40 anni. Nel 2005 sono state il 4,6%, con punte del 7,2%
Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo
39
in Sardegna e valori oltre il 6% in alcune grandi Province come
Bologna, Firenze, Genova e Roma. E poi? Ci saranno prevedibili problemi dell’adolescenza da gestire con madri vicine ai 60 anni e padri
“nonni”. Certo, a ciò almeno in parte risponderà la variazione della
biologia dell’invecchiamento: saremo sempre più longevi, duraturi ed
efficienti fino a tarda età, ma fino a un certo punto. Quando queste
vere “mutazioni” del vivere sociale arriveranno a intersecare la longevità potenziale della specie umana prevista intorno ai 110-115 anni,
cosa succederà? Quale domani previdenziale, pensionistico e di tutela sociale della vecchiaia potremo mai promuovere?
La società dei vecchi avrà un futuro?
Altro problema: il “badantato”. L’incremento della popolazione anziana comincia a diventare preoccupante anche nei Paesi in via di sviluppo, che fino a oggi avevano rappresentato il serbatoio di sostegno
delle badanti per molte famiglie europee. Ora anche in questi Paesi
l’ingente mole di forza lavoro al femminile, alla quale avevamo facile
accesso per sostenere la nostra lotta alla disabilità in vecchiaia a costi
contenuti, dovrà occuparsi dei propri vecchi. Quindi queste popolazioni dovranno presto fare i conti con un miglioramento della qualità
di vita e un allungamento dei loro indici di vecchiaia, che imporranno altre scelte anche per le loro donne, che a loro volta si dovranno
occupare dei “loro” vecchi.
Quindi per noi i modelli di “affiancamento sociale” di queste figure ai
servizi forniti dal pubblico, fino a oggi gestiti a cavallo tra il lecito e l’illecito, dovranno essere ridimensionati: si ridurrà l’offerta e si moltiplicheranno i costi, rendendo questi servizi “accessori” non più competitivi nemmeno in termini di costo. Il costo attuale di una badante
in regola, oltre ai diritti di merito (ore e giornate di libertà da contratto, ecc), non risulta più tanto favorevole rispetto ad altre forme di
delega assistenziale.
E allora quale rete dei servizi potrà rispondere alla domanda di assistenza e salute nella cronicità geriatrica? Una rete che si deve culturalmente alla geriatria, ma che stenta a trovare applicazioni realistiche in virtù di una serie di difficoltà gestionali e applicative tutte italiane. Infatti assistiamo a una vera e propria polverizzazione dei sistemi di valutazione multidimensionale, vero strumento prezioso per
creare i presupposti dell’assessment geriatrico, il fonendoscopio del
geriatra. Ma l’abuso del fai da te, l’impermeabilità culturale di certi
40
Cronicità: lessico e paradigma
ambiti politico-gestionali, la volontà spesso di paternità da parte di
apparati scientifici e una certa ottusità di sistema hanno creato un
sottobosco di innumerevoli sistemi di valutazione e classificazione
del soggetto anziano: scheda di valutazione dell’anziano ospite di
residenza, valutazione multidimensionale dell’adulto e dell’anziano,
breve indice sulla non autosufficienza, scheda osservazione intermedia assistenza, scheda di valutazione multidimensionale longitudinale dell’anziano dei servizi geriatrici, solo per citarne alcuni. Si crea di
fatto un iniziale fermento culturale positivo sul tema della valutazione multidimensionale, impedendo però a oggi un corretto confronto
dei dati e un benchmarking organizzativo tra le varie Regioni. Il risultato è che a distanza di pochi chilometri non possiamo parametrare
né bisogni né valutazioni dei nostri anziani. Pertanto questo influirà
anche sui modelli organizzativi che dovrebbero nascere dalla porta
unica di accesso alla rete dei servizi, che deve aprirsi dopo una completa e competente valutazione multidimensionale.
Ora il progetto Mattoni del ministero sta faticosamente cercando
indicatori e modelli per tentare di far dialogare questi sistemi polverizzati sul territorio.
Figura 3. La rete dei servizi
Medicina generale territoriale
2
1
Ospedale per acuti
Day Hospital
6
Centro diurno ADI
5
UVG 8
9 10
RSA
UVG: Unità di Valutazione Geriatrica
ADI: Assistenza Domiciliare Integrata
RSA: Residenza Sanitaria Assistenziale
4
3
Degenza post-acuzie
Transizione
Fonte: www.sigg.it
Nemmeno i tanto citati modelli di riferimento culturale, come quello
della figura 3, hanno trovato quindi una chiara e univoca applicazioCronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo
41
ne condivisa su tutto il territorio del nostro Servizio sanitario nazionale. Questa è la prima difficoltà, apparentemente paradossale nel
terzo millennio: non c’è condivisione dei sistemi di valutazione e classificazione degli anziani tra le varie Regioni italiane. Il risultato è una
babele di modelli e sistemi di riferimento culturale, spesso senza
nemmeno una matrice scientifica comune. Ciò impedisce anche veri
studi di confronto su popolazione.
Abbiamo dato dignità di scienza alla geriatria, ora dobbiamo occuparci
dei modelli gestionali. Ciò non può che essere pensato dalla nostra
scienza e deve avere partire dall’Unità di geriatria per acuti, che è il centro del sistema, che da lì si sviluppa e poi si dipana anche sul territorio
attraverso specifiche competenze, senza primogeniture né conflitti con
le cure primarie. La gerarchia del Dipartimento geriatrico è solo quella
del naturale contenitore, è la base culturale da cui si dipartono i servizi,
ma se non c’è cultura geriatrica approfondita non c’è assistenza di qualità al malato anziano, specie per le grandi sindromi geriatriche.
In un articolo apparso sull’American Journal of Medicine, Nasiya
Ahmed, Richard Mandel e Mindy Fain scrivono: «Il fatto che la fragilità non sia presente in tutte le persone anziane suggerisce che è sì
associata all’invecchiamento, ma non ne è un effetto inevitabile, e
può essere prevenuta o trattata».
Come si evince da questa citazione abbiamo individuato e studiato vecchiaia e fragilità, e sappiamo quanto i sistemi dell’invecchiamento, pur
essendo specifici e con percorsi univoci e riproducibili, nascano da una
sorta di individualità che caratterizza l’invecchiamento, che ci fa distinguere quindi come variabili l’età cronologica da quella fisiologica.
Due modelli di confronto e di studio sulla fragilità in geriatria – quello di Linda Fried e Jack Guralnik con i suoi 5 criteri, quasi tutto basato su studi su community-dwelling, e quello di Kenneth Rockwood
con i suoi innumerevoli criteri, oltre al Frailty Index del Canadian
Study of Health and Aging – animano ancora il dibattito e la ricerca
scientifica geriatrica, rappresentando per la nostra scienza una delle
più alte rappresentazioni di confronto culturale.
Certo tutti invecchiamo ugualmente in anni, ma con una estrema
soggettività nel nostro percorso, che a volte a parità di anni ci fa apparire molto diversi. Gli studi su questi temi e sui predittori di disabilità
ci fanno pensare che dalla genericità della complessità del malato
geriatrico dovremo passare alla specificità della diagnosi sindromica
42
Cronicità: lessico e paradigma
da fragilità del malato geriatrico. Molta della ricerca geriatrica più
avanzata è ormai orientata su questo tema.
Cura della cronicità, continuità di cure e gestione dei codici bianchi
sono i punti fondamentali rilevati anche dal Forum Ambrosetti a
Cernobbio, vero Gotha della programmazione sanitaria nazionale,
come base per risolvere i problemi della riorganizzazione delle cure
primarie. Non dobbiamo perdere di vista questa istanza che sta portando a una nuova crisi delle istituzioni sanitarie.
Gli stessi sistemi di pagamento e classificazione delle dimissioni dei
diagnosis related groups delle nostre schede di dimissione ospedaliera ormai sono palesemente insufficienti e superati per gestire e governare la comorbilità geriatrica del grande anziano. La cronicità richiede sistemi di gestione più avanzati e non più correlabili a sole giornate di degenza o a codici di ricovero particolari.
Per studiare, classificare e curare questi malati anziani si deve ricorrere a sistemi evoluti tipo il Risk Adjustement, come per esempio nei
modelli proposti dall’All Patient Refined, un sistema adatto a pazienti
di ogni età che incorpora un sistema di aggiustamento per gravità
come parte integrante del sistema (sistema iso-gravità).
Ma cosa servirebbe al sistema per occuparsi correttamente degli
anziani di un territorio aziendale?
Bisognerebbe intercettare il più precocemente possibile i problemi di
salute dell’anziano, avendo come punti di partenza e di arrivo la sede
del Dipartimento e l’Unità di geriatria per acuti. Si dovrebbe articolare la rete dei servizi avendo a disposizione:
una rete con un “filtro” (medici di medicina generale e distretti)
un sistema unico di valutazione multidimensionale in stretto
rapporti con le cure primarie
sostegni socio assistenziali come assegni di cura, invalidità civile con indennità di accompagnamento, rapida nomina dell’amministratore di sostegno (se necessario), ecc.
dimissioni protette, fornitura di ausili e presidi in tempi rapidissimi
servizi “globali” domiciliari (assistenza domiciliare integrata,
ospedalizzazione domiciliare, pasti a domicilio, telesoccorso,
Rete Argento, altre reti parentali e amicali, caregiver, banche del
tempo, volontariato, gruppi di autoaiuto, ecc.): quindi risorse
Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo
43
alloggi protetti
case di riposo
residenze sanitarie assistenziali (generiche e specialistiche?)
centri diurni e notturni per anziani
“moduli respiro”: strutture agili disponibili per tempi definiti
per emergenze dei singoli nuclei familiari
familiari, badanti, ecc.
hospice, posti per stati vegetativi permanenti, ecc.
Ma serve soprattutto rapidità d’accesso alla rete di valutazione e dei
servizi e risoluzione rapida dei problemi: un requisito difficile in un
sistema come il nostro ancora troppo spesso incline alla burocratizzazione dei problemi e alla difficoltà di erogazione da fonte unica
delle prestazioni. Tutto ciò probabilmente costerebbe molto meno
che una serie di ricoveri impropri o peggio sociali.
La nostra risposta al problema degli anziani e della continuità delle
cure in un territorio di circa 260 mila abitanti, con 37.000 ultrasessantacinquenni, è da oltre 10 anni quella del Dipartimento di geriatria. Il
nostro territorio di 17 Comuni è in un’area abbastanza vasta e pianeggiante tra le province di Padova e Venezia; è fornito di tre ospedali (due per acuti a Dolo e Mirano, sedi polispecialistiche, e uno a
Noale, ad alta integrazione di rete a fini riabilitativi). Il nostro
Dipartimento di geriatria è in estrema sintesi così organizzato:
una Unità operativa geriatrica per acuti a Dolo con disponibilità
di 40 posti letto per acuti e 14 per lungodegenza geriatrica riabilitativa. È la sede del Dipartimento, e ha un day hospital geriatrico dotato di 8 posti letto, valutazione ambulatoriale integrata, day service con palestra.
Gli ambulatori sono:
• divisionale
• Unità valutativa Alzheimer-Centro invecchiamento cerebrale,
con valutazione neuropsicologica
• counselling genetico per marcatori bioumorali di malattia di
Alzheimer
• centro di ricondizionamento cognitivo
• “Banca degli encefali” con diagnostica anatomopatologica in
sede
44
Cronicità: lessico e paradigma
• diabetologia geriatrica
• reumatologia geriatrica e metabolismo dell’osso (con densitometria “Finger” e Dexa.
All’esterno della degenza nel parco antistante è situato un Senior Park
caratterizzato da semplici postazioni per esercizi di facile utilizzazione, scale, piani inclinati, parallele con ostacoli, piani in varo e valgo,
una semplice ercolina, ecc., usato dai pazienti afferenti all’Unità, al DH
e anche dai bambini che a vario titolo frequentano il nostro ospedale.
Lo staff è composto da un direttore medico, un direttore di
Dipartimento, 8 dirigenti medici di primo livello, una psicologa borsista (più una in formazione), una segretaria.
una Unità operativa geriatrica a Mirano con disponibilità di 18
posti letto per acuti e 28 per lungodegenza geriatrica a Noale, con
aggregato Centro di terapia occupazionale (uno dei pochi presenti in Italia). Comprende un day hospital geriatrico con 8 posti letto,
valutazione ambulatoriale integrata, day service con palestra.
Gli ambulatori sono:
• divisionale
• Unità valutativa Alzheimer-Centro invecchiamento cerebrale,
con valutazione neuropsicologica
• servizio di ecografia diagnostica interna.
Lo staff è composto da un direttore medico, 8 dirigenti medici di
primo livello, due segretarie.
nel territorio operano anche 4 geriatri territoriali tutti dipendenti, dirigenti medici ospedalieri di primo livello. Questi
hanno il coordinamento sanitario delle sei residenze per anziani del territorio (per un totale di circa 700 posti letto) e attuano
consulenze presso i nostri due distretti sociosanitari. Sono il
vero collante tra ospedale e territorio. Questa attività risulta
funzionalmente collegata al Dipartimento. I geriatri territoriali
dedicano le loro competenze a:
• unità valutative multidisciplinari con valutazioni multidisciplinari per ogni caso trattato (con scheda di valutazioni multidisciplinari dell’adulto e dell’anziano)
Cronicità grave e fragilità: l’emergere del modello innovativo
45
• consultorio geriatrico distrettuale
• consulenze e valutazioni domiciliari su richiesta del medico di
medicina generale
• consulenze ai medici di medicina generale e coordinamento
delle 7 strutture residenziali per anziani del nostro territorio
(sedi di Mirano, Salzano, Noale, Scorzè, Spinea, Dolo e Strà),
attività normata da presenza con apposita convenzione oraria
• valutazione ed eventuale prescrizione per ausili di uso geriatrico
• attività di screening precoce della demenza sul territorio in
collegamento con il nostro Centro per l’invecchiamento cerebrale
• frequenza di corsia e di Dipartimento.
Molta è ancora la strada da fare, ma è nostro orgoglio affermare come
l’armonizzazione e la qualità delle prestazioni erogate agli anziani
dalla nostra organizzazione siano in linea per outcome e qualità con le
più efficienti e moderne esperienze italiane ed estere.
Il nostro modello è condiviso e vincente; si deve partire innanzitutto
dall’avere rispetto per il lavoro degli altri attori del sistema. Il segreto
in fondo è lavorare per gli anziani e non per le nostre singole aspettative di successo.
Alberto Cester
Bibliografia
N. Ahmed, R. Mandel, M.J. Fain, “Frailty: An Emerging Geriatric Syndrome”.
In: The American Journal of Medicine, 120, 9 (September 2007).
46
Cronicità: lessico e paradigma
Il sistema Italia
come può permettersi
di sostenere la cronicità?
di Federico Spandonaro
S
econdo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità,
ripresa dal Rapporto sulle politiche della cronicità realizzato dal
Coordinamento nazionale associazioni malati cronici –
Cittadinanzattiva, VII edizione, la patologia cronica possiede una o
più delle seguenti caratteristiche:
è permanente
è causata da un’alterazione patologica non reversibile
tende a sviluppare un tasso di disabilità variabile
richiede una formazione speciale per il raggiungimento di una
buona qualità della vita
necessita di un lungo periodo di controllo, osservazione e cura.
Secondo l’Istat (“Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” –
2004-2005), le malattie croniche più diffuse sono:
Per 100 persone con le stesse caratteristiche
Malattia cronica
Tutta la popolazione
Persone di 65 anni e più
1999-2000
1999-2000
2005
2005
Diabete
3,7
4,5
12,5
14,5
Cataratta
3,2
2,8
15,4
12,4
Ipertensione arteriosa
11,9
13,6
36,5
40,5
Infarto del miocardio
1,1
1,7
4,0
6,3
Angina pectoris
0,9
0,7
3,4
2,5
Altre malattie del cuore
3,4
3,2
12,5
11,3
Asma
3,1
3,5
6,9
6,5
Malattie della tiroide
2,8
3,2
4,6
5,0
Artrosi, artrite
18,4
18,3
52,5
56,4
Osteoporosi
4,7
5,2
17,5
18,8
48
Cronicità: lessico e paradigma
Per 100 persone con le stesse caratteristiche
Malattia cronica
Tutta la popolazione
Persone di 65 anni e più
1999-2000
1999-2000
2005
2005
Ulcera gastrica
o duodenale
3,0
2,3
7,3
5,3
Cirrosi epatica
0,2
0,3
0,6
0,7
Tumore maligno (inclusi
linfomi e leucemie)
0,9
1,0
2,7
2,7
Cefalea o emicrania
ricorrente
9,0
7,7
10,5
8,7
Fra i costi della cronicità si riconoscono:
costi diretti, legati a diagnosi, cura, ecc
costi indiretti, legati a:
• effetti negativi sulla qualità della vita delle persone colpite
• morti premature
• effetti economici negativi sulle famiglie, sulle comunità e sulla
società in generale.
A fini di programmazione, occorre legare valutazioni cliniche e valutazioni di impatto economico. Le scelte di programmazione vanno
assunte in termini di costo-utilità, adottando il punto di vista della
società.
Le malattie croniche hanno un impatto significativo sulla salute e sull’assistenza sociosanitaria, in termini di morte prematura e sviluppo
di tassi di disabilità elevati.
Il 60% dei decessi è dovuto alle malattie croniche e questo significa
che, se non si interverrà subito, dei
64 milioni di morti previsti entro il 2015, 41 milioni saranno dovuti a
malattie croniche.
In Italia, secondo i più recenti dati Istat, la percentuale di cittadini
affetti da cronicità è in crescita e oggi arriva a toccare il 36,6% della
popolazione (mentre nel 2001 arrivava al 35,9%); le realtà più colpite
sono quelle del Centro Italia, con una percentuale che arriva a toccare il 40,1%. Se prendiamo soltanto la popolazione anziana, le cronicità
Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità?
49
colpiscono l’80,7% del totale; ma non ne sono immuni neanche i giovani sotto i 24 anni: se nel 2001 i malati cronici giovani erano il 9,7%
della popolazione, oggi sono il 9,9%.
Cronicità e multicronicità (2005)
Per 100 persone della stessa zona
Regioni o Province
autonome
Con almeno
una malattia cronica
Con almeno
due malattie croniche
Piemonte
37,7
18,7
Valle d’Aosta
30,2
12,5
Lombardia
38,3
18,6
Trentino-Alto Adige
30,9
12,4
Bolzano - Bozen
29,6
11,7
Trento
32,1
13,1
Veneto
38,3
18,4
Friuli-Venezia Giulia
37,2
18,6
Liguria
39,4
20,1
Emilia-Romagna
41,6
20,9
Toscana
37,1
20,0
Umbria
40,7
23,8
Marche
36,6
19,7
Lazio
37,1
20,4
Abruzzo
40,7
21,9
Molise
36,6
20,6
Campania
31,4
17,0
Puglia
33,9
18,6
Basilicata
36,7
21,9
Calabria
40,9
25,7
Sicilia
32,4
19,0
Sardegna
37,3
19,9
50
Cronicità: lessico e paradigma
Differenze di genere
È emersa nelle donne una maggior incidenza di patologie a lungo termine: secondo una recente indagine Istat, le malattie per le quali le
donne presentano una maggiore prevalenza rispetto agli uomini sono
l’ipertensione arteriosa (+ 30%), alcune malattie cardiache (+ 5%), le
malattie della tiroide (+ 500%), l’artrosi e artrite (+ 49%), l’osteoporosi (+ 736%), la calcolosi (+ 31%), cefalea ed emicrania (+23%), depressione e ansia (+ 138%), l’Alzheimer (+ 100%), le allergie (+ 8%), il diabete (+ 9%), la cataratta (+ 80%). Inoltre, secondo altri studi, le donne
ultracinquantenni presentano percentuali doppie di disabilità rispetto agli uomini quanto a confinamento nell’abitazione, a difficoltà di
movimento, di svolgimento delle funzioni quotidiane e nella comunicazione. È auspicabile sviluppare la ricerca di genere con l’obiettivo di
evidenziare le specificità nell’estrinsecarsi delle patologie, anche perché le donne consumano più farmaci degli uomini, sono più soggette
degli uomini alle reazioni avverse e sono da sempre paradossalmente
sottorappresentate nelle sperimentazioni cliniche.
Disabilità
Il Rapporto Ceis 2007 conferma la maggior diffusione della disabilità
fra le donne: il 13,2% delle donne ultracinquantenni è disabile, a fronte del 7,3% degli uomini della stessa età. La quota di donne, sempre
ultracinquantenni, confinate nella propria abitazione è pari al 6,3%,
contro il 3,0% degli uomini; il 6,9% delle donne ha difficoltà di movimento e l’8,6% ha difficoltà nello svolgimento delle funzioni quotidiane, contro il 3,5% e il 4,7% rispettivamente fra gli uomini. Le difficoltà
nella comunicazione interessano il 2,7% delle donne contro l’1,7%
degli uomini.
Lo svantaggio delle donne non si può giustificare solo con la loro maggiore longevità in quanto, a partire dai 50 anni, emerge in tutte le classi di età e per tutti i tipi di disabilità.
Inoltre sono da considerare differenze da un lato di ordine geografico,
con maggiore prevalenza di disabilità al Sud (12,9%) rispetto al Nord
(9,0%) e, dall’altro, di ordine socioeconomico, per cui i soggetti disabili dotati di laurea e diploma rappresentano il 3,7%, a fronte del 15,2%
delle persone disabili che hanno conseguito la licenza elementare.
Pertanto, la condizione di cui ci stiamo interessando comprende
aspetti di multicronicità o multipatologia, differenze di genere, geoIl sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità?
51
grafiche e socioeconomiche: è necessaria una risposta articolata,
multidimensionale in senso lato, che travalica il Servizio sanitario
nazionale.
Costi della cronicità
Dagli anni Cinquanta, nei Paesi a economia evoluta la sanità ha conosciuto una notevole espansione che da un lato ha contribuito a
migliorare lo stato di salute delle popolazioni e a ridurre le tradizionali
disparità nell’accesso alle cure mediche fra gruppi sociali e aree territoriali, ma, dall’altro, ha concorso a produrre un notevole incremento
dei costi per i sistemi di welfare.
Infatti, come sottolinea Franca Maino, negli ultimi trent’anni in molti
Paesi la spesa sanitaria totale è più che raddoppiata rispetto al Pil.
Osservando la tabella, ricavata dal World Health Report 2004 pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità, è possibile notare
come la crescita della spesa sanitaria totale, nel raffronto 1997-2001,
superi l’incremento del Pil in quasi tutti i Paesi presi a confronto.
Percentuale della spesa sanitaria totale rispetto al Pil in alcuni Paesi
del mondo
16
199
12
200
8
4
0
Cina
Russia Giappone Regno
Unito
Italia Australia Canada Francia Svizzera Germania
USA
I dati dell’Oms evidenziano che in Danimarca la spesa per le malattie
croniche rappresenta il 70-80% della spesa per l’assistenza sanitaria;
negli Stati Uniti rappresenta invece il 55-60% della spesa sanitaria,
ossia circa l’8% del Pil, pari a circa 950 milioni di dollari.
52
Cronicità: lessico e paradigma
Considerando una categoria specifica come le cardiopatie, nel 199495 nel Regno Unito rappresentavano il 6% della spesa sanitaria, mentre in Austria i costi diretti per le stesse patologie costituiscono circa il
2% della spesa sanitaria totale.
La situazione italiana
Proviamo a esaminare i costi di alcune patologie a livello nazionale: i
costi per la cura dello scompenso cardiaco rappresentano l’1,9% del
costo dell’assistenza ospedaliera erogata attraverso il Servizio sanitario nazionale; i costi per la cura del diabete costituiscono il 6,65%
della spesa sanitaria complessiva, le malattie reumatiche e la gonartrosi sono responsabili, nell’anno 2005, di costi diretti per 1.070 euro
e indiretti per 2.500 euro per ciascun paziente all’anno. Infine malattie reumatiche e artrite reumatoide, sempre nell’anno 2005, sono
responsabili di costi diretti e indiretti per 4.400 euro e 2.500 euro
rispettivamente.
Inoltre, il rapporto Ceis segnala i seguenti dati, relativi agli anni 19982000:
Soggetti
coinvolti
Patologie
Costi sociosanitari annui
(miliardi di euro)
Totali
Costi
diretti
Costi
indiretti
Alzheimer
500.000
39.500
9.480
30.020
Nefropatie croniche
39.000
2.700
1.998
702
Sclerosi multipla
50.000
2.000-2.500
1.500-1.875
500-625
Disabili gravi
733.000
n.d.
n.d.
n.d.
Anziani disabili
sopra i 65 anni
1.967.000
21.652
12.277
9.375
Asma bronchiale
1.710.000
2.686
1.800
886
Osteoporosi
(costo diretto)
5.000.000
1.000
n.d.
n.d.
Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità?
53
Impatto degli studi sul sistema sanitario ed economico in Italia
Anno
Patologia
Costo
diretto
sanitario
attualizzato
al 2000
(milioni
di euro)
1989 (solo
diretti);
popolazione
femminile
sopra
i 45 anni
Osteoporosi
1.302,00
1,5%
1.302,00
0,11%
1993
Alzheimer
1.837,40
2,1%
5.638,90
0,48%
1997
Asma
1.125,50
1,3%
1.229,00
0,11%
1999
Asma
1.040,40
1,2%
1.991,70
0,17%
% Costo
diretto
su spesa
sanitaria
Costo
totale
attualizzato
al 2000
(milioni
di euro)
% Costo
totale
su Pil
Fonte: Igiene e sanità pubblica 2002. La ricerca sul costo sociale delle malattie
Sostenibilità
L’impatto dell’invecchiamento sul sistema sanitario è oggetto di studi
e analisi da almeno un
ventennio; in Italia non mancano le previsioni a lungo termine sull’evoluzione della spesa sanitaria, come quella di Aldo Piperno.
Paradossalmente, manca invece una conoscenza approfondita del
contesto attuale.
L’invecchiamento della popolazione determina un incremento della
cronicità e della disabilità, da cui deriva un incremento futuro della
spesa sanitaria. Si tratta di una sorta di determinismo demografico,
che in questi termini fu messo in evidenza già da Robert Evans a metà
degli anni Ottanta, introducendo nel dibattito il concetto dell’illusione in base a cui le ragioni principali per riformare il welfare sanitario
scaturivano dalle variabili “demografiche in sé”, più che da altri aspetti correlati con il contesto sociale e gli assetti istituzionali e di gestione dei sistemi sanitari.
54
Cronicità: lessico e paradigma
Teorie
La quota degli anziani nella popolazione cresce progressivamente, a
causa del declino della fertilità e della mortalità. Poiché gli anziani
consumano relativamente più prestazioni sanitarie, l’invecchiamento
progressivo della popolazione porterà a un incremento della spesa
sanitaria.
Invece gli studi evidenziano come la situazione sia molto più complessa, legata non solo all’andamento demografico, ma anche allo
stato di salute delle persone e alla spesa attribuibile a ciascuna di queste condizioni, a quanto, cioè, il sistema decide di garantire.
A questo proposito sono state avanzate tre teorie:
1 teoria dell’invecchiamento. Per Morton Kramer l’invecchiamento della popolazione con allungamento dell’aspettativa di vita, e
quindi di spostamento in avanti dell’età di morte, sarebbe
accompagnato dall’aumento delle malattie mentali, delle malattie croniche e della disabilità
2 teoria della compressione della morbilità: per James Fries c’è
uno spostamento in avanti della cronicità e della morte
3 teoria dell’equilibrio dinamico: per Kenneth Manton c’è un
incremento della prevalenza delle malattie croniche, ma anche
un livello medio di gravità più basso.
L’evidenza empirica più recente propende per la seconda e la terza
teoria. In particolare, alcuni studi mostrano come la variabile età riveste rilevanza minore rispetto ad altre misure dello stato di salute in
termini d’impatto sulla spesa. In particolare David Cutler e Louise
Sheiner, nel 1998, hanno dimostrato che, se non si tiene conto della
disabilità, si evidenzia che al crescere dell’età (da 70-74 anni a più di
85) cresce anche il livello della spesa. Quando la disabilità entra nel
modello, l’effetto dell’età sulla spesa (a parità di disabilità) tende a
ridursi, soprattutto nelle classi di età più anziane.
Peter Zweifel e altri, nel 1999, hanno evidenziato che la spesa sanitaria registrata negli ultimi cinque anni di vita non dipende dall’età: la
fase terminale della vita è quindi costosa a prescindere dall’età, cioè
se si muore a 50 o a 90 anni. Pertanto un incremento della quota di
anziani nella popolazione sposta la maggior parte della spesa verso le
classi di età più elevate, lasciando inalterata la spesa pro capite:
Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità?
55
diventa allora importante considerare come s’intende affrontare la
fase terminale della vita, sia come tipologia di assistenza, sia come
organizzazione dei servizi offerti.
L’attenzione di molti studiosi, a partire da Victor Fuchs nel 1986, si è
concentrata sui cosiddetti “costi di morte”: se non si tiene in considerazione che i costi assistenziali tendono a concentrarsi alla fine della
vita, si corre il rischio di sovrastimare la spesa futura.
Molti studi in vari Paesi confermano quest’affermazione.
In Danimarca, Mette Madsen ha studiato un ampio campione della
popolazione danese nel 2000 (24.000 morti in un periodo di due
anni): la spesa è funzione della distanza rispetto all’età di morte e il
62% dei costi si verificano negli ultimi tre mesi di vita.
Reinhard Busse ha analizzato nel 1999 i dati relativi a 70.000 persone
iscritte nelle casse mutue più grandi della Germania: i consumi ospedalieri dei morti erano dalle quattro alle dodici volte superiori a quelli dei sopravvissuti.
Mårten Lagergren e Ilija Batljan nel 2000 hanno comparato i costi dei
morti e dei sopravvissuti in Svezia in termini di incidenza sul Pil.
L’incidenza della spesa ospedaliera attribuibile ai morti era il 25% del
Pil pro capite a fronte dell’1,9% attribuibile ai sopravvissuti.
Negli Stati Uniti, gli studi principali più recenti sono stati condotti da
Alan Garber nel 1998: nei due anni precedenti la morte la spesa è più
elevata, anche se riguarda quella per il ricovero nelle nursing home
invece che negli ospedali.
Le determinanti dei costi quindi non sono tanto il cambiamento
demografico, ma le variabili legate all’offerta: la quantità e la tipologia
di servizi consumati, in particolare correlati con l’introduzione e la
massiccia diffusione di nuove tecnologie; inoltre, costi e prezzi dei
servizi (personale, altri fattori produttivi, ecc.).
La spesa sanitaria è una variabile delle politiche: solo entro certi limiti si può decidere di garantire o meno una gamma di servizi o alcuni
servizi piuttosto che altri.
In sintesi:
in Italia è carente l’analisi dei costi: le valutazioni a livello internazionale, tuttavia, evidenziano che sono molto rilevanti
i costi sono in aumento per l’invecchiamento della popolazione: spesso i costi indiretti sono maggiori di quelli diretti
56
Cronicità: lessico e paradigma
il rapporto tra invecchiamento e spesa sanitaria non è né lineare né semplice, e neppure quello fra demografia e cronicità: le
variabili demografiche non sono determinanti in sé.
Possiamo quindi concludere che:
cronicità e disabilità sono, da un lato, strettamente legate e, dall’altro, sono fenomeni di genere
la cronicità va prevenuta
la risposta alla cronicità va organizzata attraverso la presa in
carico della persona, l’empowerment, l’integrazione, gli investimenti
è un problema equitativo: occorre cioè porre attenzione nel
garantire risposte eque alle persone
se vale la compressione della morbilità, conviene la capitalizzazione
è un problema di qualità della vita, ma ripaga in termini di
customer satisfaction.
Federico Spandonaro
Bibliografia
Coordinamento
nazionale associazioni malati cronici –
Cittadinanzattiva, VII Rapporto sulle politiche della cronicità, 2007.
Istat, “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”, 2004-2005.
“La ricerca sul costo sociale delle malattie”. In: Igiene e sanità pubblica, 2002.
F. Maino, La politica sanitaria. Il mulino, Bologna, 2001.
A. Piperno, “Avremo le risorse per curarci?”. In: Economia & Lavoro,
2002, 1.
Rapporto Ceis, 2007.
Il sistema Italia come può permettersi di sostenere la cronicità?
57
Cronicità ed etica:
l’educazione fa parte
della cura?
di Sandro Spinsanti
I
pazienti vanno dal medico per essere guariti, non per essere educati. Ogni programma di educazione terapeutica rivolto al paziente
deve tener conto di questa fondamentale asimmetria di attese, dalla
quale possono scaturire dolorosi malintesi. Eppure niente è più tradizionale in medicina dell’intento educativo, parallelo a quello terapeutico. Se ne possono rintracciare le radici nella stessa medicina greca,
che contiene in sé il codice genetico di tutta la medicina occidentale.
È vero che Platone nella Repubblica non risparmia frecciate ironiche
contro la medicina che insegna ai pazienti a «prolungare la loro
morte». Propone come esemplare il comportamento degli artigiani,
che conoscono solo la medicina curativa, non quella che permetterebbe loro di prolungare la vita nello stato di patologia cronica:
Un falegname, quando si ammala, chiede al medico di dargli una pozione
che gli permetta di vomitare o di evacuare la malattia, oppure lo prega di
guarirlo cauterizzando o incidendo. Se però gli viene prescritta una lunga
cura, se deve avvolgersi il capo con berretti di lana o cose del genere, dice
subito che non ha tempo di essere malato, e vivere ascoltando la sua
malattia e trascurando il lavoro che lo attende non gli serve nemmeno. Poi
egli congeda un medico simile, ritorna al regime consueto, recupera la
salute e vive del suo mestiere; se invece non sarà abbastanza forte per
sopravvivere, si libererà dai suoi malanni con la morte.
La medicina applicata alla cura delle malattie che non guariscono è
per Platone una deviazione dall’arte medica originale: «Asclepio
aveva celato questo aspetto della medicina non per ignoranza o per
inesperienza, ma perché sapeva che in uno Stato con buone leggi ogni
cittadino ha il suo compito e deve eseguirlo, e non ha tempo di passare la vita a farsi curare le sue malattie». Dietro la posizione di apparente predilezione per una selezione naturale di tipo darwiniano, si
può leggere un alto apprezzamento per la natura (physis) e la sua sag60
Cronicità: lessico e paradigma
gezza, congiuntamente a una messa in guardia rispetto alla deformazione antropologica e allo squilibrio sociale che si creano quando la
salute da mezzo diventa fine.
Malgrado le riserve formulate da Platone, la medicina antica ha sviluppato un carattere profondamente pedagogico. Lo documentano i testi
dietetici e igienici che compaiono fin dagli esordi del pensiero medico
e che sono parte cospicua del Corpus hippocraticum. Il motivo va rintracciato nella teorizzazione antropologica che ipotizzava uno stato
“neutro”, intermedio tra la salute e la malattia. Coloro che, né sani né
malati, si trovano in questo stato intermedio, sono soggetti alle cure
mediche, almeno sotto l’aspetto della diaita (come ricorda Dietrich von
Engelhardt la dietetica greca regolamentava sei ambiti: aria e luce, mangiare e bere, movimento e riposo, sonno e veglia, secrezioni, affetti).
Secoli più tardi, all’alba delle trasformazioni culturali che condurranno
alla medicina dei nostri giorni, Jules Romains nella commedia Knock o
il trionfo della medicina mette in bocca al protagonista una dura requisitoria contro la “neutralità”. Perché si possa celebrare “il trionfo della
medicina” – sostiene il dottor Knock, partigiano della teoria che «ogni
sano è un malato che si ignora» – è necessario condurre la popolazione ignara all’“esistenza medica”. Al medico suo predecessore nella condotta rurale spiega la propria strategia di “promozione della salute”:
Voi mi date un cantone popolato da qualche migliaio di individui neutri,
indeterminati. Il mio ruolo è quello di determinarli, di condurli all’esistenza medica. Io li metto a letto e guardo ciò che ne potrà venir fuori: un
tubercolotico, un neuropatico, un arteriosclerotico, ciò che si vorrà, ma
qualcuno, buon Dio!, qualcuno! Niente mi irrita come quell’essere né
carne né pesce che voi chiamate essere sano.
È sempre più difficile allontanare il sospetto che dietro i programmi di
educazione alla salute, come quelli che nell’immaginario paese di
Saint Maurice lancia l’intraprendente dottor Knock, ci sia un’abile strategia di “medicalizzazione” della vita. Con la conseguenza che più ci si
occupa della salute, più peggiora la qualità della vita: come osservava
Proust nella Strada di Swann «Per ogni patologia che cerca di curare, il
medico ne provoca dieci volte tante tra la gente che tranquillamente si
gode la propria buona salute, inoculando un subdolo virus più nocivo
di tutti gli altri: il timore di potersi ammalare da un momento all’altro».
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
61
Per quanto l’educazione si presenti come altruisticamente orientata
“al bene del paziente”, si sviluppa sotto il segno del potere medico: un
potere nei confronti del quale ai nostri giorni sta crescendo la diffidenza. Poche sono le esperienze storiche di educazione alla salute
nate con un esplicito intento di costituire un contropotere medico.
Tra queste andrebbe almeno segnalato il movimento americano noto
come “Popular Health Movement”, sviluppatosi negli anni Trenta e
Quaranta del XIX secolo, in vivace contrasto con la medicina accademica. Il movimento non era che il fronte medico di un’agitazione
sociale più vasta, fomentata dai movimenti operaio e femminista.
L’attacco all’elite medica era accompagnato da una vigorosa affermazione della tradizionale medicina del popolo. “Every man his own doctor” era il motto di un’ala estremista del “Popular Health Movement”.
Per certe sue iniziative il movimento per la salute confluiva negli
obiettivi del movimento femminista, come le “Ladies Physiological
Societies”, che impartivano semplici istruzioni di anatomia e igiene
personale, sotto la spinta a “riappropriarsi del corpo”. Il movimento
non rivendicava una maggiore quantità di cure mediche, ma prospettava piuttosto una cura della salute di tipo radicalmente differente.
Era una sfida alla medicina ufficiale, sia al modo in cui veniva praticata, sia alle basi concettuali del suo edificio.
Per quanto intendesse differenziarsi dall’approccio medico, anche
questo modello di educazione alla salute ne conservava, tuttavia, un
tratto caratteristico: l’atteggiamento paternalistico. Un’asimmetria
radicale nel rapporto tra educatore ed educando contraddistingue la
letteratura fondata sull’igiene individuale diffusa nel XIX secolo. Sia la
letteratura di matrice religiosa sia quella laica sono espressioni di una
borghesia che si prende cura del proletariato, con intenti di tutela. Si
possono individuare due filoni sinergici: quello che parte dall’ordine
sociale e religioso costituito per incitare a condurre una vita sana e
moralmente integra e quello più sensibile ai movimenti tendenti al
progresso sociale e politico. L’impegno scientifico-sociale si tramuta
con naturalezza in un impegno scientifico-pedagogico; l’educazione
rimane tuttavia un’attività che scende dall’alto di un sapere specialistico e di un atteggiamento filantropico.
Il paternalismo che caratterizza l’educazione sanitaria è duro a morire, ed è rintracciabile anche in programmi educativi nati in contesti
culturali del tutto diversi, come quelli lanciati nel nostro secolo
62
Cronicità: lessico e paradigma
dall’Organizzazione mondiale della sanità sotto lo slogan “salute per
tutti”. La denuncia è formulata dallo stesso ex direttore generale
dell’Oms, Halfdan Mahler, nell’introduzione con cui presenta nel
1988 il manuale Education for health, rivolto all’insegnamento della
“Primary health care”: «Dobbiamo smettere di cercare di far entrare le
comunità in sistemi e programmi che noi escogitiamo, senza una vera
e profonda sensibilità per gli aspetti sociali dei programmi sanitari o
per le restrizioni economiche – per non parlare delle dissonanze culturali, che spesso provocano una reazione di rifiuto di tali programmi». A quanto sembra, la preoccupazione educativa è oggi presente
nel mondo sanitario in misura crescente. Questo almeno è il linguaggio dei numeri, se ci si lascia guidare dalle voci bibliografiche riportate da Medline sotto “Patient education”: se dal 1983 al 1990 si registrano 6632 pubblicazioni, il numero sale a 9048 per gli anni dal 1991 al
1996. Ancora più convincente è la crescita se si confrontano i numeri
per singoli anni: a fronte di 787 pubblicazioni nel 1983, se ne hanno
1312 per il 1997 e ben 1563 per il periodo gennaio-ottobre 1998. Ma la
quantità non è sinonimo di qualità; e soprattutto è necessario verificare se l’educazione del paziente è concepita in modo compatibile
con la cultura della modernità, che sta entrando anche in medicina.
La cronicità e il nuovo profilo epidemiologico
Ci sono due trasformazioni che devono avere luogo se vogliamo che
l’educazione alla salute abbia un reale impatto sui nostri contemporanei: le cure rivolte ai malati cronici da marginali devono diventare centrali in medicina e il rapporto di potere tra sanitari e malati deve modificarsi nel senso di un maggiore empowerment dei secondi. La prima
condizione richiede una ristrutturazione del rapporto reciproco che
hanno in medicina il trattamento delle malattie acute e quello delle
malattie croniche. La ricerca internazionale coordinata dallo Hastings
Center Gli scopi della medicina è esplicita nell’indicare, tra le nuove
priorità, l’assistenza ai malati per i quali non è prevista la guarigione:
Nelle società sempre più vecchie del nostro tempo, dove le malattie croniche sono la causa più comune di dolore, di sofferenza e di morte – dove,
in altre parole, le infermità sono destinate a continuare indipendentemente da quello che fanno i medici – l’assistenza alla persona, il prendersi cura di lei, diventa ancora più importante, riacquistando un primato
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
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dopo un’epoca in cui è sempre apparsa una seconda scelta. Nei casi di
infermità cronica i pazienti devono essere aiutati a dare un senso personale alla propria condizione, ad affrontarla e a conviverci, magari in permanenza. A sessant’anni per lo più hanno una malattia cronica, e a ottanta ne hanno tre o più. Dopo gli ottanta almeno nella metà dei casi hanno
bisogno di un aiuto significativo per far fronte alle comuni attività della
vita quotidiana. Nei confronti dei malati cronici, che devono imparare ad
adattarsi a un sé nuovo e alterato, il lavoro del personale medico dovrà
concentrarsi non già sulla terapia, ma sulla gestione della malattia – dove
per “gestione” si intende l’assistenza psicologica empatetica e continua a
una persona che, in un modo o nell’altro, deve accettare la realtà della
malattia e conviverci. Qualcuno ha osservato che la medicina a volte deve
aiutare il malato cronico a forgiarsi di una nuova identità.
Anche l’Oms sta puntando decisamente in questa direzione, come
comprova il documento del 1988 Therapeutic patient education. Nel
1996 l’Ufficio regionale europeo dell’Oms ha richiesto un documento
che indicasse i contenuti di uno specifico programma educativo per
sanitari nell’ambito della prevenzione delle malattie croniche e dell’educazione terapeutica dei pazienti. Rispondendo a questa richiesta, un gruppo di studio ha proposto il curriculum necessario per far
acquisire agli erogatori delle cure la competenza necessaria per aiutare i pazienti a gestire autonomamente le loro malattie croniche. Il
principio ispiratore è permettere ai discenti di diventare gradualmente gli architetti della propria educazione. L’osservazione relativa agli
infermieri è uno dei numerosi spunti innovativi contenuti nel documento: «La Regione europea dell’Oms ha almeno cinque milioni di
infermieri, che costituiscono il più numeroso gruppo di sanitari. Il
loro contributo effettivo e potenziale nella gestione delle malattie croniche è sottostimato e non utilizzato come sarebbe possibile».
Il secondo cambiamento riguarda il rapporto che si instaura tra i professionisti sanitari e chi a loro fa ricorso. Non si tratta di una realtà
astorica, ma una relazione che cambia nel tempo. Una documentazione convincente delle rapide trasformazioni in corso è fornita dal confronto tra due ricerche, condotte dal Censis a distanza di un decennio
sui comportamenti e i valori dei pazienti italiani. Sul finire degli anni
Ottanta si poteva distinguere un duplice atteggiamento degli intervistati nei confronti della salute. Nei confronti del nucleo “hard”, costi64
Cronicità: lessico e paradigma
tuito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte e di cronicità, permanevano gli atteggiamenti più tradizionali: il corpo inteso come
“pezzi di ricambio”, l’apparato sanitario come struttura a cui affidarsi
per la riparazione dell’organismo-macchina, la prevalenza del paradigma malattia-medicina-servizi sanitari. Al di fuori di questo ambito,
la domanda di salute acquistava connotati più morbidi, con la richiesta di promozione del benessere psicofisico, comportamenti di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma dell’offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi.
La rivisitazione della domanda di salute che è andata prendendo
forma negli anni Novanta ha evidenziato la crescita di atteggiamenti
di non-compliance e sostanzialmente ambigui: i pazienti sono sempre
più informati e tendono a negoziare spazi di autogestione per la propria salute (attraverso il self-care e la ridefinizione della terapia farmacologica); tuttavia in presenza di malattie gravi si affidano in modo
pressoché completo alla capacità curativa e riabilitativa dei “tecnici”.
Di fronte al medico prevalgono atteggiamenti più pragmatici e disincantati, con un apprezzamento maggiore rivolto alla funzione riparativa. È istruttiva a questo proposito la tabella che riporta le opinioni
degli intervistati sulle qualità che contraddistinguono un buon medico: mentre è molto apprezzata la capacità tecnico professionale, quella pedagogica, che si esprime nella capacità di spiegare al paziente la
sua malattia, è la meno richiesta:
Le qualità di un buon medico secondo le opinioni degli intervistati (%)
Capacità professionale/esperienza
58,4
Capacità di rapporto umano con il paziente
34,9
Disponibilità, reperibilità quando si ha bisogno di visite
15,1
Curare la prevenzione, seguire il paziente anche dopo la cura
14,7
Impegno nello studio, nell’aggiornamento
11,4
Amore per la professione, non pensare solo al guadagno
29,8
Capacità di spiegare esattamente al paziente la sua malattia
12,9
Nota. I totali sono diversi da 100 perché erano possibili più risposte
Fonte: indagine Censis, 1998
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
65
Le ambivalenze che si registrano nella popolazione rispetto alla figura del medico come educatore alla salute portano a concludere che la
crescita culturale, quale condizione previa per un rapporto “adulto”
con i professionisti sanitari e per un’autogestione responsabile della
propria salute, non è un fatto spontaneo. È necessaria perciò la messa
in opera di politiche pubbliche specifiche.
Cosa chiedono i cittadini alla medicina
L’attività di cura non è così lineare come il termine lascia intendere. Si
possono immaginare tre diversi scenari, nei quali sono diversi il ruolo
dei curanti e quello delle persone curate, e quindi è diversa la formazione necessaria per esercitare adeguatamente il compito. Il primo
scenario ha a che fare con le situazioni in cui abbiamo bisogno di cura
a causa di una malattia della quale vogliamo liberarci. Il modello si
realizza con la massima linearità ed efficacia nelle situazioni in cui ha
luogo una guarigione. Possiamo visualizzarle pensando al giorno felice in cui diciamo: «Dottore, mi sento bene, adesso»; o alla scena in cui
è il dottore a venire al nostro letto di malato per comunicarci: «Lei
adesso è guarito, da domani si può alzare». Pensiamo che finalmente
la cura ha raggiunto il suo obiettivo: siamo “curati”, perché siamo
giunti alla guarigione. Attraverso la cura si chiude la parentesi aperta
della malattia. Con un’espressione latina, questa guarigione si chiama
restitutio ad integrum.
Il secondo modello di cura è quello che i classici dell’antichità, sia
medici sia filosofi, chiamavano la “guarigione sufficiente”. Si tratta
della misura di guarigione necessaria per continuare a vivere. Quello
che per gli antichi poteva essere un’evenienza rara, quasi eccezionale,
ai nostri giorni è diventato l’esito più frequente del processo di cura.
Il primo modello di cura si realizza ormai solo nel 20% delle nostre
malattie, cioè in una minoranza delle situazioni. Nell’altro 80% di casi
patologici avviene che la medicina non riesce a dare la guarigione,
intesa come restituzione all’integrità e alla salute piena, ma dà la guarigione sufficiente, in quanto capacità di continuare a progettare e a
vivere la propria vita malgrado la malattia. Sempre più spesso, quindi,
quando andiamo dal medico dobbiamo abbandonare il sogno ingenuo che usciremo prima o poi, con un percorso lungo o contorto, dal
tunnel della malattia per tornare alla salute.
In questo contesto il significato di cura è dunque diverso. Ciò vuol
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Cronicità: lessico e paradigma
dire che per un numero crescente di persone la medicina non dà
risposte risolutive: offre solo, se riusciamo a coglierla, la capacità di
continuare a vivere con il nostro diabete, con il nostro asma, con la
nostra insufficienza cardiaca, con le due (o tre o quattro o cinque)
malattie croniche che si avvolgono le une sulle altre dopo una certa
età. Lo scenario prevalente ai nostri giorni dunque è per lo più caratterizzato da cure che non sono rivolte alla restituzione della salute,
ma sono finalizzate a darci la capacità necessaria per continuare il
nostro processo vitale, malgrado le patologie dalle quali non possiamo liberarci.
A questo scenario di cura bisogna aggiungere una terza e più ampia
categoria di salute, che dà luogo a un terzo modello di cura. La prima
accezione di salute è la mancanza di sintomi: sono in salute quando
non ho nessuna patologia, oppure, qualora fossi malato, la medicina
ha le riposte giuste per farmi ritornare di nuovo in salute e quindi liberarmi dal sintomo. Il secondo modello presuppone la salute intesa
come un equilibrio continuo e instabile tra sintomi dai quali non
sempre sono in grado di liberarmi, ma con i quali posso continuare a
convivere e sviluppare il mio progetto esistenziale. Per indicare il
terzo concetto di salute si può prendere un’espressione da un filosofo
che ha avuto personalmente una lunga e tribolata storia di malattie,
ed è morto relativamente giovane: Friedrich Nietzsche. Si può quasi
parlare della sua filosofia come di una risposta alle sue malattie, alla
sua salute carente.
In una lettera Nietzsche afferma, in modo molto incisivo, che attraverso le sue malattie è arrivato alla “Grande salute”. Proprio con questa espressione ci si può riferire alla salute che non presuppone né
l’assenza di malattie, né la convivenza con esse, bensì la realizzazione
del nostro progetto di uomini e donne che, attraverso le vicende del
corpo, realizzano un destino che dipende da loro e che trascende il
piano corporeo.
Possiamo descrivere la nostra storia di uomini e donne dicendo che
attraverso la nostra “patografia” (cioè il pathos che viviamo) scriviamo
la nostra autobiografia; o ancora che la nostra autobiografia non è
altro che la nostra patografia, cioè una serie di sofferenze, dolori,
prove, legati alla nostra esistenza corporea. Elementi centrali di questa patografia sono le malattie, ma non solo. Non è sicuramente una
malattia generare un figlio, ma forse nella storia di una donna l’aver
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
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generato un figlio è un elemento costruttivo della sua biografia “corporea” come pochi altri elementi.
La salute non è soltanto quello che risulta nel libretto sanitario, ma è
l’equivalente della nostra vita. Anche invecchiare è un momento della
salute. Basta pensare a coloro che rifiutano l’invecchiamento come
fenomeno naturale, per avere un’immagine molto chiara di come
accettare o non accettare la decadenza del corpo sia un elemento critico della salute. Ancora un esempio: la menopausa non è solo un
evento di tipo clinico ma biografico, in senso più ampio, che richiede
l’accettazione della fine della fase feconda della propria vita.
In sintesi, si potrebbe dire che la “grande salute” non è altro che la storia del nostro corpo attraverso momenti patologici o fisiologici che
possiamo registrare come la storia della nostra realizzazione. In quanto esseri umani corporei, la nostra storia, con il suo significato immanente e anche quello trascendente, la scriviamo con il nostro corpo:
con il nascere, crescere, ammalarsi e guarire, ammalarsi e non poter
guarire e perciò dover convivere con la malattia; con il nostro invecchiare, decadere, morire. Da questo punto di vista la “grande salute”
non è il contrario della morte. Anche la morte si può definire come un
momento della “grande salute”. È un paradosso, ma il saper morire
non è in contraddizione con la salute. Anzi, si può definire come un
momento fondamentale della “grande salute”.
I tre modelli di cura possono essere presentati sinteticamente con
uno schema grafico.
Restitutio
ad integrum
La guarigione
sufficiente
La “grande
salute”
Descrizione
del processo
terapeutico
Togliere
il sintomo
o la condizione
patologica
Rendere
possibile
la continuazione
del progetto
esistenziale
Giungere, attraverso la patologia,
a una più piena
autorealizzazione
della persona
Ruolo
del terapeuta
ProfessionistaEducatore: favotecnico: propone
risce l’empowerla cura efficace
ment del malato
(to cure)
Counselor (testimone partecipe):
si prende cura
(to care)
Partecipazione
consapevole
del paziente
Auspicabile
Indispensabile
68
Cronicità: lessico e paradigma
Necessaria
La formazione dei curanti cambia a seconda che si parli della cura
intesa come restituzione della salute come integrità, della cura come
aiuto per vivere con le nostre malattie, oppure della cura intesa come
l’appoggio di cui abbiamo bisogno per diventare uomini e donne realizzati attraverso quello che la vita, dalla nascita alla morte, ci fornisce.
Ognuno dei tre modelli ha bisogno di curanti diversi, così come diversi siamo noi in quanto persone che beneficiano della cura. Nello schema cambiano, rispettivamente, il ruolo del terapeuta e la partecipazione consapevole del paziente.
Nel primo modello si deve registrare un cambiamento abbastanza
notevole, che sta avvenendo sotto i nostri occhi, in questi anni. Il fatto
è tanto più notevole in quanto questo modello si è mantenuto inalterato nel tempo durante molti secoli. Questo schema di comportamento regolava i rapporti in modo molto lineare: per restituire la salute, là dove è possibile, faceva intervenire un professionista che conosce l’arte del curare, sa cosa va fatto quando c’è una frattura, un infarto, una ferita. È lui che, in scienza e coscienza, decide per il paziente.
La partecipazione del paziente a questo processo era tradizionalmente sintetizzata nella richiesta di docilità alle prescrizioni mediche. Un
medico spagnolo che ha riflettuto su questi temi, Gregorio Marañon,
diceva, fotografando quella che era la tradizione medica: «Il paziente
comincia a guarire quando obbedisce al medico».
Nel modello tradizionale della cura il paziente doveva esercitare
esclusivamente le virtù dell’obbedienza. Sulla cura, intesa in questa
accezione, si sarebbe potuto mettere il cartello: «Non parlate al conducente». Qualche medico l’interpretava anche in maniera letterale,
proibendo al malato di fare domande sul proprio stato di salute. Il
medico è il capitano della nave o dell’aereo; lui conosce la rotta e lavora tanto meglio quanto meno viene disturbato. La consapevolezza
richiesta al paziente era minima.
Anche questo modello sta cambiando nel nostro tempo. Oggi, sempre
di più, la partecipazione consapevole è opportuna, auspicabile. Tra
chi propone la cura efficace, con tutta la competenza professionale
richiesta – “scienza e coscienza” sono sempre necessarie! – e chi la
riceve si richiede una maggiore simmetria, che esclude l’affidamento
passivo nelle mani del medico. Non sono però rari i pazienti che rifiutano ogni coinvolgimento nelle decisioni diagnostico terapeutiche: «È
lei il dottore, non voglio sapere niente, faccia lei». Nella nostra società
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
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questo comportamento, definito paternalistico, oggi non è più accettato da buona parte dei cittadini. Tuttavia, finché ci muoviamo all’interno di questo modello di cura, in fondo i ruoli sono abbastanza ben
definiti.
La formazione necessaria per il curante può essere definita dalle attese del paziente: dal medico il malato si aspetta in primo luogo la competenza. La formazione che fa di lui un medico oggi si riassume sotto
l’etichetta di evidence based medicine, cioè una medicina basata non
sulle opinioni o le credenze, ma sulle prove di efficacia. È necessario
che sappia quale trattamento è meglio rispetto a un altro ai fini della
restituzione della salute e si regoli secondo linee guida scientificamente valide e non secondo tradizioni di scuola che hanno fissato certi
comportamenti. Oggi il cittadino non è più disposto ad accettare delle
disparità di trattamento, per cui la stessa patologia viene curata diversamente a seconda dell’ospedale a cui ci si rivolge (qualche volta,
all’interno dello stesso ospedale, il trattamento cambia a seconda dell’unità operativa o del medico, all’interno di uno stesso servizio).
Questo non basta ancora: la competenza professionale richiede oggi
che il medico – il luminare – non solo sappia come va trattata una
patologia, ma che lo comunichi al paziente, coinvolgendolo nelle
scelte che lo riguardano. È quello che oggi si chiama “consenso informato”. La formazione scientifica seria oggi si completa con la formazione anche al rispetto dei diritti civili delle persone. Il malato non va
trattato come un povero cristo: non è un “paziente”, nel senso anche
morale della parola, cioè qualcuno a cui è chiesto solo di sopportare
con pazienza dolori e disagi.
Educazione alla salute ed empowerment
Quando ci orientiamo alla restitutio ad integrum richiediamo che da
parte del sanitario ci siano la competenza, la scienza e anche il rispetto delle regole, secondo lo stile del rapporto che nella nostra società
esprime la nuova cultura dei diritti. Per ritornare in salute questo ci
basta. Se invece lo scenario è il secondo, la situazione diventa più
complessa. Il rapporto che si instaura quando lo scenario è quello
della salute sufficiente, o necessaria a convivere con una patologia
inalienabile, è diverso da quello che predomina nelle malattie acute.
Mentre nella medicina acuta il medico si occupa dell’emergenza e il
paziente è passivo, nella medicina cronica il medico ha l’obiettivo di
70
Cronicità: lessico e paradigma
portare il paziente a contare su se stesso. Nella medicina acuta il rapporto è spesso genitore-figlio: il medico prende un ruolo di genitore e
guida con autorevolezza; invece nella medicina cronica la relazione si
modella piuttosto sul rapporto adulto-adulto. Nella medicina acuta,
quella che si risolve nella guarigione, il rapporto con il medico è caratterizzato da gratitudine e ammirazione: il medico che risolve il mio
caso è un grande medico. Nel rapporto con la malattia cronica, invece, c’è spesso scarsa gratitudine: ogni volta il medico mi dice le stesse
cose; lui si annoia – me ne rendo conto – e anch’io mi annoio, perché
il mio problema di salute è sempre lì. Il rapporto è pervaso da un
risentimento profondo, da una parte e dall’altra. Il medico è frustrato,
perché si trova a combattere sempre con la stessa situazione, e anche
il paziente ce l’ha con il medico, che non risponde alle sue attese.
In generale, la medicina per i malati che non vanno verso la guarigione ma si trovano in una situazione di stabile cronicità richiede un
numero maggiore di aspetti educativi. L’educazione non sta per
indottrinamento. Spesso si intende l’educazione sanitaria come insegnare al paziente ad assumere determinati comportamenti (non
fumare, non assumere sostanze dannose, non mangiare dolci se si è
diabetici, ecc.). L’educazione di cui parliamo non si limita a insegnare
determinate regole. Come avviene nell’educazione degli adulti, vuol
dire sostanzialmente cercare insieme obiettivi, negoziarli, verificarli,
per poi ridefinirli da capo. È un rapporto adulto-adulto, fondato sul
rispetto e la stima; quello che è importante non è un’autorità che uno
può giocare dall’alto, ma il rapporto che si stabilisce con il tempo.
La personalità del paziente cronico si modifica progressivamente: si
può gradualmente arrivare a delle decisioni che forse qualche tempo
prima non erano condivise o condivisibili. In questo contesto nell’attività di cura l’accento va a cadere sull’attenzione da prestare alla persona malata, per capire cosa sta vivendo, per ascoltarla e accompagnarla nelle sue decisioni. Questo atteggiamento del curante è necessario soprattutto se ci spostiamo nel terzo modello di cura, dove la
cura non è più soltanto un’attività di tipo professionale.
La cura necessaria per poter arrivare alla “grande salute” non è esclusivamente quella che fornisce il medico o l’infermiere, ma è un’attività
in parte professionale e in parte non professionale. Un mito molto
suggestivo, riportato da Igino, uno scrittore romano del II secolo, ci
parla di una dea molto singolare: Cura. Secondo il mito, «Cura, menCronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
71
tre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Era intenta a osservare che cosa
aveva fatto, quando intervenne Giove. Cura lo pregò allora di dare lo
spirito alla forma: Giove acconsentì volentieri e la forma divenne un
uomo. Cura allora pretese di imporre il proprio nome alla forma
umana, ma Giove non acconsentì e volle che fosse imposto il proprio.
I due disputavano sul nome, quando intervenne anche la Terra, reclamando che fosse imposto il proprio nome, perché lei aveva dato alla
forma una parte di se stessa. I contendenti elessero Saturno a giudice,
che emise la seguente salomonica sentenza: “Tu, Giove, hai dato lo
spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, hai dato
il corpo, e riceverai il corpo. Ma fu Cura che per prima diede forma a
questo essere, e per questo fin che vive essa lo possederà”».
Finché noi viviamo, dalla nascita alla morte, siamo figli di Cura.
Questa non è rappresentata solo dai professionisti con il camice bianco, ma anche da padri, madri, fratelli, vicini, volontari, ecc. Essere
curanti in questo grande e più ampio significato vuol dire che attraverso le vicende del nostro corpo, quelle felici e quelle tristi, la generazione della vita, la crescita, la decadenza e la morte, noi possiamo
autorealizzarci. Per questo più che un sapere tecnico si rende necessaria la capacità di essere presenti e di esercitare un ascolto attivo: l’ascolto che guarisce. Lo si può chiamare counseling, non intendendo
però la consulenza nel senso di indurre un altro a fare qualcosa.
Counseling è una presenza all’altra persona, sapendo che la cosa di
cui abbiamo più bisogno non è tanto qualcuno che faccia qualcosa
per noi o che ci dia consigli, ma fondamentalmente che sia presente.
La misura della consapevolezza necessaria per entrare in questo processo è massima: nessuno ci può far crescere, se noi non lo vogliamo.
Non è detto che questi processi di nascita, crescita, decadenza, vita,
morte producano automaticamente degli esseri consapevoli. Non è
per niente scontato che noi moriamo come quegli “uomini” che
saremmo dovuti diventare. La fine della nostra vita come pienezza
non è un dolo sicuro, ma un processo molto aleatorio. L’esperienza
quotidiana ce lo conferma: ci sono delle persone che attraverso le
dure vicende del corpo diventano migliori, maturano, nel senso che
acquisiscono maggiore umanità; ce ne sono altre che attraverso
vicende analoghe si chiudono, diventano più ostili, più egoiste, ancora meno apprezzabili dal punto di vista dell’autorealizzazione umana.
72
Cronicità: lessico e paradigma
Nessuno ci può condurre per mano alla “grande salute”: è la nostra
autorealizzazione. Neppure la persona che mi ama di più può darmi
la possibilità di realizzarmi come essere umano. Soltanto io posso
farlo; ma per questo ho bisogno dell’aiuto di persone che mi amano,
mi rispettano e mi ascoltano. Se queste persone hanno anche il camice bianco, benissimo; ma sono benvenuti tutti coloro che possono
garantire una vera presenza.
Sandro Spinsanti
Bibliografia
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1998.
Censis, La domanda di salute in Italia. Comportamenti e valori dei pazienti
degli anni Ottanta. FrancoAngeli, Milano, 1989.
Censis, La domanda di salute degli anni Novanta. Comportamenti e valori
dei pazienti italiani. FrancoAngeli, Milano, 1998.
G. Cosmacini, G. Gaudenzi, R. Satolli (a cura di), Dizionario di storia della
salute. Einaudi, Torino, 1996.
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Politeia 45, 1997.
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Report of a Who Working Group. Ginevra, 1998.
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J. Romains, Knock o il trionfo della medicina. Liberilibri, Macerata, 2007.
Cronicità ed etica: l’educazione fa parte della cura?
73
L’approccio olistico
al malato terminale
di Cosimo De Chirico
O
listico è un termine che deriva dal greco “olos” e letteralmente
significa “tutto”. Applicato alla biosfera, olismo indica la posizione etica che riconosce rilevanza morale alla natura come ecosistema.
Come riporta il Dizionario di bioetica di Maurizio Balistreri, l’ecosistema è un organismo vivente con un interesse di benessere non
riconducibile a quello dei suoi componenti. Restringendo lo sguardo
all’uomo, il termine olistico gli riconosce valore in quanto viene considerato nella sua unione di corpo, mente, emozioni e spirito. La sua
condizione di benessere non può essere riconducibile singolarmente
ai suoi componenti.
Il concetto assume contorni di maggiore chiarezza quando ci si riferisce all’uomo con problemi di salute che necessita di cure; in questo
caso si parla di “terapia olistica”, espressione che sta a significare la
cura di una condizione fisica o mentale (terapia) considerando il soggetto che ne è affetto, l’uomo, nella sua unione di corpo, mente, emozioni e spirito (olistica). Dunque la caratteristica principale delle terapie olistiche è quella di mettere su un unico piano gli aspetti fisici,
mentali, emotivi e spirituali della persona che si ha in cura, invece di
separarli come succede nella medicina tradizionale, dove viene data
la priorità a un unico campo con la contemporanea esclusione degli
altri. Forse più che di terapie olistiche si potrebbe parlare di “approccio olistico” alla malattia, da cui poi derivano le conseguenti terapie.
L’approccio olistico trova la sua massima espressione di fronte alla
malattia inguaribile, in una fase avanzata, quando la sofferenza coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni.
Approccio al malato terminale
I fondamenti dell’approccio al malato terminale sono contenuti nella
definizione dell’Oms di cure palliative: «Approccio che migliora la
qualità della vita dei pazienti e delle famiglie che si confrontano con i
problemi associati a malattie mortali, attraverso la prevenzione e il
76
Cronicità: lessico e paradigma
sollievo dalla sofferenza per mezzo dell’identificazione precoce, dell’impeccabile valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali».
Le parole chiave della definizione di cure palliative sono: approccio,
problemi, qualità della vita.
L’approccio al malato terminale va inteso nel senso di un diverso
paradigma di cure, che non è più quello orientato al malato potenzialmente guaribile che giustifica ogni tipo di intervento, compresi
quelli invasivi, per conseguire la guarigione o un significativo allungamento della vita, ma quello orientato al malato inguaribile che giustifica solo gli interventi che danno sollievo.
L’approccio al malato terminale va inteso anche nel senso olistico, che
invita a prendersi cura di un malato che sta soffrendo un dolore così
profondo e complesso che viene definito “totale”; totale perché coinvolge la dimensione fisica (dolore fisico, dispnea, vomito, ecc.), la
dimensione psicologica (paura, senso di impotenza, rabbia, ecc.), la
dimensione sociale (perdita del ruolo, problemi economici, ecc.) e la
dimensione spirituale (il senso della vita).
I problemi sono quelli che interessano maggiormente il malato, perché lo fanno soffrire.
Figura 1
L’approccio olistico al malato terminale
77
Il malato è poco interessato ai meccanismi fisiopatologici delle malattie o alle caratteristiche istologiche: è interessato agli effetti che il
tumore ha sulla sua salute, che gli impediscono di continuare a vivere e lavorare come prima. Parlare con il malato di problemi, piuttosto
che di diagnosi, aiuta a comprendere l’oggetto su cui entrambi, medico e paziente, si impegnano per trovare le strategie di cura finalizzate
al sollievo dalla sofferenza e a migliorare la qualità della vita. Per questa ragione, accanto alla classificazione internazionale delle malattie
(International Classification Disease), l’Oms ha ritenuto opportuno
affiancare la classificazione degli esiti delle malattie sulla vita delle
persone (International Classification of Functioning, Disability and
Health). L’attenzione verso i problemi apre prospettive concrete di
interventi da parte degli operatori, in quanto favorisce la contestualizzazione dell’intervento; ciò è giustificato anche dalla constatazione
che a parità di diagnosi le conseguenze sulla vita di due persone possono essere profondamente differenti; per esempio l’amputazione del
quinto dito della mano di un pianista ha conseguenze diverse rispetto alla stessa lesione che colpisce un calciatore. L’approccio per problemi aiuta a trovare soluzioni personalizzate.
La qualità della vita è utilizzata a volte in medicina per misurare gli
esiti delle cure. L’attenzione alla qualità della vita è fondamentale per
gli operatori che devono orientare le strategie assistenziali in grado di
affrontare le questioni che stanno più a cuore al paziente. Gli elementi che caratterizzano la qualità della vita, diffusamente riconosciuti,
sono la multidimensionalità e la soggettività. Dalla prospettiva degli
esperti, secondo Anita Stewart, la multidimensionalità si riferisce in
particolare ad aspetti obiettivabili, fisici, psicosociali, spirituali, l’autonomia fisica e le capacità cognitive. Dalla prospettiva del malato,
come spiega invece Peter Singer, gli elementi che consentono di vivere meglio alla fine della vita hanno a che fare con la dignità, cioè vivere senza dolore, conservare la capacità di autocontrollo e di autonomia decisionale, conservare le relazioni sociali e gli affetti, non essere
di peso sulla famiglia e non ricevere interventi che prolunghino inutilmente la vita.
Nel contesto delle cure palliative la qualità della vita va intesa come
soddisfacimento dei desideri e delle aspettative del malato; è condizionata da due ordini di fattori: dalla gravità dei problemi di salute e
dalla consapevolezza della diagnosi e dell’inguaribilità. Da un lato le
78
Cronicità: lessico e paradigma
cure devono essere efficaci (controllo del dolore, mobilità, tono dell’umore, ecc.), dall’altro le aspettative del malato, informato, devono
essere coerenti con il proprio stato di salute che, ovviamente, peggiora progressivamente. Meno divario c’è tra le condizioni attuali di salute e le aspettative del malato, più elevata sarà la qualità della vita.
Figura 2
Situazione ideale (atteso, desiderato)
Qualità di vita
Situazione reale (osservato)
L’accompagnamento del malato alla fine della vita rappresenta la prospettiva etica che da un senso al progetto di cura, in quanto risponde
a un bisogno fondamentale del malato, cioè di non restare solo ad
affrontare i problemi che la sua condizione impone.
L’accompagnamento è sostenuto da quattro pilastri:
alleviare la sofferenza: nel pensiero di molti non c’è tanto l’angoscia del morire, quanto quella del patire; il dolore inchioda la
persona nella solitudine, impedendole di vivere. Dare sollievo
dal dolore e dagli altri sintomi consente al malato di continuare
a vivere il quotidiano, di guardare la televisione, di leggere un
libro, di ascoltare la musica, di godere della presenza dei familiari
comprendere i bisogni: il malato ha bisogno di sapere la verità,
di essere compreso, di sentirsi persona capace di decidere, di
vivere la spiritualità. La comunicazione da parte degli operatori
deve essere fondata su principi di verità, così da consentire al
malato di esprimere i suoi bisogni, nella convinzione che saranno compresi dall’equipe
L’approccio olistico al malato terminale
79
cure proporzionate: sono le cure che il malato ritiene adeguate
alla propria condizione e che rappresentano l’antidoto ai due
approcci estremi, quello dell’accanimento terapeutico e quello
dell’abbandono terapeutico. L’appropriatezza di un intervento
volto ad affrontare un problema di salute spetta al medico, che
ha le competenze scientifiche; mentre al malato spetta decidere se accettare o meno quell’intervento, sulla base delle proprie
convinzioni e dei propri desideri
decodificare le richieste di essere aiutato a morire, che in realtà
nascondono spesso un bisogno di essere aiutato più efficacemente nel controllo dei sintomi, nel sentirsi persona fino alla
fine, nel non sentirsi di peso sui propri familiari.
L’organizzazione delle cure
L’organizzazione delle cure al malato terminale deve consentire all’equipe di mettere in pratica i principi dell’approccio olistico, con cui
vengono esplorate le dimensioni complessive della persona gravemente malata e che coinvolgono i problemi di natura fisica, sociale,
psicologica e spirituale. Da tutti gli esperti è riconosciuta l’utilità di
organizzare l’assistenza su due pilastri: il lavoro d’equipe e il coordinamento della rete. Lo confermano anche il Decreto della Giunta
regionale del Veneto n. 2989/2000 “Linee di indirizzo per l’assistenza
al malato neoplastico grave e in condizioni di terminalità, e per lo sviluppo delle cure palliative” e il Decreto ministeriale n. 39/1999 “Piano
Nazionale per lo sviluppo della rete degli hospice”.
Dall’esperienza dell’Ulss n. 7 del Veneto l’equipe, denominata Nucleo
di cure palliative, è un gruppo multidisciplinare (comprende un
esperto in cure palliative, un medico di medicina generale, un infermiere, uno psicologo, un assistente sociale, esponenti del volontariato) che si propone come unico referente per il malato e la famiglia,
governa l’assistenza in tutte le fasi della malattia e coordina i livelli di
assistenza (domicilio, ospedale, oncologia, hospice) di cui il malato
può avere bisogno lungo il decorso della sua malattia. Tutti i malati
vengono valutati e assistiti dal medico di medicina generale, dall’infermiere e dall’esperto coordinatore; gli altri componenti dell’equipe
entrano in gioco in base alle necessità del malato e della famiglia
(figura 3).
L’equipe multidisciplinare riesce a garantire una qualità di assistenza
80
Cronicità: lessico e paradigma
largamente soddisfacente, dedotta dall’analisi delle schede “support
team assessment schedule” utilizzate in audit clinico nel corso delle
riunioni d’equipe di verifica e monitoraggio dell’assistenza. Il peso
dei quattro problemi viene valutato secondo un punteggio da 0 a 4,
indicando progressivamente la gravità dei problemi e quindi la capacità dell’equipe di fronteggiarli (figura 4). Altro indicatore di qualità
dell’assistenza è rappresentato dal consumo degli oppioidi, risultato
nel 2006 triplo rispetto alla media nazionale, con 11,79 mg di morfina
procapite.
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% di competenze attivate
Figura 3. Attivazione della rete
Figura 4. STAS: primi 4 item
ansia fam.
ansia paz.
sintomi
dolore
L’approccio olistico al malato terminale
81
In conclusione, l’approccio olistico al termine della vita consente di
focalizzare l’attenzione sul malato in quanto persona che vive il resto
della vita in condizione di fragilità clinica, sociale e psicologica.
L’organizzazione dell’assistenza basata sul lavoro d’equipe e sul coordinamento della rete consente di affrontare i problemi del malato
complessivamente e di accompagnarlo fino alla fine, nel rispetto dei
propri desideri e della propria dignità.
Cosimo De Chirico
Bibliografia
M. Balistreri, Dizionario di bioetica. Laterza, Roma-Bari, 2002.
P. Singer et al., “Quality End-of-Life Care. Patients’ Perspectives”. In: Jama
1999, 281 (2).
A. Stewart et al., “The Concept of Quality of Life of Dying Persons in the
Context of Health Care”. In: Journal of Pain and Symptom Management
1999, 17.
82
Cronicità: lessico e paradigma
Persistenza della malattia
e qualità della vita nella
disabilità: quale alleanza
tra associazioni
e istituzioni
di Vladimir Kosic
L
a Consulta regionale delle associazioni dei disabili, costituita in
Regione Friuli Venezia Giulia presso l’Assessorato regionale alla
sanità e alle politiche sociali, riconosce le seguenti finalità:
coordinare a livello regionale la politica delle associazioni relativa a:
• ricerca delle cause e prevenzione delle forme di handicap
psico-fisico-sensoriali
• diagnosi precoce e servizi riabilitativi
• istruzione scolastica e formazione professionale
• inserimento nel mondo del lavoro e integrazione sociale
• servizi sociosanitari territoriali per tutti
• servizio domiciliare, trasporti, assistenza e sostegno sociale
alla famiglia, specie per i casi gravi
• tempestiva e corretta informazione agli handicappati e alle
loro famiglie
tutelare, su mandato delle associazioni, gli interessi degli handicappati, formulando proposte e richieste alle amministrazioni competenti, rifiutando qualsiasi forma di assistenza passiva
che ne possa ledere i diritti
raccogliere, classificare e distribuire informazioni relative alla
piena realizzazione personale degli handicappati
diffondere la conoscenza dei problemi degli handicappati, utilizzando tutti i mezzi di comunicazione come presa di coscienza sociale e strumento di sensibilizzazione presso i pubblici
poteri e l’opinione pubblica
stimolare una legislazione regionale nella quale tutti i problemi
degli handicappati trovino una giusta collocazione e una adeguata risposta
proporsi come organo consultivo per la formulazione di tutta la
normativa regionale in materia di assistenza sociale, sanitaria,
84
Cronicità: lessico e paradigma
scolastica e lavorativa, chiedendo la partecipazione lavorativa
dei propri rappresentanti a tutte le commissioni o organismi
previsti dalle leggi e ordinamenti regionali e degli enti locali,
anche con funzione di verifica e controllo di servizi
informare il mondo del lavoro in tutte le sue espressioni su particolari tecnologie che permettano anche agli handicappati un
più ampio accesso
ottenere nel campo dell’edilizia pubblica e privata e dei pubblici trasporti l’abolizione di tutte le barriere architettoniche che
ne rendono disagevole l’utilizzo da parte degli handicappati
promuovere una politica assistenziale previdenziale e pensionistica volta a tutelare il diritto dell’handicappato a ottenere una
completa autonomia economico finanziaria
operare in qualsiasi campo per la tutela dei diritti-doveri degli
handicappati e dei loro familiari.
I comitati provinciali di coordinamento delle associazioni per handicappati, legalmente costituiti, costituiscono la struttura organizzativa
della Consulta, oltre alla Giunta esecutiva, composta da 9 membri, il
presidente e due delegati per ciascuna delle quattro Province.
Caratterizzazioni e contraddizioni
Il modello medico e il modello sociale presentano delle contraddizioni:
modello medico: per quanto declinato fuori dalle mura ospedaliere, si è rivelato incompiuto e discriminante perché non si può
vivere nella condizione di “paziente” per decenni, la maggior
parte dell’esistenza umana, tutta la vita
modello sociale: malgrado le sue buone intenzioni, non è stato
da meno quando, per esempio, ha quasi ritenuto che chiudendo i manicomi si potesse eliminare la stessa malattia mentale.
Configurazione delle associazioni
Ci sono diversi tipi di associazioni:
associazioni su base “malattia” (per esempio Associazione italiana sclerosi multipla, Unione italiana lotta alla distrofia
muscolare, Alzheimer)
associazioni su base “malattie e categorie” (associazioni genitoPersistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità
85
ri con handicap, Associazione per il bambino in ospedale) o per
categorie (psichici-down, fisici-paraplegici, sensoriali-Ente
nazionale sordi), “sociale” (Unione regionale associazione per la
salute mentale)
organizzazione “ombrello”, cioè espressione di persone con
ogni tipo di disabilità per “malattia” e per categorie. Sono i
comitati di coordinamento provinciali e la Consulta delle associazioni dei disabili.
I problemi e le risposte
Le sfide che la disabilità oggi ci pone dovrebbero essere affrontate a
livello multidimensionale.
In base al documento International Classification of Functioning,
Disability and Health dell’Oms, l’Onu ha formulato una convenzione
per l’antidiscriminazione e l’inclusione, secondo cui:
è necessario superare la contrapposizione tra modello sociale e
modello medico
i due modelli sono complementari: hanno saputo entrambi
produrre risultati
in futuro si deve puntare a un processo inclusivo e antidiscriminatorio, senza però perdere le specificità di ciascuno perché
sono risultate e risultano ancora rilevanti.
Nel giugno 2005 l’Assemblea delle autonomie locali, l’Associazione
nazionale Comuni italiani – Friuli Venezia Giulia, Federsanità/ANCI
Friuli Venezia Giulia, la Conferenza permanente programmazione
sanitaria, sociale e sociosanitaria Friuli Venezia Giulia e la Consulta
disabili del Friuli Venezia Giulia hanno prodotto il “Documento sulla
disabilità”. In base a questo documento, la gravità della disabilità deve
diventare l’indicatore principale nell’orientare le scelte politiche di
settore e l’indirizzo verso cui collocare le risorse. I servizi prestati sul
territorio devono essere erogati, anche e soprattutto, per soddisfare i
bisogni più gravi e per combattere l’istituzionalizzazione.
I dati dal territorio dell’ultimo decennio del Friuli Venezia Giulia indicano che la riduzione dell’ospedalizzazione ha dato due risultati: il
primo, positivo, è una maggiore appropriatezza nell’uso degli ospedali; il secondo, negativo, è legato all’aumento delle risposte territoriali,
86
Cronicità: lessico e paradigma
al loro interno contraddittorie. Infatti l’aumento dell’assistenza domiciliare integrata è stato accompagnato dall’aumento: del carico alle
famiglie (10 mila badanti), dell’istituzionalizzazione (10 mila ospiti
case riposo) e della spesa per contributi economici.
I dati del Piano sociosanitario regionale 2006-2008 indicano che:
il servizio infermieristico domiciliare è passato da 343.637
accessi a 409.539 e da 26.665 utenti a 30.402
nello stesso periodo, il servizio riabilitativo domiciliare è passato da 27.971 accessi a 38.652 e da 3.845 utenti a 6.631
in particolare, sono i posti letto per non autosufficienti ad aver
subito un continuo aumento (3.963 nel 1994 e 5.722 nel 2003)
la dotazione complessiva di personale distrettuale al 30 giugno
2004 è pari a 1.882 unità, di cui quasi il 50% è costituito da personale infermieristico-ostetrico
al 31 dicembre 2004 i distretti della Regione contano 488 dipendenti dedicati all’assistenza domiciliare. Fra questi il 79,3% è
costituito da personale infermieristico-ostetrico, il 7,4% da personale della riabilitazione e il 6,6% da personale di supporto
per comprendere meglio l’esigua dimensione dell’attuale intervento domiciliare bisogna considerare che le ore di assistenza
domiciliare infermieristica per utente con bisogni complessi del
servizio infermieristico domiciliare non superano le 40 ore
all’anno e che in questo dato sono ricomprese le attività di supporto (preparazione materiale, imputazione dati, ecc.) e i tempi
di percorrenza, che complessivamente possono superare il 50%
del tempo totale.
È difficile mettere in relazione le risorse utilizzate e i risultati di salute
conseguiti. Nell’Ass 1, dove il rapporto fra infermieri e popolazione è
più alto (5,1 infermieri ogni 10.000 abitanti), c’è anche il più alto
numero di non autosufficienti istituzionalizzati.
Integrazione dei servizi, gestione diretta e indiretta
Nessun contributo economico sarà mai in grado di garantire i bisogni
connessi alla “salute” a tutti i cittadini. Il “carico della malattia” connesso alla disabilità e alla cronicità grave (non autosufficienza) deve
coinvolgere anche la riorganizzazione del sistema sanitario (long term
Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità
87
care), tanto in ospedale quanto sul territorio, e quanto più grave è la
condizione tanto più efficace deve essere l’integrazione con i servizi
sociali1.
I servizi sanitari prestati sul territorio devono essere erogati per soddisfare i bisogni più gravi e per prevenire e combattere l’istituzionalizzazione. Incrementare solo le risorse per i contributi assistenziali
può risultare rischioso se non si procede anche a una rivisitazione
della qualità e dell’efficacia dei servizi sanitari. Il pericolo più grave è
creare percorsi paralleli, nella forma di contributi economici, e scaricare solo alle famiglie o alle associazioni i casi più gravi.
L’insostituibilità del ruolo della famiglia non va confusa né con la sua
esclusività rispetto alla comunità di appartenenza, né, purtroppo, con
la sua eterna durata.
I disabili gravi le risposte delle associazioni sul territorio
Il 29 maggio 2006 si costituisce l’associazione “Comitato regionale
delle associazioni/enti ‘Dopo-durante noi’ del Friuli Venezia Giulia”.
L’associazione nasce dalla volontà e dall’esigenza maturata da alcuni
soggetti che operano nel privato sociale e nel no profit, per costituire
un tavolo unico di dialogo sulle tematiche e sui bisogni legati al “Dopo
di noi”, finalizzato a implementare, valorizzare e promuovere efficaci
modelli gestionali di servizi, di progettualità riabilitative, di inclusione delle persone disabili nelle comunità, di integrazione dei servizi
privati e pubblici. Inoltre, si propone per un confronto sui criteri da
inserire nella programmazione sociale e sanitaria ai vari livelli (regionale, provinciale, locale, ambito, distretto, area vasta) in merito alle
problematiche dei servizi degli utenti del “Dopo di noi”, con particolare riguardo alla gravità della disabilità, continuità nei confronti delle
realtà esistenti, superamento della precarietà e finalizzazione delle
risorse, sviluppo di nuove progettualità condivise.
L’associazione si pone l’obiettivo di transitare «dal principio di accoglienza per tutti al progetto personalizzato per ciascuno».
Ogni anno sono necessari 3 miliardi di ore per assicurare assistenza
1. La riorganizzazione della long term care, come emerge da alcuni interventi del convegno, significa anche empowerment dei cittadini, capacità di autocura da parte dei cittadini; significa coinvolgere le risorse della comunità: gruppi di volontariato, gruppi di
autoaiuto, centri per anziani autogestiti e quindi anche la Consulta dei disabili.
88
Cronicità: lessico e paradigma
alle persone con disabilità. Il 94% di questo “tempo-lavoro” proviene
da reti di solidarietà familiare. Lo Stato, le Regioni, i Comuni, le aziende sanitarie, oggi, rispondono solo per il 5% alle esigenze delle persone con disabilità grave.
Le “difficoltà” sono la conseguenza della rigidità del sistema pubblico
basato sul principio che sono i cittadini che si devono adeguare ai servizi, non viceversa. Da qui deriva il fallimento dei buoni propositi sul
territorio. Se i cittadini accettano un “servizio disponibile” si fa; se c’è
solo il “disservizio disponibile”, se ne fa a meno. A domicilio (i soldi
dovrebbero essere spesi in primis per questa finalità) servizio disponibile e bisogni della persona non si incastrano.
Per una materia importante come il disegno di legge delega sulla non
autosufficienza, in uno Stato non dittatoriale, l’approvazione dovrebbe essere interamente attraverso una legge del Parlamento.
È prevista la consultazione dei principali sindacati, ma non quella
delle organizzazioni di disabili.
Vengono messi insieme disabili e anziani.
I disabili gravi: la residenzialità
Per Michele Mangano, presidente nazionale dell’Auser Risorsanziani
Onlus, «al centro delle relazioni tra enti locali e organismi del cosiddetto terzo settore c’è un enorme paradosso. Infatti, a fronte del rilevante apporto che associazioni e imprese sociali forniscono alla
gestione dei servizi sociali, le autonomie locali sono ancora inadempienti nella creazione di un sistema di regole davvero efficiente e trasparenti, per consentire al terzo settore di erogare servizi di qualità e
svolgere una funzione importante anche in termini di programmazione e di sussidiarietà orizzontale».
I pericoli sono:
le amministrazioni locali predispongono bandi poco chiari e
generici nelle parti che riguardano i rapporti gestionali tra ente
committente e affidatario, e soprattutto sulla base della formula del massimo ribasso rispetto alla base d’asta
tra maggio e settembre 2007, i Comuni hanno indetto 157 selezioni pubbliche e ristrette per appaltare a imprese sociali e associazioni la gestione di servizi sociali
il criterio aggiudicazione del “massimo ribasso”
Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità
89
Ci sono poi gravi inadempienze da parte delle Regioni: a 7 anni dall’approvazione della Legge 328/2000, non hanno ancora completato
le procedure per rendere operativo l’istituto dell’accreditamento dei
servizi sociali, necessario a regolamentare il rapporto tra enti locali e
imprese sociali e a fissare standard di funzionamento e di gestione
delle strutture e dei servizi.
A oggi 3 amministrazioni (Marche, Veneto, Provincia autonoma di
Trento) hanno concluso il percorso modernizzazione dei sistemi di
offerta dei servizi sociali.
Basilicata, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Sardegna e Sicilia
non hanno ancora definito alcun sistema di accreditamento.
Le altre Regioni (Abruzzo, Calabria, Emilia Romagna, Liguria,
Lombardia, Molise, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, Valle d’Aosta)
e la provincia di Bolzano hanno avviato procedure senza risultati concreti.
Nel settore residenziale si registra nelle diverse Regioni una marcata
variabilità dei modelli autorizzativi e organizzativi, nonché delle
modalità di erogazione del servizio, tali da imporre una ricognizione
delle diverse tipologie di prestazioni e la loro riconduzione a un
modello unitario condiviso.
È apparso inoltre necessario costruire un modello di correlazione tra
prestazioni, livelli assistenziali, remunerazione degli erogatori, al
fine di definire criteri omogenei di valutazione degli ambiti prestazionali.
Il 40,3% della spesa sociale dei Comuni capoluogo di Provincia risultava nel 2006 gestita attraverso l’intervento delle cooperative sociali e
del volontariato, una percentuale che si innalza fino al 60% nelle città
più grandi, come Bari e Firenze.
Una tendenza sempre più evidente e diffusa consiste in un pubblico
che arretra e un privato che avanza: è un andamento accompagnato
da problemi di trasparenza, di regole poco chiare, di carenti controlli
sulla qualità delle prestazioni.
Per un settore importante come quello della salute e dell’assistenza,
per la nostra Regione sono maturi i tempi affinché l’idea di welfare
state, in cui è lo Stato che garantisce i servizi primari attraverso le
amministrazioni pubbliche locali, sia sostituita dall’idea di welfare
community: è la società che con tutte le sue risorse, soprattutto di
qualità (sia pubbliche sia private), fa fronte alle sfide contemporanee,
90
Cronicità: lessico e paradigma
come comunità in grado di sostenere e condividere le soluzioni
migliori e disponibili. È ormai evidente che per fronteggiare le emergenze l’istituzione pubblica non basta più: perciò è la società, nel suo
insieme, che deve farsene carico (come, di fatto già accade) nelle sue
diverse articolazioni e forme di servizi a cui ha saputo dar vita aggregando bisogni e risposte, a maggior ragione dove l’ente pubblico si è
dimostrato incapace o inefficiente.
Condividere scelte e responsabilità con i cittadini
L’articolo 13 bis della Legge regionale 41/96 (Consulta regionale delle
associazioni dei disabili) recita:
1. Ai fini della promozione delle politiche regionali di integrazione
delle persone disabili nella società e della consultazione in
materia di interventi e servizi a favore delle persone disabili, la
Regione Friuli Venezia Giulia riconosce il ruolo della Consulta
regionale delle associazioni dei disabili quale organismo rappresentativo e di coordinamento dell’associazionismo nel settore della disabilità
2. Per le finalità di cui al comma 1 la Consulta in particolare:
a. partecipa alla Commissione regionale per le politiche sociali
di cui all’articolo 27 della Legge regionale 06/2006
b. esprime parere sul Piano sanitario e sociosanitario di cui
all’articolo 8 della Legge regionale 23/2004
c. formula proposte in materia di politiche regionali per le persone disabili
d. esprime parere su ogni altro atto legislativo o amministrativo
relativo all’azione regionale in materia di disabilità
e. individua le proprie rappresentanze locali per l’espressione
del parere di cui all’articolo 24, comma 6 della Legge regionale 06/2006
3. La Direzione centrale della salute e della protezione sociale
pone a disposizione della Consulta le dotazioni necessarie allo
svolgimento delle funzioni di cui ai commi 1 e 2
4. In relazione alle funzioni svolte ai sensi del presente articolo,
l’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere alla
Consulta un contributo annuo nella misura massima di 25.000
euro per le spese di funzionamento
Persistenza della malattia e qualità della vita nella disabilità
91
5. Ai fini della concessione ed erogazione del contributo di cui al
comma 5, la Consulta presenta alla Direzione centrale della
salute e protezione sociale entro il 31 marzo di ogni anno apposita istanza corredata di una relazione sull’attività prevista nell’anno di riferimento e del relativo preventivo di spesa».
Vladimir Kosic
92
Cronicità: lessico e paradigma
Evoluzione nell’approccio
alla cronicità nella medicina
generale dell’Ass 6
“Friuli occidentale”
di Guido Lucchini
L
o scopo del presente lavoro è illustrare il cambiamento del rapporto tra il medico di medicina generale e il territorio all’interno
del quale è inserito, in riferimento all’evoluzione dei sistemi sanitari
sviluppatisi dal 1983 al 2007 nell’ambito della provincia di Pordenone,
con particolare riferimento alla gestione della cronicità.
L’obiettivo del Piano sanitario dell’Azienda territoriale pordenonese
(Ass 6 “Friuli Occidentale”), realizzato attraverso l’istituzionalizzazione di un sistema di comunicazione tra ospedale e territorio e la ridefinizione dei ruoli del medico di medicina generale e del medico
ospedaliero, è stato quello di fornire agli utenti garanzia di continuità
terapeutico assistenziale, nel rispetto di un’equa e razionale distribuzione delle risorse.
L’evoluzione delle risorse territoriali riguarda: l’aumento del numero
di medici di medicina generale (da 160 a 235), di infermieri professionali dedicati all’assistenza domiciliare integrata (da 0 a 90 unità), di
case di riposo (da 7 a 15) e di residenze sanitarie assistenziali (da 0 a
6); la diminuzione del numero degli ospedali (da 7 a 4), delle Usl (da 4
a 1) e dei distretti (da 9 a 5); la costituzione di un ospedale di comunità, che prevede la gestione diretta dei pazienti cronici da parte del
medico di medicina generale; l’istituzione del Centro regionale di formazione per l’area delle cure primarie; lo sviluppo delle forme associative tra medici (10 medicine di gruppo avanzate, 5 gruppi di medicina in rete).
Un’ulteriore impulso al rafforzamento delle azioni della medicina
generale sul territorio è stato l’avvio dell’Ufficio distrettuale della
medicina generale, strumento innovativo nella politica distrettuale e
composto da tre medici di medicina generale che lavorano in stretto
rapporto con il direttore di distretto.
La riduzione dei posti letto ospedalieri, l’omogeneizzazione dei
distretti, l’aumento del numero di medici di medicina generale e di
altre figure professionali operanti sul territorio, la crescita di strutture
94
Cronicità: lessico e paradigma
sociosanitarie residenziali per la gestione delle cure intermedie, la
presenza del Centro di formazione regionale e l’avvio dell’Ufficio
distrettuale hanno avuto come conseguenza il maggior coinvolgimento del medico di medicina generale nell’assistenza alle persone
croniche multiproblematiche e nella politica aziendale, attraverso lo
sviluppo di azioni quali: la realizzazione di linee guida condivise con
lo specialista, progetti obiettivo su patologie croniche prevalenti e sviluppo di percorsi diagnostico terapeutici miranti alla gestione delle
persone inserite nel percorso delle cure a lungo termine.
L’esigenza di coinvolgere maggiormente gli operatori sociosanitari
per progettare e migliorare l’assistenza territoriale comporta il riconoscimento del ruolo del medico di medicina generale.
Tra le molte azioni che il medico di medicina generale realizza nel territorio per la gestione della cronicità, in questo contesto ne saranno
citate alcune:
1. il ruolo dell’Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali e
dell’Ufficio distrettuale della medicina generale nella politica
sociosanitaria nel distretto
2. il progetto obiettivo Clinical Governance “Diabete mellito tipo 2”
3. il ruolo del medico di medicina generale nell’implementazione
della vaccinazione antinfluenzale
4. il progetto obiettivo “Scompenso cardiaco cronico”.
IL RUOLO DELL’UFFICIO DI COORDINAMENTO
DELLE ATTIVITÀ DISTRETTUALI E DELL’UFFICIO
DISTRETTUALE DELLA MEDICINA GENERALE
NELLA POLITICA SOCIOSANITARIA NEL DISTRETTO
La costituzione dell’Ufficio distrettuale della medicina generale
(Decreto della Giunta regionale 1007 del 6 maggio 2005), che è parte
del più ampio Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali, ha il
compito di rendere omogeneo il ruolo e il coinvolgimento del medico
di medicina generale nella gestione del distretto in campo regionale.
L’obiettivo è quello di intendere il territorio come organizzazione
sanitaria che intercetta il bisogno, lo soddisfa a partire dal primo soccorso e ne governa i percorsi successivi.
Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6
95
L’Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali costituisce una
risorsa del distretto, con lo scopo di favorire l’integrazione e la promozione della salute.
È finalizzato alla condivisione di:
informazioni relative ai bisogni di salute della popolazione
analisi quantitativa e qualitativa dell’offerta dei servizi sanitari
programmazione, monitoraggio e coordinamento delle attività
inerenti le cure primarie e intermedie svolte nel distretto.
All’Ufficio di coordinamento delle attività distrettuali vengono concordate le misure, le azioni e gli interventi in merito all’accessibilità,
appropriatezza e qualità delle cure erogate e in merito alla capacità di
presa in carico dei casi complessi, dei pazienti multiproblematici e
delle malattie cronico degenerative.
I compiti dei medici di medicina generale operanti nell’Ufficio
distrettuale della medicina generale sono:
collaborare con il direttore del distretto alla costituzione di una
“rete di relazione” con tutti i medici di medicina generale
condividere con i medici di medicina generale il monitoraggio e
l’analisi sull’utilizzo appropriato, efficace ed efficiente delle risorse
individuare, nonché attivare, eventuali strategie alternative
nella logica complessiva del governo clinico, come la promozione di momenti di verifica e revisione di qualità, l’autovalutazione e la verifica tra pari, per promuovere l’adesione a pratiche
cliniche di provata efficacia
promuovere la continuità dell’assistenza e il rapporto tra ospedale e medicina generale, anche attraverso l’utilizzo di commissioni ospedale-territorio
promuovere la qualità e ricerca nelle cure primarie
condividere l’andamento degli obiettivi degli accordi aziendali
della medicina generale territoriale e l’individuazione di eventuali azioni e interventi per migliorarne l’esito
promuovere, in collaborazione con il responsabile provinciale
della formazione aziendale e con il responsabile di distretto,
l’organizzazione del programma formativo annuale per la
medicina generale e la sua valutazione
96
Cronicità: lessico e paradigma
partecipare, in relazione ai Piani di attività territoriali sanitarie
e ai Piani di zona sociali, all’identificazione delle attività attinenti al ruolo dei medici di medicina generale nelle aree ad alta
integrazione sociosanitaria, alla loro programmazione, al monitoraggio e all’eventuale attivazione di misure correttive.
IL PROGETTO OBIETTIVO CLINICAL GOVERNANCE
“DIABETE MELLITO TIPO 2”
Il progetto “Prevenzione delle complicanze del diabete mellito attraverso l’attuazione del Disease Management in un contesto di Clinical
Governance nelle cure primarie”, descritto da Fabio Samani, è rivolto a
cittadini diabetici residenti in aree distrettuali urbane, suburbane,
rurali e montane della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. Si propone il miglioramento della qualità delle cure e del controllo della
malattia diabetica, anche attraverso la proposta di adeguati stili di vita.
In particolare, con il progetto si intende:
a. identificare i soggetti affetti da diabete mellito di tipo 2 iscritti
negli elenchi degli assistiti della medicina generale, attraverso i
dati desumibili dalle diverse fonti disponibili (sistema informativo sanitario regionale, medici di medicina generale, centri diabetologici), contribuendo alla realizzazione del registro regionale della patologia diabetica
b. descrivere lo stato di controllo clinico attuale della patologia
diabetica attraverso una serie di indicatori espliciti e condivisi,
parte monitorati su sistema informativo sanitario regionale e
parte nei database dei medici di medicina generale
c. offrire alla popolazione inclusa nella ricerca-intervento, la
“migliore cura possibile”, sulla base delle evidenze disponibili, ai
fini della prevenzione e della limitazione delle complicanze,
applicando principi e azioni di buona pratica clinica in un processo di Clinical Governance e Disease Management condiviso
tra i diversi attori professionali, per innalzare il grado di attuazione di pratiche di provata efficacia in ciascun diabetico, seguendo
l’andamento nel tempo di eventi e indicatori specifici che consentano di misurare l’eventuale miglioramento avvenuto.
Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6
97
Obiettivi
È obiettivo di processo innalzare il grado di attuazione di pratiche di
provata efficacia in ciascun diabetico (per esempio avvenuta esecuzione di determinati parametri metabolici o di controlli sugli organi
bersaglio delle complicanze in ciascun assistito diabetico di medici di
medicina generale), provato che queste pratiche costituiscono il prerequisito per prevenire efficacemente le complicanze della malattia
diabetica.
Si sperimenterà anche, in via preliminare, l’applicazione di alcuni
indicatori di esito, fra cui la percentuale di diabetici in cui viene conseguito un risultato efficace di controllo metabolico o lipidico e l’adozione di stili di vita appropriati.
Gli obiettivi secondari sono:
elevare il grado di inserimento e integrazione del medico di
medicina generale nella rete delle cure primarie distrettuali per
la realizzazione dei percorsi diagnostico terapeutici stabiliti
nella ricerca
costituire e mantenere aggiornato il registro regionale di patologia
perfezionare il sistema regionale di rilevazione dati, allineandolo con quelli reperibili negli archivi dei medici di medicina
generale e dei centri diabetologici
monitorare nel campione in studio l’andamento degli eventi
specifici di complicanze.
Piano delle attività
La prima fase del progetto si basa primariamente sulla registrazione
delle persone diabetiche nelle cartelle cliniche dei singoli medici di
medicina generale partecipanti. Ognuno di loro costituirà un registro
di studio delle persone affette da diabete mellito tipo 2 e contribuirà,
successivamente, alla realizzazione del registro regionale di patologia.
È previsto quindi un percorso di raccolta e analisi dei dati, di revisione tra pari delle informazioni derivanti dal Sistema informativo sanitario regionale e, laddove possibile, dalle cartelle elettroniche dei singoli partecipanti, per realizzare iniziative di formazione sul campo,
nell’idea che dalla riflessione su questi dati derivino lo stimolo e l’impegno per un miglior controllo della malattia.
98
Cronicità: lessico e paradigma
La dimensione territoriale di riferimento del progetto è il distretto,
identificato come il “luogo di aggregazione e di facilitazione” in cui gli
interventi e le azioni dei medici di medicina generale possono più
facilmente compiersi, attraverso le attività dell’Ufficio distrettuale
della medicina generale (nell’analisi complessiva dei dati) e degli
esperti di formazione (a supporto dei percorsi di audit e di formazione sul campo).
Nel corso del 2007 e dei primi mesi del 2008 sono state pertanto organizzate occasioni di incontro a livello distrettuale e un’iniziativa regionale, quali eventi formativi accreditati, in cui sono stati discussi i dati
aggregati (relativi al gruppo di partecipanti a livello di distretto e di
Regione) e individuali (anonimi).
La reportistica che verrà prodotta si baserà sull’aggiornamento delle
informazioni desumibili dal Sistema informativo sanitario regionale,
quali per esempio l’effettuazione nel corso dell’anno di esami laboratoristici (come l’emoglobina glicata, la creatininemia, l’esame delle
urine, la microalbuminuria, l’assetto lipidico) o strumentali (come il
fundus oculi o l’elettrocardiogramma), nonché sulla prescrizione dei
farmaci utilizzati in questi pazienti.
I medici di medicina generale dotati di cartelle cliniche informatiche
che consentano l’estrazione di dati relativi a questi processi di cura
potranno, inoltre, contribuire in maniera attiva alla produzione di
informazioni di maggior dettaglio o non altrimenti disponibili, come
per esempio la presenza di comorbilità e complicanze, l’indice di
massa corporea, l’abitudine al fumo, la pressione arteriosa, e con la
descrizione non solo del numero di indagini di laboratorio effettuate
nel periodo, ma anche del relativo valore, laddove disponibile. Ciò
consentirà una ben più accurata descrizione dello stato di controllo
clinico della patologia diabetica e rappresenterà il presupposto per
una ancor più approfondita attività di audit e di formazione sul
campo e per un’attività di produzione scientifica.
IL RUOLO DEL MEDICO DI MEDICINA GENERALE
NELL’IMPLEMENTAZIONE DELLA VACCINAZIONE
ANTINFLUENZALE
La campagna di vaccinazione antinfluenzale è tra i più importanti e
Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6
99
complessi interventi di prevenzione effettuati dal Servizio sanitario
nazionale, in termini di popolazione raggiunta, diversità delle professionalità e strutture coinvolte, significatività dei risultati ottenuti.
Disposizioni nazionali e internazionali individuano le categorie da raggiungere e la composizione del vaccino, ma l’operatività dell’offerta vaccinale è affidata ai dipartimenti di prevenzione che in autonomia scelgono, tra i diversi modelli di organizzazione, le strategie per realizzare la
copertura vaccinale. Nell’Ass 6, prima di iniziare la campagna vaccinale, vengono realizzati degli incontri interlocutori tra il Dipartimento di
prevenzione e gli uffici distrettuali della medicina generale, finalizzati a
definire le strategie più adeguate al miglior coinvolgimento degli operatori sanitari e alla migliore implementazione dell’attività.
Nell’Azienda 6 “Friuli Occidentale” la campagna di vaccinazione è
stata condotta, come negli anni precedenti, in collaborazione tra i
centri vaccinali territoriali, i medici di medicina generale e i pediatri
di libera scelta. Allo scopo di ridurre l’incidenza dell’influenza nella
categoria di persone maggiormente a rischio per l’insorgenza di complicanze, per la campagna 2006-2007 è stato proposto, come target
operativo nazionale, il raggiungimento di coperture vaccinali pari ad
almeno il 75% nei soggetti nati prima del 31 dicembre 1941.
L’Agenzia regionale per la sanità ha stabilito di raggiungere entro il
termine del 31 gennaio 2007 l’obiettivo pari ad almeno il 70% di
copertura vaccinale per gli ultrasessantacinquenni residenti.
Il Servizio igiene e sanità pubblica ha organizzato, in collaborazione
con i vari uffici distrettuali della medicina generale, l’attività di coordinamento tra le varie strutture coinvolte, trasmettendo ai medici di
medicina generale partecipanti alla campagna la documentazione
necessaria: moduli per la segnalazione di eventuali reazioni da vaccino, recapiti telefonici per informazioni e orari circa la distribuzione
del vaccino, ecc. Il Servizio igiene e sanità pubblica ha inoltre fornito
le indicazioni operative per consentire la corretta registrazione dei
soggetti vaccinati e della categoria di rischio.
Per gli ospiti delle case di riposo e delle residenze sanitarie assistenziali è stato acquistato il vaccino antinfluenzale virosomale (esalta la
risposta anticorpale), che è stato recapitato direttamente in loco.
Periodicamente sono state fatte azioni informative tramite stampa,
radio e televisione e, all’inizio della campagna, sono stati predisposti
poster divulgativi collocati in punti strategici: ambulatori dei medici
100
Cronicità: lessico e paradigma
di medicina generale, ospedali, farmacie, uffici pubblici (comuni,
poste, biglietterie, ecc.), supermercati, panifici, autobus, ecc.
Da quest’anno, in via sperimentale, è stata introdotta la possibilità di
registrare i dati vaccinali su supporto informatico (floppy, cd, ecc.), predisposto dalla società Insiel. Ai medici che hanno aderito a questa iniziativa è stato fornito il cd contenente il programma per l’inserimento
dei dati, con relative spiegazioni e l’elenco di tutti i loro assistiti.
Il personale del Dipartimento di prevenzione ha provveduto all’inserimento dei dati, sia cartacei che informatici, nell’apposito sistema
informatico regionale predisposto dall’Insiel.
Gli uffici distrettuali della medicina generale hanno organizzato riunioni negli ambiti territoriali competenti per informare i medici di
medicina generale dell’importanza della pratica vaccinale e durante
l’intera campagna antinfluenzale hanno monitorato l’andamento
della stessa, affinché i medici di medicina generale proponessero agli
assistiti la vaccinazione dopo aver dato loro una corretta informazione sui suoi rischi e benefici.
Risultati
Nella stagione 2006-2007 la copertura vaccinale raggiunta nell’Ass 6,
relativamente alla popolazione degli ultrasessantacinquenni, è pari al
73,4%, valore inferiore ai risultati ottenuti nel quinquennio precedente. Prima di coinvolgere il medico di medicina generale come attore
principale nella pratica della vaccinazione antinfluenzale, la copertura vaccinale nell’Ass 6, sempre relativamente alla popolazione degli
ultrasessantacinquenni, si aggirava attorno al 20-30%. I risultati in
termini di copertura vaccinale ottenuti nell’Ass 6 a partire dalla campagna 1996-97 sono riportati nel grafico seguente:
Copertura vaccinale percentuale nei soggetti di età > 65 nell’Ass 6
Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6
101
Alla campagna vaccinale 2006-2007 hanno aderito tutti i medici di
medicina generale convenzionati dell’Ass 6 del Friuli Venezia Giulia (in
tutto 230). Tra i medici di medicina generale le coperture vaccinali raggiunte relative agli ultrasessantacinquenni sono state le seguenti:
Distretto
Anno (%)
19971998
19981999
19992000
20002001
20012002
20022003
20032004
20042005
20052006
20062007
Nord
62,6
58,2
67
66,5
69,9
71,9
72,1
69,5
70,9
69,2
Sud
64,3
68,4
72
73,7
75,2
74,5
75,4
73,8
76,6
75,0
Est
66,7
75,8
79
80,8
81
82,2
81,7
81,1
81,4
78,8
Ovest
70,8
73,8
77
77,4
78
76,6
77,3
74,6
77,8
74,1
Urbano
59,2
62,8
69
71,3
73,3
73,7
74,3
72,8
75,1
73,3
Soggetti > 65 anni vaccinati nell’Ass 6, per distretto di residenza
PROGETTO OBIETTIVO
“SCOMPENSO CARDIACO CRONICO”
Tra i progetti sviluppati dalla medicina generale dell’Ass 6, quello relativo allo scompenso cardiaco cronico è senza dubbio il più significativo.
È stato avviato nel 2002 e ha la finalità di sperimentare un modello di
gestione degli utenti affetti da patologie croniche attraverso la condivisione di linee guida e percorsi diagnostico terapeutici integrati tra
tutti gli operatori coinvolti.
La valutazione dell’impatto delle raccomandazioni viene effettuata
mediante l’utilizzo di indicatori, quali: prescrizione di Ace-inibitori o
sartani, esecuzione di almeno un ecocardiogramma, ricoveri e ricoveri ripetuti.
Per la raccolta delle informazioni necessarie all’elaborazione degli
indicatori, il progetto prevede che ciascun medico di medicina generale compili, per ogni suo assistito affetto da scompenso cardiaco, una
prima scheda di arruolamento nel programma e un’ulteriore scheda a
ogni visita successiva, in formato cartaceo o in formato elettronico.
102
Cronicità: lessico e paradigma
• Formazione
Grande importanza è stata data alla fase formativa dei medico di
medicina generale sulle linee guida dello scompenso cardiaco, attraverso incontri ripetuti che hanno coinvolto anche gli infermieri professionali. La formazione è stata indirizzata anche all’acquisizione
di capacità informatiche per la registrazione e il trasferimento dei
dati.
• Organizzazione
Il progetto ha previsto:
l’istituzione, presso l’Unità operativa di cardiologia
dell’Ospedale di Pordenone, di un numero telefonico dedicato,
a disposizione dei medici di medicina generale, attraverso il
quale avere un contatto immediato con il cardiologo e, a seconda delle caratteristiche del singolo paziente, ottenere pareri su
quesiti di tipo diagnostico terapeutico (teleconsulto) o ottimizzare il percorso diagnostico, clinico e strumentale
la creazione di un’organizzazione di supporto al progetto, attraverso l’individuazione di un medico di medicina generale in
qualità di referente provinciale e di un dirigente medico in qualità di referente distrettuale
Il supporto del servizio epidemiologico dell’Ass 6 per l’elaborazione dei dati.
• Creazione del sistema di trasmissione dati per via
informatica
L’Accordo fra Ass 6 e medici di medicina generale del 2003 prevede
inoltre che la procedura di raccolta dati, per i medici di medicina
generale che hanno un personal computer, venga effettuata in maniera informatizzata. Per questi medici di medicina generale viene omessa pertanto la compilazione della scheda cartacea.
Risultati
Al progetto hanno partecipato 70 medici di medicina generale. Gli
assistiti presi in carico sono stati complessivamente 1.143, di cui 650
(56,9%) donne e 493 (43,1%) uomini (vedi tabella seguente). L’età
media è di 78,8 anni (81,3 per le donne e 75,6 per gli uomini).
Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6
103
Classe d’età
F
M
Totale
10-19
-
1
1
30-39
1
-
1
40-49
4
8
12
50-59
11
33
44
60-69
55
84
139
70-79
166
167
333
80-89
290
159
449
90 e più
123
41
164
Totale
650
493
1.143
La classificazione della New York Heart Association della gravità clinica non è stata effettuata in 415 pazienti (36,3%).
Gravità
Numero
%
1
145
12,7
1-2
10
0,9
2
327
28,6
2-3
15
1,3
2-3
15
1,3
3
188
16,4
3-4
7
0,6
4
36
3,1
NC
415
36,3
Totale
1.143
100
Nel periodo di presa in carico da parte del medico di medicina generale risultano aver ricevuto prescrizioni di Ace-inibitori o sartani 719
pazienti sul totale di 1.143 (62,9%). La percentuale di pazienti che ha
effettuato almeno un esame ecocardiografico è di 88,9% (1.106 pazienti
su 1.143). I ricoveri effettuati per scompenso cardiaco sono stati 142 nel
2002 e 185 nel 2003. I tassi di ricoveri ripetuti oscillano intorno al 20%.
Conclusioni
Per individuare gli effetti significativi prodotti dal Progetto obiettivo
“Scompenso cardiaco”, realizzato nel periodo 2002-2003, è necessario
104
Cronicità: lessico e paradigma
confrontare i risultati ottenuti con lo studio realizzato nel 2004 nella
Provincia di Pordenone da Gian Luigi Nicolosi, che valutava l’impatto
dell’implementazione delle linee guida sullo scompenso cardiaco utilizzando i dati del Sistema informativo sanitario regionale per il periodo 2000-2002.
Le caratteristiche demografiche delle popolazioni affette da scompenso cardiaco considerate nei due studi sono sovrapponibili, così
come i valori di alcuni indicatori, fra cui in particolare: i ricoveri ripetuti nell’anno intorno al 20%; l’età media dei ricoverati nel 2002 di 79
anni; l’incremento della percentuale di pazienti in terapia con Aceinibitori, di quelli seguiti in assistenza domiciliare e di quelli sottoposti a esame ecocardiografico.
Rispetto a quest’ultimo punto, la percentuale di pazienti risulta più
elevata nello studio condotto dai medici di medicina generale.
Sicuramente i dati raccolti dai medici di medicina generale sono più
completi in quanto comprendono anche gli esami non registrati nel
Sistema informativo regionale della specialistica ambulatoriale (per
esempio durante un ricovero o privatamente).
L’analisi dei dati mostra che l’implementazione delle linee guida per lo
scompenso cardiaco nella Provincia di Pordenone ha prodotto complessivamente risultati positivi per quanto riguarda l’adesione a pratiche cliniche efficaci (terapia farmacologia e procedure diagnostiche).
Abbastanza elevato rimane tuttavia il numero di ospedalizzazioni e
riospedalizzazioni di questi pazienti, che può essere spiegato con l’età
più avanzata della popolazione affetta da scompenso cardiaco nella
nostra Provincia rispetto a quella considerata nella letteratura sull’argomento. Infatti l’età media dei soggetti considerati nel presente studio è di 79 anni, decisamente più elevata di quella dei soggetti considerati negli studi nazionali e internazionali.
I dati finora raccolti con grande impegno da parte dei medici di medicina generale ed elaborati con altrettanto impiego di risorse da parte
dell’Ass 6 danno informazioni preziose e soddisfacenti per quanto
riguarda l’adesione a pratiche cliniche efficaci (terapia farmacologia e
procedure diagnostiche). Non consentono però di valutare l’impatto
che le linee guida hanno nella Provincia di Pordenone sulla modalità
di gestione dei pazienti e, in particolare, sulla continuità dell’assistenza e sull’approccio integrato e condiviso tra operatori delle cure primarie e specialisti ospedalieri.
Evoluzione nell’approccio alla cronicità nella medicina generale dell’Ass 6
105
Per il futuro bisogna quindi prevedere una sempre maggiore integrazione tra i dati del Sistema informativo sanitario regionale e le informazioni dei singoli database dei medici di medicina generale. Inoltre
è necessario ridurre al minimo la raccolta dati cartacea, in quanto
comporta grande dispendio di risorse.
Soltanto grazie a una capillare raccolta di dati qualitativamente adeguati, da parte di tutti i medici (medici di medicina generale, internisti, cardiologi, ecc.) che concorrono alla gestione del paziente, effettuata attraverso strumenti informatici in rete, sarà possibile una reale
valutazione dell’impatto dei progetti, nell’ottica di promuovere strumenti per il governo clinico.
È fondamentale che le azioni rivolte alla gestione della cronicità proseguano ma, per poter garantire la continuità dell’assistenza tra ospedale e territorio, occorre riconoscere la centralità della figura del
“paziente” e non della “prestazione” o del servizio dedicato. Ciò deve
avvenire in un quadro più ampio di presa in carico integrata dei
pazienti cronici e multiproblematici. In quest’ottica, il medico di
medicina generale continuerà a rivestire un ruolo essenziale nell’ambito dello sviluppo delle cure primarie erogate sul territorio.
Guido Lucchini
Bibliografia
G. Lucchini, G. De Gregorio, “Il cambiamento del ruolo del medico di medicina generale in rapporto all’evoluzione delle risorse sociosanitarie territoriali dal 1981-2001”. In: Atti del Congresso nazionale società italiana di medicina generale. Firenze, 2002.
G.L. Nicolosi et al., “The effects of implementation of heart failure guidelines in the Pordenone province: analysis of the results following databases of
the regional health guide system”. In: Ital Heart J 2004, 5 (5).
F. Samani et al., Progetto Clinical Governance “Diabete mellito tipo 2”. Centro
di formazione area delle cure primarie Friuli Venezia Giulia, 2007.
E. Zamparo et al., Relazione sulla campagna di vaccinazione antinfluenzale.
Ass 6 “Friuli occidenatale”, 2006-2007.
106
Cronicità: lessico e paradigma
L’approccio dei distretti
dell’Ass 6 nelle malattie
croniche
di Lucio Bomben
P
er cercare di orientare il fenomeno della cronicità nel territorio
della Provincia di Pordenone si utilizzano alcuni dati epidemiologici ricavati dalla Relazione sanitaria 2006 dell’Ass 6 “Friuli
Occidentale”.
Anno
2001
2002
2003
2004
2005
Dimissioni
18.743
18.932
19.752
20.060
20.661
Tassi di ospedalizzazione
346,1
343,7
351,9
349,6
351,3
Dimissioni dei residenti nell’Ass 6 e tassi di ospedalizzazione classe
di età 65 e oltre da ospedali regionali ed extra-regionali. Anni 2001-2005
Come si vede, si è avuta una costante crescita dal 2001 al 2005 delle
persone ultrasessantacinquenni dimesse da ospedali regionali ed
extraregionali, con relativo incremento del tasso di ospedalizzazione.
Numero
% rispetto
al totale dei ricoveri
Tumori
508
17,5
Malattie dell’apparato circolatorio
784
20,9
80-89
Malattie dell’apparato circolatorio
1.004
30,7
90 e oltre
Malattie dell’apparato circolatorio
418
35,8
Classe d’età
Causa di ricovero
60-69
70-79
Prima causa di ricovero delle femmine residenti nell’Ass 6 per classe
di età 60 e oltre da ospedali regionali ed extraregionali. Anno 2005
108
Cronicità: lessico e paradigma
Numero
% rispetto
al totale dei ricoveri
Malattie dell’apparato circolatorio
924
23,6
Malattie dell’apparato circolatorio
1108
27,5
80-89
Malattie dell’apparato circolatorio
615
28,5
90 e oltre
Malattie dell’apparato circolatorio
118
29,0
Classe d’età
Causa di ricovero
60-69
70-79
Prima causa di ricovero dei maschi residenti nell’Ass 6 per classe
di età 60 e oltre da ospedali regionali ed extraregionali. Anno 2005
L’analisi di queste due tabelle evidenzia come l’unico dato discordante delle cause di ricovero tra maschi e femmine riguarda la fascia
di età 60-69 anni, dove per le femmine la prima causa di ricovero
sono i tumori, mentre per i maschi sono le malattie dell’apparato circolatorio.
Anno 2006
Copertura (% sulla popolazione
oltre i 64 anni)
Ass 1 “Triestina”
8300
11,6
Ass 2 “Isontina”
2591
6,8
Ass 3 “Alto Friuli”
2520
13,2
Ass 4 “Medio Friuli”
7381
8,3
Ass 5 “Bassa Friulana”
3531
13,0
Ass 6 “Friuli Occidentale”
6402
9,6
30.725
9,9
Azienda
Friuli Venezia Giulia
Assistenza domiciliare integrata
È estremamente significativo il tasso di copertura degli assistiti oltre i
64 anni seguiti dal Servizio infermieristico domiciliare nelle aziende
regionali, che evidenzia i buoni tassi di copertura aziendali.
Cronicità e persona
Per cercare alcuni spunti di riflessione in merito alla relazione tra cronicità e persona, si può partire da una frase di Roberto Alfieri: «La cronicità pone in evidenza il divario esistente tra la mappa delle conoscenze mediche e il territorio della sofferenza umana: tra quello che
L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche
109
rappresentiamo attraverso le astrazioni delle nostre teorie e quello
che viviamo concretamente nella realtà quotidiana».
Certamente la cronicità in quanto tale sfata il mito del progresso e
delle conquiste della tecnoscienza, mettendo in crisi una concezione
della medicina legata all’ultraspecializzazione. Forse è il caso di ipotizzare un nuovo modo di agire e comunicare nella medicina, dando
la giusta importanza alla soggettività, alla sua comprensione, con il
giusto ascolto del narrare la malattia da parte della persona; forse è il
caso di dare nuovo significato all’agire medico, iniziando nel territorio, per la sfida che pone la cronicità in quanto tale.
La parola “persona” deriva dal latino per se unum, mentre in greco si
utilizzava la parola prósopos, cioè “colui che mi sta di fronte”. Sono
chiari il diverso modello culturale alla base di questa differenza e le
inevitabili ripercussioni che ha sull’agire quotidiano del soggetto,
come di chi svolge una professione sanitaria: la persona è colui che mi
sta di fronte, con cui parlo, mi confronto. Risulta quindi del tutto vera
la frase di Platone: «Chi, con la parte migliore del suo occhio, guarda
la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso».
Cronicità e tempo
La cronicità è espressione del tempo; ma di quale tempo?
Il tempo ciclico: il tempo che fa giustizia (chrónos), rispetto a cui ogni
epoca sorge e svanisce; nel ciclo ogni epoca non ha una finalità, ma
semplicemente una fine, dove la fine è il suo fine (télos: la temporalità
che esprime la regolarità del ciclo). Da qui nascono l’irreversibilità,
l’uniformità e la memoria, che sono le basi dello svelamento (alétheia,
verità).
Il tempo progettuale: il mito di Prometeo, colui che pensa (metheùs) in
anticipo (pro); la temporalità che guarda al futuro, al raggiungimento
di una meta; il tempo dell’individuo, delle sue intenzioni e illusioni. È
il tempo opportuno (kairòs), il tempo della giusta proporzione, del
limite.
In base all’etimologia, è proprio della malattia cronica il tempo ciclico ed è proprio della persona e dell’organizzazione il tempo progettuale: il tempo rubato all’eternità degli dei, quello che ha permesso
all’uomo di impadronirsi della technè. Risulta comprensibile la sfida
tra malattia cronica e servizi sanitari: sono due tempi diversi. Come
ricomporre la frattura?
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Cronicità: lessico e paradigma
Cronicità e sfida culturale
La cronicità comporta la capacità di saper gestire i fenomeni in continuità; inoltre, deve avere come obiettivo la globalità dell’intervento,
inteso come raccordo tra servizi sanitari, servizi sociali, famiglie,
risorse territoriali e istituzionali, per destrutturate la frammentazione.
Infine, deve utilizzare la flessibilità, intesa come capacità di leggere gli
eventi, di reinterpretarli man mano che accadono, riuscendo a produrre una razionalità prossimale, complessa, capace di ascoltare gli
affetti, le relazioni e i legami. Tutto questo accade se si riesce trovare
un consenso sui livelli di responsabilità tra i vari attori, reinventando
o riorganizzando un sistema di welfare.
Cronicità e complessità
Facendo riferimento alla teoria della complessità, le organizzazioni
sanitarie vanno intese come sistemi adattivi complessi, che interagiscono, si adattano e coevolvono con l’ambiente di cui sono parte:
come nota ancora Alfieri, i condizionamenti maggiori «derivano dalla
personalità dei malati, dalle diverse doti umane e professionali, dai
ruoli rivestiti e dalle tecnologie disponibili. Provengono […] dalle
caratteristiche culturali, socioeconomiche, abitative e ambientali di
una comunità». Solo accettando la complessità dei sistemi sanitari si
può cercare di reinterpretare la variabilità, la flessibilità e l’appropriatezza degli stessi; utilizzando i criteri propri della complessità Si arriva a un approccio sistemico alle organizzazioni sanitarie. Bisogna evitare di precipitare nell’area della semplicità, terreno dei tecnocrati e
dei fanatici, e nell’area del caos, regno dell’incertezza e del disaccordo, ma bisogna saper vivere all’orlo del caos.
Cronicità e organizzazione
La cronicità crea anche problemi organizzativi alle aziende: le forme
classiche di organizzazione (struttura gerarchico elementare, gerarchico funzionale, gerarchico divisionale) non sono in grado, vista la
loro verticalità, di rispondere in maniera adeguata ai nuovi bisogni del
territorio, che richiedono orizzontalità strutturale, maggiormente in
grado di rispondere in maniera più o meno puntuale ai nuovi valori
emergenti. La possibilità di utilizzare il lavoro per progetti garantisce
la valorizzazione delle competenze professionali specifiche, nonché
la flessibilità, la valutazione della contingenza e l’adattabilità del
L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche
111
sistema al variare delle situazioni: lavorare per progetti consente la
gerarchizzazione orizzontale su base matriciale.
Alcune articolazioni delle strutture orizzontali sono:
struttura per progetti: è il modello matriciale classico, nel quale
su una o più strutture complesse o semplici si innesta una nuova
organizzazione per progetti, trasversale
struttura a matrice piatta: si verifica quando la struttura per
progetti si consolida, assume la morfologia di “matrice” e scompare ogni verticalizzazione
struttura a matrice top down: in questo caso, c’è una compenetrazione nell’azienda madre (per esempio l’Ass 6) di due aziende
necessarie allo sviluppo del processo, che però non possono
espandersi all’esterno dell’azienda madre
struttura amatrice tridimensionale: si verifica quando un’intera
linea funzionale (trasversale) di know-how viene messa al servizio
di uno o più progetti che interessano più servizi aziendali.
L’obiettivo generale è fare sì che i processi vadano a costituire la parte
dinamica della struttura, rappresentando sequenze strutturate e stabilizzate di attività; le attività generano aggregati per competenza
(aggregazione verticale per funzioni) e per obiettivi (lungo la linea
orizzontale di progetto), alimentando la rete dei rapporti interni e la
dinamicità delle azioni.
In un’organizzazione per team, la struttura funzionale viene cancellata e sostituita da un top team, dove le risorse vengono assegnate alle
linee di progetto, con la scomparsa delle apicalità funzionali verticali,
che vengono sostituite da una cooperazione interna. Il processo comporta una deverticalizzazione della struttura, assegnando piena autonomia al team in funzione dell’utente; inoltre, il team dispone di
autonomia di budget, con un sistema di valutazione condiviso con
l’utente.
In sanità, la forma più vicina a questo modello organizzativo può
essere quella della medicina di gruppo dei medici di medicina generale, nonché della sua evoluzione in unità territoriali di assistenza primaria. Con una brillante intuizione, Mauro Moruzzi ha associato le
forme ondulate del Museo Guggenheim di Bilbao di Gehry e del Park
Güell di Gaudí, indici di avvicinamento architetturale alla complessità
112
Cronicità: lessico e paradigma
e alla fluidità delle cose, alla relazione tra complessità ambientale e
forme organizzative economico produttive. Secondo questa analogia
è forse giunto il tempo, ormai, di rompere la griglia delle funzioni
aziendali, attraverso progetti aziendali in grado di ricercare un’identità sempre più stretta tra domanda e organizzazione. Saper “debordare” rappresenta un modo di superare gli ostacoli, di armonizzare le
soluzioni e di garantire adeguati modelli organizzativi sempre in divenire.
Lucio Bomben
L’approccio dei distretti dell’Ass 6 nelle malattie croniche
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I PARTECIPANTI
Rafael Bengoa, Direttore dell’Osservatorio internazionale sulla qualità e
la gestione delle malattie croniche (Kroniker) – Bilbao; ex Direttore di
sistemi e politiche della salute dell’Organizzazione mondiale della sanità
Lucio Bomben, Direttore distretto Ass 6 “Friuli Occidentale”
Ovidio Brignoli, Medico di medicina generale, Brescia; Vicepresidente
della Società italiana di medicina generale
Alberto Cester, Direttore del Dipartimento di geriatria e riabilitazione,
Azienza Ulss 13, Regione Veneto
Gaetano Crepaldi, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova
Cosimo De Chirico, Coordinatore del Nucleo di cure palliative interdistrettuale Ulss 7 – Pieve di Soligo (TV)
Nicola Delli Quadri, Direttore generale Azienda per i servizi sanitari n. 6
“Friuli Occidentale”
Vladimir Kosic, Assessore Regionale alla salute, integrazione sociosanitaria e politiche sociali, già consulta regionale delle associazioni dei disabili
Federica Limongi, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento, Padova
Guido Lucchini, Medico di medicina generale, Aviano (PN) e Ass 6 “Friuli
occidentale”; membro esecutivo del Centro formazione area delle cure primarie Friuli Venezia Giulia
Stefania Maggi, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento,
Padova
Marianna Noale, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento,
Padova
Paola Siviero, Cnr, Istituto di neuroscienze, Sezione invecchiamento,
Padova
Federico Spandonaro, Università di Roma “Tor Vergata”
Sandro Spinsanti, Direttore Istituto Giano, Roma
Finito di stampare nel mese di febbraio 2010
da Iacobelli, Via Catania 8, Pavona di Albano Laziale (Roma)