L`ALTRA METÀ DEL TESSILE Le fibre man made

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[Aurora Magni]
L’ALTRA METÀ
DEL TESSILE
Le fibre man made
he Dark Side of the Fibres” potremmo dire parafrasando l’indimenticabile album dei Pink Floyd. Perché non si può parlare del
tessile naturale senza parlare anche delle fibre sintetiche, sorelle
minori anagraficamente, dalle incredibili potenzialità applicative e dai costanti trend di crescita.
Ma occorre subito fare una premessa: Naturalmente Tessile è nata per enfatizzare le fibre naturali e per offrire a chi di loro si occupa un luogo di conoscenza, approfondimento e divulgazione culturale. E non è certo nelle
intenzioni di questa rivista che vuole essere anche uno strumento di valorizzazione del tessile di qualità, inventare competizioni artificiose e poco interessanti contrapponendo una materia prima all’altra. Ogni fibra ha la sua
ragione di essere nel mondo incredibilmente vasto del tessile: ragioni estetiche, funzionali, economiche. E spesso le fibre naturali convivono con le sintetiche nello stesso manufatto apportandovi ognuna le caratteristiche peculiari
di cui è dotata con un obiettivo comune: aumentare il confort, potenziare gli
aspetti performanti, migliorare la mano e altro ancora. Insomma dare valore
aggiunto al prodotto finale.
Chiarito questo possiamo serenamente affrontare l’altra metà del tessile che
copre ormai la maggioranza delle fibre in circolazione nel mondo con una produzione annua equivalente a 50 milioni di tonnellate. Lo facciamo chiedendo
aiuto a chi di fibre sintetiche si occupa da parecchi anni: Paolo Piana, presidente di un’impresa leader nella produzione del poliestere, Sinterama
SpA, e presidente di Assofibre Cirfs, l’associazione delle imprese italiane
delle fibre man made.
“È molto importante che l’Onu e la Fao abbiano dedicato il 2009 alle fibre naturali – dichiara Piana – In una fase così difficile per l’industria tessile (e per
l’economia in generale) enfatizzare la filiera del tessile, le dimensioni globali
che la stessa ha assunto collegando le economie ed i consumi di aree diverse
del mondo, dare visibilità alle comunità povere e alle strategie di affrancamento sociale che le stesse stanno attivando, sono azioni rilevanti che ci spingono a ripensare al modello stesso di sviluppo e di consumo economico del
nostro sistema industriale. I temi ecologici e sociali che l’IYNF propone vanno
ben oltre la filiera del cotone o della lana ma coinvolgono tutti i modelli di
produzione industriali spingendoci a riflettere in termini di maggior sensibilità ecologica e di responsabilità globale. È una riflessione a cui il sistema
della chimica non intende certo sottrarsi.”
“T
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Paolo Piana, Presidente di Assofibre Cirfs
Italia e di Sinterama Spa
Paolo Piana, President of Assofibre Cirfs Italia
and Sinterama Spa
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Bene, il tono della conversazione si prospetta franco
e diretto, non si arrabbierà il presidente di Assofibre
se gli ricordo che l’opinione pubblica non ha difficoltà a trovare piacevolmente bucolichi e quindi ecocompatibili gli allevamenti di pecore mentre associa
un impianto di estrusione del poliestere a visioni di
inquinamento e pericolosità ambientale.
“Se, come ho capito, Naturalmente Tessile è letta da
addetti ai lavori – risponde Piana – non sarà nemmeno necessario ricordare come tanto la legislazione
europea quanto quella nazionale siano rigorose nel
verificare l’impatto ambientale di uno stabilimento
produttivo o come sia quantomeno ingenuo non considerare nel costo ambientale complessivo anche l’effetto che le produzioni naturali hanno sull’ambiente
in termini di consumi di acqua e vegetazione, o, nel
caso delle fibre vegetali, di utilizzo di diserbanti, insetticidi, agrofarmaci e quant’ altro. È un argomento fin troppo facile per il target di questa rivista. DaGrafico 1: Produzione mondiale di cotone, lana e fibre man made
rò per scontato che sia chiaro ai lettori quanto l’ecoDiagram 1: World Production of Cotton, Wool and Man Made Fibres
logia sia materia complessa, che và ben al di là dei desideri umani soprattutto quando non si tratta di produzioni di nicchia, come nel caso delle fibre nobili
destinate a realizzare pochi preziosi maglioni ma grandi produzioni industriali finalizzate a servire i consumi di massa o le commodity. Mi interessa invece proporre un’altra riflessione: i consumi di fibre chimiche sono cresciuti costantemente e
questo trend ha intensificato la loro produzione che nel 2008 ha sfiorato la quota di
50 milioni di tonnellate. Se quei consumi fossero soddisfatti solamente da fibre naturali come ad esempio il cotone, dove troveremmo spazio per coltivare il cibo di
cui le popolazioni del mondo hanno bisogno o per far crescere gli alberi indispensabili alla nostra atmosfera? I consumi delle fibre tessili, naturali e non, sono in continua crescita, sia per l’aumento della popolazione mondiale, sia perché ricerca e
nuove tecnologie hanno consentito al tessile di acquisire spazi in ambiti da cui fi-
Grafico 2: Produzione mondiale di acrilico,
poliammide e poliestere
Diagram 2: World Production of Acrylic, Nylon and
Polyester
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no a pochi anni fa era escluso come ad esempio nei trasporti, nel geotessile, nell’edilizia. Ora il tessile vi compare e spesso addirittura in sostituzione di materiali di altra natura, come nel caso dei compositi che costituiscono parti essenziali di aeroplani e barche. È quindi evidente che serva disporre di materiali che non richiedano ettari e ettari di terra per essere prodotti e che siano inoltre dotati di performances tecniche adeguate a questi contesti applicativi: la tenacità, la leggerezza, l’ininfiammabilità ed altro ancora.”
In realtà la scarsa vocazione ecologica del poliestere e delle altre fibre
sintetiche viene identificata nella sua dipendenza dal petrolio
“Certo, ma il dato che sfugge alla maggior parte delle persone è che le nostre
fibre comportano solo lo 0,4% degli utilizzi di petrolio. Il dato assurdo non
è che il petrolio serva a produrre polimeri utilizzabili in contesti svariati, destinati a durare per molto tempo e infinitamente riciclabili ma che lo si usi
in modo pressoché totale per consumi di breve durata come illuminare, viaggiare, scaldare gli ambienti. Possiamo infatti dire che le fibre sintetiche hanno
invece un elevato standard di sostenibilità, usano al meglio una risorsa scarsa
come il petrolio, non la bruciano ma la trasformano, la fanno durare.”
E in fase di produzione? Impianti di estrusione o di testurizzazione sono
notoriamente energivori
“Le imprese europee, e ancor di più quelle italiane, hanno fatto moltissimo per
diminuire il proprio impatto ambientale ed energetico, se non altro per compensare i divari di costi dell’energia che come è noto in Italia sono il 30%
maggiori di quelli di altri paesi europei. Quando analizziamo un prodotto per
definirne la sua eco sostenibilità dobbiamo però considerare molteplici fattori: la produzione certo è uno di questi, forse il più rilevante, ma non dimentichiamo i costi di trasporto, l’energia necessaria per garantire il
mantenimento e la pulizia del prodotto stesso durante il suo ciclo di vita. Apparentemente un fazzoletto di cotone è più ecologico di uno di carta, in fondo
si tratta di due prodotti a base cellulosica, ma quanto incide ad esempio l’energia destinata a lavare e a stirare quel fazzoletto?”
In altre parole il Carbon Footprint delle fibre man made sarebbe più
basso di quanto si può supporre a prima vista?
“Gli studi in corso sulla Carbon Footprint, cioè sull’impatto globale in termini
energetici e di CO2, – risponde Piana – dimostrano che le fibre man made
hanno una performance migliore di altre fibre se si considerano i costi di trasporto, i consumi di acqua, l’utilizzo di fonti energetiche ad alto contenuto di
CO2 nelle produzioni extraeuropee, e via dicendo. Il dibattito sul cambiamento climatico e il rafforzamento delle politiche ambientali e di risparmio
energetico uniti all’esplosione del prezzo del petrolio, alimentano le tendenze
verso possibili politiche di marketing di stampo “ecologico”, basate su parametri quantitativi, orientate alla Carbon Footprint dei prodotti tessili, in particolare con l’ipotesi di etichette che riprendano il contenuto di CO2 o
elementi che evidenzino un basso contenuto di CO2. Per esempio è in corso
un progetto della Commissione Europea sulle emissioni di autoveicoli
(grammi di CO2/km), sulle fibre artificiali da polimeri esistenti in natura, sui
monomeri ottenuti da processi biochimici, sui prodotti ottenuti da riciclo di
altri materiali. Inoltre non vanno dimenticate le conseguenze dei protocolli
degli accordi di Kyoto e delle Emission Trading. Uno scenario complesso che
investe aspetti economici, legislativi, trend di consumo e nel quale i produttori di fibre chimiche intendono porsi con grande disponibilità al confronto
ed apertura verso soluzioni innovative. Si tratta di iniziative importanti, ma
mi preme ribadire un concetto: anziché alimentare atteggiamenti dettati solo
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o prevalentemente dall’emotività e dalle
prese di posizione ideologiche è importante
che si predisponga un sistema di rilevamento
oggettivo ed univoco dei dati relativi alle
emissioni, una sorta di contabilità corretta
che precluda un’informazione speculativa
come spesso oggi accade di leggere.”
Grafico 3: Produzione di fibre per aree
geografiche
Diagram 3: World Production of Fibres for
geographical area
Lo scenario geo-produttivo delle fibre
man made è però cambiato, ora la produzione sembra concentrarsi sempre più
nella aree asiatiche. Questa tendenza non
rischia di far abbassare i livelli di attenzione sull’ecocompatibilità delle produzioni?
“Effettivamente, osservando i dati relativi alle
produzioni mondiali di fibre chimiche non si
può non osservare che la produzione americana ed europea è rimasta sostanzialmente costante intorno ai 5 milioni di tonnellate di fibre annue, seppur con qualche
lieve flessione, mentre la produzione asiatica è stabilmente cresciuta fino a raggiungere la vetta dei 35 milioni di tonnellate. Molti fattori hanno determinato questo trend e sarebbe superficiale ricondurli solo alle strategie di
contenimento dei costi attivate dalle imprese occidentali, che pure esistono.
In realtà a spostarsi in quelle aree è stata una parte rilevante della filiera del tessile e questo induce i produttori di materie prima a operare là dove il mercato
lo richiede, oltre al fatto che i governi locali hanno attivato le politiche di sviluppo industriale che ben conosciamo. È per altro evidente che l’attività di un
insediamento produttivo in Cina o in Pakistan sia meno vincolata a normative
di rispetto ambientale e a norme di sicurezza di quanto non avvenga in Europa.
Occorre però considerare che le imprese di cultura occidentale che operano in
quelle aree lo fanno adottando le tecnologie meccano tessili e chimiche più innovative e realizzate quindi con criteri occidentale ed esportando un’idea dell’
essere impresa che non può essere sfruttamento puro e opportunistico di vantaggi ambientali. Un impianto di poliestere, ad esempio, rappresenta un investimento rilevante, pensato per durare e quindi è realizzato con logiche di
rispetto delle condizioni ambientali esistenti. In altre parole è finito il tempo
del capitalismo mordi e fuggi. Non fosse altro perché alla lunga si è mostrato
antieconomico.”
Parliamo ora di consumi. Qualche anno fa Assofibre ha realizzato
un’iniziativa di comunicazione, “Vestire informati” che puntava a sfatare alcuni luoghi comuni sulle fibre chimiche
“Le aziende associate ad Assofibre credono molto nella necessità di contribuire a diffondere un’informazione corretta tra i consumatori affinchè gli stessi
siano in grado di decidere come fare i loro acquisti sulla base di dati reali.
Sentire ancora accusare le fibre chimiche di essere fonte di irritazione alla
pelle, ad esempio, fa un po’ sorridere considerando che gli atleti e gli sportivi
in genere che affrontano prove spesso di straordinario impegno, affidano il
loro successo anche a tessuti tecnici che garantiscono prestazioni maggiori rispetto ad altre fibre tradizionali. Ma al di là della disinformazione del singolo
consumatore ci preoccupano gli indirizzi assunti dai consumi collettivi. I
Green Public Procurement, sviluppati in sede europea e implementati in
modo disomogeneo a livello locale, hanno l’obiettivo di dare agli acquisti della
Pubblica Amministrazione un orientamento di sostenibilità ambientale e di
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“esempio” nei confronti dei cittadini/consumatori e dei soggetti economici.
Appare evidente che i GPP gestiti con una visione dello sviluppo sostenibile
più emozionale che razionale rischiano di escludere dagli acquisti pubblici
categorie di prodotti (bottiglie di plastica, tovaglie e camici usa e getta, eccetera) che invece mostrano un bilancio ambientale migliore di altri prodotti
se lo stesso viene considerato in una logica corretta di impatto “dalla culla
alla tomba” con l’analisi del ciclo di vita del prodotto e utilizzando le forme
più corrette di raccolta e smaltimento/riclico dei rifiuti.”
Mai come in questo periodo i consumatori hanno iniziato a riflettere
sul significato culturale ed ambientale di quello che comprano e questo è un processo che và a vantaggio di tutta l’industria di qualità
“Certamente, ed infatti ben vengano anche i Green Public Procurement, sarebbe un errore considerarli come strumenti inutili per raggiungere un miglior equilibrio ambientale ed energetico. È però necessario affrontare questi
temi in modo scientifico e con rigore. L’allarmismo disinformato non serve a
nessuno, l’esperienza mostra che l’aggressività tipica di certe forme di marketing porta con sé seri rischi di rafforzamento di stereotipi non giustificati
(ad esempio nella contrapposizione tra fibre naturali e sintetiche) non utili al
raggiungimento di finalità di promozione di una cultura di risparmio energetico, riciclo, sostenibilità e di sensibilità ai cambiamenti climatici.”
Al di là delle iniziative di informazione quali le strategie prioritarie
delle imprese delle fibre chimiche?
“La crisi che ha investito l’industria mondiale – conclude Piana – non ha
certo risparmiato il nostro comparto che continuerà a focalizzare la sua azione
sulla ricerca e sulla definizione di prodotti ad elevata specializzazione come
condizione di indiscutibile competitività internazionale. E la ricerca nel nostro comparto non è più solo finalizzata ad attribuire valore aggiunto ai prodotti, alla funzionalizzazione dei materiali ad uso protettivo e performante, ai
biopolimeri realizzati anche con nanotecnologie, per fare solo alcuni significativi esempi, ma è oggi fortemente orientata al riciclo dei materiali polimerici. È bene ricordare infatti che quella della reintroduzione nel ciclo
produttivo di materiali di scarto è una prassi già ampiamente adottata dai
produttori di fibre man made soprattutto nella filatura in fiocco e nei nontessuti. Sul piano della tecnologia di produzione invece la centralità è data al
risparmio energetico e alla ottimizzazione delle risorse di processo. Ma si tratta
di una strategia che condividiamo con tutti settori produttivi senza la quale
è in forse il futuro stesso dell’essere industria nel mondo.”
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Sinterama. Impianto di testurizzazione in
falsa torsione
Sinterama. False twist texturising equipment
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[by Aurora Magni]
MAN MADE
fibres
Not the dark side of the moon, as Pink
Floyd would have said it. But certainly the
dark side of the loom. There’s no talking of
natural textiles without taking into account synthetic fibres, those relatively recent products that are always growing,
changing, adapting and offering new applications.
Not that a magazine like Naturalmente Tessile, with its declared focus on natural fibres and high-end textile products, has any
interest in setting up antagonism between
what is natural and what is man-made. All
fibres have an important part to play in the
extraordinarily wide world of textiles, and
often enough synthetic and natural are
blended to create the last word in performance, comfort and feel.
In actual fact, around 50 million tonnes of
synthetic fibres are used each year in textile production. To find out more about
what is undoubtedly a fascinating universe,
we have called in Paolo Piana, president of
Sinterama SpA. leader in polyester manufacture and chairman on Assofibre Cirfis,
the association of Italian man made fibre
companies.
“It’s very important that the UNO and
FAO have declared 2009 to be Natural Fibres Year”, says Piana. “These are difficult
times for the textile industry, as they are for
the economy in general, so underlining the
whole process of textile manufacturing
within the global context gives visibility to
parts of the world in which poverty is widespread and the production of raw materials
is seen locally as a way of emerging from
poverty. This wider perception should encourage us to review our models of development and consumption, which implies
changes in the industrial system. The
IYNF brings to the fore questions of ecology and social responsibility that go beyond
cotton and wool processing and production. The chemical sector is also involved,
and has a duty to clean up its own act”.
The chairman of Assofibre is fully aware of
the fact that the general public sees sheepraising as eco-friendly and bucolic, whereas
polyester extrusion conjures up visions of
environmental threat and pollution. Yet, as
he points out, “the readers of Naturalmente
Tessile must realize that nowadays European legislation is extremely strict in assessing a factory’s environmental impact.
Moreover, people in the sector must also
appreciate that natural products can weigh
heavily on the environment in terms of
water consumption, the use of chemical insecticides, weed killers and so on. Ecology
is a very complex subject that often transcends what we would like to believe. It’s
one thing when you’re talking about niche
products such as noble fibres that are used
for small quantities of top end garments,
and quite another when it’s a question of
producing huge quantities of yarns to create the clothes needed for the mass market.
Let’s put it this way: the production of synthetic fibres is on the increase, amounting
to over 50 million tonnes in 2008. If we
were to replace this consumption with natural fibres such as cotton, there wouldn’t
be enough space left on the earth to cultivate the food we eat, or the trees that are as
necessary to us as they are to the atmosphere.
Consumption of textile fibres, both natural and synthetic, is constantly on the increase because the world population is also
growing. Moreover, research and new technologies have introduced textiles into all
sorts of different sectors, such as transport,
geotextiles and building. Indeed, textiles
are now often an essential part of the composites that have become essential to boat
and aeroplane construction. It thus makes
sense to be using materials whose production does not require endless acres of land;
materials that can guarantee elevated tech-
nical performance such as tenacity, lightness, flame resistence, and so on”.
What gives polyester and other synthetic fibres their bad name as regards
ecology is of course the fact that they
derive from oil. Yet, as Piana points out,
“in reality such fibres only account for
0.4% of oil consumption. Petrol is used to
produce durable and infinitely recyclable
polymers with a wide range of applications,
and this seems sensible. What is clearly absurd is that we should be using this raw
material for short-term consumption such
as lighting, heating and travelling. Seen
from this vantage point, synthetic fibres are
highly sustainable because they use a declining resource like petrol in the best possible way, transforming it rather than
burning it, and thus making it last”.
While this explanation may quell certain
doubts, it doesn’t address the fact that extrusion and texturizing processes are notoriously heavy on energy consumption. In
recent times, however, European manufacturers of synthetic fabrics, and the Italians
in particular, have done a great deal to diminish the environmental impact and energy consumption of their products.
“When we analyse a product to establish its
carbon footprint, we have to take numerous
factors into account”, Piana points out.
“Granted, production first and foremost,
but also the costs of transport, the energy
required for maintenance and cleaning during the product’s lifespan. A cotton handkerchief may seem more ecological than a
paper one, and both are derived from cellulose fibres. But only one of them calls for
further energy for laundering and ironing”.
In other words, the carbon footprint of
man made fibres is perhaps lower than
we are inclined to think. “Current studies reveal that synthetic fibres offer better
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performance than other fibres if we also take
into account the costs of transport, water
consumption, the high C02 content energy
consumption of non European manufacturing, and so on”, says Piana. “What’s more,
the debate on climate change and the need
for energy saving have urged the authorities
to appraise textiles in terms of their carbon
footprint. There is even a proposal for labelling textile products in relation to their
C02 content. Just as the European Commission is working on a project for grading
cars according to their exhaust fumes
(grams of C02 per km), so we may soon be
labelling the energy consumption of artificial fibres obtained from natural polymers,
of monomers obtained from biochemical
processes, and of products obtained from recycling other materials.”
As Piana points out, the Kyoto agreements
and the issue of emissions trading reveal
how complex the whole business of environmental sustainability is. Unsubstantiated convictions can be highly misleading,
and much work has still to be done on establishing the correct parameters for evaluation.
What certainly is true is that the geo-productive scenario of man made fibres has
Impianto di testurizzazione ad aria (Sinterama)
Air jet texturising equipment (Sinterama)
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changed, with manufacturing now largely
concentrated in Asia. “While American
and European output has remained much
the same over the past few years, amounting to around 5 million tonnes of fibre per
year, in Asia production has been steadily
increasing, reaching 35 million tonnes”,
explains Piana. “Of course, some of this increase is due to the fact that western manufacturers have turned to the east for lower
labour costs. However, it also reflects local
demand for both the raw material and the
finished product. While local companies
may be less concerned about pollution,
western manufacturers operating in Asia
tend to use state of the art machinery and
equipment, because producing synthetic
textiles is a long-term investment that
must take environmental issues into account”.
A few years ago, Assofibre launched the
“Awearness” programme (“Vestire informati”), with the aim of showing how unfounded a number of common convictions
about synthetic fibres were.
“The companies associated with Assofibre
feel that we should make a major effort at
increasing information among consumers so
that they can make sensible decisions about
their purchases. To claim that synthetic fibres irritate the skin is absurd when you
consider that athletes rely on man made fibres for their performance gear. Then there
is the whole issue of Green Public Procurement, which invites local authorities to support sustainable consumption by avoiding
certain categories of products such as plastic bottles, disposable tablecloths and so on.
In actual fact items such as these are less
harmful for the environment than many
others when you take into consideration
their total impact, from fibre to finished
product, especially if the disposable item is
dealt with appropriately at the end of its
life, when it becomes recyclable waste”, explains Piana. “Not that we’re suggesting
Green Public Procurement isn’t a good
thing. It’s simply that decisions of this sort
need to be based on a serious and objective
analysis of all aspects of the manufacture,
use and disposal of the given product. Synthetic fibre manufacturing is actually quite
advanced in the way it deals with waste
from production, much of which is brought
back into the manufacturing cycle in another form. This is a way of optimising resources and saving energy.”