Insegnare letteratura: ma come?

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Insegnare letteratura: ma come?
EDITORIALE
Insegnare letteratura: ma come?
Pietro Gibellini
M
i perdoneranno i lettori se in luogo di un editoriale strutturato come microsaggio
propongo degli appunti, che in parte potrei chiamare tesi, in parte dubbi (ma anche
le tesi sono naturalmente discutibili). Sono osservazioni minime, nate però da una
lunga esperienza di docente universitario che è partito come insegnante di liceo e non ha mai
dimenticato il cómpito di formare insegnanti, sia nelle aule che nell’editoria scolastica. Un
doppio binario scontato? Non tanto, perché negli anni delle vacche grasse nell’Università
entrarono oves et boves, ricercatori che non avevano mai messo il fondoschiena su una cattedra
delle scuole medie o superiori. Se non fosse stato eluso il nesso ricerca-didattica, non avremmo
visto impartire ai laureandi corsi su Vincenzo Borghini e Alessandro Baricco, anziché su Dante e
Leopardi, e non avremmo avuto bisogno di inventare corsi formativi post-lauream per docenti
precari esasperati. Acqua passata, latte versato. Poniamoci dunque domande di fondo, su
problemi vivi ancora oggi.
1. Perché si insegna la letteratura? A quali fini e con quali confini? Risposta: perché la
letteratura è inutile e utilissima, inutile per dare uno sbocco professionale immediato, nella
società attuale: la scuola sembra satura di docenti, nelle pubbliche relazioni e nei mass-media
dominano comunicatori di lingua sciolta (conduttori tv, pubblicitari, politici). Se è inutile per
compiacere una società economicistica, che sta peraltro scivolando verso il buio, è utile per
nutrire la civiltà, per far attendere mattini luminosi. La lezione dei grandi scrittori arricchisce il
linguaggio e il pensiero, ben più delle astratte riflessioni dei linguisti da troppo tempo imperanti.
Affinare lo stile serve a rafforzare il messaggio che si vuole trasmettere, e padroneggiare la
retorica aiuta a smascherare le menzogne: anche a questo servono i classici che commentiamo a
scuola. L’analisi di un testo non deve però limitarsi a un elenco di figure retoriche o di sequenze
narrative, ma far emergere i valori in gioco: quando Guinizelli dice che l’amore e la gentilezza
non dipendono dalla stirpe ma dal cuore, formula un messaggio antirazzista e anticlassista;
quando Manzoni indaga la storia della colonna infame, denuncia la responsabilità etica di
governanti e potenti, non meno che dei popolani superstiziosi. La grande letteratura mette
sempre in gioco dei valori, e risulta così specchio della vita, di quella pratica come di quella
emotiva, immaginativa, spirituale, di quella personale e anche collettiva. In questo senso chi
insegna letteratura opera su uno scenario formativo più ampio di quelli dello storico o del
filosofo, poiché la letteratura, senza perdere la sua specificità, finisce per inglobare e in certo
senso unificare altri domini del sapere. Chi si chiama fuori, limitandosi a coglierne gli aspetti
tecnico-formali o politico-contenutistici, pecca di omissione e persino di falsificazione: è passato,
grazie al cielo, il tempo dei docenti in camice bianco o in tuta da metalmeccanico, che vedevano
nei testi un cadavere da anatomizzare o un volantino sindacale.
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2. Come insegnare? Risponderei semplicemente: continuando a studiare quello che si insegna,
vincendo la pigrizia ripetitiva che finisce per annoiare il docente ancor prima degli allievi. In
altri termini, tenere viva la passione. Tutto questo, naturalmente, sarebbe possibile se riunioni
interminabili, burocrazia opprimente e mortificazioni economico-sociali lasciassero al docente il
tempo e il piacere dello studio. Ricordiamoci di come eravamo: abbiamo studiato più volentieri le
materie dei professori competenti e appassionati. Guai però al professore-narciso che pratica
quella seduzione intellettuale, auspicata anche in tempi recenti: deve essere lo scrittore, anzi il
suo testo ad avvincere, il docente deve essere un mediatore delicato e rispettoso e una guida
maieutica, deve lasciar parlare i testi, pochi ma buoni, dei grandi autori, scelti anche per la
carica vitale e valoriale che resiste all’usura del tempo.
3. Storicizzare o attualizzare? Storicizzare è utile, certo: ma il giovane ha bisogno di
attualizzare, di ricondurre a sé. Quando commentiamo le novelle di Boccaccio, dobbiamo
sottolineare la svolta che impresse alla letteratura e alla mentalità del tempo: diede dignità alla
prosa volgare con una sintassi degna di Cicerone, e con tale veste velò e sdoganò la materia
bollente, criticò ogni ipocrisia, anche sotto i manti del potenti e le tonache dei religiosi, celebrò
l’amore come pulsione carnale e come dedizione totale; mise in luce la forza dell’intelligenza
libera e creativa ma anche i valori della lealtà, della cortesia, della generosità; diede importanza
alle donne, indirizzando loro il Decameron, e facendole protagoniste o co-protagoniste di tante
novelle. Solo dopo aver storicizzato e capito, il giovane può attualizzare davvero, confrontarsi con
valori e problemi di oggi: il rapporto tra intelligenza ed etica, la condizione femminile, il conflitto
tra amore e interesse. L’ermeneutica insegna che capire l’altro esige un doppio movimento, uno
di uscita, di avvicinamento all’oggetto remoto (alterità nello spazio e/o nel tempo) e un
successivo moto di ritorno, di arricchimento della propria soggettività. Questo doppio
movimento vale anche per la didattica, nella quale le fughe in avanti, le accelerazioni non
producono frutti: non possiamo presentare il Cantico delle creature di san Francesco
semplicemente come un antico manifesto ecologico, con il rischio di banalizzarlo: leggiamolo
parola per parola, facendo vedere che ricalca ma aggiorna un salmo; che il copista scrive dei
latinismi grafici cum e tucte che vanno pronunciati con e tutte, perché quel salmo è in volgare
per essere capito e cantato da tutti; che l’elogio della bellezza del creato con i suoi fiori coloriti è
fatto dal Santo ormai cieco, che egli esortava la Chiesa alla povertà come i càtari, ma si
opponeva a loro che ritenevano la materia e dunque il mondo regno di satana fino a contrastare
la procreazione… Allora il giovane capirà quel testo e ne trarrà lievito mentale: sarà più sensibile
alla tutela del pianeta, ma avrà anche toccato le radici bibliche della nostra identità, riflettuto
sulla poesia come preghiera, sulla scrittura come messaggio democratico. La dialettica passatopresente può trovare efficace espressione nelle interviste immaginarie ai nostri grandi autori: ne
ho stese alcune per i sussidi on-line di una nuova antologia per le superiori, e le raccomando
come prassi didattica. Che cosa chiedere, per esempio, a Dante? Gli si chiede dei politici e dei
papi del suo tempo, del suo amore per Beatrice e per la moglie, della sua interrotta amicizia con
Cavalcanti, delle sue letture preferite… Ma poi occorre interrogarlo per sapere che cosa pensa del
nostro tempo, come giudica i nostri problemi.
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