Discorso On - Riformisti Italiani
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Discorso On - Riformisti Italiani
Discorso On. Stefania Craxi alla presentazione del Movimento “Riformisti Italiani” Teatro Nuovo – Milano, 26 novembre 2011 Siamo qui riuniti per portare il nostro contributo ad un nuovo risorgimento dell’Italia. Un Paese che amiamo, che è il nostro, colmo di storia, forte di energie che non sono certo scomparse o esaurite perché la politica le comprime anziché esaltarle, perché il sistema Italia, cioè la burocrazia e le lobbies della conservazione, continuano a soffocarle anziché liberarle. Siamo qui perché per noi la libertà è indispensabile e, forti della nostra storia riformista, vogliamo contribuire alla costruzione di un progetto di futuro, consegnando alla creatività, alla volontà di rinnovamento e di conquista delle giovani generazioni, i valori, gli insegnamenti, la memoria della tradizione. Oggi ci troviamo in una situazione del tutto nuova. L’attacco mediatico-giudiziario a Berlusconi ha interrotto il processo delle riforme e bloccato il Parlamento su scandali, leggi ad personam che mai sono arrivate in porto, rendendo insostenibile la situazione del governo ed esponendo in prima fila l’Italia all’attacco delle centrali capitalistiche mondiali contro lo scandaloso debito pubblico dei paesi che più producono 1 beni. Uno scandalo vero, perché sono proprio i paesi più ricchi a non bastare a sé stessi. Il governo Monti è uno stato di necessità giustamente voluto dal Presidente Napolitano. Il veto alla partecipazione di personalità politiche posto dal PD è un ennesimo atto di viltà della classe politica che scarica sui “tecnici” l’amara medicina imposta dal nostro enorme debito pubblico. Noi non seguiremo il cattivo esempio dei maggiori partiti, che hanno condito di riserve il loro voto a favore del governo Monti e appoggeremo il nuovo Esecutivo con convinzione e fiducia. Il programma enunciato dal Prof. Monti ci è congeniale. A parte la necessità di fare cassa per fronteggiare i mercati e mantenere l’impegno del pareggio del bilancio, Monti ha enunciato una serie di riforme dirette a eliminare la spesa clientelare, diffusa in tutta la macchina amministrativa dello Stato, a eliminare sprechi, ad aumentare la produttività. L’obiettivo è una drastica riduzione della spesa amministrativa e dei costi della politica. Noi ci auguriamo un pieno successo di questa seconda fase del programma Monti. Le elezioni sono ancora lontane, ma i sondaggi lasciano prevedere un possibile governo Bersani-Vendola-Di Pietro. Speriamo che il nuovo governo riesca a fissare duraturi paletti capaci di resistere alla demagogia della nostra sinistra. Per quanto ci riguarda, il nostro obiettivo è chiarissimo: dare uno sbocco politico alla massa di elettori che hanno già abbandonato il PDL e ad altri che hanno intenzione di imitarli. Il PDL ha già perso un terzo del proprio elettorato, passando dal 37 per cento al 25, la stessa Lega Nord comincia a perdere elettori che vi si erano affidati nella speranza di una società più libera dai vincoli e dall’oppressione fiscale; e tutto lascia 2 credere che in uscita sia l’elettorato più politicizzato, quello che segue giornali e TV, cioè, con certezza, quegli elettori riformisti attratti dal programma elettorale di Berlusconi. Questa massa di elettori ora figura fra gli astenuti e gli indecisi. Dobbiamo dare loro una prospettiva e richiamarli ai loro compiti di riformisti. Ci rivolgiamo a tutti quei laici e cattolici che hanno apprezzato l’opera modernizzatrice di Bettino Craxi, che riconoscono l’esigenza di una profonda riforma del sistema Italia. Consentitemi due parole sul riformismo oggi, qui, nella città di Milano, la città di Filippo Turati, di Anna Kuliscioff, della loro Critica Sociale. Il riformismo non è una ideologia, né una complicata teoria politicofilosofica, né un generico progressismo. Il riformismo è un metodo, una convinzione, un impegno morale, è innanzitutto la capacità di misurare le idee di progresso con la realtà, un progresso che punta sull’individuo, sulle eguali opportunità di partenza, sul bisogno di elevazione dal basso per chi ha un merito e per chi esprime un bisogno. E’ un progresso lento ma inarrestabile, una rivoluzione permanente, come diceva Mondolfo. Oggi alziamo con orgoglio la bandiera del riformismo, la bandiera della libertà, la bandiera della modernità, opponendoci a chi senza storia, ragione e verità, pretende di dirsi riformista, ai sedicenti riformisti che odiano le riforme e si fanno paladini della conservazione. In Italia esiste un blocco conservatore che ha impedito nel passato e impedisce tuttora una politica di riforme. E’ un blocco variegato nel quale confluiscono forze economiche, sociali, politiche e culturali diversamente collocate ma convergenti nella tenace difesa dell’ordine esistente, delle 3 caste e di sacche di privilegio che il paese non può più consentirsi. La più tipica manifestazione di questo orientamento conservatore trasversale è il grido indignato di “La Costituzione non si tocca!” che viene opposto a chiunque proponga riforme nel campo della scuola e dell’Università, del mercato del lavoro, della Giustizia, della Pubblica Amministrazione, delle Istituzioni e, di conseguenza, della Costituzione stessa. A formare questo blocco hanno concorso in questi anni componenti importanti, e talvolta maggioritarie, di grandi organizzazioni sociali, dalla Confindustria ai sindacati, agli ordini professionali, a settori della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola, della cultura, del giornalismo oltreché a esponenti di grandi gruppi economici e finanziari. Un aiuto insperato a rafforzare il blocco antiriformatore è giunto talvolta persino dai movimenti giovanili i quali, sia nella veste di movimenti studenteschi che, da ultimo, in quella degli Indignati, se da un lato segnalano il disagio di una generazione, dall’altro hanno sovente fatto proprio in via pregiudiziale il rifiuto di riforme, come quella della scuola e quella del mercato del lavoro, che andavano nella direzione di dare una prima risposta alle loro legittime esigenze. Disarticolare questo blocco conservatore e liberare le energie riformiste e modernizzatrici del paese è il compito politico e culturale cui devono dedicarsi i riformisti, ovunque siano essi collocati. Ciò richiede che si apra una battaglia politica e culturale a cui chiamare la parte più responsabile della società, delle forze sociali, dei corpi amministrativi, delle grandi e libere associazioni che arricchiscono il carattere pluralista della nostra società. 4 Penso a un sindacato del lavoro che nella molteplicità delle sue espressioni sia forte, autonomo, rappresentativo e pienamente responsabile nei suoi doveri verso il mondo del lavoro e verso l’intera società. Penso alle associazioni delle forze produttive, dell’industria minore, della cooperazione, nelle loro sempre più vaste articolazioni ugualmente consapevoli nella difesa dei loro diritti e nell’assolvimento dei loro doveri. Penso alle tante associazioni del volontariato, che grazie allo spirito di sacrificio e di solidarietà di tanti uomini e tante donne sanno declinare al meglio il concetto moderno di sussidiarietà. Penso alle rappresentanze elettive del potere locale, penso agli apparati pubblici, ai loro funzionari, ai loro dirigenti che rappresentano il tessuto nevralgico per ogni possibile azione di ammodernamento e di una nuova efficienza dello Stato. Penso più in generale a chi appartiene alla classe dirigente del paese, per le funzioni che assolve, per il ruolo che svolge rispetto alla classe politica, ma non per questo meno importanti per i problemi del paese e il suo progresso. Nel campo politico la disaggregazione del blocco conservatore è ovviamente più complessa. Culturalmente e politicamente parlando, il cemento del blocco conservatore è stato il consociativismo DC-PCI che ha la sua origine nell’immediato dopoguerra, ma che raggiunge l’apice negli anni ’70 e nel compromesso storico. E’ un patto culturale e politico che non prevede riforme, ma una divisione dei ruoli e della rappresentanza di interessi. Il PCI non perseguiva Riforme ma conquiste, della cui coerenza con un programma di rinnovamento del Paese, per non dire della compatibilità col bilancio dello Stato, poco si curava. Si trattava, e per molti dei suoi 5 eredi si tratta tuttora, di realizzare avanzamenti e conquiste anche parziali ma in grado di determinare rotture di equilibri economici e sociali che possono aprire la via a cambiamenti più o meno epocali di sistema. Questo è il contenuto essenziale della eredità culturale negativa di Berlinguer e anche di Dossetti, che non è mai stata apertamente criticata, e non può essere semplicemente rimossa. Una cultura non riformista, ma antisistema e comunque avversa al socialismo riformista e alla politica di riforme non solo graduali ma anche coerenti con una certa concezione dell’economia e della democrazia. Gli eredi di Berlinguer e di Dossetti rappresentano lo zoccolo duro del blocco conservatore, anche se non lo esauriscono. Non a caso, proprio per non affrontare il nodo delle riforme si parla oggi da parte dei dirigenti del PD non di una alleanza chiara e dichiarata fra riformisti e moderati ma, assai genericamente, di alleanza fra Progressisti e moderati, per nascondere dietro una parola l’alleanza con l’estremismo di Vendola e con la demagogia di Di Pietro. All’interno del nostro Paese c’è una grande insicurezza. La si legge soprattutto nelle giovani generazioni, per le troppe tendenze negative che gradatamente, ma anche con un’accelerazione dovuta alla crisi internazionale, si sono consolidate ed aggravate nella vita economica, nella vita sociale e in quella politica. Le capacità di resistenza della società italiana, sempre notevolissime, appaiono ormai logorate. Occorre imprimere una svolta, di cui nessuna forza o ambiente responsabile può disconoscere la inderogabilità e l’urgenza, e sono necessarie correzioni significative in molti campi. 6 L’Economia italiana deve uscire dalla stagnazione sfuggendo dalla stretta recessiva che si preannuncia, lo Stato italiano deve riportare sui binari la finanza pubblica, il corpo sociale non può sopportare l’aumento della disoccupazione, il peso di situazioni di privilegio, di burocratismo, di regole illiberali. Sono fattori negativi che pesano come una cappa di piombo sulle potenzialità imprenditoriali, organizzative, sociali ed umane nella società italiana. Vitalità, energie, volontà di progresso e di conquista non mancano. Mancano le condizioni più adeguate per consentire una loro piena espressione ed un loro pieno sviluppo. In un contesto che ancora indica per una parte dei cittadini un quadro di benessere diffuso, si moltiplicano i punti di crisi, si allargano le aree di depressione, si aggravano i rischi di disgregazione sociale, gli elementi di sfiducia e anche i fattori di diseguaglianza. E’ per questo che siamo convinti che occorra mettere mano ad un grande progetto di riscrittura delle regole del gioco, una Grande Riforma, come proponeva Bettino Craxi già nel 1979, che renda la democrazia italiana, una democrazia governante. Non ci si può non accorgere dei segni di una decadenza delle Istituzioni. Tutte le Istituzioni, i corpi dello Stato, devono essere portati all’altezza di una società moderna che in un contesto internazionale profondamente mutato, esige responsabilità ed efficienza, tempestività e trasparenza delle decisioni, moralità, rapporti tra Stato e cittadino ispirati al principio della libertà. 7 Una Grande Riforma che inneschi un processo di liberalizzazione della nostra economia, che garantisca un’effettiva apertura del mercato e la rottura delle posizioni di monopolio. Un processo di liberalizzazione e non solo di privatizzazione. Liberalizzazione dell’accesso alle professioni, al mercato del lavoro, alla creazione d’impresa. Liberalizzazione intesa come l’eliminazione di tutto ciò che confina, ostacola, distorce lo sviluppo di una economia dinamica e di una società aperta. C’è ancora una grande disuguaglianza dei cittadini di fronte al fisco, gli indicatori medi che riguardano alcuni gruppi sociali produttivi e professionali sono letteralmente scandalosi, le fughe sono innumerevoli e propiziate dalla insufficienza della pubblica amministrazione. Le dimensioni dell’evasione suggeriscono che sia più un problema di riforme della legge che una faccenda della Guardia di Finanza. Una Grande Riforma che ridefinisca il patto tra i cittadini e lo Stato partendo da una riforma fiscale che allarghi la base contributiva, riequilibri il peso del fisco dal lavoro e dall’impresa alle rendite, ai consumi, al patrimonio e crei così le condizioni per la riduzione della pressione fiscale. Il welfare state è da qualche tempo un grande imputato di fronte al Tribunale delle società occidentali in crisi, eppure esso rappresenta la più grande conquista della civiltà Europea di questo secolo. Lo è anche il welfare all’italiana con le sue impostazioni sociali molto protese in avanti e la sua grande disorganizzazione pratica. Voler dare tutto a tutti, darlo male e darlo in modo insufficiente a chi ne ha più bisogno degli altri, è una contraddizione troppo grande per essere lasciata indisturbata. 8 Un welfare giusto deve dirigersi in primo luogo verso chi ha effettivamente bisogno, verso i gruppi sociali più poveri, le aree di emarginazione che sono aree di anziani, di disabili, di giovani, di emarginazione femminile, i nuovi poveri delle società del benessere. Ci sono ancora eccessi nel campo pensionistico, automatismi non giustificati, evasioni incontrollate che convivono con stati di bisogno non adeguatamente riconosciuti. Una Grande Riforma che rivisiti e rifondi su base di maggiore equità ed economicità lo Stato sociale, a cominciare dalla Previdenza e dall’Assistenza a quello sanitario. Occorrerà produrre lavoro, non allargare l’assistenza. Sono necessari nuovi investimenti, nuove condizioni di incentivazione dei bacini di crisi, una più grande flessibilità nel mercato del lavoro, nuovi spazi occupazionali, favorendo e sostenendo un grande impiego della sussidiarietà, uno sforzo straordinario che deve essere messo in atto per l’occupazione giovanile, principalmente nel Mezzogiorno. Una Grande Riforma del Mercato del lavoro che si propone di debellare la piaga del lavoro precario e del lavoro nero, operando il doveroso completamento delle riforme di Marco Biagi. Entrambe queste piaghe hanno origini antiche, ma oggi trovano nelle rigidità del mercato del lavoro e in quelle della Contrattazione collettiva centralizzata un elemento che le esaspera e ne favorisce la diffusione. Si impone in questo campo una svolta. Nel mercato del lavoro, la norma dovrebbe essere l’assunzione a tempo indeterminato per tutti, mentre il ricorso al lavoro a termine, a progetto, a collaborazione, o stagionale, dovrebbe rispondere a esigenze aziendali e produttive specifiche. 9 Ma perché a questo si possa effettivamente arrivare, è necessaria una graduale revisione della contrattazione nazionale, e l’introduzione di accordi come disposto dal recente Art. 8 che riconoscano all’impresa la necessaria flessibilità organizzativa compensata con adeguata protezione dei lavoratori, e ovviamente la tutela dei diritti fondamentali e delle norme che tutelano chiunque contro la discriminazione, ma anche con crescenti tutele del lavoro man mano che cresce l’anzianità di servizio. La riforma della contrattazione dovrebbe cominciare da qui, come del resto viene ormai richiesto non solo dall’Europa ma anche da un vasto e trasversale movimento di opinione politica e sindacale. Dobbiamo provvedere soprattutto a chi cerca il suo primo lavoro o, avendolo perso, cerca un reimpiego e viene generalmente lasciato solo. Lo Stato e le parti sociali possono e devono aiutare il cittadino quando questi cerca il suo primo lavoro o quando, per ritrovarlo, deve riqualificarsi. E’ nel Mercato del lavoro che il cittadino va aiutato. Una Grande Riforma dell’Intervento dello Stato nell’Economia, il cui principio guida dovrebbe essere: il mercato ogni volta che è possibile, lo Stato solo quando è necessario. Al mercato e alle imprese private vanno lasciate tutte quelle attività, anche di pubblico interesse, che il mercato e l’iniziativa privata sono in grado di svolgere con maggiore efficacia ed economicità e per le quali sono in grado di reperire le risorse finanziarie. Lo Stato, attraverso le diverse Autorità indipendenti, è perfettamente in grado di verificare la congruità delle tariffe, il rispetto delle convenzioni, la trasparenza e correttezza delle gare. Allo Stato spettano compiti di indirizzo strategico dello sviluppo, e di stimolo e di incoraggiamento alle imprese nel perseguimento dei loro 10 obbiettivi di sviluppo. In quanto a questo, occorrerà vigilare per impedire che si prenda a pretesto uno stato di crisi per completare quell’opera scellerata di spoliazione del patrimonio pubblico compiuta all’ombra della falsa rivoluzione del ’92/’94. In altre parole: lo Stato non deve solo e semplicemente ritirarsi, ma deve, piuttosto, riposizionarsi. Dalla produzione diretta di beni e servizi, deve passare ad un ruolo di promozione e di indirizzo strategico dello sviluppo, deve essere uno Stato né pesante né leggero, ma come lo definiva con una felice espressione Tony Blair, uno Stato strategico. Una Grande Riforma che affronti il nodo del credito e della finanza e ponga in modo chiaro i rapporti con l’Europa. L’Europa non va. La crisi odierna è la crisi politica dell’Europa, senza un leader capace di guidarla, più che una crisi finanziaria. E’ un’Europa che ha una valuta comune, ma i cui membri sono legati dal credito e dal debito conseguente, tra i paesi in surplus strutturato e paesi in deficit strutturale. Persa dietro ai molti nazionalismi, l’Europa scherza col fuoco. I tentennamenti di fronte alla crisi non sono stati di natura tecnica ma politica, la mancanza più grave è il mancato coordinamento tra poteri nazionali e poteri sovranazionali e la mancanza di una Banca Centrale in grado di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza per finanziare i debiti, sconfiggendo le irrequietezze dei mercati. Occorre ricondurre, attraverso l’adozione di misure normative e regolamentari concordate a livello europeo e internazionale, gli intermediari finanziari alle attribuzioni che loro competono: assicurare un’efficiente allocazione del risparmio, finanziare gli investimenti 11 produttivi, assegnare un valore agli assets sulla base di un’accurata valutazione del rischio. In conclusione: la Grande Riforma serve per affrontare, in un quadro complessivo e con una ispirazione politica e culturale riformista (e non genericamente progressista), i grandi nodi dello sviluppo economico, sociale e culturale dell’Italia, nel quadro di una nuova ed effettiva politica di integrazione europea. Facciamo un’onesta riflessione: la condizione giovanile di oggi non è certo peggiore di quella che i giovani italiani hanno conosciuto in tempi passati, il lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto ha mutato la faccia dell’Italia ed ha offerto ai giovani di godere di un benessere prima sconosciuto, una condizione generale più agevole per il riconoscimento della propria personalità. Ciò che le generazioni passate non sono riuscite a trasmettere in modo efficace a larga parte del mondo giovanile, sono i valori ideali e morali che pure hanno presieduto a quest’opera di trasformazione della realtà. So bene che il moltiplicarsi della ricchezza ha creato nuovi squilibri sociali, nuove ingiustizie, nuove emarginazioni; so bene che tanti ideali del passato sono improponibili, so bene che la nostra cultura si nutre di critica e che qualsiasi arte “dei buoni sentimenti” è guardata con sospetto e diffidenza. Ma è anche vero che vivono oggi solidarietà sociali prima sconosciute, che la scienza sta aprendo davanti ai giovani nuovi orizzonti affascinanti. Io penso che la politica, quella stessa politica che si è presentata ed è stata presentata in termini di malaffare, purtroppo non sempre a torto, e 12 così raramente in termini di convinzioni e di ideali, debba tornare a indicare anche ai giovani alti traguardi di impegno civile e morale. Soprattutto, la proposta di una Grande Riforma deve consentire di riaprire un dialogo con le nuove generazioni. Occorre un nuovo Patto generazionale che eviti al paese l’esperienza traumatica di una rottura fra generazioni. Questo patto richiede che si affronti ora il nodo del debito pubblico, che non può e non deve essere scaricato sulle nuove generazioni (anche attraverso una coraggiosa politica di riforma del sistema pensionistico); che la scuola compia il suo compito di selezione, che è la chiave della promozione sociale; che si realizzi una effettiva riforma del mercato del lavoro attraverso il superamento della attuale legislazione in materia di contratti, licenziamenti, sostegno al reddito. Certamente occorrerà migliorare, rafforzare, riammodernare le strutture della giustizia e quelle carcerarie, aiutare la magistratura nel suo difficile, alto compito di giustizia, ed offrire al cittadino più garanzie rispetto ai possibili arbitri ed errori del potere giudiziario. La riforma della giustizia tante volte annunciata non ha ancora visto la luce. Non esiste consesso civile che possa funzionare senza la giustizia. La nostra giustizia non è stata solo utilizzata in uno scontro di parte che ha visto contrapporsi la Sovranità popolare alle pretese di alcuni magistrati che le decisioni politiche passassero dalle urne alle toghe. La giustizia italiana è complessivamente in bancarotta. E’ una giustizia che misura il tempo in decenni e lascia impuniti il novanta per cento dei reati, con una popolazione carceraria fatta da oltre il 50% di detenuti in attesa di giudizio, dove i drogati sono la metà e i 13 poveracci la quasi totalità, ed aggiungo vivono in condizioni carcerarie indegne di un paese civile. E’ un costo sociale, ma anche un costo per la nostra economia. Un paese in cui la durata media di un processo civile è di nove anni, dove uno sfratto non consente di ricevere la proprietà di cui si necessita, e un ingiunzione i soldi a cui si ha diritto, è un paese che non attrae investimenti e dal quale i capitali fuggono. Una Grande riforma dovrà necessariamente affrontare i temi del Codice Penale e del Processo Civile, del riordino del CSM, della separazione delle carriere e della responsabilità civile del magistrato, nonché quelli della tutela della privacy così come è nella cultura e nella tradizione del riformismo democratico e socialista in Italia e in Europa, che in alcun modo può colludere con il giustizialismo senza rinnegare sé stessa. Per giungere a questa Grande opera di rinnovamento, l’esperienza ci dice che è inutile tentare la via del Parlamento. L’esperienza di questi ultimi venti anni conferma che per realizzare una vasta politica di riforme è necessaria una revisione della nostra Costituzione. La via maestra è l’elezione, con il sistema proporzionale, di un’Assemblea Costituente composta da 100 personalità che lavori alla redazione della nuova carta fondamentale dello Stato, da sottoporre poi a Referendum. Un’Assemblea Costituente in grado di definire la forma dello Stato, i diritti di cittadinanza, la forma di Governo, l’equilibrio fra poteri, la dimensione del federalismo, la fine del bicameralismo perfetto, di salvaguardare il principio dell’alternanza aprendo così la strada alla 14 costruzione di una Nuova Repubblica Presidenziale: il punto d’arrivo, in definitiva, dell’ideale riformista che ha guidato in questi anni il nostro impegno nel Paese e nelle Istituzioni. Ed ora, consentitemi di spendere qualche parola sulla condizione della classe dirigente politica dell’Italia. Nei mesi scorsi non abbiamo assistito certo a un bello spettacolo. Una classe dirigente politica che ha il dovere dell’esempio non è stata, non siamo stati, capaci di darlo. Il fallimento della legge elettorale, con la nomina di deputati e senatori da parte dei segretari di partito, invece di essere eletti dal popolo, è stato totale. Invece di un Parlamento di eccellenti, abbiamo avuto un Parlamento di cui ci siamo spesso vergognati. Esiste in questo scenario certamente il tema della riduzione dei parlamentari, ma esiste anche il problema di oltre un milione e mezzo di persone che vivono di politica, attraverso oltre sessantamila enti pubblici, una spesa improduttiva che il paese non può permettersi. Questo alimenta un forte vento dell’antipolitica a cui occorre reagire. Se ci lasciassimo sommergere o trasportare un’altra volta dall’ondata dell’antipolitica, la lunga, difficile transizione italiana si allungherebbe ancora di più. La politica è l’arte del possibile. “Insieme tutto è possibile”, ed è questo il messaggio per riavvicinare i giovani, per far loro capire che la politica è l’unico modo che hanno per cambiare il mondo; altro che contestazioni, altro che processi di piazza, altro che tutele dei privilegi, altro che nichilismo. Ma una politica che non parla genericamente alla “gente”, ma ad ogni singolo individuo, affinché nessuno rimanga indietro, chiedendo però, ad ognuno, di fare un passo in avanti. Una politica che parla di autorità, di rispetto e merito. Cambiamenti che sono possibili solo 15 se la politica è forte, autorevole, se sa, prima di tutto, costruire dentro di sé lo stesso cambiamento. Se è capace di reinnestare in sé il merito, la competenza, la responsabilità e la concorrenza, il rischio, la sfida, una visione. Occorrerà anche portare il nostro contributo per oltrepassare quella sorta di cultura di guerra che è alla base, oggi, del linguaggio politico italiano. Il bene ed il male non sono mai divisi da una linea retta e nel panorama politico e sociale di un paese libero come l’Italia deve essere, non si devono mai scontrare volontà positive e volontà negative, buoni e cattivi, ma si devono scontrare interessi legittimi, dal cui confronto e dalla cui composizione nascono poi le migliori soluzioni per il paese. Questa è l’essenza della vita democratica del paese, ed è questo tipo di vita libero che bisogna ristabilire: ciò vuol dire che la contrapposizione non deve essere scontro, ma confronto su idee e su programmi, ciò vuol dire che ogni istituto, ogni organizzazione deve avere la sua parte, il suo peso, la sua responsabilità. Bisogna innanzitutto riabilitare la politica, i partiti, non il contrario. E’ questo il compito di chi, come noi, ancora una volta, vede con il cuore, con l’intelligenza e con il coraggio, che la chiave della nostra riunione odierna e del nostro futuro è nella politica. Solo la politica può ridarci fiducia nell’avvenire dell’Italia. Poiché nel Paese ci sono tante forze vive, che sono la forza viva dell’iniziativa privata e di quella pubblica, le capacità professionali e di mestiere, le capacità tecniche, la grande ricchezza di cui disponiamo, che è l’intelligenza creativa del lavoro italiano, che è la capacità di produrre idee 16 e di realizzarle, che è il coraggio di avventurarsi nel campo della scienza, dei commerci e delle intraprese anche le più difficili. Perché la società italiana ha in sé una tale vitalità, un tale dinamismo che se posti in condizione di esprimersi al meglio, ben coordinati, ben guidati e sorretti, le consentiranno di superare in un arco ragionevole di tempo una situazione di grave crisi che si sta dipanando nel quadro di una crisi internazionale. Nessun cieco ottimismo e nessuna spensieratezza rispetto all’avvenire, ma una riflessione serena, una fiducia ragionata nella ricerca delle vie utili per uscire dalla crisi. Ciò significa sollecitare le energie, aiutare le volontà, premiare i meriti, scoraggiare i parassitismi e le pigrizie, affermare con forza che diritti e doveri vanno di pari passo per tutti, fare avanzare il progresso e con esso l’uguaglianza delle opportunità. Ho iniziato dicendo che vogliamo contribuire ad un nuovo Risorgimento dell’Italia. Facciamo che sia presto, perché il Paese rischia il tramonto ed ha forte la necessità che si riaccenda la luce di una nuova alba. Viva l’Italia ! 17