la cooperazione transfrontaliera in ambito ambientale

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la cooperazione transfrontaliera in ambito ambientale
SCUOLA DI STUDI INTERNAZIONALI
CORSO DI LAUREA IN STUDI EUROPEI E INTERNAZIONALI
LA COOPERAZIONE
TRANSFRONTALIERA
IN AMBITO AMBIENTALE:
Il caso della Convenzione delle Alpi
Relatrice:
Prof.ssa Daniela Sicurelli
Laureando:
Francesco Costa
a.a. 2009/2010
2
“Oggi, spinto solo dal desiderio di vedere un luogo
celebre per la sua altezza, sono salito sul monte più
alto di questa regione, chiamato giustamente Ventoso”
(Francesco Petrarca)
A Miriam,
INDICE:
INTRODUZIONE
5
1. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE: I Regimi Internazionali
9
1.1. INTRODIZIONE
9
1.2. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
10
1.3. I REGIMI INTERNAZIONALI: una forma di cooperazione
internazionale
15
1.3.1. Definizione di Regime Internazionale
17
1.3.2. Le teorie “classiche” dei regimi internazionali
20
1.3.3. La “contrattazione istituzionalizzata” di Oran Young
22
1.3.4. Come si formano i regimi internazionali?
24
1.3.5. Misurare l’efficacia dei regimi internazionali
29
1.3.6. I regimi internazionali ambientali: un modello di
governance globale
1.4. CONCLUSIONE
2. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE
2.1. INTRODUZIONE
33
35
39
39
2.2. LA GOVERNANCE MULTILIVELLO E LA QUESTIONE
AMBIENTALE
41
2.2.1. La governance multilivello ambientale
46
2.3. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA IN MATERIA
AMBIENTALE
51
2.4. VERSO LA REGIONALIZZAZIONE DELLA GOVERNANCE
62
2.5. CONCLUSIONE
65
3. UN ESEMPIO DI COOPERAZIONE TRANSFRONTALIERA:
LA CONVENZIONE DELLE ALPI
67
3.1. INTRODUZIONE
67
3.2. LA STORIA DELLE ALPI
68
3.3. IL TRATTATO INTERNAZIONALE
73
3.3.1. La Convenzione Quadro
76
3
3.3.1.1. I contenuti
77
3.3.1.2. Organi e funzionamento
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3.3.2. I Protocolli attuativi
3.4. APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE DELLE ALPI
80
86
3.4.1. Austria
88
3.4.2. Francia
88
3.4.3. Svizzera
89
3.4.4. Germania
90
3.4.5. Slovenia
90
3.4.6. Liechtenstein
91
3.4.7. Principato di Monaco
91
3.4.8. Unione Europea
92
3.4.9. Italia
93
3.5. CONCLUSIONE
4. LA CONVENZIONE DELLE ALPI: UN MODELLO IBRIDO
4.1. INTRODUZIONE
95
97
97
4.2. LA CONVENZIONE DELLE ALPI IN BILICO: il livello
internazionale e quello comunitario
98
4.2.1. La Convenzione delle Alpi: un regime internazionale
efficace?
101
4.2.2. La Convenzione delle Alpi: un Gruppo Europeo di
Cooperazione Territoriale efficace?
106
4.3. ATTORI E BUONE PRATICHE
110
4.4. UN SISTEMA IBRIDO?
115
4.5. CONCLUSIONE
119
CONCLUSIONI
121
APPENDICI
127
BIBLIOGRAFIA
129
SITI INTERNET
137
INTERVISTE
137
RINGRAZIAMENTI
139
4
INTRODUZIONE
“[…] quelli come lui, e non erano poi tanto pochi
come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli
uomini, per i quali i confini non erano mai esistiti se
non come guardie da pagare o gendarmi da evitare”
(Mario Rigoni Stern, La storia di Tönle)
L’idea di questo elaborato parte dalla considerazione che alcune regioni del
pianeta siano particolari e rappresentino non soltanto delle realtà geografiche più o
meno istituzionalizzate, ma che siano anche portatrici di un significativo patrimonio
storico, culturale e umano.
Le Alpi, in particolare, hanno sempre avuto nei secoli una dimensione del tutto
particolare; poste al centro del continente europeo sono state teatro della vita umana e
habitat per molte altre specie viventi per millenni. Oggi però le Alpi, e le montagne più
in generale, vivono una quotidianità problematica a causa del sempre maggiore impatto
che le attività umane hanno sull’ambiente naturale. In particolare le regioni montuose, a
causa della loro ricchezza di biodiversità e di risorse naturali indispensabili, non solo
per la vita di piante e animali, ma anche degli esseri umani, risentono delle
problematiche ambientali in maniera esponenziale.
Oltre a questa questione prettamente ecologica, le regioni montane sia in Europa, sia in
altre parti del mondo, hanno sofferto e soffrono ancora oggi, anche della loro marcata
marginalità rispetto ai grandi centri urbani ed economici che con il passare dei secoli
sono sorti nelle grandi pianure, che hanno catalizzato l’attenzione sia del mondo politico
che della vita degli esseri umani.
Per questo motivo oltre al problema della tutela ambientale, lo spopolamento delle valli
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alpine e dei territori montani di altre regioni è oggi fonte di grande preoccupazione tra
gli stessi abitanti e tra associazioni e organizzazioni della società civile.
Bisogna riconoscere d’altro canto però che negli ultimi vent’anni, in particolare dopo la
fine della Guerra Fredda, l’attenzione verso questi problemi è aumentata fino ad arrivare
alla creazione di sistemi di governance per queste regioni.
Un esempio di questo cambio di logica nei confronti delle regioni montane è la
Convenzione per la Protezione delle Alpi (d’ora in poi Convenzione delle Alpi), il
trattato internazionale in vigore tra otto stati alpini, che ho scelto come caso studio.
Questo elaborato, attraverso l’analisi della Convenzione delle Alpi, si pone l’obiettivo di
comprendere quanto un modello di governance come quello proposto dalla
Convenzione sia efficace nel promuovere la cooperazione internazionale per la
soluzione dei problemi che sono oggi in primo piano con riferimento alla questione
ambientale. Inoltre l’elaborato si pone l’obiettivo di comprendere e analizzare il ruolo
dei diversi attori che prendono parte alla governance di questo territorio.
Il primo capitolo affronta il tema della cooperazione internazionale, analizzando in
dettaglio uno strumento assai diffuso a livello mondiale: i regimi internazionali.
Attraverso il contributo di numerosi autori il tentativo è di ricostruire la vita di un
regime internazionale per riuscire a valutarne l’efficacia per la soluzione di problemi
che difficilmente potrebbero trovare soluzione limitatamente ad una dimensione
nazionale.
Il secondo capitolo introduce, attraverso la spiegazione della teoria della governance
multilivello, la peculiarità della cooperazione territoriale all’interno del territorio
dell’Unione Europea. In questo contesto la Convenzione delle Alpi, si sovrappone al
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Programma Spazio Alpino, un programma europeo nato nell’ambito dell’iniziativa
INTERREG lanciata alla fine degli anni ottanta come strumento della politica di
coesione dell’Unione Europea.
Il terzo capitolo dell’elaborato riguarda il caso studio. Nella prima parte del capitolo la
Convenzione delle Alpi viene analizzata nei suoi contenuti, in seguito viene proposta
l’analisi dell’applicazione dei principi della Convenzione Quadro e dei Protocolli
applicativi sul territorio dei diversi Stati membri.
Infine il quarto capitolo, seguito dalle conclusioni dell’elaborato, è un capitolo analitico
nel quale ho cercato di applicare le nozioni tratte dall’analisi delle due diverse teorie,
quella dei regimi internazionali e quella della governance multilivello, descritte nei
primi due capitoli, al caso studio. Nella seconda parte di questo capitolo ho proposto un
modello ibrido per la governance della regione alpina e per territori simili a quello
alpino. Per arrivare a questo risultato sono partito dall’analisi dei punti di forza e limiti
della Convenzione delle Alpi, cercando di integrare questi risultati riferiti alla regione
alpina con le tendenze individuate da numerosi autori che stanno prendendo piede a
livello globale.
Dal punto di vista metodologico, per la raccolta d’informazioni sia sul caso studio sia
sui suoi effettivi risultati, ho compiuto quattro diverse interviste che mi sono state utili
per comprendere in modo più completo i diversi punti di vista dei diversi attori coinvolti
nel processo di governance in questa regione.
Gli intervistati sono stati i rappresentanti delle istituzioni della Convenzione delle Alpi
(Segretariato Permanente), due portavoce di due organizzazioni internazionali attive in
ambito ambientale come WWF e CIPRA, e un Consigliere Regionale del Trentino Alto
7
Adige per il partito dei Verdi.
Oltre a queste fonti dirette, ho basato l’analisi del caso studio attraverso i documenti
ufficiali della Convenzione delle Alpi e dei rapporti periodici sull’applicazione della
Convenzione provenienti dai diversi Stati membri.
L’argomento oggetto di questo elaborato è indiscutibilmente complesso, sia dal punto di
vista teorico, sia dal punto di vista analitico; la questione delle pratiche di cooperazione
transfrontaliere per la gestione di problematiche condivise tra Stati diversi e a diversi
livelli giurisdizionali necessita sicuramente di analisi ben più approfondite di quella che
io ho proposto. Ma il panorama che andrò a descrivere qui di seguito è sufficiente
almeno per comprendere l’importanza della nascita di nuove forme di governance
ambientale a livello globale.
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1. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE: I REGIMI
INTERNAZIONALI
“Se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare
in un sol luogo tutte le leggi che si credono brutte e
di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle,
neppure una ne resterebbe, ma tutti si ripartirebbero
tutto”
(Protagora - Antilogie)
1.1.
INTRODUZIONE
Oggi ogni aspetto della vita degli esseri umani è sempre più correlato a ciò che
accade in altre parti della Terra. Sempre più spesso gli Stati si trovano ad affrontare
problemi che vanno al di là di quella che può essere definita “amministrazione
nazionale”. I problemi, gli spostamenti, le comunicazioni, gli scambi economici sono
oggi definiti sempre più frequentemente come “globali”; questi temi sono le sfide con le
quali i governi devono confrontarsi quotidianamente.
Molte delle questioni che si presentano ad essi vanno oltre i confini dello Stato o per
estensione o perché sono processi che coinvolgono intere regioni. È per questo che
sempre più frequentemente si parla di cooperazione tra Stati, una pratica che è
ampiamente diffusa oggi in molti ambiti delle politiche e delle relazioni internazionali.
È a partire dalla fine della seconda Guerra Mondiale che questo modo nuovo di fare
politica estera ha iniziato a diffondersi nell'ambito delle relazioni internazionali. Nei
primi anni successivi al conflitto si sono formate molte istituzioni e organizzazioni
internazionali principalmente in ambito economico come ad esempio le istituzioni nate
9
durante la conferenza di Bretton Woods nel 1944, FMI, Banca Mondiale, e GATT.
Se da una parte l'economia mondiale è uno dei settori nel quale la cooperazione tra Stati
è presente come modus operandi da più tempo, nella seconda metà dello scorso secolo
anche altri ambiti delle relazioni internazionali come la sicurezza o l'ambiente sono stati
coinvolti in processi cooperativi. L'ambiente in particolare si presta per l'attuazione e lo
studio di questa forma di relazioni tra Stati, coinvolgendo sempre più frequentemente
più regioni che appartengono talvolta a Stati diversi, si pensi ad esempio alla tutela di
un corso d'acqua che attraversa diversi Stati, o di una catena montuosa che funge da
confine tra Stati come le Alpi o i Pirenei.
È importante quindi analizzare dal punto di vista delle relazioni internazionali le
pratiche e le teorie di cooperazione tra Stati.
In questo capitolo cercherò di proporre una presentazione delle più importanti teorie
delle relazioni internazionali che affrontano il tema della cooperazione internazionale e
della formazione dei regimi internazionali. La domanda che sta all'origine dell'analisi
che vado a proporre è: Perché gli Stati cooperano tra loro?
Nel rispondere a questa domanda pongo come obiettivo ultimo della mia analisi la
spiegazione in termini teorici della efficacia o meno della cooperazione transfrontaliera
in materia ambientale.
1.2.
LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
La cooperazione nell'ambito delle relazioni internazionali è quindi un tema
relativamente recente soprattutto in materia ambientale. È solamente nella seconda metà
10
del XX secolo che gli studi delle relazioni internazionali nel loro complesso, e in
particolare riguardo al tema dell'ambiente, danno vita alle prime teorie che tentano di
spiegare in che modo e per quali motivi gli stati cooperano tra loro; teorie che sono di
fondamentale importanza per la comprensione dei comportamenti degli Stati per quello
che riguarda la politica estera.
L'ambiente delle relazioni internazionali è stato considerato privo di qualsiasi forma di
organizzazione politica fino al termine della seconda Guerra Mondiale. L'idea che gli
Stati nelle loro relazioni vivessero in una condizione di anarchia orientata alla
massimizzazione della propria utilità era ampiamente diffusa e testimoniata dalla storia
delle relazioni internazionali; a questa idea fa riferimento il paradigma realista.
Secondo questo approccio le relazioni internazionali tra gli Stati, che sono considerati
gli unici attori sulla scena internazionale, avvengono appunto in un ambiente anarchico,
nel quale un governo internazionale è irrealizzabile. Questo modello teorico è anche
definito come stato-centrico; lo Stato è quindi l'attore unico, detentore del potere che ha
come unico obiettivo quello di massimizzare la sua utilità. Le relazioni internazionali,
secondo la visione espressa da questa teoria avvengono secondo un modello
conflittuale, lo scontro tra ideologie e interessi statali sono le forme preponderanti di
relazioni tra attori.
Questo paradigma, le cui origini sono da far risalire a Machiavelli ne Il Principe, rimane
predominante negli studi delle relazioni internazionali fino alla seconda metà del XX
secolo. Alcuni importanti teorici contemporanei identificabili come “realisti” sono
Kenneth Waltz e Joseph Grieco. La politica di potenza, la concezione secondo cui gli
stati sono gli unici attori sovrani nel sistema internazionale, la natura aggressiva degli
11
Stati, la ricerca del potere militare hanno caratterizzato gran parte dei rapporti tra gli
Stati anche oltre la fine della Guerra Fredda, pur essendo oggi mascherata attraverso le
grandi Organizzazioni Internazionali che sono regolate però da “quote di maggioranza”
detenute di paesi più ricchi.
Secondo l'ottica realista la cooperazione non è la modalità di politica estera preferita
dagli Stati; anzi l'assenza di un governo internazionale ha l'unica conseguenza di
favorire il sorgere di conflitti internazionali. I fattori che ostacolano la cooperazione
secondo i realisti (Grieco, 2001) sono due: il timore che la controparte violi le regole
imposte e i guadagni relativi che gli Stati alleati possono ottenere dalla cooperazione. La
posizione di questa corrente di pensiero alla cooperazione è evidentemente scettica;
l'unica possibilità di cooperazione avviene, dal punto di vista degli Stati egemoni
quando la cooperazione stessa è un modo per mantenere uno status di egemonia di
potere su altri Stati, o di mantenere uno status di protezione dalla prospettiva di Stati
non dominanti la scena politica internazionale.
In contrapposizione a questo approccio teorico si pone il paradigma che vede le
relazioni internazionali dominate non dalla politica di potenza ma bensì sul
mantenimento di un ordine consensuale, l'istituzionalismo liberale. Questa visione delle
relazioni internazionali, a differenza della precedente, non vede gli Stati come gli unici
attori sulla scena internazionale ma assieme ad essi si da rilevanza alle organizzazioni
internazionali, al diritto internazionale e alla società civile internazionale. L'ordine
consensuale a cui questo modello aspira, si concreta attraverso le relazioni tra gli attori
dell'arena internazionale che non sono, come nel caso del realismo, conflittuali, ma sono
basate su processi di negoziazione e accordi, che portano ad emergere l'idea di una
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interdipendenza globale che va ad opporsi alla situazione anarchica teorizzata dagli
studiosi realisti. Questo paradigma, che trae origine dal “contratto sociale” teorizzato da
Hugo Grotius, trova le sue prime applicazioni nella realtà politica internazionale con la
creazione della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi.
Ma è solamente dopo la dissoluzione del modello bipolare cha ha caratterizzato il
periodo della Guerra Fredda fondato sulla politica di deterrenza, la più classica “politica
di potenza”, che il paradigma dell'istituzionalismo liberale trova sempre più
applicazione nella realtà della politica internazionale. Le parole società, cooperazione,
sistema, regime internazionale, balance of power che da sempre appartengono al
panorama, anche realista, delle relazioni internazionali solo nell'ultimo decennio del XX
secolo vengono assimilate dal paradigma dell'istituzionalismo liberale, dando vita ad un
nuovo modo di intendere la politica internazionale caratterizzato da una pluralità di
attori che attraverso il negoziato e gli accordi promuovono una governance globale.
Secondo i teorici di questo approccio la cooperazione internazionale permette agli attori
che instaurano relazioni internazionali di ridurre la sensazione di incertezza che la
concezione dello Stato come attore razionale, orientato alla massimizzazione del suo
interesse, alimenta.
Uno strumento teorico molto utile per spiegare il funzionamento della cooperazione
anche nelle relazioni internazionali è la teoria dei giochi. La cooperazione in questo
senso è definita come una situazione di coordinamento tra gli attori, necessaria per il
raggiungimento di un beneficio comune. Sotto questa luce, la cooperazione appare
come una condizione molto complicata da raggiungere poiché la defezione di un solo
attore porterebbe all'inapplicabilità della cooperazione; se ad esempio, come è accaduto
13
durante la Guerra Fredda, due Stati preferiscono la corsa agli armamenti piuttosto che
una mutua riduzione di essi, questo porta inevitabilmente ad una situazione di conflitto.
Analizzando alcune diverse tipologie di gioco ci si accorge che la propensione alla
cooperazione è maggiore nella situazione dove è migliore la ricompensa. La
cooperazione è in questo caso, una situazione complicata da raggiungere poiché tutti i
cacciatori devono cooperare per raggiungere l'obiettivo, ma ogni attore coopera solo se
gli altri cooperano. Questa incertezza è la difficoltà della cooperazione, ma in questo
caso la ricompensa, dovrebbe essere un motivo sufficiente per garantire la
cooperazione. È quindi la ricompensa, il tornaconto, il fattore che secondo la teoria dei
giochi alimenta le possibilità di cooperazione tra due attori.
Bisogna ora chiedersi, partendo da questo presupposto, se è possibile modificare la
struttura della ricompensa per accrescere le probabilità di comportamenti cooperativi?
Kenneth Oye (1986) afferma che ciò è possibile e individua questa possibilità
nell'applicazione di diverse strategie di azione.
La strategia unilaterale di promozione della cooperazione prevede la limitazione del
guadagno di una sola delle parti; questa strategia è però particolarmente rischiosa poiché
espone al rischio di essere sfruttati da altri attori.
La seconda strategia, detta bilaterale, può essere utilizzata per modificare la struttura
della ricompensa basandosi sul meccanismo dell'issue linkage, cioè il fatto che
allargando la negoziazione a un numero maggiore di argomenti rende più semplice e
sicura la negoziazione.
Infine, l'ultima strategia individuata nel libro di Oye (1986) è la strategia multilaterale,
che identifica la creazione di regimi internazionali come il modo attraverso il quale si
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possono modificare la struttura della ricompensa del comportamento cooperativo; le
norme che vengono fatte proprie dagli stati e le informazioni generate dai regimi
possono modificare o cambiare gli interessi degli Stati e quindi l'appetibilità di una
ricompensa.
La cooperazione è quindi da intendersi come una modalità di risposta a problemi di
azione collettiva; ma, come abbiamo visto emergere da questa breve analisi delle
principali teorie delle relazioni internazionali che affrontano il tema della cooperazione,
la logica cooperativa è un obiettivo che trova molti ostacoli sul percorso che porta al suo
raggiungimento. D'altro canto è però abbastanza evidente che la società odierna,
soprattutto in seguito alla nascita dell'Unione Europea, dalla fine della Guerra Fredda e
alla sempre più stretta collaborazione a livello internazionale tra Stati, si è sempre più
orientata verso modalità di soluzione dei problemi di azione collettiva attraverso
processi cooperativi; la creazione di istituzioni e organizzazioni internazionali che
vanno a costruire una “struttura internazionale”, la quale pur non realizzando a un
governo internazionale formalizzato, regola le attività e le azioni degli attori della
società internazionale.
1.3.
I REGIMI INTERNAZIONALI: una forma di cooperazione
internazionale
Nell'arena politica internazionale l'armonia e la cooperazione sono situazioni
difficili da ottenere, pur essendo le modalità preferite per la soluzione dei problemi di
azione collettiva. Come spiega la teoria dei giochi, il rischio di free riding, e cioè che la
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controparte si comporti in modo da ottenere il massimo guadagno, uscendo quindi dalla
logica leale ed armoniosa della cooperazione, è comunque presente. Questi sentimenti
di insicurezza e incertezza contrastano con la sempre più incalzante necessità di
governance in ambito internazionale e, nello specifico di quest’analisi, in ambito
ambientale. La domanda di governance deriva dalla sempre maggiore interdipendenza
che esiste tra gli attori della scena internazionale; se le azioni di uno Stato non
implicassero conseguenze su altri Stati, non ci sarebbe alcun bisogno di una governance
per regolare queste relazioni. Non solo il livello di interdipendenza tra gli attori delle
relazioni internazionali sta crescendo sempre più velocemente, ma è significativamente
aumentato anche il livello di interdipendenza che esiste tra diversi ambiti delle relazioni
tra attori sulla scena internazionale.
L'ambiente, inteso sia come ambiente naturale sia come spazio vitale per le attività degli
esseri umani, è oggi uno dei settori che soffre allo stesso tempo di due tendenze
opposte: la richiesta di una governance internazionale che lo tuteli e lo preservi in
un'ottica orientata allo sviluppo sostenibile e la difficoltà degli Stati di dare una forma a
questo tipo di governance.
Una delle risposte più comuni alla necessità della costruzione di un sistema cooperativo
con l'obiettivo di risolvere problemi di azione collettiva, come quello della tutela
ambientale, è la creazione di sistemi di governance, chiamati anche regimi
internazionali, che sono diventati oggetto di studio sia tra policy-maker sia nell'ambito
accademico negli ultimi vent'anni del XX secolo.
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1.3.1.
Definizione di Regime Internazionale
In un primo significato generico la parola “regime” è intesa come il ritmo a cui
un certo comportamento o un fenomeno deve obbedire per raggiungere un determinato
scopo – si pensi qui al funzionamento “a regime” di un motore o ad un “regime
alimentare”. Una seconda accezione di questo termine è quella che viene utilizzata dalla
politica comparata: con il termine regime in questo senso si identifica il tipo di governo
che caratterizza uno stato – repubblica, monarchia, autarchia, dittatura.
In ambito storico si usa identificare con la parola regime una situazione di profonda
trasformazione non solo degli aspetti giuridici, politici e sociali di una società, ma anche
della concezione ideale che si ha di essi (Bonanate, 1989: 19).
È difficile stabilire quando questa accezione del termine sia entrata nel linguaggio della
politica internazionale, ma la prima traccia di questo concetto espresso “ufficialmente” è
da far risalire al secondo fascicolo della rivista International Organizations dell'anno
1982 che era dedicato interamente al tema dei Regimi Internazionali redatto da Stephen
Krasner. Lo stesso autore dà la prima, e universalmente riconosciuta come valida,
definizione di regime internazionale, che viene definito come “principi, norme, regole e
procedure decisionali, impliciti o espliciti, attorno ai quali le aspettative degli attori
convergono in una data area delle relazioni internazionali” (Bonanate, 1989: 45).
Secondo la definizione di Oran Young, i regimi internazionali sono istituzioni sociali
che governano le azioni degli attori coinvolti in uno o più determinate attività (Young,
1989: 12). Come ogni istituzione sociale anche nella concezione di Young i regimi sono
caratterizzati da una serie di regole, diritti e pratiche condivise.
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Prima di addentrarsi nella comprensione di come siano effettivamente composti i regimi
internazionali, è importante sottolineare che i regimi internazionali possono essere più o
meno formalizzati e possono o meno essere accompagnati da organizzazioni
internazionali.
È opportuno quindi distinguere tra i due concetti di istituzioni e organizzazioni. Le
istituzioni sono definite come “social practices consisting in easily recogized roles
coupled with clusters of rules or convention governing relations among the occupants of
these roles” (Young, 1989: 32). Le organizzazioni vengono invece definite dallo stesso
autore come “material entities possessing physical locations, offices, personnel,
equipment and budgets”. La differenza tra questi due concetti è quindi il livello di
formalizzazione. Le istituzioni sono concetti astratti basati su regole e norme definite
come possono essere ad esempio il mercato o un sistema elettorale; d'altro canto le
organizzazioni generalmente possiedono personalità giuridica. Generalmente ci si
riferisce a uffici, commissioni, agenzie come organizzazione, come ad esempio l'ONU o
Amnesty International.
Tutti i regimi possono essere considerati istituzioni, poiché nella loro definizione è
contenuto chiaramente il fatto che si basano su regole, norme e pratiche condivise,
mentre solo alcuni regimi internazionali, quelli in cui al sistema istituzionale si affianca
un sistema organizzato di agenzie e commissioni deputate alla gestione del regime
stesso, possono essere considerati anche organizzazioni internazionali.
Abbiamo quindi capito che il nucleo centrale di qualsiasi regime internazionale è
appunto un insieme di regole e diritti; ma cosa si intende con precisione con questi due
termini?
18
Oran Young nel suo libro International Cooperation da una definizione dei due termini.
Un diritto è tutto ciò di cui un attore – che può essere uno stato o meno – è autorizzato
poiché detentore di un certo ruolo. Il possesso di un diritto però non assicura la garanzia
che l'attore beneficiario di quel particolare diritto ne possa godere; sebbene la società
contemporanea sia basata per la maggior parte sul rispetto di diritti, essi vengono
frequentemente violati nella società odierna. Nel campo dei regimi internazionali sono
molti i diritti che vengono regolati; generalmente si tratta di diritti personali e positivi.
Con il concetto di regole, o norme, si intendono tutte le linee guida o gli standard entro i
quali i membri del regime possono e devono agire. Le regole, per essere considerate tali,
devono essere composte da un'indicazione dei soggetti alla regola stessa, degli obblighi
di comportamento, e l'indicazione delle circostanze nelle quali la regola è in vigore.
Oltre a questa definizione generale del concetto di regola, Young nel suo libro identifica
tre diverse categorie di regole.
La prima categoria è detta delle use rules (regole di utilizzo), norme che regolano lo
svolgimento di certe attività e in particolare l'utilizzo di alcuni spazi, come ad esempio
l'aria o l'acqua; generalmente questo tipo di regole limitano la libertà di azione degli
attori coinvolti. La seconda categoria è formata dalle liability rules (regole di
responsabilità), quelle regole che identificano il grado di responsabilità in caso di danni
causati agli altri membri del regime. Infine, l'ultima categoria di regole, è quella delle
procedural rules (regole procedurali) che riguardano la soluzione delle dispute o
l’ordinamento delle organizzazioni nate per la gestione del regime internazionale stesso.
Un regime internazionale quindi non è identificabile con un'organizzazione
internazionale, poiché come abbiamo visto, sono due concetti ben distinti. Un regime e
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un'organizzazione possono esistere l'uno indipendentemente dall'altro. Un regime può
essere in parte formalizzato e quindi può dare luogo ad un'organizzazione
internazionale, ma questo passaggio non è né automatico né strettamente necessario alla
realizzazione del regime.
Inoltre un regime internazionale non è da confondere con un qualsiasi accordo ad hoc.
Nel caso di un semplice accordo ad hoc l'accordo viene a mancare dello scopo di creare
una forma di cooperazione che porti al superamento della logica non cooperativa
spiegata dal gioco del “dilemma del prigioniero”, che è fondamentale per parlare di un
regime internazionale (Bonanate, 1989: 52).
Non ostante la difficoltà di definire il concetto di regime internazionale, usciamo da
questa analisi con alcune certezze per quello che riguarda i regimi internazionali: la
dimensione normativa e di principi è determinante per la creazione di un regime; i
regimi, che sono istituzioni internazionali, possono o meno essere accompagnati da
Organizzazioni Internazionali.
Partendo da questi punti possiamo ora analizzare i diversi approcci teorici che gli
studiosi hanno applicato ai regimi internazionale e in seguito analizzare il processo di
creazione di un regime internazionale.
1.3.2.
Le teorie “classiche” dei regimi internazionali
Sebbene lo studio dei regimi internazionali sia diventata materia di studio
solamente negli ultimi decenni, sono già diversi i contributi teorici che riguardano il
tema dei regimi internazionali come forma di cooperazione nell'ambito delle relazioni
internazionali.
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Le scuole di pensiero che sono riconducibili allo studio di questo fenomeno sono tre: la
scuola realista, quella neo-liberale, e quella cognitivista. Queste tre diverse scuole di
pensiero differiscono in maniera sostanziale l'una dall'altra in base al punto di vista che
utilizzano nello studio dei regimi internazionali.
La teoria neo-liberale dei regimi internazionali è detta interest-based, basata cioè sugli
interessi degli attori nel cooperare per la creazione di un regime. Questa scuola di
pensiero è sicuramente la più elaborata per quello che riguarda l'analisi dei regimi
internazionali. Non mi addentrerò nella analisi del neo-liberalismo ma riassumendo in
breve i contenuti e le correnti che vengono fatte confluire in questo approccio teorico, si
può affermare che le componenti fondamentali per la formazione di un regime
internazionale secondo questo approccio sono: la possibilità di raggiungere n guadagno
comune tra gli Stati, la necessità della reiterazione degli incontri tra gli attori (in questo
caso il regime internazionale ha il compito di facilitatore della cooperazione) e
l'importanza delle issue areas per la creazione del regime internazionale.
Se da un lato i neo-liberali basano la nascita dei regimi internazionali sulla convergenza
di interessi degli attori attraverso lo strumento della cooperazione internazionale,
dall'altro i teorici realisti vedono la cooperazione internazionale come una situazione
che si realizza solamente come conseguenza della distribuzione del potere tra gli attori.
Il potere viene considerato da questi studiosi come elemento fondamentale per la
realizzazione di un regime internazionale.
Un esempio chiave di questo approccio che riguarda la teoria dei regimi è la teoria
chiamata “della stabilità egemonica”. Questo paradigma enfatizza il fatto che il regime
internazionale venga creato solamente quando esiste un attore che possiede una tale
21
quantità di potere in quella determinata issue area che riesce attraverso questa
superiorità a realizzare un regime internazionale, anche nel caso in cui altri attori si
comportino come free-riders.
Lo Stato è visto dai realisti come un massimizzatore della sua utilità, ma soprattutto del
suo guadagno relativo sugli altri membri.
L'approccio cognitivista infine, rigetta quasi completamente le tesi dei due approcci
relativisti, sia quello neo-liberale sia quello realista. L'idea fondamentale che sta alla
base di questo ultimo approccio è che le azioni degli Stati non sono mosse dall'interesse,
ma bensì dal ruolo degli attori nella società; in questo caso dal ruolo degli Stati nel
sistema internazionale.
Come spesso accade però questi approcci teorici fanno riferimento ad un livello idealtipico che poco ha a che vedere con la realtà. I tre elementi che caratterizzano la
creazione di un regime internazionale, l'interesse per i neo-liberali, il mantenimento del
potere per i realisti e il socializzazione degli attori per i cognitivisti, nella realtà si
intersecano, interagendo significativamente nella nascita di un regime internazionale.
1.3.3.
La “contrattazione istituzionalizzata” di Oran Young
Il realismo si basa sull'esistenza di un potere egemonico che è responsabile della
presenza e della durata di un regime internazionale. Secondo Young questa è in realtà
una condizione estrema rispetto alla realtà della politica internazionale; questo non
negando le esistenti asimmetrie nel sistema internazionale ma evidenziando alcune
difficoltà della risuscita di un’egemonia effettiva, come il problema della gestione del
potere e della sua trasformazione in un esito collettivo (Young, 1989b: 354).
22
D'altro canto Young sostiene che anche la visione neo-liberale che depone la sua fiducia
per la riuscita della cooperazione nell'abilità degli attori di massimizzare la propria
utilità per un obiettivo comune è infondata (Young, 1989b: 356).
Una volta mosse queste critiche alle teorie classiche dei regimi internazionali, Young
propone un approccio teorico alternativo; questo nuovo paradigma viene chiamato
dall'autore “contrattazione istituzionalizzata”.
Secondo Young la contrattazione istituzionalizzata si basa sulla regola dell'unanimità; è
cioè necessario per la creazione di un regime internazionale che l'accordo di base possa
essere condiviso da tutti gli attori coinvolti, in contrasto con altri approcci che
prevedono che sia sufficiente l'accordo della maggioranza o di una potenza egemone.
Inoltre non è possibile secondo Young ridurre la spiegazione della negoziazione di un
regime internazionale ad una relazione tra due attori poiché un regime internazionale
può avere origine sia da un numero limitato di Stati, sia, in casi estremi, dalla quasi
totalità degli attori statali.
Young sostiene che la costituzione di un regime internazionale, secondo il modello della
contrattazione istituzionalizzata, è favorita dalla condizione di incertezza che vige nella
sfera delle relazioni internazionali. La situazione di incertezza, dovuta spesso alla
grande diversità dei contesti a cui si applicano questo tipo di accordi e alla loro
estensione temporale, favorisce l'accettazione delle regole condivise stabilite dal regime
internazionale.
Un ulteriore elemento che nella visione di Young è importante sottolineare, è
l'inclusione nel processo di negoziazione di gruppi di interesse transnazionali, ONG e
altre associazioni della società civile, che supportano e fanno pressione per la creazione
23
di determinati regimi internazionali.
Young individua sei condizioni alle quali è necessario sottostare affinché la
contrattazione istituzionalizzata abbia come esito la creazione di un regime
internazionale efficace: le issue areas in gioco si devono prestare ad essere contrattate;
l'accordo raggiunto deve essere accettato come equo da tutti gli attori; l'esistenza di
soluzioni rilevanti; l'esistenza di efficaci e ben definiti meccanismi di conformità; shock
e crisi esogene favoriscono lo sforzo negoziale; l'emergere di una leadership (qui intesa
non nell'accezione realista di egemonia ma come entrepreneurship, la creatività
dell'invenzione del regime internazionale) (Young, 1989b: 366).
Se è vero che le teorizzazioni servono per comprendere meglio cosa avviene poi nella
pratica, non troveremo mai, nella realtà dei regimi internazionali, l'applicazione “pura”
di una di queste teorie, ma gli elementi che caratterizzano gli approcci classici, interessi,
potere e conoscenza sociale, assieme al concetto di contrattazione istituzionalizzata,
interagiscono in modo significativo nel processo di creazione di un regime
internazionale.
1.3.4.
Come si formano i regimi internazionali?
Se nell'analisi di questo fenomeno diffuso nell'ambito delle relazioni
internazionali ci si fermasse allo studio delle teorie si potrebbe pensare che i regimi
internazionali si formino quando sono presenti tra gli attori le condizioni ideali perché i
loro rapporti si trasformino in un regime internazionale.
Ora, se però i regimi nella realtà vengono istituiti, se esiste quindi una offerta di regimi
internazionali, applicando una logica prettamente economica alcuni autori come Oran
24
Young (Young, 1989a: 81) e Anna Caffarena (Caffarena , 1989: 71) si sono spinti ad
affermare che esiste una domanda di questo metodo di cooperazione. La domanda di
regimi internazionali è determinata, seguendo sempre una logica vicina all'economia,
dal rapporto tra i costi della loro istituzione e i benefici che i membri ne traggono poi.
Applicando questa logica alla formazione di un regime internazionale appare evidente
come i costi siano abbastanza elevati, ma che lo siano anche i benefici che i membri
hanno dall'istituzione di un regime, in termini di accesso alle informazioni di altri
membri e di gestione dell'issue area.
L'istituzione di un regime non ha luogo in un momento preciso, sebbene si possa parlare
della data della firma di una certa convenzione o dell'entrata in vigore di un regime
internazionale, la nascita di un regime internazionale va intesa come un processo che
dura nel tempo; le modalità nelle quali avviene questo processo sono fondamentali
poiché vanno ad influenzare l'efficacia del regime in futuro (Caffarena, 1989: 74). Per
dirla con lo studioso Oran Young non si può parlare di “scoperta” di un regime
internazionale perché essendo essi “artefatti umani” (Young, 1989a: 82), presuppongono
necessariamente un processo creativo o istitutivo.
Questo processo, che come abbiamo visto, avviene in risposta ad un problema di azione
collettiva, secondo Young può avvenire secondo tre modalità differenti.
La prima modalità attraverso la quale può avvenire la formazione di un regime
internazionale è quella di un accordo spontaneo detto anche self-generating; questo
concetto viene ripreso da Young dalla teoria economica e sociale dell'ordine spontaneo
proposta dal filosofo ed economista austriaco Friedrich von Hayek. Con questo
approccio non si intende l'estraneità dell'azione umana dall'istituzione del regime ma il
25
fatto che è la volontà, il desiderio artificiale che viene a mancare. La caratteristica dei
regimi spontanei è quella di non avere bisogno del consenso esplicito delle parti, il che
rende questo tipo di regimi particolarmente efficace e resistente. Lo stesso autore però,
sottolinea che il processo attraverso il quale i regimi spontanei nascono è ancora
abbastanza oscuro.
La seconda modalità che spiega come avviene in alcuni casi la formazione di un regime
internazionale è quella dei così detti accordi istituzionali negoziati. Questo tipo di
regimi sono caratterizzati dal necessario sforzo delle parti coinvolte, questa volta in
modo consapevole, di trovare un accordo sulle questioni principali. La negoziazione
può, secondo Young avvenire in due diversi modi: constitutional contracts o patti
legislativi.
Con il primo termine si individuano quei regimi per la cui istituzione tutte le parti che
potrebbero essere soggette al regime sono chiamate a partecipare al processo di
negoziazione; con il secondo termine si indicano i processi di negoziazione durante i
quali le parti che saranno poi sottoposte al regime internazionale vengono rappresentate
da altri attori e quindi non partecipano direttamente al processo di negoziazione.
La terza modalità attraverso la quale può avvenire la creazione di un regime
internazionale è quella degli accordi imposti. La differenza di questo processo rispetto
ai due illustrati in precedenza è sostanziale; questa modalità si basa sull'iniziativa di un
attore dominante in termini di potere sugli altri attori. Il regime quindi è creato da un
attore dominante alle decisioni del quale gli altri membri si conformano, senza che
questi membri subordinati debbano necessariamente esprimere un consenso esplicito
alle decisioni prese dall'attore egemone. Questo tipo di regime in ogni caso è da
26
considerare più come un'eccezione che come una regola nel panorama internazionale.
Queste tre diverse modalità sono considerate dallo stesso autore (Young, 1989a: 90)
come degli ideal-tipi che non saranno quasi mai riscontrabili nel mondo reale. Ad
esempio, spesso, un regime imposto, sarà poi codificato sotto forma di un trattato
internazionale, e con il passare del tempo saranno considerati come condivisi da tutti.
In ogni caso la tendenza nel sistema internazionale contemporaneo è quella di preferire
la tipologia negoziale per la costruzione di un regime internazionale, anche a causa della
molteplicità di attori che prendono parte al processo di costituzione del regime.
I negoziati che precedono la formazione di un regime internazionale, frequentemente
non sono di breve durata soprattutto quando il regime internazionale è formato da una
serie di accordi che hanno solitamente inizio con una convenzione quadro, alla quale in
seguito vanno ad aggiungersi una serie di protocolli specifici.
In ognuno di questi casi il processo di formazione di un regime secondo il modello della
negoziazione segue una struttura abbastanza predefinita: la formazione dell'agenda, la
negoziazione, e la messa in atto del regime (Young 1998: 4).
La formazione dell'agenda individua quel processo attraverso il quale una determinata
issue area acquista importanza sulla scena politica internazionale. Questo processo
raramente avviene in modo spontaneo. Spesso le issue areas acquistano importanza in
seguito ad un interesse di alcuni attori a spingere quella determinata issue area in cima
alla lista delle priorità o in seguito ad eventi che ne mettono in risalto l'importanza. Una
volta che una determinata issue area ha acquisito un'importanza strategica nell'ambito
della politica internazionale, avviene il passaggio al gradino successivo verso
l'istituzione del regime internazionale: la fase di negoziazione.
27
In questa seconda fase avviene la contrattazione tra due o più attori il cui esito può
essere la creazione del regime internazionale. La fase di negoziazione è definita anche
come la fase creativa del processo cooperativo tra i diversi membri del regime
internazionale. Il modello di contrattazione istituzionale, figlio del pensiero di Oran
Young, e che applicato alla realtà è probabilmente il modello più realistico, prevede che
l'esito di questa fase sia la costruzione del consenso sul contenuto del regime tra la
maggior parte di attori e non tra una coalizione vincente di essi (Young, 1998: 13).
Se possiamo immaginare a questo punto che il nostro regime internazionale sia stato
elaborato, scritto e firmato da parte dei membri che hanno deciso di cooperare alla sua
creazione e di vincolarsi ad esso, non possiamo però considerare concluso il processo
che stiamo analizzando.
L'ultima fase individuata da Young, la messa in atto delle disposizioni contenute
nell'accordo tra i membri, è forse la fase determinante dell'intero processo di creazione
di un regime internazionale secondo il modello della negoziazione.
La messa in atto del regime internazionale avviene a due differenti livelli. Il primo è il
livello internazionale, che in pratica comprende l'istituzione degli organi che governano
e amministrano il regime stesso. Il grado dell'istituzionalizzazione di un regime non è
prestabilita, ma varia da regime a regime e può essere minima o massima.
La componente interna della messa in atto del regime fa riferimento invece alle
modalità attraverso le quali le parti contraenti dell'accordo traspongono le norme e i
principi contenuti in esso nelle proprie giurisdizioni e poi in pratica. La componente
interna della messa in atto di un regime passa in primo luogo per la ratifica dell'accordo
da parte dell'organo legislativo di quello stato (che solitamente è un trattato
28
internazionale).
Dopo l'analisi di come in linea teorica può formarsi un regime internazionale e di come
nello specifico nasce un regime negoziato, appare evidente come la creazione di un
regime non sia un processo lineare ma abbia molteplici sfumature.
Proprio per questo motivo e a causa delle caratteristiche delle società moderne quali la
flessibilità, l'esposizione a cambiamenti sociali, il ruolo degli attori non-governativi, la
molteplicità delle issue areas in costante mutamento, e l'interdipendenza tra esse, i
regimi internazionali non possono oggi essere considerati delle strutture statiche, ma
bensì sono spesso oggetto di trasformazioni causate da fattori sia endogeni (Bonanate,
1989: 96) che esogeni (Young, 1989a: 99)
1.3.5.
L'efficacia dei regimi internazionali
Dopo aver analizzato le ragioni per le quali si forma un regime e i motivi che
spingono il linea teorica i diversi attori, statali e non, a cooperare tra loro, per
completare l'analisi
è necessario chiedersi se i regimi internazionali siano
effettivamente efficaci per lo scopo per il quale vengono creati, e cioè la soluzione delle
problematiche che li originano.
Oran Young, nel suo grande lavoro di analisi di questa forma di cooperazione
internazionale, ha analizzato l'efficacia dei regimi internazionali studiando casi di
regimi internazionali ambientali.
Partendo dal presupposto teorico che sta alla base dell'idea di Young, e cioè che i regimi
internazionali attraverso regole, diritti e principi condivisi siano istituzioni che
modificano i comportamenti e le azioni dei membri che hanno aderito al regime
29
internazionale in questione, Young considera un regime internazionale come efficace
quando “channels behavior in such a way as to eliminate or substantially ameliorate the
problem that led to its creation” 1 (Young-Levy, 1999: 1).
Non è possibile però considerare il concetto di efficacia come un qualcosa di stabile e
chiaramente definibile; i regimi sono classificabili in un continuum che va dai regimi
chiaramente inefficaci, fino a regimi molto efficaci, regimi che riescono a produrre delle
soluzioni definitive ai problemi che hanno originato il regime internazionale.
Ma come è possibile spiegare le differenze che esistono nell'ambito dell'efficacia dei
regimi internazionali? Come è possibile che un'istituzione “regolatrice” come un regime
internazionale influisca in modo così differente sui comportamenti da un caso all'altro?
Innanzi tutto bisogna definire cosa si intenda con efficacia di un regime internazionale;
concetto per il quale Oran Young individua cinque diverse tipologie di definizioni.
La prima è riferita allo scopo principale di un regime internazionale: il problem-solving.
La prima definizione di efficacia che si può dare di un regime internazionale è quindi
legata alla capacità del regime internazionale di eliminare o alleviare il problema che lo
ha originato. La difficoltà di stabilire se un regime è efficace su questo piano è
determinata dal fatto che spesso i problemi dai quali il regime ha origine vengono
affrontati anche attraverso altre tipologie di soluzioni, che non fanno riferimento al
regime internazionale istituito in per quella issue area; questo comporta una difficoltà
ulteriore nello stabilire se il regime ha influenzato o meno la soluzione dei problemi.
Una seconda tipologia di definizione del concetto di efficacia è quella legale, con la
quale Young identifica il grado al quale gli obblighi e i principi stabiliti dal regime
1
30
“modifica i comportamenti a tal punto da eliminare o migliorare il problema che lo aveva originato”
(Traduzione non ufficiale)
stesso vengono rispettati. La definizione dell'efficacia di un regime internazionale in
termini legali se da un lato è chiaramente identificabile, dall'altro non assicura che
all'efficacia di un regime corrisponda una reale soluzione dei problemi che hanno fatto
sì che il regime fosse istituito.
La terza tipologia che viene identificata da Young è quella che fa riferimento ai concetti
tipici delle teorie economiche. In questo caso l'efficacia del regime è dettata dal “costo”
che il regime ha; accordi meno costosi, secondo questa definizione, sono da considerare
più efficaci. Anche in questo caso, come nella definizione riferita al problem-solving, è
difficile riuscire a definire i costi effettivi che la creazione del regime ha generato.
La quarta tipologia di definizione di un regime internazionale fa riferimento al rispetto
dei principi normativi che vengono stabiliti con la creazione del regime come ad
esempio l'amministrazione e la partecipazione al regime da parte dei membri.
La quinta ed ultima definizione individuata da Young fa riferimento all'aspetto politico
dei regimi internazionali. In questo senso l'efficacia di un regime è dimostrata dalla sua
capacità di modificare “the interest of actors or the policies and performance of
institutions” (Young-Levy, 1999: 5) in modi che portino poi alla soluzione dei problemi
che hanno causato la creazione del regime internazionale.
Un regime “politicamente efficace” però, non assicura che l'efficacia sia riscontrabile
allo stesso modo analizzando lo stesso regime attraverso un'altra tipologia di
definizione.
Una volta individuate le diverse sfaccettature della definizione di efficacia di un regime
internazionale, è utile per la comprensione dell'argomento spostare l'attenzione verso le
diverse dimensioni che gli effetti di un regime possono acquisire.
31
Gli effetti possono in primo luogo essere di tipo esterno o interno. Possiamo definire
come effetto interno di un regime quei cambiamenti nei comportamenti degli attori che
sono coinvolti direttamente nella creazione del problema originario. Un effetto esterno
di un regime internazionale si ha quando il regime ha delle conseguenze al di fuori dei
membri per i quali il regime è stato creato. Ma non sempre questi effetti sono solo
positivi, ad esempio prendendo in considerazione il caso del regime LRTAP
(Convention on Long-range Transboundary Air Pollution) alcuni policy-maker e
manager russi hanno preferito spostare alcuni tipi di produzioni al di fuori dell'area
coperta dalla giurisdizione del regime internazionale piuttosto che utilizzare tecnologie
meno inquinanti.
In secondo luogo gli effetti possono essere diretti o indiretti. Questo significa che alcuni
effetti sono più strettamente collegati con il cambiamento di abitudini dei membri del
regime (effetti diretti), e altri sono causati solo in modo indiretto dal regime. Per
individuare questa distinzione è necessario osservare quali cambiamenti nei
comportamenti degli attori siano direttamente collegati con l'efficacia del regime. Nel
caso di un regime che tutela la qualità dell'acqua di un fiume, gli effetti indiretti del
regime sono effetti che non riducono il livello di inquinamento del fiume ma che
influenzano altre azioni che a loro volta influenzeranno la qualità dell'acqua di quel
fiume. Infine gli effetti dei regimi internazionali possono essere buoni o cattivi, possono
cioè aiutare la soluzione dei problemi o addirittura peggiorare i problemi che si
volevano risolvere.
La difficoltà più grande risulta quindi quella di riuscire a misurare gli effetti dei regimi
internazionali, data anche l'impossibilità di riprodurre queste situazioni in esperimenti
32
che li riproducono.
Nel primo capitolo del suo libro Environmental Regime Effectiveness, Arild Underdal
afferma che la misurazione vera e propria dell'efficacia di un regime internazionale è
una delle possibilità di valutazione, ma anche in questo caso oltre alla difficoltà di dover
trasformare degli eventi in numeri, si aggiunge anche la difficoltà di avere a che fare
con dei cambiamenti di comportamenti che avvengono in tempi spesso estesi.
Inoltre l'efficacia dei regimi internazionali, sopratutto di quelli ambientali varia da
regione a regione, in base alle politiche che vengono messe in atto in quella particolare
area geografica. L'influenza quindi sia della issue area sia della società che deve
rispondere alla richiesta di modificare i propri comportamenti per allinearsi con le
disposizioni dell'accordo che istituisce il regime internazionale è determinante anche per
stabilire l'efficacia del regime stesso.
1.3.6.
I regimi internazionali ambientali: un modello di governance
globale
L'ambiente, intenso come ambiente fisico, geografico, è sempre stato una delle
questioni che hanno maggiormente caratterizzato le relazioni internazionali. Ben prima
dell'epoca contemporanea possiamo ritrovare alcuni trattati internazionali all'interno dei
quali si incontrano le prime rudimentali forme di protezione dell'ambiente, come il
Jay'sTreaty, del 1794 concluso tra impero britannico e i neo-nati Stati Uniti d'America,
nel quale possiamo trovare una delle prime forme di protezione delle acque. Per
individuare i primi regimi internazionali ambientali, consapevolmente istituiti come tali,
bisogna risalire ai decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
33
Non ostante questi primi slanci verso una gestione internazionale delle questioni
ambientali è solamente in un'epoca relativamente recente che la questione ambientale
entra a far parte del panorama delle relazioni internazionali.
È quindi negli anni novanta del secolo scorso che si assiste ad uno spostamento delle
decisioni prese per la gestione dell'ambiente da un approccio frammentato, legato alle
normative presenti nei singoli Stato, verso un sempre più frequente uso di strumenti
volontari e collaborativi (Busch et al. 2005: 146).
In questo periodo si assiste quindi alla diffusione di una serie di innovazioni che
riguardano le politiche internazionali riferite all'ambiente anche sulla scia della
Conferenza di Rio, in conseguenza della quale attraverso l'Agenda 21, la questione
ambientale acquista una vera e propria dimensione internazionale.
I fattori che portano all'attuale proliferazione dei regimi ambientali internazionali, come
descrive Sicurelli nel suo libro Divisi dall'Ambiente (2007), sono legati sia alle
caratteristiche intrinseche alla questione ambientale stessa, sia all'incremento della
“consapevolezza internazionale”rispetto a queste tematiche, che si manifesta attraverso
la creazione di organizzazioni internazionali e la nascita dei movimenti e associazioni
ambientaliste internazionali.
In primo luogo vi è il fatto che i danni prodotti dal degrado ambientale non sono
circoscrivibili all'interno del territorio di uno Stato, gli interventi di un singolo governo
tendono a risultare irrilevanti per la soluzione di questi problemi.
In secondo luogo, essendo la questione dell'impatto ambientale molto legata alle
performance economiche degli Stati, delle norme in favore di una maggiore sostenibilità
ambientale, in alcune volte penalizzanti per il sistema economico, avrebbero potuto
34
essere instaurate solamente se la loro decisione fosse avvenuta in modo volontario,
cooperativo e con il più largo consenso, in modo da evitare il rischio di comportamenti
di free riding.
Infine la fine della Guerra Fredda e il conseguente cambiamento delle relazioni
internazionali, ha comportato uno spostamento delle attenzioni della comunità
internazionale dai temi della sicurezza e degli armamenti, verso tematiche
“smilitarizzate” come quella ambientale. Con il crollo del sistema bipolare, negli anni
novanta dello scorso secolo, si è assistito ad un orientamento della cooperazione
internazionale verso la creazione di regimi internazionali con l'obiettivo di perseguire
obiettivi comuni.
Non ostante lo slancio iniziale e la proliferazione dei trattati internazionali che hanno
come oggetto la protezione dell'ambiente, ad oggi sono oltre 500, l'ambiente rimane una
delle questioni più discusse, e forse meno sanate, a livello internazionale.
I regimi ambientali sono spesso in posizioni subordinate ad altri regimi che riguardano
tematiche ritenute più importanti dagli Stati, come ad esempio i regimi commerciali;
non esiste un'istituzione che guidi dall'interno il processo che porta ad una governance
globale dell'ambiente; tra i paesi industrializzati è evidente la mancanza di volontà
politica per quello che riguarda la questione ambientale, spesso i trattati non vengono
ratificati o, nel caso questo avvenga, non vengono implementati.
1.4.
CONCLUSIONE
I regimi internazionali sono stati a partire dalla fine della seconda Guerra
35
Mondiale uno tra i sistemi di governance che meglio ha interpretato l'idea della
cooperazione internazionale. Gli Stati hanno creato regimi internazionali in moltissimi
ambiti delle loro relazioni, la sicurezza (trattati START, SALT, regime di non
proliferazione nucleare), l'economia (GATT, WTO, e tutti gli accordi commerciali) e
anche l'ambiente e le risorse naturali (LRTAP, CITES, Barcelona Convention). In tutti
questi ambiti la domanda di governance internazionale è da sempre molto elevata, sia a
causa delle sempre maggiori interconnessioni tra gli attori, statali e non, ma anche a
causa dell'importanza nell'ambito delle relazioni internazionali di queste issue areas.
Come ho descritto in questo capitolo una delle risposte che gli Stati ed altri attori hanno
saputo dare alla continua e sempre maggiore richiesta di governance internazionale in
questi settori, è stata la creazione di numerosi regimi internazionali.
Sebbene, come abbiamo visto, definire il concetto di regime internazionale non sia una
questione semplice, non ostante le critiche che vennero mosse da Susan Strange alla
prima definizione di regime internazionale di Stephen Krasner, ancora oggi questo
sistema di governance viene utilizzato in molte occasioni nella scena politica
internazionale. Assistiamo oggi alla creazione di molti regimi ambientali poiché questa
forma di cooperazione internazionale, soprattutto nel caso in cui il regime sia esito di un
processo che viene descritto come negoziale da Young, può essere considerata la
migliore soluzione cooperativa nell'ambito delle relazioni tra attori statali.
Bisogna però sottolineare che non tutti i regimi internazionali hanno avuto successo
nella soluzione dei problemi che avevano portato alla loro creazione. I fattori che
possono minare l'efficacia di un regime internazionale sono molti, e non sempre fanno
riferimento al contenuto o agli attori del regime internazionale stesso, ma possono
36
essere fattori che vengono a crearsi anche in seguito all'istituzione del regime o proprio
in conseguenza della sua nascita (effetti collaterali).
Oggi forse il sistema di governance offerto dai regimi internazionali non è più
sufficiente a garantire la risposta alla onnipresente domanda di un “governo
internazionale”. Oggi gli attori statali rappresentano solamente una parte limitata del
panorama degli attori delle relazioni internazionali; sulla scena internazionale sono
apparsi nuovi attori come quelli della società civile o del settore privato, come ad
esempio le grandi compagnie multinazionali.
Pur non potendo considerare come “obsoleti” i regimi internazionali l'analisi della loro
struttura è da intersecare con altri e più nuovi sistemi di governance.
37
2. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE
“Molti obiettivi non possono essere conseguiti con
un'azione individuale: la loro realizzazione ci
impone un'azione collettiva. L'Unione europea, gli
Stati membri e le loro regioni e comuni si dividono i
compiti.”
(Dichiarazione di Berlino)
2.1.
INTRODUZIONE
L'ambiente non è solamente un tema centrale per le relazioni internazionali, ma
sempre più frequentemente anche in ambito locale temi come ad esempio il
cambiamento climatico, la tutela della biodiversità, la gestione degli ecosistemi, lo
sviluppo sostenibile o la gestione degli spazi urbani sono al centro del dibattito tra i
diversi attori.
Molti di questi temi non hanno dei confini definiti, e quando li hanno, raramente sono
perfettamente aderenti ai confini nazionali. Se pensiamo al nostro caso studio ad
esempio, la Convenzione delle Alpi definisce chiaramente cosa si intende per territorio
alpino, ma questo territorio non appartiene solamente ad uno Stato, ma bensì a otto
diversi Stati, i quali esercitano ognuno la propria sovranità sulla porzione di territorio
che è contenuta nei propri confini nazionali.
È evidente quindi come il tema delle politiche ambientali, intese come tutte quelle
politiche pubbliche che riguardano i diversi argomenti legati alla tutela dell'ambiente e
allo sviluppo sostenibile delle società, non possano essere costrette entro i confini
nazionali.
38
Lo studio di questo tipo di policies deve essere di conseguenza necessariamente
orientato verso un'analisi di ciò che avviene nell'area interessata da una particolare
issue, e che alla presenza di issue areas che oltrepassano i confini nazionali, come nel
caso della Convenzione delle Alpi, la questione venga affrontata utilizzando degli
approcci che tengano conto di questa caratteristica.
Addentrandoci verso il cuore di questo capitolo bisogna sottolineare, in riferimento alla
questione ambientale, che come si legge e si sente spesso, lo Stato non è più l'attore
egemonico anche in materia di politiche ambientali. Non si tratta però di una scomparsa
dello Stato come attore della politica internazionale (o locale), ma un’erosione di quello
che era stato fino alla metà del XX secolo il ruolo di questo attore sulla scena politica
internazionale (Eckerberg, 2004: 406).
Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un cambiamento significativo sulla scena
della politica nazionale e internazionale, si parla sempre meno di governo, inteso come
“un passato in cui le istituzioni governative – i ministeri e le loro burocrazie – sarebbero
stati in grado sia di decidere che di attuare le decisioni di policy” (Piattoni, 2005: 421)
ed è stato introdotto il termine governance, intesa come la condizione presente nella
quale le istituzioni governative non sono più gli unici attori decisionali ed esecutivi
delle politiche pubbliche.
Al termine governance Oran Young associa la seguente definizione: “a social function
centered on efforts to steer or guide societies toward collectively beneficial outcomes”
(Young, 2009: 12). Lo scopo di questa funzione sociale è quindi, secondo questo autore,
il mantenimento dell'ordine sociale, non secondo una logica autoritaria ma al contrario
promuovendo norme condivise e cooperazione.
39
Cercherò in questo capitolo di spiegare in che modo la teoria della governance
multilivello può essere utile per spiegare le politiche ambientali e come questo concetto
può essere ampliato, verso l'idea di multi-partner governance di Oran Young,
utilizzando anche il concetto di ecoregione proposto dall’ONG WWF, cercando di
analizzare il ruolo di attori locali e transnazionali nel processo di governance
ambientale.
2.2.
LA
GOVERNANCE
MULTILIVELLO
E
LA
QUESTIONE
AMBIENTALE
Il termine governance multilivello (GML) è un'espressione relativamente
recente, coniata da Gary Marks nel 1992. Non ostante la relativa novità di questo
termine, oggi quella della governance multilivello è una questione piuttosto popolare sia
tra gli studiosi delle politiche europee sia tra gli esperti di relazioni internazionali.
I primi studi nei quali venne identificata la GML come teoria per analizzare e
comprendere i processi decisionali vennero svolti in seguito all'approfondimento del
processo di integrazione europea avvenuto alla fine degli anni '80 del secolo scorso, in
seguito alla firma dell'Atto Unico Europeo (1987).
La prima definizione di GML fu di Marks, il quale considerava questo sistema di
governance come “a system of continuous negotiation among nested governments at
several territorial tiers” (Bache & Flinders, 2004: 3).
All'interno di questa definizione bisogna porre l’accento sull'importanza che l'autore dà
alla negoziazione e alla frequenza delle relazioni tra i governi e i territori coinvolti in
40
questo processo.
Già diversi autori hanno definito questa tipologia di governance come una modalità
innovativa nell'ambito dello studio delle politiche pubbliche sia europee sia
internazionali. A questo proposito bisogna ricordare che fino ai primi anni '90, il campo
delle relazioni internazionali e anche degli studi sull'Unione Europea erano stati
dominati dalle teorie classiche come neo-funzionalismo, realismo, inter-governativismo.
Il punto di svolta, secondo Marks, che ha dato il via all'approccio della GML è stato
l'esistenza di competenze che si sovrappongono tra diversi livelli di governo; gli attori
quindi secondo questo approccio partecipano a diverse reti di policy e gli stessi attori
appartengono a diversi livelli ( si parla infatti non solo di multi-level ma anche di multi
actor governance). Sono questi quindi i fattori, apparsi sulla scena internazionale con
l'esperienza dell'Unione Europea verso la fine del XX secolo, che stimolano la necessità
di mettere in atto un sistema di decisione e implementazione delle politiche diverse da
quello espresso dalle teorie classiche che vedevano lo Stato come unico e centrale
attore.
Analizzando i due termini con i quali viene chiamata questa tipologia di governance, è
necessario sottolineare inoltre che il concetto di GML è caratterizzato da una duplice
dimensione: una dimensione orizzontale e una verticale. L'aggettivo “multilivello” si
riferisce alle diverse politiche che sono attuate a differenti livelli territoriali, mentre il
termine governance evidenzia l'interdipendenza tra gli Stati e altri attori pubblici e
privati che sono entrati a fare parte a pieno titolo nel “governo” di molti ambiti delle
relazioni nazionali e internazionali.
Anche se solitamente il concetto di GML viene applicato all'Unione Europea come
41
metodo di descrizione dei processi decisionali che avvengono in seno alle istituzioni
dell'Unione nel loro complesso, la GML può essere applicata anche ad altri ambiti più
specifici, come quello ad esempio delle politiche ambientali, a patto che riguardi la
questione del “coordinamento fra entità formalmente sovrane ma funzionalmente interdipendenti” (Piattoni, 2005: 426).
Se pensiamo quindi alla GML ad una teoria del coordinamento fra entità indipendenti è
necessario distinguere tra due tipi di GML, che identificano due diverse tipologie di
organizzazione della governance.
La GML di Tipo I si caratterizza per la dispersione dell'autorità in un numero limitato di
giurisdizioni - intese sia come l'ambito di esercizio dell'autorità, sia come l'esercizio
materiale dell'autorità (Piattoni, 2005: 431) - o livelli, non sovrapposti. Questa tipologia
di GML oltre che ad essere caratterizzata per un numero limitato di livelli
giurisdizionali, si distingue per mantenere la stessa struttura sia che si tratti di piccoli
sistemi di governance sia che si faccia riferimento a sistemi più estesi, e per la stabilità
temporale della sua struttura.
Il Tipo I di GML esprime l'identificazione dei cittadini con una particolare comunità. A
questo proposito Gary Marks e Lisbet Hooghe parlano di “comunità intrinseca”, per
indicare dei sistemi di governance molto basati su delle identità forti come la nazione o
identità locali, la religione o l'etnia.
Questo tipo di GML è caratterizzato inoltre da delle barriere elevate per quello che
riguarda la possibilità degli attori di porsi al di fuori del sistema. Essendo l'identità a
caratterizzare l'apparenza a questo sistema di governance, una exit stategy
significherebbe modificare la propria identità.
42
Attraverso questa tipologia di GML è possibile ottenere delle scelte più ponderate anche
grazie alla possibilità data da questo sistema di raggruppare diverse questioni in un
numero limitato di livelli.
Si avvicinano a questa tipologia di governance quegli studiosi che ritengono che il ruolo
dello Stato non sia stato marginalizzato come attore di politiche pubbliche ma che ad
esso si siano affiancati altri attori.
La GML di Tipo II è invece caratterizzata da molte giurisdizioni che si sovrappongono a
molti livelli. Questo tipo di governance riflette l'immagine di una società centerless,
senza un centro egemonico, nella quale le competenze delle giurisdizioni si intersecano
e si sovrappongono continuamente (Piattoni, 2005: 431).
Questa seconda tipologia di GML è caratterizzata da dei livelli giurisdizionali distinti in
base alla funzione che svolgono; i cittadini in questo caso non hanno al loro servizio un
governo ma al contrario, è come se ottenessero i servizi da diverse società erogatrici,
ognuna specializzata in un unico settore.
Questo tipo di governance è quindi caratterizzato sia da una elevata flessibilità dei suoi
livelli e della struttura che essi formano, sia da una forte intersezione tra i diversi livelli
giurisdizionali; i confini che ogni livello giurisdizionale possiede sono frequentemente
valicati in questo secondo modello di GML.
Il Tipo II di GML è caratterizzato da una forte “mortalità” dei livelli giurisdizionali che
lo compongono, la durata nel tempo di questi livelli è funzionale al compito che viene
loro richiesto; vi è quindi una sostanziale differenza in questo ambito rispetto al Tipo I.
Infine il Tipo II di GML si basa su delle partnership pubblico/privato molto frequenti,
caratteristica che lo distingue dal primo tipo.
43
Se il primo tipo è quello a cui ci siamo maggiormente abituati studiando la storia dello
Stato-nazione, il secondo sorge più facilmente dove risultano necessarie forme di
governo ad hoc per questioni ben precise, che non sono governabili dalle istituzioni
proposte dal Tipo I di GML. Situazioni di questo tipo possono essere individuate nei
numerosi casi di regioni transfrontaliere, dove la cooperazione ad esempio nella
gestione di risorse comuni o di territori condivisi è complicata dalle diverse competenze
e risorse che le autorità locali dei diversi Stati hanno a disposizione.
Bisogna però rilevare che queste due tipologie di governance sono solamente dei tipi
ideali. Nella realtà le due tipologie spesso si sovrappongono dando luogo a quella che
viene definita come governance policentrica (Piattoni, 2005: 432).
La definizione che all'interno delle istituzioni europee viene data di governance
multilivello è contenuta all'interno del Libro Bianco del Comitato delle Regioni sulla
Governance Multilivello la GML viene definita come “un processo dinamico a carattere
nel contempo orizzontale e verticale, che non diluisce affatto la responsabilità politica,
ma, al contrario, […] favorisce l'appropriazione della decisione e dell'attuazione
comune” (Libro Bianco, 2009: 6). All'interno del Libro Bianco sono ripresi i cinque
principi che il Comitato delle Regioni reputa basilari per una buona governance che già
erano presenti nel Libro Bianco del 20012: apertura, partecipazione, responsabilità,
efficacia e coerenza. Inoltre in ambito europeo, la governance multilivello poggia sul
principio di sussidiarietà, concetto ripreso anche da Piattoni (2005: 438), che prevede
che le decisioni vengano prese al livello più appropriato di potere e che, una volta
individuato, avvengano solo a quel livello. Il Comitato delle Regioni, nel Libro Bianco
del 2009 sottolinea come gli attori locali e regionali siano veri e propri “attori della
2
44
La governance europea: un Libro bianco (COM(2001) 428 def.)
globalizzazione” (Libro Bianco, 2009: 12).
La definizione della GML che emerge da questo quadro può sembrare sfumata e
polisemica (Piattoni, 2005: 421). Quello che è certo però, è che oggi l'approccio della
governance multilivello è un approccio importante per la spiegazione non solo del
policy-making europeo, addosso al quale spesso la teoria della GML è stata vestita, ma
anche per la spiegazione del ruolo dei nuovi attori che sono emersi sulla scena delle
relazioni internazionali come gli attori transnazionali della società civile o le grandi
corporations. Inoltre la GML può essere un utile strumento analitico per affrontare
alcune grandi tematiche che al giorno d'oggi permeano tutti i livelli di governo della
società, da quello internazionale, fino alle realtà locali.
2.2.1.
La governance multilivello ambientale
L'ambiente è uno dei temi nei quali a livello globale gli Stati incontrano
maggiori difficoltà nel trovare delle soluzioni comuni ai problemi che si presentano
sempre più urgenti in questi anni, come ha in parte dimostrato il fallimento del vertice
mondiale di Copenhagen tenutosi nel dicembre del 2009. D'altra parte questi problemi
sono però difficilmente risolvibili senza la partecipazione di tutti gli Stati poiché molto
spesso come ho già ripetuto più volte il problemi legati all'ambiente valicano spesso i
confini nazionali e, anche all'interno dei confini nazionali, coinvolgono attori, pubblici e
privati, a differenti livelli.
La necessità di una governance ambientale sia a livello internazionale sia in ambito
europeo è una questione relativamente recente. Solamente verso la fine degli anni
sessanta del secolo scorso la comunità internazionale, e più nello specifico l'Unione
45
Europea, hanno cominciato ad acquisire una certa consapevolezza per quello che
riguarda i temi legati all'ambiente e alla sostenibilità ambientale.
La teoria della governance multilivello si applica quindi al soggetto della politica
ambientale proprio in conseguenza del fatto che questo tema non coinvolge come attori
solamente gli Stati, ma che al contrario chiama in causa una molteplicità di attori a
diversi livelli.
Sono molti gli strumenti normativi nei quali, a livello internazionale e comunitario negli
ultimi vent'anni, sono stati inseriti dei riferimenti al concetto di GML con riferimento
alla questione ambientale.
Partendo dal livello più elevato e cioè dal sistema internazionale possiamo individuare
l'applicazione del concetto della GML nei contenuti di quella che durante la Conferenza
di Rio sull'ambiente indetta dall'ONU nel 1992 fu chiamata Agenda 21; questa
definizione vedeva al suo interno l'elenco degli obiettivi da conseguire per raggiungere
la sostenibilità ambientale nel corso del ventunesimo secolo.
Se da un lato l'intera Agenda 21 è costellata di riferimenti alla necessità di mettere in
atto comportamenti orientati verso l'obiettivo della sostenibilità ambientale a tutti i
livelli, da quello internazionale a quello locale, è nel Capitolo 28, che possiamo
ritrovare il più chiaro dei riferimenti alla necessità, per quello che riguarda la
sostenibilità ambientale, di sviluppare azioni a livello locale.
Secondo il documento ufficiale dell'Agenda 21, al Capitolo 28 si legge che “Local
authorities construct, operate and maintain economic, social and environmental
infrastructure, oversee planning processes, establish local environmental policies and
regulations, and assist in implementing national and subnational environmental
46
policies”3.
Analizzando queste linee-guida, appare evidente come parallelamente all'evoluzione
della questione ambientale come problema globale, si sia sviluppata anche l'idea che le
autorità locali sono sempre più chiamate a rispondere a questo tipo di problematiche.
Nel testo dell'Agenda 21 si suggerisce che è fondamentale, per il raggiungimento di
risultati ottimali in ambito ambientale che conducano alla realizzazione di uno sviluppo
sostenibile, il coinvolgimento delle autorità locali, sia come attuatori delle politiche
ambientali elaborate a livello nazionale o internazionale, ma anche come creatori di
politiche ambientali locali che siano in grado di dare delle risposte efficaci ai problemi
di un determinato territorio.
É però a livello europeo che la GML si è sviluppata maggiormente come sistema di
governance, anche per quello che concerne la questione ambientale. All'interno del
panorama delle attività delle istituzioni europee in materia ambientale, gli Stati membri,
sono stati sì attori importanti per lo sviluppo della politica ambientale dell'Unione ma lo
sono stati altrettanto gli attori sub-nazionali, i gruppi di interesse, la società civile, gli
attori privati che proprio per la tipologia di governance che l'UE si è data hanno trovato
spazio sia durante il policy making che in seguito nella fase di implementazione delle
norme comunitarie.
La politica ambientale può essere considerata da alcuni autori che molto hanno scritto
su queste tematiche “a case par excellence of the dispersion of authoritative decisionmaking across multiple territorial levels” (Fairbrass & Jordan, 2004: 148); proprio per
3
“Le autorità locali costruiscono, operano e mantengono infrastrutture economiche, sociali e
ambientali, supervisionano processi di progettazione, stabiliscono le politiche locali ambientali e i
regolamenti, assistono inoltre l'implementazione di norme ambientali nazionali e sub-nazionali”
(Traduzione non ufficiale) tasto originale in lingua inglese, disponibile al sito:
http://www.un.org/esa/dsd/agenda21/res_agenda21_28.shtml
47
questo possiamo ritenere che sia un buon esempio di quali effetti abbia l'approccio della
GML sulla governance ambientale.
La politica ambientale europea ha visto la luce a metà degli anni settanta del secolo
scorso, con l'adozione di un Programma d'Azione sull'ambiente da parte degli allora
nove membri della CEE; nel corso degli anni sono diversi gli strumenti che all'interno
della sfera normativa dell'UE ha sedimentato il modello della GML. É quindi, quello
delle politiche ambientali, un ambito recente delle politiche europee, ma che si è
velocemente sviluppato, anche in seguito alle pressioni originate dai numerosi accordi
internazionali che hanno visto la luce tra gli anni settanta e giorni nostri.
Una prima questione da mettere in risalto è la caratteristica modalità attraverso la quale
le istituzioni dell'Unione Europea affrontano la tematica ambientale è appunto il lavoro
attraverso i così detti Programmi comunitari d'azione.
Il grande vantaggio di questo approccio è che permette a tutti gli attori coinvolti nel
processo di governance, dalla fase di decision-making a quella di implementazione, di
essere consapevoli e coinvolti nelle azioni prioritarie da intraprendere per raggiungere
gli obiettivi stabiliti (Krämer, 2006: 336).
All'interno dell'ultimo Programma comunitario di azione, approvato nel 2002 e ora in
vigore fino al 2012, il sesto nella storia della politica ambientale dell'Unione, troviamo
alcuni importanti riferimenti alla governance multilivello europea.
Uno di questi è la motivazione numero 14, nella quale Parlamento Europeo e Consiglio
affermano la necessità di “un approccio strategico integrato, che induca nuove modalità
di interazione con il mercato e coinvolga i cittadini, le imprese ed altri ambienti
interessati, per indurre i necessari cambiamenti dei modelli di produzione e di consumo
48
pubblico e privato” (Parlamento Europeo e Consiglio, 2002).
Inoltre nell'articolo 2 della Decisione, in cui vengono definiti Principi e Scopi Globali,
troviamo numerosi riferimenti alla necessità di cooperazione e dialogo tra i diversi attori
coinvolti nelle politiche ambientali sia a livello comunitario, sia nazionale che locale.
Un secondo strumento normativo dell'UE all'interno del quale è possibile riconoscere
l'approccio di GML è la Convenzione di Aarhus firmata nel 1998, che riguarda la
partecipazione di tutti gli attori coinvolti e l'informazione ai cittadini riguardo a
tematiche di tipo ambientale. La convenzione prevede che gli attori, che vengono
chiamati “autorità pubbliche” all'interno del testo della Convenzione (da intendersi
come le istituzioni comunitarie, nazionali e/o locali) favoriscano la partecipazione e
l'informazione dei cittadini riguardo alle questioni ambientali, ciascuna in riferimento
alla propria giurisdizione. La GML appare quindi come un modello analitico molto utile
per spiegare i comportamenti degli attori e le novità della governance che si riscontrano
nell'analisi delle politiche comunitarie. La GML oggi è esclusivamente identificata con
il contesto europeo, ma in futuro potrebbe essere estesa anche ad altre regioni del
pianeta, andando pian piano a sostituire, o per lo meno ad affiancare il modello
intergovernativo, che vede negli Stati-nazione i soli attori delle relazioni internazionali.
È stato possibile osservare, analizzando la natura della GML, come sul piano delle
politiche ambientali, questa tipologia di governance sia un modello che descrive molto
bene la tendenza che ha caratterizzato lo sviluppo delle politiche e delle norme riferite
alla questione ambientale, una tematica sempre più importante per quello che riguarda
le relazioni internazionale soprattutto negli ultimi quattro decenni, sia sul piano
internazionale che al livello comunitario.
49
2.3.
LA COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA IN MATERIA
AMBIENTALE
Abbiamo visto come la teoria della GML si applichi molto bene alle politiche e
al sistema di policy-making europeo. Questo approccio descritto nella prima parte del
capitolo trova una delle sue più chiare e importanti applicazioni nelle politiche di
cooperazione territoriale dell'UE.
All'interno del territorio europeo, assistiamo oggi a una moltitudine di forme di
cooperazione, oltre che tra gli Stati membri, tra diverse entità regionali o locali; è
pressoché impossibile trovare all'interno del territorio europeo delle autorità regionali o
locali che non siano coinvolte in qualche iniziativa di cooperazione territoriale.
Questo processo di regionalizzazione delle relazioni intra-europee e delle relazioni tra i
territori dell'UE e paesi terzi è conosciuto con il nome di politica di coesione.
Nata con l'Atto Unico Europeo nel 1987, caratteristica delle'Unione Europea, la politica
di coesione si basa sul fondamentale principio di sussidiarietà, secondo il quale l'Unione
Europea non ha delle competenze esclusive, ma la sua azione avviene sempre in
collaborazione con i più appropriati livelli giurisdizionali.
La politica di coesione nasce quindi per favorire lo sviluppo delle zone più deboli e più
bisognose e per fronteggiare i problemi di natura strutturale presenti in larga parte dei
territori dell’Unione. La cooperazione territoriale è oggi una delle forme più frequenti
nelle quali la politica di coesione si manifesta, sia a causa dei problemi strutturali dei
territori dell'Unione, sia in conseguenza del diverso impatto che a globalizzazione e gli
eventi internazionali hanno sui territori dell'Unione che oggi, in seguito agli ultimi
50
allargamenti compre un vasto spazio da Est a Ovest nel continente europeo.
È necessario specificare che esistono tre diverse tipologie di cooperazione territoriale.
La prima è detta cross-border cooperation, ha l'obiettivo di favorire la cooperazione
esclusivamente a livello locale, tra regioni (NUTS III, secondo la classificazione delle
zone geografiche europee4) adiacenti ma appartenenti a stati differenti. I campi di azione
prioritari per questo tipo di cooperazione sono diversi e spaziano dalla cooperazione in
materia di sviluppo urbano e rurale, la cooperazione in ambito di trasporti e
comunicazioni, la cooperazione in ambito culturale, sanitario e educativo, fino alla
cooperazione in ambito ambientale.
Il secondo tipo di cooperazione territoriale e la cooperazione transfrontaliera, termine
con il quale si identifica le forme di cooperazione che avvengono non solo a livello
regionale ma anche coinvolgendo altri livelli giurisdizionale come quello nazionale o
locale, fino alla collaborazione con la stessa UE. Questo tipo di cooperazione avviene
all'interno di regioni vaste europee che raggruppano territori, come ad esempio quelli
dello spazio alpino, che condividono delle problematiche comuni. Le aree prioritarie per
l'azione di questo ambito sono quella ambientale, la questione dei trasporti e delle
comunicazione e l'integrazione economica.
La terza ed ultima tipologia di cooperazione, quella della cooperazione interregionale, si
caratterizza per la suddivisione del territorio europeo in grandi network che hanno
l'obiettivo di incrementare l'efficacia della cooperazione su larga scala. L'obiettivo
principale di questa terza strategia di cooperazione è lo scambio di esperienze e di
buone pratiche tra gli Stati membri e con paesi terzi, riguardo alle esperienze maturate
4
Disponibile al sito:
http://europa.eu/legislation_summaries/regional_policy/management/g24218_en.htm
51
nei primi due ambiti di cooperazione, quello cross-border e quello transfrontaliero.
Queste diverse tipologie di cooperazione territoriale sono state programmate nell'ambito
del programma europeo INTERREG, lanciato alla fine degli anni ottanta, che era
appunto composto da tre elementi, la cross-border cooperation (A), la cooperazione
transfrontaliera (B) e la cooperazione interregionale (C).
Per quello che riguarda la mia analisi della cooperazione territoriale europea, tenendo
come riferimento il caso studio da me identificato, mi soffermerò nell'analisi del
secondo tipo di cooperazione territoriale, la cooperazione transfrontaliera.
La prima definizione di cooperazione transfrontaliera si può trovare all'interno della
Convenzione Quadro europea sulla cooperazione transfrontaliera delle collettività e
autorità territoriali, detta Convenzione di Madrid del Consiglio d'Europa, firmata nella
capitale spagnola nel 1980. All'interno di questo testo normativo all'articolo 2, la
cooperazione transfrontaliera viene definita come “ogni comune progetto che miri a
rafforzare e a sviluppare i rapporti di vicinato tra collettività o autorità territoriali
dipendenti da due o da più Parti contraenti, nonché la conclusione di accordi e intese
utili a tal fine” (Consiglio d'Europa, 1980).
Una definizione più precisa di cooperazione transfrontaliera viene definita da alcuni
studiosi come una “more or less istitutionalized collaboration between contiguous
subnational authorities across national borders” (Perkmann: 2003, 156).
Le caratteristiche più importanti che questo autore individua in merito alla cooperazione
transfrontaliera sono il grado di istituzionalizzazione, la collaborazione tra autorità
territoriale contigue e il superamento dei confini nazionali.
Oltre a questa definizione, Perkmann propone quattro criteri più specifici che
52
descrivono la cooperazione transfrontaliera: il fatto che questo tipo di cooperazione sia
localizzata nell'ambiente delle agenzie pubbliche, che si riferisca a forme di
collaborazione tra agenzie sub-nazionali che non sono normalmente soggetti di diritto
internazionale, che faccia riferimento alla soluzione di problematiche legate alla vita
quotidiana, che conduca ad una qualche forma di stabilizzazione, come ad esempio un
processo di nascita di istituzioni comuni.
Il processo di cooperazione transfrontaliera, sin dai suoi esordi è stato sempre collegato
ad una qualche forma di istituzionalizzazione. Spesso quindi ad una forma di
cooperazione di questo tipo segue la creazione delle così dette regioni transfrontaliere,
che all'interno del contesto europeo vengono chiamate anche Euro-regioni.
Il Consiglio d'Europa (CoE) definisce una regione transfrontaliera come “ an area of
land and a number of human communities, together with the network constituted by all
the relationships interlinking them, and is disturbed or even disrupted by the frontier”
(Ricq, 2006: 17).
Secondo questa definizione data dal CoE, ciò che forma una regione transfrontaliera
sono tutte le interconnessioni che esistono tra territori e comunità umane. Questo tipo di
connessioni possono essere di tipo storico, culturale e socio-economico, e solitamente
sono dovute al fatto che questi territori hanno condiviso dei periodi storici precedenti,
durante i quali hanno vissuto una dimensione unitaria. Questo tipo di cooperazione
territoriale in Europa, ma della quale esistono tentativi di attuazione anche in altre parti
del pianeta, ha l'obiettivo quindi di “compensare gli svantaggi strutturali” di alcuni
particolari territori “imposti dalla loro situazione periferica in rapporto allo Stato nel
quale essi si trovano” (Comitato delle Regioni, 2007: 15).
53
Solitamente questi territori sono periferici rispetto al resto dello Stato al quale
appartengono, sono territori che hanno subito divisioni e lacerazioni, fino a casi estremi
di guerre, nel periodo di formazione degli Stati-nazione, a volte sul loro territorio
convivono popolazioni originarie da gruppi etnici differenti; in altri casi le frontiere
degli Stati sono sorte in territori, dove già sono presenti barriere naturali, come corsi
d'acqua o rilievi montani, casi questi in cui, oltre che ad essere barriere naturali, questi
territori sono anche habitat fondamentali per numerose specie viventi.
Ecco che quindi la cooperazione transfrontaliera risulta necessaria per la gestione di
questi territori particolari, che altrimenti non riuscirebbero ad uscire dalla loro
condizione periferica.
In Europa in modo particolare le frontiere, i confini nazionali, rappresentano numerosi
dei casi che ho appena elencato; un esempio tipico e vicino di questa situazione è
l'origine storica dell'Euroregione Tirolo - Alto Adige – Trentino. Ma molte delle regioni
transfrontaliere presenti in Europa, traggono la loro origine da queste caratteristiche dei
confini degli Stati europei.
In altre situazioni, come in molte aree dell'America Latina o del continente africano,
molte regioni transfrontaliere possono essere identificate come i territori che erano
occupati dalle popolazioni autoctone di quei luoghi e che solamente in seguito alle
colonizzazioni occidentali, e quindi alla creazione di Stati-nazione sono state separate
dai confini nazionali.
Una regione transfrontaliera è definibile, dopo queste considerazioni, come un'unità
territoriale composta dai territori delle autorità che partecipano a iniziative di
cooperazione transfrontaliera; queste regioni quindi, non solo da intendere solamente
54
come spazi funzionali, ma anche come unità socio-territoriali con un certo grado di
capacità strategica (Perkmann, 2003: 157).
Non tutte le regioni transfrontaliere però sono uguali; Perkmann individua tre
dimensioni di analisi attraverso le quali è possibile distinguere e classificare queste
regioni: l'estensione geografica, l'intensità di cooperazione e la tipologia di attori
coinvolti.
La prima dimensione, quella geografica, si riferisce al numero di regioni coinvolte: le
regioni transfrontaliere meno numerose, come ad esempio l'Euroregione Tirolo – Alto
Adige – Trentino, è da distinguere da regioni transfrontaliere più numerose, con cinque
o più membri, che solitamente vengono chiamate Working Communities.
La seconda dimensione si riferisce al livello di autonomia che le istituzioni
transfrontaliere hanno nei confronti delle singole autorità partecipanti all'accordo.
La terza ed ultima dimensione riguarda il tipo ed il livello delle autorità coinvolte, che
in base agli Stati coinvolti e al tipo di iniziativa possono variare sensibilmente dal
livello regionale a quello provinciale o addirittura locale.
A livello europeo la prima regione transfrontaliera, la prima euro-regione, ad essere
riconosciuta come tale è stata l'EUREGIO, nata nel 1965 tra enti territoriali olandesi e
tedeschi. Negli anni successivi sono state istituite numerose altre euro-regioni alle quali
l'UE fornisce un’importante cornice istituzionale.
Le euro-regioni, oggi chiamate all'interno dell'UE GECT (Gruppo europeo di
cooperazione territoriale), sono definite dalle norme dell'Unione strumenti di
cooperazione
comunitaria
che
premettono
la
cooperazione
transfrontaliera,
transnazionale e interregionale tra i membri dell'Euroregione. Un’euroregione è
55
composto da tutti gli attori coinvolti le politiche dell'UE: Stati membri, regioni e
collettività locali. I GECT, che hanno alla loro origine la firma di una convenzione tra
gli Stati che ne fanno parte, sono quindi strumenti fondamentali oggi per la
cooperazione in ambito ambientale tra i paesi dell'Unione, poiché il Gruppo stesso,
possedendo capacità giuridica, può essere incaricato di attuare programmi cofinanziati
dalla stessa UE e dagli Stati membri (Parlamento Europeo e Consiglio, 2006).
Una delle prime iniziative comunitarie, orientate a favorire tra l'altro la cooperazione
transfrontaliera tra i territori dell'Unione e con i territori confinanti, è stata l'iniziativa
INTERREG, lanciata nel 1989 con lo scopo di sostenere i progetti transfrontalieri che
riguardassero infrastrutture, protezione dell'ambiente e cooperazione tra enti locali e
aziende, della quale ho già accennato in precedenza.
L'importanza sia a livello internazionale sia a livello comunitario degli anni nei quali fu
lanciata l'iniziativa di cooperazione territoriale INTERREG è molto rilevante.
L'UE, che allora era ancora solamente Comunità Europea (CE), con la firma dell'Atto
Unico Europeo, nel 1986 ritrova slancio verso una maggiore integrazione in ambito
politico, dopo un periodo durante il quale i paesi membri e le istituzioni si erano limitati
al mantenimento della comunità economica. In aggiunta, la caduta del Muro di Berlino
e del blocco orientale dopo il 1989 e la conseguente apertura dell'UE verso Est, hanno
portato alla necessità di mettere in atto delle vere e proprie partnership regionali per
aumentare il livello di integrazione europea.
Iniziative come INTERREG, e i diversi progetti che sono stati portati avanti all'interno
di questa iniziativa comunitaria, oltre che a tutta la strategia comunitaria di
cooperazione transfrontaliera, sono stati uno dei motori dello sviluppo della stessa
56
Unione Europea verso la forma che conosciamo oggi.
Nel 2006, al termine della terza edizione dell'iniziativa INTERREG, viene lanciata una
nuova formula di cooperazione a livello comunitario, il GECT appunto. Questa nuova
formula cooperativa ha l'obiettivo di “facilitare e promuovere la cooperazione
transfrontaliera, transnazionale e/o interregionale [...] al fine esclusivo di rafforzare la
coesione economica e sociale.” (Parlamento Europeo e Consiglio, 2006).
L'adozione di questo regolamento ha comportato, nel panorama in materia di
cooperazione territoriale all'interno dell'Unione Europea, un indicativo cambiamento
nell'approccio a questa materia.
Il GECT diventa il fulcro del processo di integrazione europeo. Le disposizioni
contenute nel regolamento consentono la partecipazioni ad iniziative di cooperazione
non solo ad un livello orizzontale, ma consentono la cooperazione territoriale anche tra
autorità territoriali che si pongono ad un livello diverso. Gli Stati quindi potranno
cooperare assieme alle autorità locali e regionali, come attori paritari in questo tipo di
cooperazione. All'interno di un GECT è possibile ad esempio quindi che piccoli Stati
cooperino con entità territoriali regionali o locali appartenenti al territorio di altri Stati
membri.
Il GECT si pone come obiettivo fondamentale quello di favorire la cooperazione
transfrontaliera, transnazionale e interregionale in diversi settori che oggi richiedono
una sempre maggiore cooperazione tra territori diversi, oltre che per favorire il livello
d’integrazione e di coesione comunitarie, anche per affrontare determinate questioni,
come la sicurezza o l'ambiente ad esempio che sarebbero difficilmente gestibili senza
iniziative si cooperazione territoriale di questo tipo.
57
L'innovazione portata dal GECT come strumento cooperativo è riscontrabile anche nel
fatto che la nuova possibilità di cooperazione territoriale tra diversi livelli di autorità,
offre un grande potenziale per lo sviluppo di sistemi di governance multilivello.
3.1 Il “Programma Spazio Alpino”
Per quello che riguarda le tematiche della tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile,
credo sia opportuno evidenziare uno dei programmi che hanno visto la luce nell'ambito
dell'iniziativa INTERREG e che è poi proseguito con la trasformazione della
cooperazione comunitaria con l'avvento del GECT, il Programma Spazio Alpino, tra i
cui campi di azione prioritari troviamo la questione ambientale.
Questo programma si inseriva nell'ambito dell'iniziativa INTERREG al livello B, quello
cioè della cooperazione transnazionale.
L'obiettivo principale di questo programma fissato alla sua nascita nell'ambito
dell'iniziativa comunitaria INTERREG era la cooperazione “tra autorità nazionali,
regionali e locali ai fini della promozione di una maggiore integrazione territoriale tra
ampi raggruppamenti di regioni europee, per realizzare uno sviluppo sostenibile,
armonioso ed equilibrato nella Comunità e una migliore integrazione territoriale con i
paesi candidati e altri paesi terzi limitrofi” (Comunicazione 2004/C 226/02). Ora con
l'avvento del gli obiettivi e le aree prioritarie d’intervento individuate nell'ambito
dell'iniziativa INTERREG non vengono a mutare.
L'area geografica coperta dal Programma comprende i territori alpini e della cintura
peri-alpina presenti nei sette Stati che si dividono porzioni dell'arco alpino: Francia,
Italia, Svizzera, Liechtenstein, Germania, Austria e Slovenia.
L'area coperta dal Programma Spazio Alpino sin dalla seconda metà del XX secolo si è
58
caratterizzata per aver visto la nascita di numerose comunità per la realizzazione di
obiettivi condivisi in quest'area e per favorire il processo d’integrazione europea;
bisogna ricordare tra le altre ARGE ALPS, COTRAO e Alliance in the Alps.
Questo programma di cooperazione transfrontaliera si basa su tre tematiche prioritarie.
La prima riguarda la competitività e l'attrattiva della regione alpina. L'incremento di
queste due importanti caratteristiche è fondamentale per lo sviluppo futuro dell'area
alpina, anche siccome tendenze come lo spopolamento di queste aree e la crescita
incontrollata dei centri urbani, influiscono negativamente sulle opportunità di sviluppo
di questo territorio.
La seconda priorità riguarda le tematiche di connessione e accessibilità dell'area alpina
con i territori circostanti. Non ostante il territorio alpino sia economicamente florido e
sia anche un nucleo nevralgico per quello che riguarda i trasporti sia tra gli Stati che
hanno in questo territorio i loro confini, che a livello europeo, sono questi due delle
questioni che risultano maggiormente problematiche in questo territorio, anche a causa
delle difficoltà in questi ambiti che la conformazione fisica dello spazio alpino accentua.
La terza priorità infine riguarda l'ambiente e la prevenzione dei rischi. Il territorio alpino
è indiscutibilmente ricco di un’elevatissima eredità naturale, la biodiversità in questa
zona è massima e funge da habitat per moltissime specie viventi, animali e vegetali. È
un ambiente naturale indispensabile anche per la vita degli esseri umani, per i quali
funge oltre che da “polmone verde” grazie alle sue foreste anche da riserva d'acqua,
elemento indispensabile per la vita umana.
Allo scopo di migliorare la situazione in questi ambiti sul territorio alpino il Programma
co-finanzia dei progetti di cooperazione transnazionale nei sette Stati membri. Ai bandi
59
dei progetti, che periodicamente vengono lanciati dagli organi centrali del Programma,
possono partecipare diversi tipi di partner: istituzioni del settore pubblico, camere di
commercio, aziende erogatrici di servizi pubblici e ONG.
Alcuni esempi di questi programmi sono il programma MONITRAF!, operativo
dall'ottobre del 2009, ha l'obiettivo di sviluppare un’ampia rete politica nelle regioni
alpine e di elaborate comuni strategie al fine di regolare in modo migliore l'incremento
del traffico transalpino; e il programma SHARE, un progetto che ha come obiettivo lo
sviluppo sostenibile della produzione di energia idroelettrica negli ecosistemi dei fiumi
alpini. Questo tipo di produzione energetica comporta serie conseguenze per l'ambiente,
pur essendo una delle fonti rinnovabili di energia per eccellenza. Questa partnership
transnazionale intende sviluppare e promuovere un sistema di supporto decisionale per
tenere conto delle esigenze degli ecosistemi fluviali durante il processo di produzione di
energia idroelettrica.
Il Programma Spazio Alpino, in ciascuno dei suoi aspetti prioritari, ripropone la
struttura della governance messa in luce dalla teoria della GML; il coinvolgimento di
diversi livelli giurisdizionali è un elemento fondamentale in questo programma,
soprattutto grazie alla capacità all'interno dei progetti promossi di raccogliere le
adesioni e la partecipazione non solo delle di partner istituzionali, ma anche provenienti
dal settore privato o dalle ONG.
60
2.4.
VERSO UNA REGIONALIZZAZIONE DELLA GOVERNANCE?
Le politiche ambientali dell'Unione Europea, i programmi comunitari d'azione,
le iniziative INTERREG prima e oggi il GECT, sono dei chiari esempi di come la teoria
della GML sia sempre più centrale per la risposta ad una nuova domanda di governance
in materie, come quella ambientale, che coinvolgono molti attori, non solamente statali
e che hanno la tendenza ad essere molto variabili a causa del fatto che spesso
coinvolgono non solamente più livelli giurisdizionali ma anche territori appartenenti a
diversi Stati che però si trovano ad affrontare delle problematiche condivise.
Francisco Adelcoa nel libro Paradiplomacy in action, introduce un concetto che ritengo
utile per la comprensione del ruolo della cooperazione territoriale in Europa come
modello.
Il concetto a cui fa riferimento questo autore è quello di plurinational diplomacy, che
identificano con la ridefinizione delle modalità e degli attori delle relazioni
internazionale (Adelcoa, 1999:84). Adelcoa sostiene che le regioni, e la cooperazione
regionale come nel caso europeo, possono essere considerate come nuovi attori di
politica internazionale. Suggeriscono quindi oltre che ad una visione della cooperazione
territoriale come politica interna dell'UE, anche in un'ottica di politica internazionale.
Questo dibattito, che meriterebbe una adeguata ed approfondita analisi, si lega al
concetto espresso sia da questi due autori che d Caciagli di “Terzo livello”
dell'architettura europea. Con questo termine s’intende il raggiungimento da parte delle
regioni e della cooperazione regionale di un livello politico istituzionale pari a quello
delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri. Il concetto di “Terzo livello” sta alla
61
base del progetto che vorrebbe vedere l'UE diventare “l'Europa delle regioni” alle cui
fondamenta troviamo l'approccio teorico della GML.
L'idea che si è diffusa negli ultimi anni di una “Europa delle regioni” come processo che
porterebbe le euroregioni europee a diventare attori importanti della politica interna ed
esterna dell'Unione, il già citato “Terzo livello”, è ancora lontano da raggiungere ma
probabilmente è anche l'unica strada percorribile per quello che riguarda la governance
di certe questioni; questa idea ritorna a porre l’accento su come oggi, la governance
multilivello sia una delle migliori risposte alla crescente domanda di governance che
esiste in certi settori, come ad esempio quello ambientale.
Scostandoci per un attimo dall’ambiente europeo, dove il processo della
regionalizzazione delle politiche sembra essere in una fase più avanzata, è a livello
internazionale che ci si potrebbe chiedere se, viste le difficoltà ad affrontare e risolvere
certe questioni su scala globale, una regionalizzazione della governance anche a questo
livello non gioverebbe all'intero sistema.
Non ostante che, come sottolinea Krämer (2006), la struttura della politica ambientale
europea non possa ancora essere considerato un modello in grado di essere esportato in
altre regioni, alcuni elementi della struttura di governance che ho descritto in
precedenza possono essere utili per risolvere problemi ambientali in altre regioni del
pianeta. A quest’affermazione di Krämer mi sento di aggiungere che probabilmente è
l'intera struttura della cooperazione territoriale, non solo riferita al tema ambientale che
potrebbe essere uno strumento utile non solamente per le regioni d'Europa ma anche per
altre regioni del pianeta.
É questa idea che ha portato l'ONG internazionale WWF a sviluppare una strategia in
62
linea con l'approccio regionale che già abbiamo analizzato per quello che riguarda il
contesto europeo, la conservazione ecoregionale. WWF definisce questa strategia come
“necessaria per il raggiungimento di risultati consistenti e funzionali al mantenimento
della vita sulla Terra e alla creazione di nuove potenzialità per lo sviluppo umano”
(WWF, 2004:1). Lo strumento principale che è stato messo in atto per la realizzazione
di questa strategia è stata l'individuazione di più di 200 ecoregioni prioritarie nel mondo
su 873 individuate in totale. All'interno di queste ecoregioni prioritarie, chiamate
GLOBAL 200, WWF prevede poi di attuare delle strategie volte alla conservazione
degli habitat e allo sviluppo sostenibile.
WWF definisce un’ecoregione come “una unità terrestre e/o marina relativamente estesa
che contiene un insieme distinto di comunità naturali le quali condividono la maggior
parte delle specie, delle dinamiche ecologiche e delle condizioni ambientali” (WWF,
2004:2). Un'ecoregione è quindi una classificazione bio-geografica, al cui interno però
si nasconde un’opportunità politica (Int. WWF) nel senso che spesso i territori
individuati come appartenenti ad una ecoregione secondo la classificazione del WWF
sono allo stesso tempo già legati da accordi di cooperazione territoriale come ad
esempio nel caso dell'ecoregione alpina, il cui territorio corrisponde sia al territorio sul
quale si applica la Convenzione delle Alpi sia al territorio del Programma Spazio
Alpino.
Su questo tema non solo si stanno muovendo i singoli Stati o le organizzazioni della
società civile, anche l'UNEP, l'agenzia ONU per la tutela sin da metà degli anni settanta
del secolo scorso ha messo in atto dei progetti che prevedono un modello di
cooperazione regionale in diverse parti del mondo.
63
A livello internazionale la base normativa che stabilisce la necessità che le autorità
territoriali cooperino al fine di una migliore soluzione delle problematiche, per lo meno
in ambito ambientale, è il principio 24 della Dichiarazione di Stoccolma, firmata nel
1972, nel quale si afferma che “la cooperazione per mezzo di accordi internazionali o in
altra forma è importante per impedire, eliminare o ridurre e controllare efficacemente
gli effetti nocivi arrecati all'ambiente da attività svolte in ogni campo, tenendo
particolarmente conto della sovranità e degli interessi di tutti gli Stati”.
Sullo stimolo di questo principio nel 1974 l'UNEP ha dato il via al Regional Seas
Programme, un’iniziativa di cooperazione territoriale per la tutela dell'ambiente
marittimo che oggi comprende 140 paesi partecipanti e 13 programmi regionali.
La regionalizzazione, e un approccio multilivello alla governance di questioni, come
quella ambientale, difficilmente gestibili da politiche nazionali sembra quindi essere la
strada che quasi tutte le autorità si avviano a intraprendere.
2.5.
CONCLUSIONE
L'approccio della GML si è rivelato quindi decisivo per la comprensione della
cooperazione territoriale in ambito europeo. Sin dalla firma dell'AUE, alla fine degli
anni ottanta del secolo scorso, la allora Comunità Europea, che nei cinque anni
successivi sarebbe diventata Unione Europea, ha dato il via ad una sempre più fitta e
elaborata integrazione politica. Con questo non voglio affermare che si possa parlare di
una compiutezza oggi di questo tipo d’integrazione all'interno dell'Unione, ma
certamente nel corso degli ultimi vent'anni il livello di integrazione politica è
64
notevolmente aumentato.
A livello europeo inoltre, la questione ambientale è stata uno degli argomenti che più
hanno beneficiato delle innovazioni nell'ambito della governance portate sia
dall'approccio della GML che dai programmi e dalle iniziative messe in atto in questi
anni. Anche a livello internazionale l'Unione Europea ha acquisito, fine degli anni
ottanta ad oggi, sempre maggiore forza nei dibattiti e nelle conferenze internazionali che
hanno avuto come tema centrale la questione ambientale.
Questo processo non è certamente stato semplice, la grande diversità presente all'interno
dell'Unione, per non parlare di quella a livello internazionale, riguardo a questi temi ha
sicuramente complicato anche le molte forme di cooperazione che sono state messe in
atto in riferimento a questo argomento. Ma grazie ai successi di programmi come il
Programma Spazio Alpino o altri programmi di cooperazione territoriale, è possibile
affermare che oggi l'approccio cooperativo suggerito dalla GML è certamente il più
adatto a gestire da un lato la sempre maggiore interdipendenza degli attori, e dall'altro le
forti spinte che il provengono dal sistema internazionale sui singoli attori, e che
potrebbero far traballare l'intera struttura unitaria che ha assunto l'Unione Europea.
Come abbiamo visto alla fine del capitolo, non solo questo l'approccio della
cooperazione territoriale è utilizzato all'interno dell'UE, che possiamo considerare uno
spazio particolarmente favorevole a questo tipo di collaborazioni, ma lo possiamo
ritrovare anche come struttura portante di azioni intraprese da Organizzazioni
Internazionali come nel caso del programma riguardante i mari dell'UNEP.
Ecco quindi che si assiste ad una diffusione di questo modello, seppur lenta, anche a
livello internazionale, situazione che non può che testimoniarne il successo.
65
3. UN ESEMPIO DI COOPERAZIONE TRANSFRONTALIERA: LA
CONVENZIONE DELLE ALPI
“Il silenzio solenne di questo salone di Sua Maestà
la Natura era rotto solo dal rumore delle acque, dalla
caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della
valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le
montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l'opera
silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si
crepavano e si spaccavano come fossero stati
giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e
magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo
ricevere [..]”
(Mary Shelley, Frankenstein)
3.1.
INTRODUZIONE
Pensando alla parola “Alpi”, messa in relazione con concetti come “protezione”
o “tutela” normalmente viene spontaneo fare riferimento all'aspetto naturale dell'arco
alpino. Se però alla parola “Alpi” associamo il concetto di “sviluppo”, ecco che il
panorama cambia ed entra in gioco un attore fondamentale per questo territorio: l'uomo.
È proprio l'uomo, il protagonista di due avvenimenti che hanno segnato la vita delle
Alpi in passato.
L'anno 1991 è stato un anno importante per il territorio alpino per due ragioni. In primo
luogo nel mese di Settembre venne scoperto, a 3210 metri di quota nelle Alpi Venoste, il
corpo dell'Uomo di Similaun, meglio conosciuto come Ötzi o come L'uomo venuto dal
ghiaccio. Vissuto circa 5000 anni fa nell'età del bronzo, apparteneva quasi certamente al
primo gruppo culturale alpino. Il ritrovamento di Ötzi è la conferma che le Alpi, non
solamente negli ultimi secoli sono state uno dei centri economici e culturali dell'Europa,
66
ma già nell'età del bronzo erano un luogo centrale nella vita delle popolazioni che
abitavano le valli a nord e a sud delle montagne.
A novembre dello stesso anno venne firmata a Salisburgo, in Austria, La Convenzione
per la protezione delle Alpi, da sei Stati (Austria, Francia, Italia, Germania, Svizzera e
Liechtenstein) e dall'UE.
Questi due eventi apparentemente scollegati tra loro sono in realtà legati da un filo
conduttore che ha accompagnato la vita delle Alpi per millenni; l'importanza dell'uomo,
con le sue attività e le sue decisioni per la vita di questo territorio.
3.2.
LA STORIA DELLE ALPI
La scoperta dell'Uomo di Similaun è un ottimo punto di partenza per
comprendere cosa sono le Alpi nel panorama europeo. Fin dagli albori della vita degli
esseri umani in queste zone, essi si muovevano attraverso la “regione alpina”
considerandola come un unico habitat nel quale vivere, allevare gli animali, cacciare, e
dedicarsi alla raccolta. Le differenti civiltà alpine nel corso dei millenni hanno
sviluppato diverse culture e abitudini per superare le stesse difficoltà: inverni severi, la
coltura di pendii scoscesi, fare economia delle risorse naturali. Percorrendo a ritroso la
storia delle Alpi è inevitabile accorgersi come esse siano nell'immaginario europeo e
non solo, cariche di significati unici che rendono questo territorio, da sempre un luogo
controverso.
Fino al XVIII secolo le Alpi, spartite tra i grandi imperi europei, erano considerate come
montes horribiles (Bätzing, 2004: 19), luoghi nei quali non era desiderabile vivere e i
67
cui abitanti erano considerati “barbari”. Questa immagine del territorio alpino, creata
dal punto di osservazione delle città, è però abbastanza distante dalla realtà oggettiva
della regione alpina. La vita, gli spostamenti e la cultura nelle Alpi erano già molto
sviluppati sino a partire dall'età del rame e per i millenni a seguire, come dimostrano i
ritrovamenti di insediamenti abitativi nella valli alpine (Camanni, 2002: 18-19).
Solo nella metà del XVIII secolo la montagna, così come gran parte degli ambienti
naturali, smette di essere considerata pericolosa e ostile bensì acquista un fascino
irresistibile. Furono la nuova concezione razionale del mondo, la fiducia nelle scienze
naturali e nel progresso, nella superiorità dell'uomo sulla natura che fecero si che la
stessa natura si riempisse di un fascino che mai aveva avuto prima. La distorsione anche
in questa visione delle Alpi è notevole. Le Alpi non sono sempre idilliache ed è in questi
anni che ebbe inizio un processo di alterazione della natura montana da parte delle
attività umane che non ha termine ancora oggi.
Il rinnovato interesse per le Alpi e quindi la nascita delle prime forme di “turismo
alpino” provocarono in alcune zone lo smantellamento delle comunità tradizionali,
accompagnato da un progressivo spopolamento delle Alpi. L'industrializzazione e le
guerre dei primi decenni del XX secolo comportarono una progressiva riduzione della
capacità di assorbimento dei cambiamenti tipica del mondo rurale alpino; in
conseguenza di ciò divenne sistematica la fuga verso le valli e le pianure dei giovani a
causa dell'insostenibilità dell'economia rurale alpina. Fu in questo momento che le Alpi
subirono l'attacco del modello consumistico urbano, un modello che tende
all'omologazione funzionale delle Alpi. È il modello turistico della nuova borghesia
quello dell'alpinismo, dei resort sulle montagne e da metà del XX secolo in poi dello
68
sci, l'oro bianco delle Alpi (Camanni, 2002: 50). Oltre al turismo fu tra la fine del XIX
secolo e il XX secolo che si sviluppò il sistema di trasporti che attraversa le Alpi; il
primo fu il traforo ferroviario del Frejus aperto nel 1871, nuova ragione della
trasformazione culturale, sociale, economica e ambientale avvenuta dopo la “scoperta” e
i numerosi tentativi di “conquista” delle Alpi da parte degli Stati, con l'obiettivo di
spartirsi il territorio alpino. Questa visione delle alpi come cuore pulsante d'Europa,
soprattutto per la borghesia europea, accompagnò la vita delle Alpi fino al periodo delle
due guerre mondiali.
Tra il 1914 e il 1945 i territori alpini furono uno dei campi di battaglia sul quale si
misurano le forze degli Stati europei; questo provocò inevitabilmente un arresto nelle
trasformazioni e nello sviluppo della regione alpina.
Il 1945 oltre che la fine del secondo conflitto mondiale è una data rilevante anche per un
altro motivo. L'esplosione delle due bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima
e Nagasaki fu il momento nel quale l'umanità intera si accorge che la tecnologia umana
racchiude in sé un'immensa forza distruttrice; fu questo il punto di svolta nei rapporti tra
società umana l'ambiente naturale nel quale essa era inserita. Ma la “crisi ecologica” che
si sviluppò nel secondo dopoguerra (Pellizzoni – Osti, 2008: 55), non su solamente
l'esito di questo avvenimento. L'intensificazione degli scambi commerciali, l'aumento
della
popolazione
mondiale,
la
sempre
maggiore
dipendenza
dal
petrolio,
l'industrializzazione di molte aree del mondo fecero si che si verificassero sempre più
numerosi incidenti, causati dal sempre maggiore impatto delle attività umane
sull'ambiente, e che questi cambiamenti assieme ai grandi insediamenti urbani e
industriali incomincino ad essere percepiti dai media e dall'opinione pubblica come
69
grandi inquinatori dell'ambiente naturale.
Fu a causa di questa presa di coscienza che tra gli anni sessanta e settanta sia nelle
istituzioni che soprattutto all'interno della società civile mossero i primi passi le correnti
di pensiero e movimenti ambientalisti. L'immagine della Alpi idilliache andò pian piano
sfumando. Il territorio alpino si trasformò prevalentemente in un'arena sportiva, le Alpi
diventarono un “centro sportivo” ideale per le vicine aree metropolitane, in conseguenza
delle caratteristiche della società post-moderna. L'avvento della società dei servizi causò
la perdita dell'entusiasmo collettivo che aveva caratterizzato i periodi precedenti; le Alpi
persero l'aura di fascino che le aveva caratterizzate fino all'avvento della prima Guerra
Mondiale, ritornando ad essere una propaggine degli Stati che si spartiscono il territorio
alpino.
Il quesito che deve porsi quindi chi affronta la tematica della “questione Alpi” è che
ruolo hanno le montagne europee oggi? Hanno ancora un ruolo sia in ambito socio
culturale sia economico nell'Europa di oggi? È unanime nel mondo degli studiosi della
realtà della regione alpina l'idea che le posizioni estreme, sia quelle che puntano
all'estrema modernizzazione della Alpi che quelle che la rifiutano totalmente, non siano
sostenibili per lo sviluppo futuro della regione; è necessario quindi puntare l'attenzione
verso delle strade intermedie. La così detta “terza via” (Camanni, 2002: 81) o l'idea del
“doppio uso equilibrato” (Bätzing, 2004: 425), due concetti molto simile che possono
essere considerati come sinonimi e che quindi userò alternativamente e al singolare,
presuppone che i territori alpini, non si isolino dal resto dell'Europa ma nemmeno si
riducano ad avamposto del progresso urbano, trovando quindi una strada che sia
conciliante della complessità di questo territorio e che ne esalti la sua unitarietà.
70
Questa terza via, secondo questi autori, potrebbe garantire alle Alpi di diventare nel
panorama europeo una regione con una relativa autonomia dal punto di vista non solo
ambientale ma anche per quello che riguarda l'economia e gli spazi abitativi, in grado
quindi di garantire alle Alpi una realistica prospettiva per la sua sopravvivenza futura;
questo, anche alla luce del concetto di sviluppo sostenibile introdotto dal Rapporto
Brundtland (con il titolo originale di Our Common Future, pubblicato dalla WCED) nel
1987 che, all'interno del documento, viene definito come “lo sviluppo che garantisce i
bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni
future riescano a soddisfare i propri”.
Inoltre l'idea del “doppio uso equilibrato” è promossa anche dall'Agenda 21 dell'ONU,
il programma di azioni indicato dalla Conferenza di Rio per invertire l’impatto negativo
delle attività dell'uomo sull’ambiente, che al capitolo 13 affronta il problema dello
sviluppo sostenibile delle aree montane, considerate come un “ecosistema fragile” (dal
titolo del capitolo 13 del documento).
È in questo quadro che cresce e si fortifica sin dai primi anni del secondo dopoguerra,
soprattutto nelle associazioni della società civile impegnate nella tutela delle montagne
alpine, riunite sotto l'ONG ombrello CIPRA, l'idea che fosse necessario un'insieme di
regole internazionali e condivise volte a tutelare lo spazio alpino.
Cinque millenni dopo i primi insediamenti umani nell'arco alpino, questa idea ha trovato
compimento nella firma di un trattato internazionale, la Convenzione per la Protezione
delle Alpi, che vuole essere considerato un modello per lo sviluppo sostenibile delle
aree montane.
71
3.3.
IL TRATTATO INTERNAZIONALE
Prima di analizzare la Convenzione della Alpi nei suoi contenuti occorre dare
una breve spiegazione della relazione che corre tra diritto internazionale e le questioni
ambientali e del processo che ha portato alla nascita della Convenzione a cui premetto
una nota linguistica. Nel corso del capitolo quando si parlerà di ambiente, prego i lettori
di considerare il termine ambiente con il significato di “le risorse naturali, abiotiche e
biotiche, come l'aria, l'acqua, il suolo, la fauna, la flora nonché l'interazione tra di esse; i
beni culturali; e, infine, gli aspetti caratteristici del paesaggio” (Convenzione sulla
responsabilità civile dei danni derivanti da attività pericolose per l'ambiente, 1993: art.
2).
La Convenzione per la Protezione delle Alpi è un trattato internazionale, è espressione
della “convergenza di volontà di due o più soggetti di diritto internazionale, ciascuno
dei quali si impegna a rispettare, nei confronti degli altri, la disciplina contenuta in un
documento scritto o in più documenti tra loro connessi” (Cassese, 2006: 231). Nel caso
della Convenzione delle Alpi i soggetti sono gli otto Stati che hanno firmato il trattato,
Italia, Francia, Principato di Monaco, Svizzera, Liechtenstein, Germania, Austria e
Slovenia e dalla Comunità Europea.
La Convenzione è stata firmata il 7 novembre 1991 a Salisburgo da sei Stati Italia,
Francia, Svizzera, Liechtenstein, Germania e Austria e dalla Comunità Europea; in
seguito dalla Slovenia nel 1993 e dal Principato di Monaco nel 1994.
La Convenzione è entrata in vigore nel marzo 1995, tre mesi dopo che il terzo Stato ne
ha depositata la ratifica presso il Depositario, la Repubblica d'Austria, come stabilito
72
dall'articolo 12 della Convenzione delle Alpi. Il campo d'applicazione della
Convenzione, riconosciuto dalle parti contraenti, si estende nel cuore dell'Europa nei
territori degli otto Stati per una superficie totale di 190.912 km 2; tra gli otto Stati le parti
più grandi del territorio alpino fanno parte di Italia e Austria (28% ciascuno). L'Italia
conta la maggior parte della popolazione delle Alpi con un terzo della popolazione
totale che è di 13.183.901 abitanti. È quindi dal 1995 che si può parlare di uno spazio
alpino ben definito nel quale ha applicazione la Convenzione delle Alpi (Appendice 1).
Il trattato si pone l'obiettivo di conciliare gli interessi di sviluppo economico e sociale
dell'area alpina con la tutela del patrimonio ecologico che caratterizza fortemente la
regione.
Come ho già accennato in precedenza il processo che ha portato alla scrittura della
Convenzione, è iniziato nei primi anni del dopoguerra quando l'associazione CIPRA
esprimeva la necessità di elaborare un trattato internazionale per le Alpi. Non ostante
queste espressioni di volontà da parte della società civile fu solo con l'avvento della
questione ambientale nella seconda metà del XX secolo che gli strumenti del diritto
internazionale vennero applicati per regolare le relazioni tra gli Stati in materia
ambientale.
Fino ad allora “gli Stati ritenevano di non dover interferire nella gestione degli spazi e
delle risorse naturali sottoposte alla sovranità di un altro Stato” (Cassese – Gaeta, 2008:
221) e neppure l'opinione pubblica era cosciente della crisi ambientale che si sarebbe
manifestata in un futuro non troppo lontano. Fu con la conferenza di Stoccolma del
1972, e poi con la successiva conferenza di Rio del 1992, che l'intera comunità
internazionale comprese la natura indiscutibilmente globale delle problematiche legate
73
all'ambiente. All'interno delle Dichiarazioni emerse dalle rispettive conferenze e dal
Rapporto Brundtland5 emergono tre principi che stanno alla base della nascita della
Convenzione delle Alpi.
Il primo è il principio di cooperazione definito nella Dichiarazione di Stoccolma del
1972 al Principio 24, pone agli stati l'obbligo di cooperare per la tutela dell'ambiente.
Questo principio affronta la questione della generalità delle problematiche ambientali e
sostiene di conseguenza l'impossibilità da parte degli Stati di tirarsi indietro di fronte ad
effettive necessità di protezione dell'ambiente.
Il secondo principio è il principio di precauzione espresso nella Dichiarazione di Rio del
1992 al Principio 15 che stabilisce che: “quando vi è la minaccia di danni gravi e
irreversibili, l'assenza di certezza scientifica non può giustificare il rinvio dell'adozione
di misure efficaci rispetto al contenimento dei costi per impedire il degrado ambientale”
(Dichiarazione di Rio, 1992).
Questo secondo principio costituisce il punto di partenza per l'adozione di norme o per
attuazione di politiche volte ad evitare, o almeno ridurre, gravi e irreversibili rischi per
l'ambiente. Questo principio, successivo alla firma della Convenzione per la Protezione
delle Alpi avvenuta un anno prima dell'apertura della Conferenza di Rio, sta alla base
dei contenuti dei protocolli attuativi della convenzione.
Infine il terzo concetto che possiamo considerare come pilastro della Convenzione delle
Alpi è il così detto sviluppo sostenibile, contenuto nel Rapporto Brundtland che, come
ho già illustrato in precedenza, si focalizza sulla necessità della preservazione
dell'ambiente per la vita delle generazioni future.
I pilastri sui quali la Convenzione si basa sono fondamentali per la comprensione dei
5
74
Rapporto del WECD dal titolo “Our Common Future”
contenuti del testo della Convenzione Quadro e dei nove Protocolli attuativi.
La struttura della Convenzione delle Alpi, Convenzione Quadro e Protocolli attuativi,
possono essere certamente definiti come un “sistema convenzionale” (Kiss, 2002: 80);
questa struttura, utilizzata frequentemente nel diritto internazionale dell'ambiente,
permette nella prima parte di dettare dei principi generali sui quali si basa la
cooperazione e nella seconda parte permette l'enunciazione di regole precise per la
messa in opera del trattato.
D'altra parte i protocolli, che sono stati prodotti negli anni successivi alla Dichiarazione
di Rio (1992), contengono degli aspetti innovativi per la protezione sello spazio alpino.
3.3.1.
La Convenzione Quadro
La Convenzione Quadro si compone di 14 articoli nei quali sono contenuti i
principi che regolano la cooperazione tra gli Stati che prendono parte al trattato, e le
linee guida che devono animare le politiche degli Stati per quello che riguarda la
regione alpina. Inoltre la Convenzione Quadro contiene una serie di articoli che fanno
riferimento agli organi della Convenzione e al loro funzionamento. Per quello che
riguarda l'aspetto contenutistico, gli articoli più rilevanti sono il preambolo, il secondo e
il quarto articolo. Per quello che riguarda gli organi della Convenzione ed il loro
funzionamento, le norme sono contenute negli articoli 5, 6, 8 e 9. Gli ultimi articoli
della Convenzione fanno riferimento alla regola di modifica della Convenzione e dei
Protocolli e le norme di firma e ratifica, oltre che le notifiche.
3.3.1.1.
Contenuti
75
Il preambolo della Convenzione il primo punto rilevante è la riaffermazione
della centralità della regione alpina in Europa, le Alpi vengono definite come “uno dei
più grandi spazi naturali continui in Europa, un habitat naturale e uno spazio
economico, culturale e ricreativo nel cuore dell'Europa” (Convenzione delle Alpi, 1991:
preambolo). Già dal primo paragrafo si comprende l'attenzione data allo spazio alpino a
tutto tondo, considerato sia come habitat naturale ma anche come locus economico,
sociale e culturale.
Le Alpi sono inoltre considerate come un territorio in cui convivono insediamenti
umani, ai quali il testo fa riferimento con il termine “popolazioni locali”, e molte specie
animali e vegetali che richiedono di essere tutelate. Le parti contraenti nel preambolo
esprimono la consapevolezza delle “grandi differenze esistenti tra i singoli ordinamenti
giuridici” (Convenzione delle Alpi, 1991: preambolo), oltre che dei territori e in
conseguenza della necessità di compiere grandi sforzi per raggiungere un livello
accettabile e funzionale di cooperazione. La parte conclusiva del preambolo è dedicata
alla dichiarazione delle minacce che gravano sull'area alpina “in misura sempre
maggiore” (Convenzione delle Alpi, 1991: preambolo).
L'articolo 2 contiene le indicazione che vanno sotto la definizione di obblighi generali.
Nel primo paragrafo vengono enunciati i principi su cui si basa la Convenzione delle
Alpi che ho già espresso in precedenza: principio di prevenzione, di cooperazione, della
responsabilità di chi causa danni ambientali con lo scopo di assicurare “una politica
globale per la conservazione e la protezione delle Alpi” (Convenzione delle Alpi, 1991:
art. 2). In questo articolo viene fatto un importante riferimento all'intensificazione della
cooperazione transfrontaliera nell'ambito della Convenzione delle Alpi tra le Parti
76
contraenti.
Nel secondo paragrafo sono individuati tredici campi nei quali le Parti contraenti si
impegnano ad attuare delle norme e delle politiche adeguate al raggiungimento degli
obiettivi generali contenuti nel primo paragrafo dello stesso articolo 2. I campi definiti
dalle Parti contraenti sono: popolazione e cultura, pianificazione territoriale, tutela della
qualità dell'aria, difesa del suolo, idro-economia, protezione della natura e tutela del
paesaggio, agricoltura di montagna, foreste montane, turismo e attività del tempo libero,
trasporti, economia dei rifiuti.
L'ultimo articolo della Convenzione che riguarda i contenuti generali è l'articolo 4 nel
quale le Parti contraenti si impegnano ad agevolare e promuovere lo scambio di
informazioni considerate rilevanti per l'attuazione della Convenzione delle Alpi. Questo
articolo pur sembrando meno significativo dei precedenti è sicuramente di grande
importanza poiché lo scambio di informazioni tra gli Stati che prendono parte alla
Convenzione delle Alpi è un elemento chiave per il raggiungimento di un'applicazione
condivisa e diffusa della stessa Convenzione.
3.3.1.2.
Organi e funzionamento
Gli organi che garantiscono il funzionamento e l'applicazione della Convenzione
delle Alpi e dei suoi Protocolli sono tre: la Conferenza delle Parti contraenti (chiamata
Conferenza delle Alpi), il Comitato Permanente, e il Segretariato Permanente.
La Conferenza delle Alpi è l'organo decisionale della Convenzione. È composta dai
ministri degli Stati membri che hanno il compito risolvere i “problemi di interesse
comune delle Parti contraenti” (Convenzione delle Alpi, 1991: art. 5).
77
I compiti fondamentali della Conferenza delle Alpi sono quello di esaminare lo stato di
attuazione della Convenzione e dei Protocolli attuativi, e di adottare le modifiche alla
Convenzione, adottare i Protocolli e le eventuali modifiche, costituire i Gruppi di
Lavoro, raccomandare la realizzazione degli obiettivi di comunicazione e informazione
contenuti negli articoli 3 e 4 della Convenzione.
All'interno della Conferenza delle Alpi godono dello status di osservatori l'ONU, il
Consiglio d'Europa, e gli altri Stati europei.
Le riunioni di questo organo si tengono ogni due anni nello Stato che in quell'anno
detiene la Presidenza della Convenzione delle Alpi. La Presidenza della Convenzione
spetta allo Stato che detiene la Presidenza del Comitato Permanente, carica che ruota
ogni due anni tra gli Stati membri della Convenzione delle Alpi.
Il Comitato permanente è formato dai delegati delle Parti contraenti ed è l'organo
esecutivo della Convenzione. Il compito principale di questo organo è l'attuazione, la
messa in pratica delle idee e dei principi che guidano la Convenzione e i Protocolli. A
questo scopo il Comitato raccoglie e valuta la documentazione riguardante l'attuazione
della Convenzione e dei Protocolli e riferisce alla Convenzione delle Alpi su questo;
insedia i Gruppi di Lavoro per l'elaborazione dei Protocolli e armonizza i contenuti dei
Protocolli in quanto depositario di una visione globale sugli obiettivi della Convenzione
delle Alpi.
L'ultimo importante organo previsto dalla Convenzione è il Segretariato Permanente
della Convenzione delle Alpi. Il Segretariato è l'unico organo che non è stato
direttamente creato dalla Convenzione all’epoca della sua entrata in vigore, ma nella
quale si legge che “La Conferenza delle Alpi può deliberare per consenso l'istituzione di
78
un Segretariato Permanente” (Convenzione delle Alpi, 1991: art. 9).
La decisione di istituire il Segretariato è stata presa nel 2002 (costituito effettivamente
nel 2003), con lo scopo di migliorare il coordinamento delle azioni tra gli Stati membri.
Il compito principale del Segretariato è di supportare i lavori degli altri organi della
Convenzione, coordinare progetti di ricerca e gestire le pubbliche relazioni della
Convenzione delle Alpi. Le sedi del Segretariato sono due Innsbruck (Austria) e
Bolzano (Italia), e nel 2006, è stata istituita a Chambéry (Francia) una Task Force Aree
Protette, incorporata nel Segretariato permanente, con l'obiettivo di mettere in atto il
programma per la gestione delle aree protette nelle Alpi (ALPARC 6).
3.3.2.
I Protocolli attuativi
Se la struttura della Convenzione Quadro può essere definita come uno
strumento che “reflètent bien les tendances lourdes du droit international et de
l'environnement”7 (Kiss, 2002: 79), al contrario i Protocolli attuativi della Convenzione
introducono degli aspetti innovativi nell'ambito della protezione del territorio alpino sia
per quello che riguarda gli argomenti che vanno a regolamentare, si per i metodi
proposti per la tutela di questo territorio.
I Protocolli attuativi della Convenzione delle Alpi sono nove, aperti alla ratifica
solamente degli Stati che hanno firmato e ratificato la Convenzione Quadro della
Convenzione delle Alpi e elaborati attraverso la cooperazione degli Stati membri stessi.
La principale causa delle innovazioni contenute all'interno dei Protocolli è la cronologia
degli eventi. La Convenzione delle Alpi è stata firmata nel 1991, prima della
6
7
http://it.alparc.org/
“ riflette bene le tendenze di pesantezza del diritto internazionale e dell'ambiente” (traduzione non
ufficiale)
79
Conferenza di Rio che si è tenuta nel 1992, mentre i Protocolli sono stati tutti elaborati
nella seconda metà del decennio successivo. La Convenzione Quadro non contiene
quindi riferimenti agli contenuti nella Dichiarazione di Rio e nell'Agenda 21, mentre i
Protocolli ne sono stati fortemente influenzati. Il leitmotif dei contenuti dei Protocolli
applicativi è, assieme al principio di precauzione, il concetto di sviluppo sostenibile.
Il Protocollo Pianificazione territoriale e sviluppo sostenibile, firmato nel dicembre del
1994, si basa sui contenuti espressi nel capitolo 10 dell'Agenda 21 (Integrated Approach
to the Planning & Management of Land Resources). Nel preambolo di questo Protocollo
viene ribadito il ruolo fondamentale degli enti territoriali nella risoluzione dei problemi
legati alla pianificazione territoriale. Due sono gli articoli nei quali troviamo indicate le
finalità di questo Protocollo. Nell'articolo 3 vengono indicati i settori verso i quali si
dovrebbero concentrare le politiche di pianificazione territoriale e sviluppo sostenibile:
l'equilibrio ecologico, la tutela della biodiversità, l'uso parsimonioso delle risorse
naturali, la tutela degli ecosistemi, la protezione dai rischi naturali e la valorizzazione
delle peculiarità culturali delle regioni alpine. Nell'articolo 1 si fa riferimento al
“favorire le pari opportunità delle popolazioni locali” (Convenzione delle Alpi, 1994a :
art. 1).
Il Protocollo Agricoltura di Montagna, affronta uno dei temi più antichi per il territorio
alpino, “il contadino alpino non è mai un vagabondo o un viaggiatore, ma resta il
custode della terra e dei pascoli che ha ricevuto in eredità” (Camanni, 2002: 114).
Gli obiettivi del protocollo si concentrano sulla necessità di un'agricoltura per il
territorio alpino, sia come fonte di sostentamento per le popolazioni alpine sia per il
territorio stesso; agricoltura che deve però essere orientata alla sostenibilità, alla
80
compatibilità con l'ambiente. L'articolo 4 mette in evidenza il ruolo fondamentale per
uno sviluppo in questo senso, degli agricoltori.
Il Protocollo Protezione della natura e tutela del paesaggio, è forse il meno innovativo
come argomento nei nove Protocolli. La “natura” è stata oggetto di numerosi trattati
internazionali nel corso degli anni. Uno degli strumenti individuati in questo protocollo
per la protezione della natura è la costituzione di una Rete Ecologica 8, cioè una serie di
connessioni tra le varie nicchie ecologiche presenti nell'arco alpino. Questo protocollo è
il precursore della Convenzione europea del Paesaggio 9 firmata nel 2000.
Il Protocollo Foreste montane, firmato nel 1996, affronta un argomento molto più
specifico dei precedenti poiché riguarda la tutela di una specifica parte del territorio
alpino, le foreste.
I principi espressi in questo Protocollo si riallacciano molto chiaramente a quelli
contenuti nel capitolo 11 dell'Agenda 21 (Combating Deforestation), nel quale la
situazione delle foreste viene descritta come “threatened by uncontrolled degradation
and conversion to other types of land uses, influenced by increasing human needs” 10
(Agenda 21, Section II, Chapter 11: art.10).
Il Protocollo Turismo, firmato nell'ottobre del 1998, è il più lungo Protocollo della
Convenzione delle Alpi. Il Protocollo affronta una delle relazioni allo stesso tempo più
complesse ma insolubili presenti nella regione alpina, quella tra sostenibilità ambientale
e turismo. La strada da perseguire viene indicata dal Protocollo in questi termini: “si
rende necessario uno sviluppo sostenibile dell'economia turistica basato sulla
8
9
10
http://it.alparc.org/le-nostre-azioni/rete-ecologica-transalpina
disponibile al sito http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/176.htm
“minacciate da una incontrollata degradazione e trasformazione verso altri usi, influenzate necessità
umane sempre maggiori” (traduzione non ufficiale)
81
valorizzazione del patrimonio naturale e sulla qualità delle prestazioni e dei servizi,
tenuto conto della dipendenza economica della maggior parte delle regioni alpine dal
turismo” (Convenzione delle Alpi, 1998a : preambolo). Allo scopo del raggiungimento
di questi obiettivi vengono indicate delle misure da mettere in atto nell'area coperta
dalla giurisdizione delle Convenzione delle Alpi come: un equilibrio tra le forme di
turismo, la delimitazione delle zone turistiche, l'imposizione di limiti per l'installazione
di infrastrutture sportive, misure volte alla riduzione del traffico.
Il Protocollo Difesa del suolo vene firmato nel dicembre 1998 e affronta un argomento
indispensabile per la realizzazione dei principi della Convenzione delle Alpi.
L'innovazione di questo protocollo è rilevante perché l'Agenda 21 non fa riferimento al
suo interno alla tutela del suolo, e l'unica norma anteriore alla Convenzione delle Alpi
che si occupa di questo argomento è la Carta mondiale del suolo 11 promossa dalla FAO.
Questo Protocollo della Convenzione delle Alpi è quindi uno dei pochi strumenti
normativi che si occupa di questo argomento molto rilevante in un'ottica di sviluppo
sostenibile globale. Il suolo è considerato funzionale sia alla vita di flora e fauna che
degli insediamenti umani, è una riserva genetica, parte di ecosistemi unici e anche
elemento chiave per lo sviluppo economico della regione alpina; questi principi
esprimono chiaramente le fitte interconnessioni tra questo Protocollo e gli altri
Protocolli della Convenzione. Il suolo “influisce in vari modi sulle altre politiche
settoriali nel territorio alpino, rendendo necessario un coordinamento interdisciplinare e
intersettoriale” (Convenzione delle Alpi, 1998b: preambolo).
Il Protocollo Energia, anch'esso firmato nel 1998, affronta il tema dell'energia
attraverso un duplice punto di vista. Gli Stati che hanno ratificato il Protocollo
11
82
Disponibile al sito http://www.fao.org/docrep/t0389e/T0389E0b.htm
s’impegnano ad “assumere concrete misure in materia di risparmio energetico”
(Convenzione delle Alpi, 1998c: art. 1), ma considerano la relazione tra Alpi ed energia
anche dal punto di vista delle “reti internazionali di distribuzione energetica”
(Convenzione delle Alpi, 1998c: preambolo) e da quello della produzione di energia,
arrivando a definire le Alpi come una zona di “massima rilevanza per i territori extraalpini” (Convenzione delle Alpi, 1998c: preambolo).
Il Protocollo Trasporti, elaborato nel 2000, affronta una questione di grande importanza
per lo sviluppo sostenibile della regione alpina, quella dei trasporti. Anche questo
Protocollo come quello della Difesa del suolo non trova strumenti equivalenti ne
nell'Agenda 21 ne in altri trattati internazionali. All'interno del Protocollo oltre al
concetto di sviluppo sostenibile e di rischio ambientale legato ai trasporti, un elemento
molto interessante è l'orientamento delle Parti contraenti verso l'idea che “una politica
dei trasporti orientata ai principi di sostenibilità non è di interesse per la sola
popolazione alpina ma anche per quella extra-alpina” (Convenzione delle Alpi, 2000:
preambolo).
I protocolli sin qui elaborati e da alcuni Stati ratificati coprono solamente otto delle
tredici tematiche individuate nell'articolo 2 della Convenzione Quadro e considerate
prioritarie per raggiungere “una politica globale per la conservazione e la protezione
delle Alpi” (Convenzione delle Alpi, 1991: art.1).
I campi per i quali non è ancora stato elaborato nessun protocollo sono Salvaguardia
della qualità dell'aria e Gestione dei rifiuti.
Per quello che riguarda il protocollo Popolazione e Cultura alla fine dell'Ottobre
dell'anno 2000 sono iniziati i lavori preparatori di ricerca dei dati e dei documenti per
83
poter creare un gruppo di lavoro ad hoc su questo argomento. Pur essendo il primo dei
temi che la Convenzione delle Alpi si propone di affrontare, non tutti gli Stati membri
della Convenzione delle Alpi ritengono questa una questione fondamentale. Francia,
Austria in particolare ritengono inutili le norme vincolanti di un protocollo per questo
argomento; mentre Italia, Slovenia e Svizzera ritengono fondamentale l'adozione di
misure chiare e vincolanti anche in questo ambito, per poter dare una completa
attuazione alla Convenzione Quadro.
Anche la società civile, che ha un ruolo tutt'altro che marginale nel dare forma alla
Convenzione e ai suoi Protocolli, attraverso l'ONG CIPRA (Commissione
Internazionale per la protezione delle Alpi) spinge per l'elaborazione di questo
protocollo ritenendolo urgente per riuscire a porre gli esseri umani che abitano l'arco
alpino in primo piano della Convenzione delle Alpi. Questa idea promossa da CIPRA
trova la sua origine nell'idea del “triangolo della sostenibilità” espresso nella
Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e sullo Sviluppo. L'originalità di questo concetto,
ripreso poi dai contenuti della Convenzione delle Alpi, sta nella multi-dimensionalità
data all'idea di sostenibilità. I vertici del triangolo sono lo sviluppo economico
sostenibile, la protezione ambientale, e lo sviluppo sociale sostenibile. Popolazione e
cultura diventano quindi temi essenziali in un’ottica di sviluppo sostenibile.
Nel 2006 è stata adottata la Dichiarazione “Popolazione e Cultura” da parte dei Ministri
delle Parti Contraenti. La dichiarazione si propone l'obiettivo di far si che “le
popolazioni si identifichino con i contenuti della Convenzione delle Alpi e dei suoi
Protocolli” (Dichiarazione “Popolazione e Cultura”, 2006). Gli argomenti che gli Stati
membri hanno voluto approfondire con la Dichiarazione sono stati l'acquisizione di una
84
coscienza di essere comunità, incoraggiando pratiche di cooperazione e partecipazione,
la diversità culturale dal punto di vista delle tradizioni e delle lingue, la qualità della vita
e le pari opportunità, l'idea dell'arco alpino come uno spazio economico e il ruolo delle
città e dei territori rurali, entrambe indispensabili per lo sviluppo della regione alpina.
Nel caso del protocollo Gestione dell'acqua (Idro-economia), la proposta per questo
protocollo è stata fatta nel 2003 da Austria e CIPRA. La gestione delle riserve d'acqua
presenti nelle Alpi è di fondamentale importanza, poiché in esse sono racchiuse la
maggior parte delle riserve idriche del continente europeo. Alcuni punti fondamentali
sui quali è necessario elaborare delle strategie all'interno del protocollo sono: la
protezione dei ghiacciai, l'utilizzo della neve artificiale, la tutela di bacini fluviali, falde
acquifere e degli spartiacque.
3.4.
APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE
La Convenzione Quadro è entrata in vigore nel 1995 dopo le ratifiche dei primi
tre Stati che per primi ne hanno recepito i contenuti nella legislazione nazionale. Negli
anni successivi si sono aggiunte le ratifiche degli altri cinque stati (ultimi Italia e
Principato di Monaco nel 1999). I Protocolli applicativi sono stati firmati da tutti gli
Stati membri (UE esclusa) entro l'anno 2002, molti di essi sono anche stati ratificati e
quindi sono entrati in vigore nella maggior parte degli Stati membri. Fanno eccezione in
questo senso Italia, Svizzera ed Unione Europea. La Convenzione delle Alpi essendo un
trattato internazionale necessita nella maggior parte degli ordinamenti di essere recepita
nell'ordinamento nazionale attraverso una legge promulgata dal Parlamento anche se
85
alcune disposizioni contenute nei Protocolli applicativi possono essere considerate selfexecuting, norme che a causa della loro precisione nell'individuare gli obblighi ai quali i
soggetti devono sottostare, non necessitano di ulteriori chiarificazioni da parte del
legislatore nazionale, e che possono in conseguenza essere impugnate in caso di dispute
nei tribunali nazionali (Geslin, 2008: 29). L'applicazione della Convenzione è avvenuto
in modo multiforme nei diversi Stati membri. Una delle principale forme di attuazione
della Convenzione è la partecipazione da parte delle Parti contraenti ai programmi
settoriali in questa materia come il programma europeo Spazio Alpino, all'interno
dell'orientamento INTERREG. La verifica dei processi applicativi della Convenzione
delle Alpi e dei Protocolli viene effettuata dal Gruppo di Verifica, istituito con la
decisione VII/4, è composto da due rappresentanti per ogni Parte contraente e la sua
presidenza coincide con quella della Convenzione delle Alpi.
Il Gruppo svolge sia funzioni di esaminatore dei rapporti nazionali prodotti dagli Stati
membri, sia di assistenza delle stesse quando ne viene fatta richiesta. Inoltre il Gruppo
si Verifica redige un rapporto periodico sullo stato dell'attuazione della Convenzione
delle Alpi, del quale vengono informate le Parti contraenti e l'opinione pubblica.
Per comprendere con chiarezza il livello di applicazione della Convenzione delle Alpi e
dei suoi Protocolli applicativi è necessario analizzare brevemente i diversi gradi di
applicazione della Convenzione e dei Protocolli nelle legislazioni nazionali degli Stati
membri.
3.4.1.
Austria
La Repubblica austriaca, paese tra i firmatari del trattato, ha ratificato la Convenzione
86
Quadro nel 1994. I Protocolli applicati sono in vigore in Austria dal 2002, anno della
loro ratifica. A causa del suo ordinamento federale l'Austria vede fortemente coinvolte
nel processo di implementazione delle Convenzione e dei Protocolli le istituzioni
governative dei Länder oltre che quelle federali.
Il Land più interessato dalla Convenzione delle Alpi in Austria è il Tirolo, all'interno
delle cui strutture amministrative e giudiziarie sono state emesse numerose sentenze o
decisioni che riguardano i contenuti della Convenzione Quadro e dei Protocolli
attuativi.
In questo paese una delle maggiori difficoltà incontrate è quello della mancanza di
consapevolezza nei confronti degli obiettivi della Convenzione e dei Protocolli da parte
dell'opinione pubblica, per questo sin dagli anni successivi alla ratifica della
Convenzione è in atto una campagna informativa sulla Convenzione delle Alpi
(Plicanič, 2002: 124).
Inoltre, a causa dell'ampiezza di alcuni contenuti sia della Convenzione Quadro che dei
Protocolli attuativi, spesso le autorità esecutive incontrano difficoltà nell'implementare
questi contenuti; per questo si auspica un coordinamento tra le Parti contraenti per
l'attuazione di piani e programmi.
3.4.2.
Francia
La Francia, terzo stato per estensione del territorio alpino racchiuso nei suoi
confini, è tra i firmatari della Convenzione delle Alpi nel 1991, ratificata ed entrata in
vigore, attraverso la promulgazione di una legge nazionale, solamente nel 1995.
L'applicazione della Convenzione delle Alpi sul territorio francese non è privo di
87
difficoltà. Una delle principali difficoltà è stata che la Convenzione va a ricoprire molti
degli argomenti già affrontati nella legge sulla montagna del 198512; per questo molti
dei contenuti della Convenzione vengono ritenuti ridondanti (Servoin, 2002: 101).
Inoltre la Convenzione delle Alpi è, dal punto di vista francese, un testo parziale poiché
si occupa solamente di una delle zone montane presenti sul territorio francese.
La Convenzione e i Protocolli attuativi sono oggetto di critiche anche da parte delle
comunità montane, soprattutto a causa del poco spazio lasciato per il dialogo tra queste
ultime e gli organi della Convenzione.
La Convenzione delle Alpi viene vista quindi in funzione di un rafforzamento, qualora
ce ne fosse bisogno, della legislazione nazionale piuttosto che di una base legislativa per
una maggiore e più coesa cooperazione tra gli Stati membri della Convenzione.
3.4.3.
Svizzera
La Svizzera, assieme all'Italia e all'Unione Europea, non ha ratificato nessun
Protocollo applicativo della Convenzione non ostante il campo di applicazione della
Convenzione delle Alpi copra più di metà della superficie territoriale della Svizzera.
Una delle ragioni che giustificano la riluttanza della Svizzera nella ratifica di questo
strumento è che la questione della gestione delle montagne è già presente nella
legislazione nazionale svizzera già in precedenza alla Convenzione delle Alpi a causa
della morfologia del territorio dello Stato.
3.4.4.
Germania
La Germana ha ratificato la Convenzione nel 1994, ed ha ratificato tutti i
Protocolli attuativi fin ora realizzati. La regione alpina tedesca coincide con parte della
12
88
Legge 85-30 del 9 Gennaio 1985
Baviera che rappresenta poco più del 5% dell'intera superficie sulla quale si applica la
Convenzione delle Alpi. É quindi lo stato che contribuisce in misura minore al
“volume” della regione alpina in termini numerici. Altrettanto non si può dire in termini
di applicazione delle norme della Convenzione Quadro e dei Protocolli, e soprattutto
nell'ambito della cooperazione con gli altri Stati membri, con i quali la Germania
condivide numerosi progetti cooperativi (Rapporto della Repubblica Federale di
Germania sul secondo rapporto di attuazione della Convenzione delle Alpi e dei suoi
protocolli in conformità alla decisione VII/4 della VII Conferenza delle Alpi, 2009:
punto 6)
3.4.5.
Slovenia
La Slovenia è entrata a far parte degli Stati membri della Convenzione delle Alpi
nel 1993, ratificandola nel 1995. Ad oggi la Slovenia ha ratificato anche tutti i Protocolli
applicativi della Convenzione.
Molte delle norme contenute nella Convenzione delle Alpi facevano già parte della
legislazione slovena, contenute nella legge per la protezione ambientale 13 la quale,
nonostante faccia riferimento a molti dei temi individuati nella Convenzione delle Alpi,
non fa riferimenti specifici alla “regione alpina”. Per questo sarebbe necessaria in
Slovenia una legge sulle aree montane che incorporasse adeguatamente i contenuti della
Convenzione della Alpi nell'ordinamento nazionale. Le istituzioni slovene auspicano
che le norme contenute nella Convenzione Quadro e nei Protocolli diventino “la norma
per i comportamenti nell’ambiente alpino” (Modello standardizzato che dovrebbe
servire alle Parti contraenti per i loro rapporti periodici in conformità con la Decisione
13
Si veda la OJRS 32/93
89
VII/4 della Conferenza delle Alpi_ Slovenia, 2004: punto 4).
3.4.6.
Liechtenstein
Il Liechtenstein è assieme al Principato di Monaco lo stato più piccolo per
estensione e popolazione tra i membri della Convenzione delle Alpi. Il Liechtenstein è
inoltre l'unico Stato il cui territorio ricade al 100% nella regione alpina delimitata dalla
Convenzione Quadro, tutto lo Stato quindi è coinvolto nelle politiche previste dalla
Convenzione e dai Protocolli attuativi. Il Liechtenstein fa parte dei così detti Stati
monistici, ordinamenti nei quali diritto interno e internazionale sono considerati un
tutt'uno “la trasformazione delle norme internazionali in diritto interno non è necessaria
dal punto di vista del diritto internazionale, poiché il diritto internazionale e i sistemi
giuridici nazionali fanno parte di un unico ordinamento giuridico” (Cassese, 2006: 283);
la Convenzione delle Alpi quindi viene incorporata direttamente nell'ordinamento
nazionale a partire dalla sua data di entrata in vigore ufficiale, anche se alcune
disposizioni contenute nei Protocolli applicativi necessitano di alcuni interventi
legislativi.
3.4.7.
Principato di Monaco
Il Principato di Monaco è entrato a far parte degli Stati membri della
Convenzione delle Alpi nel 1994, attraverso la firma delle Parti contraenti del Protocolli
di Monaco. Il Principato, a causa del pochissimo territorio sotto la sua giurisdizione al
di fuori dell’abitato di Monaco, ricopre un ruolo marginale nell’ambito della
Convenzione. È lo Stato, tra gli altri, con la minor superficie di territorio alpino rispetto
90
all’intera superficie stabilita dalla Convenzione (0,01%), oltre che con la minore
percentuale di popolazione alpina. Il Principato di Monaco ha ancora in atto le ratifiche
numerosi Protocolli attuativi della Convenzione.
3.4.8.
Unione Europea
La partecipazione dell'Unione Europea come Parte contraente della Convenzione
è un’importante manifestazione sia d’interesse sia di preoccupazione per la regione
alpina.
A livello comunitario i temi della Convenzione delle Alpi si inseriscono negli argomenti
più generale della protezione dello sviluppo sostenibile e della protezione delle zone
montane. Per quello che riguarda il primo dei due, troviamo dei riferimenti nel Trattato
che istituisce l'Unione Europea: “La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme
della Comunità […] uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività
economiche […] un elevato livello di protezione dell'ambiente ed il miglioramento della
qualità di quest'ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione
economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri” (Versione consolidata del Trattato
che istituisce la Comunità Europea, art. 2)
Il secondo argomento ha all'interno dell'UE due dimensioni: una interna e una esterna.
Uno degli strumenti principali della strategia che l'UE mette in atto per lo sviluppo di
politiche mirate alla protezione delle aree montane è la Convenzione per la Protezione
delle Alpi, ratificata nel 1996 ed è entrata in vigore solamente nel 1998. Per quello che
riguarda i Protocolli applicativi, l’Unione Europea ne ha ratificati solamente quattro su
otto. Questo ritardo è giustificato dalla stessa Unione con lo scopo di rispettare il
91
principio di sussidiarietà, il principio secondo il quale l'azione amministrativa deve
avvenire al livello amministrativo più vicino al cittadino, e solo nel caso in cui essa
possa essere svolta più efficientemente più avvenire al livello superiore.
Inoltre l'ambiente è uno degli argomenti tra quelli di più difficile gestione a livello
europeo. Le competenze di Stati e Unione Europea si sovrappongono e confliggono
l'una con l'altra. Un'altra fonte di problemi è che tra gli Stati membri della Convenzione
ci sono sia Stati membri dell'UE che stati non-membri, fatto che complica la possibilità
di creare accordi nell'ambito della Convenzione delle Alpi.
In realtà le azioni compiute dall'Unione verso una politica in favore delle regioni di
montagna sono state numerose;si pensi ad esempio al Programme Interreg III o al
programma Leader +.
Anche a livello legislativo l'UE ha adottato delle norme direttamente riferite alla
questione dello sviluppo sostenibile delle regioni di montagna, come le direttive Nature
2000, il regolamento 352/86 o la direttiva 268/75.
3.4.9.
Italia
L'Italia ha ratificato la Convenzione delle Alpi nel 1999 attraverso la legge n° 403/99,
“Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la protezione delle Alpi, con allegati e
processo verbale di modifica del 6 aprile 1993, fatta a Salisburgo il 7 novembre 1991 ".
Con questa legge, il Parlamento italiano autorizza “Piena ed intera esecuzione” 14 alle
norme contenute nella Convenzione, attribuendo i compiti di attuazione al Ministero
dell'Ambiente e ai ministeri competenti nelle tematiche dei vari Protocolli.
Lo scopo della Consulta è quello di coordinare l'attuazione della Convenzione Quadro e
14
92
Legge n° 403/99
dei Protocolli attuativi ad ogni livello amministrativo, evitando quindi la
sovrapposizione di norme, o delle mancanze nella legislazione.
L'Italia, pur avendo firmato tutti i Protocolli attuativi della Convenzione, non ne ha a
tutt'oggi ratificato nessuno. La ratifica dei Protocolli è ferma all'approvazione del
Senato della Repubblica, avvenuta solamente nel Maggio 2009, a cui però non è seguita
l'approvazione della Camera dei Deputati.
Una delle maggiori difficoltà espresse dall'Italia nell'implementazione, e quindi nella
ratifica, delle norme della Convenzione, è che in Italia lo spazio alpino è caratterizzato
da zone a forte vocazione industriale, nelle quali la tutela dell'ambiente deve essere
necessariamente coordinata con il mantenimento dello sviluppo economico. Un altro
elemento difficile è che l'Italia è lo Stato con la maggiore estensione di territorio alpino,
territorio sul quale hanno giurisdizione sia lo Stato, ma anche le amministrazioni
regionali e locali. È necessario quindi armonizzare le misure prese ad ogni livello
amministrativo per giungere ad una politica verso la “regione alpina” comune, per
questo è stata creata la Consulta Stato-regioni dell'arco alpino.
La Consulta Stato-regioni dell'arco alpino è formata da un rappresentante
dell'amministrazione
nazionale
pertinente
ai
Ministeri
coinvolti
(Ministero
dell'ambiente, Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, Ministero per le
politiche agricole, Ministero dei trasporti e della navigazione, Ministero dei lavori
pubblici, Ministero dell'interno, Ministero per i beni e le attività culturali, Presidenza del
Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica); oltre che dai
rappresentanti delle amministrazioni regionali e delle provincie autonome, e i
rappresentanti delle amministrazioni locali (UNCEM, ANCI, UPI). I dati più aggiornati
93
di questa breve analisi dell'applicazione della Convenzione Quadro e dei Protocolli
applicativi fanno riferimento ad un questionario che il Gruppo di Verifica, attraverso la
cui somministrazione agli Stati membri è stato possibile verificare l'attuazione della
Convenzione. Il rapporto, esito del questionario, dovrebbe essere presentato dagli Stati
membri ogni quattro anni; l'ultimo è del 2009 (solo per alcuni Stati).
3.5.
CONCLUSIONE
In questo capitolo, partendo dalle ragioni che stanno alla base della elaborazione
della Convenzione per la protezione delle Alpi e dei suoi Protocolli applicativi fino ad
arrivare ad una breve analisi della sua applicazione, è stata in un certo senso tracciata la
strada percorsa dal territorio alpino e dai suoi abitanti fino ad oggi.
Le differenze e la complessità di questo ampio territorio situato nel mezzo dell'Europa e
che ne coinvolge otto stati più la stessa Unione Europea appaiono evidenti; ma sono
altrettanto evidenti i tratti comuni che caratterizzano il territorio della regione alpina, la
storia, l'evoluzione urbana e culturale, ma soprattutto la necessita di un coordinamento
politico-normativo per evitare che le Alpi diventino una periferia delle pianure
industriali. La Convenzione delle Alpi si propone sulla scena internazionale e
comunitaria come un importante strumento per la regolamentazione della vita nella
regione alpina ma anche una base giuridica per l'implementazione di politiche orientate
allo sviluppo sostenibile in questo territorio. Alla fine dell'analisi della Convenzione non
è possibile evitare di elencare quelli che vengono indicati come i punti più problematici
dei contenuti di questo trattato e della sua applicazione.
94
Una delle criticità più evidenti è la mancanza di comunicazione, intesa sia come
diffusione dei contenuti della Convenzione agli abitanti delle Alpi, sia come
comunicazione tra gli Stati membri. La comunicazione è un elemento fondamentale per
far si che i contenuti della Convenzione siano accettati non solo dagli apparati
amministrativi degli stati, ma anche dalle persone che popolano le Alpi, poiché
coinvolte direttamente dalle norme contenute in essa. Un altro elemento chiave per
un’efficacia sempre maggiore della Convenzione Quadro e dei Protocolli è la
partecipazione dell'UE, che potrebbe avere un ruolo fondamentale per giungere ad una
coesione delle politiche dei diversi Stati membri nelle politiche riguardanti i temi
individuati nella Convenzione stessa.
Anche il ruolo delle associazioni e delle ONG è stato importante per la creazione della
Convenzione e lo è per la sua applicazione. Lo stimolo della società civile
transnazionale, come nel caso di CIPRA, può diventare un collante importante per il
raggiungimento di obiettivi condivisi tra le Parti contraenti.
95
4. LA CONVENZIONE DELLE ALPI: UN MODELLO IBRIDO
“Così […] ci affacceremo al nuovo millennio,
senza sperare di trovarvi nulla di più di quello
che saremo capaci di portarvi”
(Italo Calvino, Lezioni Americane)
4.1.
INTRODUZIONE
Le montagne sono oggi tra gli habitat più densi che esistano sul pianeta. La loro
densità è data dal fatto che in queste aree geografiche si intrecciano le relazioni tra
molte specie viventi. Queste zone geografiche, proprio a causa di questa densità e delle
conseguenti problematiche, sono oggi sotto i riflettori poiché è in questi territori che
grandi questioni come il cambiamento climatico, l'impronta delle attività umane
sull'ambiente, la finitezza delle risorse naturali si manifestano maggiormente.
In questo panorama le montagne, così come altri spazi geografici simili per estensione,
appartenenza a Stati differenti, importanza naturale come i mari, vengono ad acquistare
un carattere sempre più particolare.
Le comunità locali che stanno alla base della vita di questi luoghi, si trovano ad
affrontare dei problemi di azione collettiva per la gestione delle montagne. Per questo vi
è una sempre maggiore ricerca di modalità partecipative per la soluzioni di problemi di
questo tipo.
L'insieme degli interessi comuni e la dimensione comunitaria che le zone geografiche di
questi tipo vivono, sono quindi sempre più elementi fondamentali per lo sviluppo di
logiche cooperative che possano portare alla soluzione di tematiche complesse come
96
quelle affrontate dalla Convenzione delle Alpi, in grado poi in alcuni casi di essere
esportate come modelli di governance innovativi.
In questo capitolo cercherò di analizzare, partendo dalla base teorica che ho costruito
nel primo e nel secondo capitolo, come la Convenzione delle Alpi possa essere
considerata uno strumento cooperativo in bilico tra l'essere un regime internazionale e
un sistema di governance multilivello. Farò questo soffermandomi sulle particolarità
della stessa Convenzione, cercando di capire se essa è efficace come regime
internazionale ambientale, utilizzando in questo caso i criteri che ho elencato nel primo
capitolo proposti da Oran Young, assieme a Marc Levy, nel libro “The Effectiveness of
environmental regimes” (1999) e la sua efficacia all'interno del framework europeo della
cooperazione territoriale.
Mi soffermerò inoltre sull'importanza degli attori non-statali nella costruzione di questo
tipo di sistema di governance, introducendo infine il concetto secondo cui facendo
riferimento a questioni pluridimensionali come quella ambientale, si possa parlare di
sistemi ibridi di governance.
4.2.
LA CONVENZIONE DELLE ALPI IN BILICO: il livello internazionale
e quello comunitario
La Convenzione della Alpi, come ho descritto nel capitolo precedente, si
propone come obiettivo fondamentale quello di promuovere un modello di sviluppo
sostenibile per il territorio alpino, che attraverso la Convenzione acquista sempre più lo
status di regione globalmente importante per il pianeta.
97
La Convenzione delle Alpi, come molti alti trattati internazionali, prevede e promuove
una tipologia di sviluppo sostenibile su base regionale; si parla infatti di regional
sustainable development (Balsiger: 2008, 2) per la gestione di questioni riferite
all'ambiente che non potrebbero essere affrontate attraverso delle azioni unilaterali o
comunque non cooperative, proprio a causa della difficoltà di dare dei confini a
questioni come quella ambientale.
La Convenzione è interessante sul piano delle relazioni internazionali per diversi motivi.
Il primo di questi è il fatto di avere prodotto, sviluppato e in gran parte ratificato oltre
alla Convenzione Quadro, dieci ulteriori protocolli tematici. Questa è una caratteristica
peculiare della Convenzione delle Alpi, che contrasta con altre Convenzioni, pur sempre
in ambito ambientale, come ad esempio la Convenzione sul Cambiamento Climatico del
1992 (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il cui
acronimo inglese è UNFCCC), che solamente dopo anni ha prodotto un solo protocollo
attuativo, il famoso Protocollo di Kyoto, del 1997.
All'interno di questa prima importante caratteristica della Convenzione delle Alpi
bisogna rilevare anche che, al contrario di quello che avviene normalmente, gli ambiti
nei quali secondo i Paesi membri è necessario collaborare per raggiungere un effettivo
sviluppo sostenibile sono definiti direttamente nella Convenzione Quadro.
Questo approccio, pur essendo innovativo e obbligando gli Stati membri ad affrontare le
tematiche individuate, favorendo il processo di creazione dei Protocolli, ha anche
incontrato numerosi problemi legati alla rapidità di creazione dei Protocolli e alla
necessità di mantenere un nesso linguistico e logico tra la Convenzione Quadro e i
Protocolli.
98
La seconda caratteristica che a mio parere è importante evidenziare della Convenzione
delle Alpi è il suo approccio olistico. Una delle sue prerogative è proprio quella di non
limitare il proprio campo d'azione alle più classiche delle tematiche dello sviluppo
sostenibile. Essendo la regione alpina molto variegata sia dal punto di vista
dell'ecologia, ma anche per quello che riguarda le attività umane, i trasporti e le
popolazioni che vivono in essa, è necessario utilizzare un approccio interdisciplinare.
La cooperazione, necessaria per il raggiungimento degli obiettivi previsti dalla
Convenzione, deve essere quindi di tipo inter-settoriale; l'intersezione tra tematiche
diverse come ad esempio quello delle popolazione e delle culture e quello dell'energia è
fondamentale per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile in una regione con
queste caratteristiche.
La terza ed ultima caratteristica rilevante di questa convenzione è il fatto di
rappresentare un caso di istituzionalizzazione eco-regionale (Balsiger, 2008: 3). Con
questo termine si intende sottolineare che pur essendo la Convenzione delle Alpi un
trattato internazionale, che come tale basa la sua esistenza sulla volontà degli Stati, il
suo scopo e il suo campo di attuazione sono definiti basandosi sulla partecipazione di
unità sub-nazionali come regioni, provincie e comuni. Ecco quindi apparire l'approccio
orientato alla partecipazione locale della Convenzione.
Nel corso dell'analisi dell'efficacia della Convenzione delle Alpi, consci del fatto che è
possibile definirla sia come un trattato internazionale sia come sistema di governance
multilivello, ci accorgeremo del fatto che è solamente dalla sintesi di questi due
approcci che è possibile vedere nella Convenzione il senso di questo tipo di
cooperazione internazionale.
99
Considerando da un lato la Convenzione come un regime internazionale, il rischio è di
cadere in alcuni errori che secondo Susan Strange (1983) sono insiti nella definizione di
regime internazionale, come ad esempio la staticità, intesa come rigidità ai cambiamenti
sul piano internazionale, e il forte orientamento stato-centrico che i regimi internazionali
tendono ad avere.
D'altra parte, pensare alla Convenzione unicamente come un sistema di governance
multilivello inserito nelle iniziative di cooperazione territoriale europee, riduce la
portata del trattato internazionale. In questo secondo caso viene a mancare la
dimensione di internazionalità che risulta fondamentale affinché il modello proposto
dalla Convenzione non rimanga relegato a questo territorio ma possa trovare
applicazione anche in riferimento ad altre realtà.
É necessario quindi proporre per quello che riguarda questo tipo di cooperazione
territoriale, un modello che faccia convergere i due approcci teorici che ho illustrato nei
primi capitoli.
4.2.1.
La Convenzione delle Alpi: un regime internazionale efficace?
Prima di applicare, a questo caso studio, i criteri che Young e Levy propongono
per determinare l'efficacia o meno di un regime ambientale internazionale, è
indispensabile volgere lo sguardo verso alcune importanti classificazioni degli effetti
che un regime come quello descritto può avere. Gli effetti di un regime possono essere
identificati, secondo questi due autori, su due assi distinti: interni o esterni e diretti o
indiretti (Young & Levy, 1999: 10).
Gli effetti interni della Convenzione delle Alpi, intesi come quegli effetti che
100
coinvolgono gli Stati membri della Convenzione, sono ben visibili: la partecipazione dei
ministri dei Paesi membri alle sedute della Conferenza delle Alpi e dei rappresentanti
delle parti contraenti, le ratifiche e le applicazioni negli ordinamenti nazionali della
Convenzione, evidenziano la visibilità dei suoi effetti interni.
Per quello che riguarda gli effetti esterni di questo regime internazionale, esso sono
identificabili con quell’insieme di conseguenze che la Convenzione ha al di fuori del
suo territorio, il più eclatante e importante è forse il processo di diffusione di regimi
ambientali simili alla Convenzione delle Alpi nelle regioni dei Carpazi (Convenzione
dei Carpazi15), i Balcani e l'area andina.
Spostandoci su l'altro asse individuato dai due autori, gli effetti diretti sono quelli che
derivano direttamente da principi e norme contenute nella Convenzione e nei Protocolli.
Al contrario gli effetti indiretti di un regime internazionale come quello creato dalla
Convenzione delle Alpi possono essere individuati ad esempio in una sempre più
marcata attenzione verso le regioni montane a livello globale, sia da parte delle
organizzazioni internazionali (come l’UNEP) o sovranazionali (come l’UE), ma anche
da parte di associazioni ambientaliste o reti della società civile.
Avendo chiaro quindi i diversi livelli nei quali un regime può manifestare la sua
efficacia, seguendo l’approccio analitico proposto da Young e Levy possiamo ora
concentrarci sulla valutazione dell’efficacia della Convenzione, sulla sua capacità
quindi di produrre le diverse tipologie di effetti che ho descritto all'inizio di questo
paragrafo. Per fare questo farò riferimento ai cinque criteri di efficacia utilizzate da
Young e Levy nel loro testo (Young & Levy: 1999).
Il primo è l'efficacia riferita alla capacità di problem-solving che un determinato regime
15
http://www.carpathianconvention.org/index.htm
101
possiede. Da questo punto di vista è necessario chiedersi se la Convenzione delle Alpi,
sia riuscita o meno ad affrontare la questione che ha portato alla sua creazione, cioè
quella della necessità di regolare lo sviluppo dell'area alpina, per evitare che questo
territorio diventasse sempre più periferico rispetto ai grandi centri economici urbani.
Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale si comincia quindi ad elaborare una
strategia per orientare lo sviluppo dello spazio alpino verso la sostenibilità.
Non è semplice stabilire se la Convenzione abbia raggiunto questo suo scopo e quando
lo raggiungerà, anche se sicuramente alcuni passi importanti sono stati fatti, come ad
esempio la presa di coscienza da parte degli Stati alpini della necessità di riconsiderare
il ruolo delle montagne. È molta la strada ancora da percorrere, anche per il semplice
fatto che non tutti i Protocolli che erano stati previsti nella Convenzione Quadro sono
stati elaborati.
È necessario quindi spostarsi ad analizzare al secondo criterio di efficacia, quello legale.
Da questo punto di vista bisogna segnalare che non ostante che la Convenzione Quadro
sia stata ratificata da tutti gli otto Stati alpini, molti Protocolli rimangono non ratificati o
inattuati. L'Italia, come la Svizzera, ad esempio ha firmato tutti i Protocolli applicativi
della Convenzione, senza però ratificarne nessuno.
In Italia in particolare la proposta di ratifica dei Protocolli è stata portata dal Governo e
nel 2009 è stato formulato un Disegno Legge per la ratifica dei Protocolli, approvato
dalla Camera dei Deputati, ora al vaglio del Senato. È però notizia di pochi mesi fa che
in contrasto con la linea del Governo, la Lega Nord, sotto pressione delle associazioni
degli autotrasportatori, è riuscita a bloccare la ratifica del Protocollo Trasporti 16.
Possiamo quindi affermare che dal punto dell'efficacia legale, molto è ancora da
16
Corriere della Sera “Quel localismo irragionevole che ci taglia fuori dall'Europa”, 18/04/2010
102
realizzare nell'ambito normativo-legale della Convenzione.
Il terzo criterio di efficacia di un regime che Young e Levy individuano è quello riferito
ai costi del regime. Secondo questo approccio possiamo parlare di efficacia di un regime
solamente quando i costi della sua istituzione non sono eccessivi. Da questo punto di
vista la Convenzione delle Alpi non sembra presentare dei costi diretti, come potrebbe
invece averne un regime internazionale che stabilisce ad esempio il divieto di utilizzo di
un certo tipo di pesticidi in agricoltura; gli Stati membri quindi non sembrano dover
spendere o perdere denaro con la ratifica della Convenzione. Vi possono essere però dei
costi indiretti che un regime come la Convenzione delle Alpi può causare. Questo
discorso ci avvicina ad un punto che toccherò in seguito, e cioè quello degli effetti
diretti o indiretti dei regimi.
Il successivo criterio di efficacia che i due autori identificano, il quarto, fa riferimento
all'efficacia normativa. Questo termine usato da Young e Levy non deve essere confuso
con la dimensione legale di cui ho parlato prima, bensì si deve intendere il livello di
partecipazione delle autorità nel regime o la tutela della giustizia. La Convenzione delle
Alpi, per quello che riguarda questa tipologia di efficacia, ha compiuto qualche passo
verso una maggiore partecipazione degli enti territoriali coinvolti, ma da questo punto di
vista molto rimane ancora da compiere per diffondere la Convenzione e in seguito le
norme in essa contenute17; in seguito vedremo come, soprattutto in ambito comunitario,
questo punto sia di fondamentale importanza.
La quinta ed ultima tipologia di efficacia di un regime ambientale internazionale è
l'efficacia politica. Affinché un regime possa essere considerato efficace sul piano
17
Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo
Consiliare Verdi-Democratici
103
politico è necessario, secondo Young e Levy, che esso sia in grado di modificare gli
interessi degli attori, le politiche e quindi le performance delle istituzioni. Per quello che
riguarda il mio caso studio, la Convenzione delle Alpi fino ad ora non ha avuto questo
tipo di “forza” politica. Solamente in alcuni casi, quello del comune di Budoia in Friuli
Venezia Giulia, quello di Cavalese in Trentino e alcune leggi della Provincia Autonoma
di Trento, è possibile parlare di efficacia politica della Convenzione e dei suoi
Protocolli. Per quello che riguarda il comune di Cavalese, la Convenzione è stata
inserita nello statuto comunale 18, mentre il regolamento comunale di Budoia 19 prevede la
partecipazione del comune al network Alleanza nelle Alpi. Nel caso della Provincia
Autonoma di Trento i principi della Convenzione sono stati inseriti ad esempio nella
Legge Urbanistica Provinciale (01/2008)20 e nella Legge Provinciale sulle foreste e sulla
protezione della natura (11/2007)21.
Sia dal punto di vista delle istituzioni 22 che da quello delle associazioni della società
civile23, emerge che è proprio la mancanza di volontà politica che spesso riduce la
Convenzione ad essere definita come una “ineffective paper tiger” 24 (Balsiger, 2008: 3).
Il quadro che emerge da questa analisi dell'efficacia della Convenzione delle Alpi, intesa
come regime internazionale ambientale, è positivo solo a tratti.
18
19
20
21
22
23
24
Statuto comunale del Comune di Cavalese (TN) disponibile al sito
http://www.mbtechzone.it/comunecavalese/StatutoRegolamenti.aspx
Regolamento Comunale del Comune di Budoia (PN) disponibile al sito
http://www.comune.budoia.pn.it/Atti-e-Documenti.6.0.html
disponibile al sito della PAT:
http://www.consiglio.provincia.tn.it/banche_dati/codice_provinciale/clex_documento_camp.it.asp?
pagetype=camp&app=clex&at_id=17431&type=testo&blank=N
disponibile al sito della PAT:
http://www.consiglio.provincia.tn.it/banche_dati/codice_provinciale/clex_documento_camp.it.asp?
pagetype=camp&app=clex&at_id=16530&type=testo&blank=N
Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo
Consiliare Verdi-Democratici
Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, rappresentante di CIPRA – Italia
“Tigre di carta inefficace” (traduzione non ufficiale)
104
Non ostante alcune zone felici, nelle quali la Convenzione ha trovato applicazione
anche a livello locale, nella maggior parte di territori compresi nel suo territorio manca,
a detta sia di amministratori locali che della società civile, oltre ad una buona
informazione nei confronti della cittadinanza, una chiara volontà politica orientata al
sostegno dello sviluppo sostenibile in questa zona geografica, elemento imprescindibile
per una montagna sana, non solamente fonte di sviluppo economico, ma anche di
sviluppo umano. La Convenzione oggi, anche nei paesi che l'hanno ratificata nella sua
completezza (mancano all'Appello UE, Svizzera e Italia), è spesso non applicata
soprattutto a livello locale.
Il regime ambientale istituito dalla Convenzione delle Alpi risulta quindi efficace solo in
parte; pur considerando il regime internazionale teoricamente una strategia efficace per
la promozione della cooperazione nella soluzione di problemi condivisi, il caso della
Convenzione delle Alpi dimostra come il regime internazionale non riesca a rendersi
davvero efficace sul territorio.
4.2.2.
La Convenzione delle Alpi: un Gruppo Europeo di Cooperazione
Territoriale efficace?
Quando si parta di Alpi, non possiamo dimenticare che questo territorio sia
all'interno dei confini dell'Unione Europea. È impossibile quindi pensare ad uno
sviluppo cooperativo dell'arco alpino, come di altre regioni montane europee, senza
prendere in considerazione da dimensione comunitaria, che spesso diventa quella
preponderante.
Le Alpi, a causa della loro posizione geografica, per anni hanno solo avuto il ruolo di
105
territorio di confine. L'avvento della dimensione comunitaria, l'uscita dalla logica di
Stati nazione chiusi in se stessi, il boom economico e il rinnovato interesse per il
turismo, hanno trasformato le Alpi in un luogo di transito fisico e culturale, oltre che in
una meta ambita.
Dal punto di vista della governance, le Alpi sono state definite come un laboratorio per
l'Europa (Morandini & Reolon, 2010: 45). Questo concetto, già introdotto da Cammanni
(2004), ci mostra le Alpi non come un “paradiso” o un “isola incontaminata”; al
contrario, poiché questo territorio coniuga in se stesso molte delle contraddizioni che
ritroviamo anche in molti altri territori dell'Unione, oltre che molti dei problemi
dell'economia capitalistica del modello consumistico odierno, è solamente “grazie” alle
sfide che il territorio alpino affronta quotidianamente che è possibile parlare di questo
territorio come di un laboratorio.
Come abbiamo visto in precedenza lo strumento più importante per l'applicazione della
governance multilivello, considerata oggi come la modalità di policy-making europea, è
quello che vede dal 2006 in poi la creazione dei GECT. In questo caso la Convenzione
delle Alpi è da considerare come uno strumento di cooperazione territoriale.
La formalizzazione di questa modalità di cooperazione è avvenuta, per quello che
riguarda la Convenzione, con la creazione e del Programma comunitario Spazio Alpino,
che, prima nell'ambito del programma INTERREG e ora come GECT, ha dato alla
Convenzione una dimensione europea, rendendo possibile l'istituzione di progetti ci
cooperazione tra gli Stati dell'Unione membri della CA.
Bisogna ora chiedersi se questo nuovo strumento di cooperazione territoriale, i GECT
introdotti dal Regolamento (CE) n. 1082/2006, sia efficace per l'implementazione della
106
governance multilivello tra gli Stati membri della Convenzione.
Essendo la questione dell'efficacia molto sfaccettata, le dimensioni che è necessario
indagare sono diverse. Dal punto di vista della comunicazione e dello scambio di
informazioni utili alla gestione del territorio alpino, la presenza di uno o più GECT 25 sul
territorio definito dalla Convenzione delle Alpi come alpino favorisce in modo
indiscutibile i contatti non solo tra gli otto Stati, ma anche tra le diverse autorità locali
che si trovano all'interno di questo territorio.
La partecipazione delle autorità locali, nonché delle comunità locali, è molto incentivata
in questo ambito cooperativo; questo è un elemento sicuramente significativo per
valutare l'efficacia di un GECT. In questo senso è necessario però rilevare che il ruolo
della politica, intesa come attività di governo, è fondamentale per la gestione del
processo di governance proposto dalla cooperazione territoriale europea.
Un esempio dell'orientamento che anche l'UE sta incominciando a seguire, é la Strategia
europea per la regione del Mar Baltico (Commissione Europea, 2009) che si pone
l'obiettivo di migliorare il coordinamento fra gli otto Stati membri che si affacciano sul
Mar Baltico, e gli altri paesi costieri che non sono membri dell’Unione Europea, per
rispondere alla sfide a cui questa regione è sottoposta; una soluzione che potrebbe
essere presa in considerazione dall'UE anche per la regione alpina.
Nel paragrafo conclusivo del documento della Commissione Europea si legge che “La
regione del Mar Baltico presenta una lunga tradizione di reti e di cooperazione in
numerosi settori di intervento. Questa strategia offre la possibilità di passare dalle parole
ai fatti e di conseguire effettivi vantaggi per l'intera regione” (Commissione Europea,
25
una euroregione alpina vera e propria non esiste formalmente; anche se, pur essendo presenti tre
euroregioni nell'arco alpino, una euro-regione estesa a tutto l'arco alpino sarebbe auspicabile
107
2009). Con l'adozione di questa strategia l'UE ha aperto le porte ad un’idea di
cooperazione territoriale più estesa rispetto alle ridotte dimensioni che le euroregioni
hanno fino ad ora assunto; si parla in questo caso di macroregione, un concetto nuovo
per l'Unione che potrebbe portare ad una strategia regionale anche per l'arco alpino in
un futuro prossimo (Morandini & Reolon, 2010: 77).
Per quello che riguarda la situazione attuale a causa delle caratteristiche del territorio
alpino e dell'estensione del territorio alpino definito dalla Convenzione delle Alpi, della
relativa novità dei GECT come strumento per implementare la governance multilivello
europea e a causa della scarsa volontà politica, soprattutto a livello locale, nemmeno un
modello di governance come quello proposto negli ultimi anni dall'UE può essere
considerato come totalmente efficace per la gestione di regioni transfrontaliere come
quella alpina. Facendo riferimento a quanto scritto all'inizio del secondo paragrafo, la
Convenzione delle Alpi non sembra trovare piena efficacia né nella sua forma di regime
internazionale, né come sistema di governance multilivello.
É necessario elaborare, per quello che riguarda questo tipo di cooperazione territoriale,
un modello che faccia convergere i due approcci teorici che ho illustrato fino ad ora.
Prima di fare questo però vorrei volgere lo sguardo verso alcuni progetti messi in atto
nell'ambito della Convenzione delle Alpi, efficaci per la comprensione del ruolo dei
diversi attori coinvolti in questo sistema di governance.
4.3.
ATTORI E BUONE PRATICHE
L'ambiente è forse il tema che oggi più incarna l'idea di una molteplicità di attori
coinvolti a tutti i livelli, dal policy making, all'implementazione delle decisioni.
108
La questione ambientale, che come abbiamo avuto modo di vedere negli ultimi anni, è
oramai entrata a pieno titolo a far parte delle relazioni internazionali e come molti altri
ambiti vede coinvolti nei vari sistemi di governance numerosi attori. Per quello che
riguarda la Convenzione delle Alpi una delle caratteristiche più importanti è l’insieme
delle complesse relazioni che sono venute a crearsi tra attori locali, attori appartenenti
alla società civile, istituzioni nazionali e sovra-nazionali, reti e network globali.
In questo vasto panorama di relazioni, un ruolo fondamentale è ricoperto dagli attori
non statali, cioè quegli attori che non sono rappresentativi degli interessi dei governi
degli Stati. Ecco quindi che si sente sempre più spesso parlare di organizzazioni non
governative (ONG), d’imprese transnazionali e di comunità epistemiche.
Sulla scena politica internazionale appaiono quindi sempre più frequentemente attori
della società civile o attori portatori di interessi privati o elitari.
Nel caso della Convenzione delle Alpi l'apporto dell'associazionismo della società civile
è stato fondamentale, sia nel periodo durante il quale la Convenzione era elaborata in
azione congiunta con i governi dei futuri Stati membri, sia oggi, come stimolo per le
autorità locali a seguire le linee-guida dettate dalla stessa Convenzione, o come
esecutori del compito di monitorare l'efficacia delle decisioni prese.
L'ONG più importante a livello alpino è sicuramente CIPRA, un’organizzazione
transalpina, nata nel 1952, che riunisce al suo interno tutte le associazioni legate al
mondo della montagna nelle Alpi degli otto Stati alpini. È quindi dai primi anni
cinquanta del secolo scorso che la società civile lavora per lo sviluppo di un sistema di
norme e principi che regolino la vita dei territori alpini. CIPRA è stato un attore
fondamentale per la realizzazione della Convenzione delle Alpi quarant'anni dopo la sua
109
nascita. Oggi è presente con delle agenzie nazionali negli otto Stati alpini e svolge il
compito di monitoraggio sull'operato dei diversi attori per quello che riguarda
l’applicazione della Convenzione, oltre che di gestione dei diversi network e i progetti
che sono sviluppati sulla spinta delle linee-guida tracciate dalla Convenzione delle Alpi.
Non bisogna però sottovalutare il ruolo che gli stessi organi della Convenzione delle
Alpi, in particolare il Segretariato, e alcuni Stati membri hanno avuto, come attori
principali per la diffusione e l'implementazione dei principi e delle norme contenuti
nella Convenzione.
Per chiarire meglio in che modo oggi la presenza simultanea di questi attori sia un
elemento chiave nell’ambito della Convenzione delle Alpi, è utile presentare alcune
buone pratiche, intese come tutte quelle azioni, iniziative e programmi messi in atto da
questi attori per favorire l’applicazione dei principi e delle norme presenti nella
Convenzione.
Tra gli altri progetti, messi in atto in collaborazione con attori della società civile in
questi anni nell'arco alpino, due in particolare sono da ricordare, Alparc (Rete Alpina
delle Aree Protette) e Alleanza nelle Alpi.
La Rete Alparc, istituita nel 1995, si pone l'obiettivo di favorire un continuo scambio di
informazioni tra i parchi alpini, le riserve naturali, le riserve di biosfera e altre forme di
protezione che sono state mese in atto nell'arco alpino.
Lo scopo principale di questa rete, è di creare uno scambio di conoscenza tra le varie
esperienze che nel corso degli anni sono maturate nella regione alpina attraverso la
messa in atto di una rete tematica, una rete ecologica e una rete comunicativa
rifacendosi ai contenuti della Convenzione delle Alpi e ai Protocolli applicativi. In
110
particolare la missione di questo progetto è esplicitata nella Convenzione all'articolo 12
che recita “Le Parti contraenti assumono le misure idonee a creare una rete nazionale e
transfrontaliera di aree protette istituite, di biotopi e altri beni ambientali protetti o
meritevoli di protezione. Esse si impegnano ad armonizzare gli obiettivi e le misure in
funzione di aree protette transfrontaliere”.
Alleanza nelle Alpi è un network di comuni dell'arco alpino fondato nel 1997. Queste
autorità locali e i loro cittadini, riconoscono nella Convenzione delle Alpi le linee guida
per raggiungere l'obiettivo di uno sviluppo sostenibile per i diversi territori che fanno
parte dell'arco alpino. Questo secondo progetto è particolarmente rilevante anche
secondo CIPRA26, poiché è a livello locale che la dimensione della società civile e
quella della pubblica amministrazione si incontrano, sviluppando così una maggiore
consapevolezza della Convenzione delle Alpi e delle linee-guida per uno sviluppo
sostenibile dell'area alpina in essa contenute.
Per quello che riguarda il contributo degli attori istituzionali danno allo sviluppo di una
governance per le tematiche ambientali, sul modello della Convenzione delle Alpi, il
contributo più recente è la nascita nel 2003 della Convenzione dei Carpazi.
I Carpazi sono una zona montana collocata tra l'Europa centrale e l'Est Europa, con una
superficie di poco superiore a quella alpina. La regione affronta ancora oggi le
problematiche legate alla transizione dal sistema sovietico a quello occidentale, e per
questo molti degli sforzi profusi dall'UE si concentrano in questa direzione.
Il processo di creazione della Convenzione dei Carpazi ha coinvolto non solo gli organi
della Convenzione delle Alpi ma anche i Governi di alcuni paesi membri, Austria e
Liechtenstein, il governo Olandese, l'ONG WWF International, il Ministero italiano
26
Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, rappresentante di CIPRA – Italia
111
dell'Ambiente ed EURAC. La ratifica di questa Convenzione, avvenuta nel 2006, ha
l'obiettivo di portare all'attenzione degli Stati l’importanza della regione montana
presente nei loro territori e di attuare strategie cooperative per garantire uno sviluppo
sostenibile anche per questo territorio.
La Convenzione dei Carpazi è sia nella struttura sia nei contenuti molto simile alla
Convenzione delle Alpi, avendo anch'essa un carattere transnazionale poiché comprende
sette diversi territori nazionali, essendo anch'essa una Convenzione Quadro che non
fissa obblighi ma solamente delle linee-guida indispensabili per uno sviluppo
sostenibile per questa regione montana. Questo esempio di diffusione del modello della
Convenzione delle Alpi non è stato l'unico, né all'interno del territorio europeo, né in
altri continenti.
Per quello che riguarda il territorio europeo, un percorso simile a quello avvenuto nella
regione dei Carpazi sta avvenendo nei Balcani. Non ostante le grandi difficoltà che in
questa regione si incontrano nei tentativi di cooperazione tra gli Stati, è in atto in questi
anni, un complesso processo per la creazione di una Convenzione simile alle due
precedenti con lo scopo di promuovere uno sviluppo sostenibile per le aree montane dei
Balcani.
All'esterno del territorio europeo, nella regione andina dell'America Latina è stato
istituito nel 1994 il Consortium for Sustainable Development of the Andean Ecoregion
(CONDESAN), una piattaforma ecoregionale che si occupa dello sviluppo sostenibile in
questa regione montana.
Tutte queste reti e alleanze, che formano in tutto il pianeta delle ecoregioni o delle
regioni montane, fanno capo all'organizzazione Mountain Partnership, un’alleanza
112
volontaria diffusa in 50 paesi, che comprende 16 organizzazioni intergovernative e 101
tra istituzioni, associazioni e ONG.
Non ostante la dimensione globale che organizzazioni come Mountain Partnership
hanno assunto, un governo dell'ambiente globale è assolutamente impensabile sia a
causa dei costi che della presumibile inefficacia causata dal fatto che gli Stati sono
sempre meno inclini in realtà a trovare degli accordi su questo tema, come abbiamo
visto nell'ultimo Earth Summit di Copenhagen nel Dicembre 2009. Bisogna quindi
concentrarsi sugli strumenti già in atto sia a livello globale che locale o nazionale per
muovere passi efficaci verso l'obiettivo dello sviluppo sostenibile.
In questo senso si può affermare che anche l'ONU può essere considerato come un
attore chiave verso un processo globale coordinato di gestione dell'ambiente. L'UNEP,
l'Agenzia dell'ONU per l'ambiente, è oggi fortemente orientata verso un approccio
regionale della governance ambientale globale. All'interno del documento finale del
Fifth Global Environment Outlook (UNEP, 2010) si legge tra gli obiettivi si trova la
necessità di dare supporto ai processi di decision-making che avvengono ai livelli
appropriati. La parte 2 del documento è interamente dedicata alla descrizione di
“Options for Regional Policy Action”, mentre la terza parte mette in luce l'idea che sta
alla base dell'approccio regionale dell'agenzia: un approccio regionale per una risposta
globale alle sfide poste dalla questione ambientale.
Non solo quindi l'approccio regionale è promosso all'interno dell'UE dal sistema dei
GECT, dal WWF con la classificazione delle ecoregioni presenti sul pianeta e dalla
presenza di network globali come Mountain Partnership, ma anche l'UNEP è orientata
verso una struttura regionale per la governance ambientale.
113
4.4.
UN SISTEMA IBRIDO?
Il panorama degli attori e degli approcci coinvolti nella governance di questioni
così sfaccettate come quella ambientale è evidentemente molto ampio.
Abbiamo visto come gli attori istituzionali giochino ancora un ruolo fondamentale,
sebbene sia sempre più intrecciato con le azioni intraprese da attori non-statali che sono
fondamentali per la gestione di questioni di questo tipo.
Se gli attori istituzionali possono essere considerati come portatori di “governo”,
elemento imprescindibile per dare attuazione locale ad accordi internazionali o a
principi condivisi, gli attori non statali come le imprese transnazionali, i network e le
ONG transnazionali (transalpine in questo caso) sono portatori di un modello di
“ordine” nuovo, rispetto a concezioni delle relazioni internazionali stato-centriche.
La spiegazione del meccanismo d’intersezione di questi due approcci è più chiara
pensando al gap tra governo e governance come un continuum all'interno del quale
troviamo le molteplici forme di combinazione di queste due anime della politica
internazionale (Börzel, 2010: 9). La soluzione mediana, che evita un modello top-down
senza però dare luogo al complesso e costoso sistema del conflitto politico è quella della
governance con il governo (governance with government).
Il prerequisito per il sorgere di un modello di governance che racchiuda una molteplicità
di attori ampia come quella che abbiamo descritto nei casi delle partnership per le
regioni montane, è la così detta shadow of hieracy, l'idea cioè che il governo e il ruolo
dello stato siano dei prerequisiti alla nascita di un modello di governance che coinvolga
114
anche attori non-statali.
Questa idea non vuole togliere veridicità all'idea che questioni come quella ambientale
richiedano un sistema di governance più complesso di quelli che abbiamo sin ora
valutato, ma sottolinea proprio l'interdipendenza tra un approccio basato sul ruolo
importante che gli Stati giocano ancora oggi nel campo delle relazioni internazionali, e
le nuove pressioni dovute alla sempre maggiore interdipendenza tra stati e altri attori,
causate anche dal fatto che oggi problemi globali necessitano di soluzioni globali.
La domanda di sistemi di governance misti è oggi all'ordine del giorno. Le diverse sfere
delle relazioni internazionali, come l'economia o l'ambiente subiscono oggi forti
pressioni a causa dell'interdipendenza tra gli Stati; le azioni dell'uomo, la maggior parte
delle volte, non solo hanno conseguenze locali ma oggi hanno ripercussioni su larga
scala. Se da un lato è chiaro che non è più possibile limitare l'analisi di questo tipo di
questioni ai soli attori istituzionali, dall'altro, come ho già scritto, anche la governance
senza il governo risulterebbe difficilmente gestibile.
È necessario ragionare in un’ottica che veda questi approcci confluire verso un'unico
sistema di governance. Unico sistema di governance, che Lemos e Argwal nel loro
saggio all'interno del libro di Young e Delmas “Governance for the environment” (2009)
chiamano governance ambientale ibrida.
Questo approccio si basa sul fatto, oramai dimostrato, che nessuno dei singoli attori
presenti sulla scena politica internazionale è in grado di gestire la molteplicità di
sfaccettature e crescenti interdipendenze insite in questioni oggi globali come quella
ambientale.
Il modello della Convenzione delle Alpi, inteso non solo come trattato internazionale,
115
ma nella sua vasta applicazione sia a livello statale sia nella società civile, si avvicina
molto all'idea di governance ibrida. La forma ibrida in questo caso è data dalla presenza
simultanea del livello internazionale, nazionale, locale, con quello comunitario oltre che
dalla presenza di azioni messe in atto da ONG come CIPRA o il WWF e dalle relazioni
che avvengono, nel rispetto dei principi espressi nella Convenzione delle Alpi, tra enti
privati ad esempio per la costruzione di infrastrutture o per lo sfruttamento delle risorse
naturali.
Questa fitta intersezione di livelli e attori fa si che la responsabilità del raggiungimento
degli obiettivi stabiliti non sia concentrata su un attore soltanto, come ad esempio
un’organizzazione intergovernativa, ma al contrario che sia dispersa a più livelli,
contribuendo così a evitare tentativi di free riding da parte dei diversi attori coinvolti nel
processo di soluzione della questione ambientale.
Non ostante l'evidente necessità di un modello ibrido di governance, espressa non solo
dalla spinta regionalista dell'UNEP, ma anche dall'espansione del modello di
governance per le zone montane proposto con la Convenzione delle Alpi, è necessario
porre l’accento su alcuni limiti insiti in questa strategia (Lemos & Agrawal, 2009: 80).
Un primo aspetto critico è l’effettiva capacità di questo tipo di approccio per la
soluzione dei problemi che altri sistemi di governance presentano; questo perché non
sempre attori che da sempre ricoprono un ruolo centrale per quello che riguarda
l'ambiente sono disponibili ad accettare l'ingresso sulla scena politica internazionale di
nuovi attori. La seconda criticità riguarda la coesistenza di attori privati e pubblici in
una stessa partnership.
Infine l'ultimo problema riguarda gli equilibri di potere tra i diversi attori coinvolti. In
116
questo caso la questione fondamentale è la distribuzione del potere all'interno della
partnership; l'approccio bottom-up proposto da questo tipo di governance potrebbe non
essere sufficiente per modificare le preesistenti distribuzioni di potere, essendo in questo
caso inutile. È necessario quindi prestare attenzione alle ineguaglianze a livello
economico, educativo e di potere che possono vanificare l'intera strategia di
governance.
Non ostante nemmeno la proposta di un sistema ibrido sia esente dall'affrontare delle
difficoltà e dei limiti, questa soluzione appare oggi la soluzione non solo auspicata
dall'Agenzia dell'ONU per l'ambiente, come è scritto nel Fifth Global Environment
Outlook (UNEP, 2010), ma anche la strada che gli stessi attori pubblici e privati,
istituzionali e non-statali, vanno pian piano intraprendendo, sulla scia dell'idea che sia
necessaria una riconfigurazione della governance ambientale, verso un modello in grado
non solo di essere efficace, ma anche che deve essere necessariamente ibrido,
multilivello e che attraversi più settori (Lemos & Agrawal, 2009: 96).
4.5.
CONCLUSIONE
Alla luce di quest’analisi, la Convenzione delle Alpi appare con delle evidenti
criticità, ma anche con dei rilevanti punti di forza. Una prima criticità è identificabile
nella “sfera politica” della Convenzione; la lentezza nella ratifica da parte di alcuni Stati
117
della Convenzione Quadro, per non parlare della riluttanza di alcuni tra gli otto paesi,
tra cui l'Italia, nella ratifica e nell'applicazione dei Protocolli attuativi. Da questo punto
di vista appare prioritario che le Alpi acquistino una forza politica, magari creando
un’euroregione alpina27.
Un secondo aspetto critico della Convenzione è la poca conoscenza che i cittadini e le
amministrazioni locali del territorio alpino hanno di essa. La Convenzione necessita, per
essere davvero efficace nei suoi principi, di essere compresa e fatta propria in primo
luogo dai cittadini delle alpi e dalle amministrazioni che li rappresentano. Anche
secondo CIPRA, che si occupa del monitoraggio sul territorio dell'applicazione
Convenzione, è necessario uno sforzo della Convenzione verso i cittadini; per questo
bisognerebbe, secondo CIPRA, ritenere prioritaria per gli organi della Convenzione, la
firma da parte dei paesi membri del protocollo riguardante il tema “Popolazione e
Cultura”28, per il quale oggi esiste solamente una dichiarazione.
D'altra parte però la Convenzione dimostra anche degli inequivocabili successi. Innanzi
tutto la stessa firma della Convenzione segna un punto di svolta di un processo di
avvicinamento all’obiettivo cardine della Convenzione delle Alpi, cioè la creazione di
un framework normativo per questa regione, che CIPRA e i governi nazionali hanno
portato avanti per decenni. In secondo luogo, come ho già scritto, la struttura della
convenzione è innovativa rispetto ad altri trattati internazionali; raramente, prima della
Convenzione delle Alpi, ad una convenzione quadro erano seguiti così tanti protocolli
attuativi e mai l'oggetto dei protocolli era stato prestabilito nella convenzione quadro.
Inoltre, come sembrano dimostrare la nascita della Convenzione dei Carpazi e il
27
28
Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo
Consiliare Verdi-Democratici
Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, rappresentante di CIPRA – Italia
118
processo in atto nella regione balcanica, ai quali si devono aggiungere le sempre più
frequenti iniziative di cooperazione territoriale, sia in ambito comunitario (GECT e
Strategia dell'Unione europea per la regione del Mar Baltico), che in ambito
internazionale (UNEP, Programma Regionale per le Aree marine), il modello di
governance proposto dalla Convenzione delle Alpi appare il linea di principio
applicabile anche in altre regioni montane.
La Convenzione delle Alpi ha infine il merito di mantenere aperto il dialogo tra attori
istituzionali e non-statali, cercando così di limitare i possibili conflitti per la gestione
dello spazio alpino, evitando di lasciare le Alpi in una condizione di marginalità rispetto
agli interessi prioritari dei governi nazionali e sovra-nazionali.
119
CONCLUSIONI
L’accelerazione dei cambiamenti ambientali è oggi una delle questioni chiave
della politica interna ed esterna degli Stati. Gli attori internazionali, in riferimento alla
questione ambientale, e in particolare per quello che riguarda le zone montane, si
trovano oggi ad affrontare una duplice sfida.
Da un lato vi è l’idea che l’ambiente vada conservato e tutelato in quanto habitat
fondamentale per molte specie viventi, oltre che per gli esseri umani; dall’altro oggi
sembra che parlando di ambiente sia inevitabile fare riferimento alla nozione di sviluppo
sostenibile. Questi due concetti sono evidentemente due opposti: conservazione e
sviluppo, tradizione e progresso sono chiaramente due idee che normalmente tendono in
direzioni divergenti, difficilmente conciliabili. Molte regioni del pianeta, come quella
alpina, sono al tempo stesso sia zone all’interno delle quali è sempre maggiore la
difficoltà di raggiungere modelli di sviluppo sostenibile sia luoghi nei quali è possibile e
necessario attuare modelli innovativi di governance.
Prendendo in considerazione come caso studio la Convenzione per la Protezione delle
Alpi, ho voluto in questo elaborato, analizzare sia l’efficacia di un regime internazionale
ambientale, sia la nascita e l’attuazione di un sistema di governance multilivello
nell’ambito delle politiche comunitarie, approcci che coesistono nel caso della
Convenzione.
Il punto da cui sono partito nell’analisi di quest’argomento è lo studio del ruolo della
cooperazione nell’ambito delle relazioni internazionali. Gli Stati, attori del sistema
internazionale per eccellenza, hanno sempre associato la stipulazione di accordi all’uso
120
massiccio della forza per la soluzione di controversie. Con il passare dei secoli le
interdipendenze tra gli Stati sono andate man mano aumentando, e questo ha portato a
un cambiamento anche nell’ambito delle relazioni internazionali.
I problemi, in conseguenza dei grandi cambiamenti che sono avvenuti in particolare nel
corso dell’ultimo secolo, hanno assunto sempre più un carattere globale e gli attori
coinvolti sono aumentati notevolmente di numero; questo è avvenuto in maniera
particolarmente rilevante in ambiti che valicano i confini degli Stati come quello
ambientale. I trattati internazionali, e quindi i regimi internazionali sono oggi diventati
sempre più frequentemente la soluzione a problemi di azione collettiva; dalla fine del
secondo conflitto mondiale abbiamo assistito alla creazione di moltissimi regimi
internazionali negli ambiti più diversi, dalla sicurezza al commercio e all’ambiente. A
questo si aggiunga che non solo è aumentato il numero di attori statali, ma sono apparsi
sulla scena internazionale attori sovranazionali o non-statali, che hanno fatto in modo
che la domanda di governance aumentasse sensibilmente nell’ultimo ventennio del XX
secolo.
Applicando un ragionamento economico ad una questione politica dopo aver constatato
l’aumento della domanda, è necessario osservare il parallelo movimento dell’offerta di
governance. Questa appare oggi sempre più difficile da ottenere soprattutto in
riferimento alla questione ambientale, come hanno dimostrato le difficoltà incontrate
negli ultimi vertici internazionali relativi a questo tema. Ecco quindi che si sta
assistendo a un fenomeno che potremmo chiamare regionalizzazione della governance.
I motivi di questo spostamento dal piano internazionale a quello regionale sono diversi.
Il primo di questi è il fatto che spesso i confini degli Stati non corrispondono ai limiti di
121
realtà naturali omogenee. È il caso questo delle oltre duecento ecoregioni che l’ONG
WWF International ha individuato nell’ultimo decennio in tutto il pianeta. Prendendo ad
esempio le Alpi, che sono una di queste ecoregioni, è evidente come la soluzione al
problema della conservazione e dello sviluppo sostenibile di questo territorio non veda
gli Stati come unici attori di questo processo, ma veda anche coinvolte nel ricoprire un
ruolo primario per il raggiungimento di questi obiettivi le amministrazioni regionali e
locali, assieme all’Unione Europea, oltre che attori della società civile e attori privati.
Un secondo motivo riguarda il fatto che l’efficacia di un accordo che prevede la
cooperazione tra un numero limitato di attori per un obiettivo comune, è sicuramente
maggiore che non quella di un accordo più ampio che, fissando degli standard globali,
non rispetti le differenze, le necessità e le possibilità dei diversi territori. Inoltre la
regionalizzazione della governance ambientale è oggi incentivata dal crescente numero
di attori coinvolti nel processo.
Ecco quindi come la teoria della governance multilivello, sviluppatasi nell’ambito delle
politiche comunitarie, possa oggi essere considerata un approccio chiave per
comprendere a fondo i meccanismi che permettono a diversi attori, pubblici e privati,
istituzionali e non, di mettere in atto dei processi cooperativi per la realizzazione
d’iniziative volte a rispondere a questa crescente domanda di governance.
La Convenzione delle Alpi, firmata nell’ultimo decennio del secolo scorso, è un chiaro
esempio di un trattato internazionale orientato verso la tutela di una regione
comprendente solamente una parte dei territori degli Stati membri. Da un lato, questa
può essere considerata una caratteristica problematica, in quanto ha certamente
determinato un diffuso disinteresse tra molti degli Stati membri, che si è trasformato
122
nella difficoltà di ratifica e di applicazione delle norme e dei principi contenuti nella
Convenzione Quadro e nei Protocolli applicativi della Convenzione delle Alpi
all’interno del territorio alpino.
D’altra parte però, questa unicità della Convenzione delle Alpi, ha permesso
l’applicazione di un modello di cooperazione territoriale, non più basato solamente
sull’azione di autorità nazionali, relativamente distanti dall’applicazione locale degli
accordi, ma che coinvolgesse livelli giurisdizionali più bassi come le regioni o le
amministrazioni locali (comuni e provincie), oltre che attori della società civile e privati.
Questo cambio di prospettiva, per quello che riguarda la regione alpina è stato
sicuramente agevolato dal fatto che, trovandosi sul territorio dell’Unione Europea,
l’approccio “regionale” della Convenzione ha colto un valido sostegno nella politica di
coesione, la strategia comunitaria volta alla promozione dello sviluppo di regioni più
svantaggiate all’interno e sui confini dell’UE, e nei progetti comunitari messi in atto
proprio per questi motivi.
Il percorso della Convenzione delle Alpi è certamente composto di luci e ombre, ma
dimostra come in un mondo sempre più interconnesso, nel quale i problemi di azione
collettiva acquistano quasi sempre una dimensione globale, un modello di governance
ambientale ibrido sembri oggi l’orientamento prevalente.
I soli regimi internazionali, pur rimanendo basi giuridiche e politiche chiave per la
realizzazione di una cooperazione efficace tra attori statali, non sembrano più in grado
di risolvere in maniera efficace questioni come quella ambientale in maniera autonoma,
a causa di diversi fattori come la sempre maggiore interdipendenza, la globalizzazone e
la spartizione del potere tra gli Stati e altri attori.
123
Le strategie di governance multilivello, d’altra parte, per funzionare in modo autonomo
hanno bisogno della presenza di una struttura sovranazionale che gestisca le relazioni tra
i diversi attori.
Un modello ibrido di governance ambientale per regioni che condividono caratteristiche
simili a quella alpina, sembra dare quindi la possibilità di conciliare sviluppo e tutela
della natura, un obiettivo fondamentale non solo per la Convenzione delle Alpi, ma
anche per la questione ambientale globale, come evidenziato in diverse convenzioni e
dichiarazioni internazionali.
Lo sviluppo è fondamentale per evitare che regioni come questa rimangano relegate
nella loro condizione di marginalità rispetto al resto dei territori del pianeta, e per
permettere e che si riesca a far emergere le loro particolarità e priorità. Tuttavia, al fine
di raggiungere uno sviluppo sostenibile è necessario tutelare non solo il patrimonio
naturale di queste aree geografiche, ma anche le tradizioni sociali e culturali di questi
territori.
Nel 2002, in occasione dell’Anno Internazionale della Montagna, l’allora Segretario
Generale dell’ONU Kofi Annan, nel suo messaggio, pose l’accento sul fatto che “per
raggiungere gli obiettivi preposti sarà necessario stimolare la cooperazione tra le
popolazioni montane, gli operatori del turismo, gli ambientalisti e il settore privato.
siamo infatti tutti chiamati a batterci per assicurare alle generazioni future l'enorme
disponibilità di risorse di questi territori” 29.
È proprio questo lo scopo che la Convenzione delle Alpi, attraverso i suoi Protocolli
applicativi vuole raggiungere. Ogni protocollo detta le linee guida per uno sviluppo
29
dal messaggio del Segretario Generale per la cerimonia di lancio dell'Anno Internazionale delle
Montagne, disponibile al sito: http://www.difesa.it/Approfondimenti/FestaRepubblica/2giugno02/Temi/msg-kofi-annan.htm
124
sostenibile all’interno del territorio alpino in un determinato settore, e si rivolge sia alle
scelte dei governi centrali degli Stati sia a quelle delle amministrazioni locali, alle
organizzazioni della società civile e agli attori privati attivi sul territorio alpino. La
proposta è quindi quella di un modello cooperativo per la gestione integrata e
multidisciplinare di un territorio unitario, suddiviso però tra diverse autorità
giurisdizionali.
125
APPENDICI:
Appendice 1: Perimetro della Convenzione delle Alpi, Mappa politica;
1:
126
Appendice 2: Perimetro del Programma Spazio Alpino, fonte: www.alpinespace.org
127
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Programma Spazio Alpino http://alpinespace.org
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INTERVISTE:
Intervista del 15/12/2009 al Dott. Marco Onida, Segretario Generale della Convenzione
delle Alpi e Marcella Morandini, funzionario del Segretariato Generale della
Convenzione delle Alpi;
Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento,
Gruppo Consiliare Verdi-Democratici;
Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, CIPRA Italia;
Intervista del 07/04/2010 al Dott. Guido Trivellini, consulente scientifico per WWF
Italia.
136
RINGRAZIAMENTI:
Desidero ringraziare la Professoressa Sicurelli per il tempo e i suggerimenti
dedicati al mio lavoro di ricerca; ringrazio il Dottor Onida e la Dottoressa Morandini del
Segretariato della Convenzione delle Alpi, oltre che per il materiale e i riferimenti
bibliografici che mi hanno suggerito, per la disponibilità ad essere intervistati. Ringrazio
inoltre il Dottor Bombarda, consigliere provinciale della Provincia Autonoma di Trento,
il signor Casanova, di CIPRA Italia, il Dottor Trivellini, consulente di WWF per la
disponibilità alle mie richieste d’informazioni.
137