la cooperazione transfrontaliera in ambito ambientale
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la cooperazione transfrontaliera in ambito ambientale
SCUOLA DI STUDI INTERNAZIONALI CORSO DI LAUREA IN STUDI EUROPEI E INTERNAZIONALI LA COOPERAZIONE TRANSFRONTALIERA IN AMBITO AMBIENTALE: Il caso della Convenzione delle Alpi Relatrice: Prof.ssa Daniela Sicurelli Laureando: Francesco Costa a.a. 2009/2010 2 “Oggi, spinto solo dal desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul monte più alto di questa regione, chiamato giustamente Ventoso” (Francesco Petrarca) A Miriam, INDICE: INTRODUZIONE 5 1. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE: I Regimi Internazionali 9 1.1. INTRODIZIONE 9 1.2. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE 10 1.3. I REGIMI INTERNAZIONALI: una forma di cooperazione internazionale 15 1.3.1. Definizione di Regime Internazionale 17 1.3.2. Le teorie “classiche” dei regimi internazionali 20 1.3.3. La “contrattazione istituzionalizzata” di Oran Young 22 1.3.4. Come si formano i regimi internazionali? 24 1.3.5. Misurare l’efficacia dei regimi internazionali 29 1.3.6. I regimi internazionali ambientali: un modello di governance globale 1.4. CONCLUSIONE 2. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE 2.1. INTRODUZIONE 33 35 39 39 2.2. LA GOVERNANCE MULTILIVELLO E LA QUESTIONE AMBIENTALE 41 2.2.1. La governance multilivello ambientale 46 2.3. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA IN MATERIA AMBIENTALE 51 2.4. VERSO LA REGIONALIZZAZIONE DELLA GOVERNANCE 62 2.5. CONCLUSIONE 65 3. UN ESEMPIO DI COOPERAZIONE TRANSFRONTALIERA: LA CONVENZIONE DELLE ALPI 67 3.1. INTRODUZIONE 67 3.2. LA STORIA DELLE ALPI 68 3.3. IL TRATTATO INTERNAZIONALE 73 3.3.1. La Convenzione Quadro 76 3 3.3.1.1. I contenuti 77 3.3.1.2. Organi e funzionamento 78 3.3.2. I Protocolli attuativi 3.4. APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE DELLE ALPI 80 86 3.4.1. Austria 88 3.4.2. Francia 88 3.4.3. Svizzera 89 3.4.4. Germania 90 3.4.5. Slovenia 90 3.4.6. Liechtenstein 91 3.4.7. Principato di Monaco 91 3.4.8. Unione Europea 92 3.4.9. Italia 93 3.5. CONCLUSIONE 4. LA CONVENZIONE DELLE ALPI: UN MODELLO IBRIDO 4.1. INTRODUZIONE 95 97 97 4.2. LA CONVENZIONE DELLE ALPI IN BILICO: il livello internazionale e quello comunitario 98 4.2.1. La Convenzione delle Alpi: un regime internazionale efficace? 101 4.2.2. La Convenzione delle Alpi: un Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale efficace? 106 4.3. ATTORI E BUONE PRATICHE 110 4.4. UN SISTEMA IBRIDO? 115 4.5. CONCLUSIONE 119 CONCLUSIONI 121 APPENDICI 127 BIBLIOGRAFIA 129 SITI INTERNET 137 INTERVISTE 137 RINGRAZIAMENTI 139 4 INTRODUZIONE “[…] quelli come lui, e non erano poi tanto pochi come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli uomini, per i quali i confini non erano mai esistiti se non come guardie da pagare o gendarmi da evitare” (Mario Rigoni Stern, La storia di Tönle) L’idea di questo elaborato parte dalla considerazione che alcune regioni del pianeta siano particolari e rappresentino non soltanto delle realtà geografiche più o meno istituzionalizzate, ma che siano anche portatrici di un significativo patrimonio storico, culturale e umano. Le Alpi, in particolare, hanno sempre avuto nei secoli una dimensione del tutto particolare; poste al centro del continente europeo sono state teatro della vita umana e habitat per molte altre specie viventi per millenni. Oggi però le Alpi, e le montagne più in generale, vivono una quotidianità problematica a causa del sempre maggiore impatto che le attività umane hanno sull’ambiente naturale. In particolare le regioni montuose, a causa della loro ricchezza di biodiversità e di risorse naturali indispensabili, non solo per la vita di piante e animali, ma anche degli esseri umani, risentono delle problematiche ambientali in maniera esponenziale. Oltre a questa questione prettamente ecologica, le regioni montane sia in Europa, sia in altre parti del mondo, hanno sofferto e soffrono ancora oggi, anche della loro marcata marginalità rispetto ai grandi centri urbani ed economici che con il passare dei secoli sono sorti nelle grandi pianure, che hanno catalizzato l’attenzione sia del mondo politico che della vita degli esseri umani. Per questo motivo oltre al problema della tutela ambientale, lo spopolamento delle valli 5 alpine e dei territori montani di altre regioni è oggi fonte di grande preoccupazione tra gli stessi abitanti e tra associazioni e organizzazioni della società civile. Bisogna riconoscere d’altro canto però che negli ultimi vent’anni, in particolare dopo la fine della Guerra Fredda, l’attenzione verso questi problemi è aumentata fino ad arrivare alla creazione di sistemi di governance per queste regioni. Un esempio di questo cambio di logica nei confronti delle regioni montane è la Convenzione per la Protezione delle Alpi (d’ora in poi Convenzione delle Alpi), il trattato internazionale in vigore tra otto stati alpini, che ho scelto come caso studio. Questo elaborato, attraverso l’analisi della Convenzione delle Alpi, si pone l’obiettivo di comprendere quanto un modello di governance come quello proposto dalla Convenzione sia efficace nel promuovere la cooperazione internazionale per la soluzione dei problemi che sono oggi in primo piano con riferimento alla questione ambientale. Inoltre l’elaborato si pone l’obiettivo di comprendere e analizzare il ruolo dei diversi attori che prendono parte alla governance di questo territorio. Il primo capitolo affronta il tema della cooperazione internazionale, analizzando in dettaglio uno strumento assai diffuso a livello mondiale: i regimi internazionali. Attraverso il contributo di numerosi autori il tentativo è di ricostruire la vita di un regime internazionale per riuscire a valutarne l’efficacia per la soluzione di problemi che difficilmente potrebbero trovare soluzione limitatamente ad una dimensione nazionale. Il secondo capitolo introduce, attraverso la spiegazione della teoria della governance multilivello, la peculiarità della cooperazione territoriale all’interno del territorio dell’Unione Europea. In questo contesto la Convenzione delle Alpi, si sovrappone al 6 Programma Spazio Alpino, un programma europeo nato nell’ambito dell’iniziativa INTERREG lanciata alla fine degli anni ottanta come strumento della politica di coesione dell’Unione Europea. Il terzo capitolo dell’elaborato riguarda il caso studio. Nella prima parte del capitolo la Convenzione delle Alpi viene analizzata nei suoi contenuti, in seguito viene proposta l’analisi dell’applicazione dei principi della Convenzione Quadro e dei Protocolli applicativi sul territorio dei diversi Stati membri. Infine il quarto capitolo, seguito dalle conclusioni dell’elaborato, è un capitolo analitico nel quale ho cercato di applicare le nozioni tratte dall’analisi delle due diverse teorie, quella dei regimi internazionali e quella della governance multilivello, descritte nei primi due capitoli, al caso studio. Nella seconda parte di questo capitolo ho proposto un modello ibrido per la governance della regione alpina e per territori simili a quello alpino. Per arrivare a questo risultato sono partito dall’analisi dei punti di forza e limiti della Convenzione delle Alpi, cercando di integrare questi risultati riferiti alla regione alpina con le tendenze individuate da numerosi autori che stanno prendendo piede a livello globale. Dal punto di vista metodologico, per la raccolta d’informazioni sia sul caso studio sia sui suoi effettivi risultati, ho compiuto quattro diverse interviste che mi sono state utili per comprendere in modo più completo i diversi punti di vista dei diversi attori coinvolti nel processo di governance in questa regione. Gli intervistati sono stati i rappresentanti delle istituzioni della Convenzione delle Alpi (Segretariato Permanente), due portavoce di due organizzazioni internazionali attive in ambito ambientale come WWF e CIPRA, e un Consigliere Regionale del Trentino Alto 7 Adige per il partito dei Verdi. Oltre a queste fonti dirette, ho basato l’analisi del caso studio attraverso i documenti ufficiali della Convenzione delle Alpi e dei rapporti periodici sull’applicazione della Convenzione provenienti dai diversi Stati membri. L’argomento oggetto di questo elaborato è indiscutibilmente complesso, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista analitico; la questione delle pratiche di cooperazione transfrontaliere per la gestione di problematiche condivise tra Stati diversi e a diversi livelli giurisdizionali necessita sicuramente di analisi ben più approfondite di quella che io ho proposto. Ma il panorama che andrò a descrivere qui di seguito è sufficiente almeno per comprendere l’importanza della nascita di nuove forme di governance ambientale a livello globale. 8 1. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE: I REGIMI INTERNAZIONALI “Se qualcuno ordinasse a tutti gli uomini di radunare in un sol luogo tutte le leggi che si credono brutte e di scegliere poi quelle che ciascuno crede belle, neppure una ne resterebbe, ma tutti si ripartirebbero tutto” (Protagora - Antilogie) 1.1. INTRODUZIONE Oggi ogni aspetto della vita degli esseri umani è sempre più correlato a ciò che accade in altre parti della Terra. Sempre più spesso gli Stati si trovano ad affrontare problemi che vanno al di là di quella che può essere definita “amministrazione nazionale”. I problemi, gli spostamenti, le comunicazioni, gli scambi economici sono oggi definiti sempre più frequentemente come “globali”; questi temi sono le sfide con le quali i governi devono confrontarsi quotidianamente. Molte delle questioni che si presentano ad essi vanno oltre i confini dello Stato o per estensione o perché sono processi che coinvolgono intere regioni. È per questo che sempre più frequentemente si parla di cooperazione tra Stati, una pratica che è ampiamente diffusa oggi in molti ambiti delle politiche e delle relazioni internazionali. È a partire dalla fine della seconda Guerra Mondiale che questo modo nuovo di fare politica estera ha iniziato a diffondersi nell'ambito delle relazioni internazionali. Nei primi anni successivi al conflitto si sono formate molte istituzioni e organizzazioni internazionali principalmente in ambito economico come ad esempio le istituzioni nate 9 durante la conferenza di Bretton Woods nel 1944, FMI, Banca Mondiale, e GATT. Se da una parte l'economia mondiale è uno dei settori nel quale la cooperazione tra Stati è presente come modus operandi da più tempo, nella seconda metà dello scorso secolo anche altri ambiti delle relazioni internazionali come la sicurezza o l'ambiente sono stati coinvolti in processi cooperativi. L'ambiente in particolare si presta per l'attuazione e lo studio di questa forma di relazioni tra Stati, coinvolgendo sempre più frequentemente più regioni che appartengono talvolta a Stati diversi, si pensi ad esempio alla tutela di un corso d'acqua che attraversa diversi Stati, o di una catena montuosa che funge da confine tra Stati come le Alpi o i Pirenei. È importante quindi analizzare dal punto di vista delle relazioni internazionali le pratiche e le teorie di cooperazione tra Stati. In questo capitolo cercherò di proporre una presentazione delle più importanti teorie delle relazioni internazionali che affrontano il tema della cooperazione internazionale e della formazione dei regimi internazionali. La domanda che sta all'origine dell'analisi che vado a proporre è: Perché gli Stati cooperano tra loro? Nel rispondere a questa domanda pongo come obiettivo ultimo della mia analisi la spiegazione in termini teorici della efficacia o meno della cooperazione transfrontaliera in materia ambientale. 1.2. LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE La cooperazione nell'ambito delle relazioni internazionali è quindi un tema relativamente recente soprattutto in materia ambientale. È solamente nella seconda metà 10 del XX secolo che gli studi delle relazioni internazionali nel loro complesso, e in particolare riguardo al tema dell'ambiente, danno vita alle prime teorie che tentano di spiegare in che modo e per quali motivi gli stati cooperano tra loro; teorie che sono di fondamentale importanza per la comprensione dei comportamenti degli Stati per quello che riguarda la politica estera. L'ambiente delle relazioni internazionali è stato considerato privo di qualsiasi forma di organizzazione politica fino al termine della seconda Guerra Mondiale. L'idea che gli Stati nelle loro relazioni vivessero in una condizione di anarchia orientata alla massimizzazione della propria utilità era ampiamente diffusa e testimoniata dalla storia delle relazioni internazionali; a questa idea fa riferimento il paradigma realista. Secondo questo approccio le relazioni internazionali tra gli Stati, che sono considerati gli unici attori sulla scena internazionale, avvengono appunto in un ambiente anarchico, nel quale un governo internazionale è irrealizzabile. Questo modello teorico è anche definito come stato-centrico; lo Stato è quindi l'attore unico, detentore del potere che ha come unico obiettivo quello di massimizzare la sua utilità. Le relazioni internazionali, secondo la visione espressa da questa teoria avvengono secondo un modello conflittuale, lo scontro tra ideologie e interessi statali sono le forme preponderanti di relazioni tra attori. Questo paradigma, le cui origini sono da far risalire a Machiavelli ne Il Principe, rimane predominante negli studi delle relazioni internazionali fino alla seconda metà del XX secolo. Alcuni importanti teorici contemporanei identificabili come “realisti” sono Kenneth Waltz e Joseph Grieco. La politica di potenza, la concezione secondo cui gli stati sono gli unici attori sovrani nel sistema internazionale, la natura aggressiva degli 11 Stati, la ricerca del potere militare hanno caratterizzato gran parte dei rapporti tra gli Stati anche oltre la fine della Guerra Fredda, pur essendo oggi mascherata attraverso le grandi Organizzazioni Internazionali che sono regolate però da “quote di maggioranza” detenute di paesi più ricchi. Secondo l'ottica realista la cooperazione non è la modalità di politica estera preferita dagli Stati; anzi l'assenza di un governo internazionale ha l'unica conseguenza di favorire il sorgere di conflitti internazionali. I fattori che ostacolano la cooperazione secondo i realisti (Grieco, 2001) sono due: il timore che la controparte violi le regole imposte e i guadagni relativi che gli Stati alleati possono ottenere dalla cooperazione. La posizione di questa corrente di pensiero alla cooperazione è evidentemente scettica; l'unica possibilità di cooperazione avviene, dal punto di vista degli Stati egemoni quando la cooperazione stessa è un modo per mantenere uno status di egemonia di potere su altri Stati, o di mantenere uno status di protezione dalla prospettiva di Stati non dominanti la scena politica internazionale. In contrapposizione a questo approccio teorico si pone il paradigma che vede le relazioni internazionali dominate non dalla politica di potenza ma bensì sul mantenimento di un ordine consensuale, l'istituzionalismo liberale. Questa visione delle relazioni internazionali, a differenza della precedente, non vede gli Stati come gli unici attori sulla scena internazionale ma assieme ad essi si da rilevanza alle organizzazioni internazionali, al diritto internazionale e alla società civile internazionale. L'ordine consensuale a cui questo modello aspira, si concreta attraverso le relazioni tra gli attori dell'arena internazionale che non sono, come nel caso del realismo, conflittuali, ma sono basate su processi di negoziazione e accordi, che portano ad emergere l'idea di una 12 interdipendenza globale che va ad opporsi alla situazione anarchica teorizzata dagli studiosi realisti. Questo paradigma, che trae origine dal “contratto sociale” teorizzato da Hugo Grotius, trova le sue prime applicazioni nella realtà politica internazionale con la creazione della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi. Ma è solamente dopo la dissoluzione del modello bipolare cha ha caratterizzato il periodo della Guerra Fredda fondato sulla politica di deterrenza, la più classica “politica di potenza”, che il paradigma dell'istituzionalismo liberale trova sempre più applicazione nella realtà della politica internazionale. Le parole società, cooperazione, sistema, regime internazionale, balance of power che da sempre appartengono al panorama, anche realista, delle relazioni internazionali solo nell'ultimo decennio del XX secolo vengono assimilate dal paradigma dell'istituzionalismo liberale, dando vita ad un nuovo modo di intendere la politica internazionale caratterizzato da una pluralità di attori che attraverso il negoziato e gli accordi promuovono una governance globale. Secondo i teorici di questo approccio la cooperazione internazionale permette agli attori che instaurano relazioni internazionali di ridurre la sensazione di incertezza che la concezione dello Stato come attore razionale, orientato alla massimizzazione del suo interesse, alimenta. Uno strumento teorico molto utile per spiegare il funzionamento della cooperazione anche nelle relazioni internazionali è la teoria dei giochi. La cooperazione in questo senso è definita come una situazione di coordinamento tra gli attori, necessaria per il raggiungimento di un beneficio comune. Sotto questa luce, la cooperazione appare come una condizione molto complicata da raggiungere poiché la defezione di un solo attore porterebbe all'inapplicabilità della cooperazione; se ad esempio, come è accaduto 13 durante la Guerra Fredda, due Stati preferiscono la corsa agli armamenti piuttosto che una mutua riduzione di essi, questo porta inevitabilmente ad una situazione di conflitto. Analizzando alcune diverse tipologie di gioco ci si accorge che la propensione alla cooperazione è maggiore nella situazione dove è migliore la ricompensa. La cooperazione è in questo caso, una situazione complicata da raggiungere poiché tutti i cacciatori devono cooperare per raggiungere l'obiettivo, ma ogni attore coopera solo se gli altri cooperano. Questa incertezza è la difficoltà della cooperazione, ma in questo caso la ricompensa, dovrebbe essere un motivo sufficiente per garantire la cooperazione. È quindi la ricompensa, il tornaconto, il fattore che secondo la teoria dei giochi alimenta le possibilità di cooperazione tra due attori. Bisogna ora chiedersi, partendo da questo presupposto, se è possibile modificare la struttura della ricompensa per accrescere le probabilità di comportamenti cooperativi? Kenneth Oye (1986) afferma che ciò è possibile e individua questa possibilità nell'applicazione di diverse strategie di azione. La strategia unilaterale di promozione della cooperazione prevede la limitazione del guadagno di una sola delle parti; questa strategia è però particolarmente rischiosa poiché espone al rischio di essere sfruttati da altri attori. La seconda strategia, detta bilaterale, può essere utilizzata per modificare la struttura della ricompensa basandosi sul meccanismo dell'issue linkage, cioè il fatto che allargando la negoziazione a un numero maggiore di argomenti rende più semplice e sicura la negoziazione. Infine, l'ultima strategia individuata nel libro di Oye (1986) è la strategia multilaterale, che identifica la creazione di regimi internazionali come il modo attraverso il quale si 14 possono modificare la struttura della ricompensa del comportamento cooperativo; le norme che vengono fatte proprie dagli stati e le informazioni generate dai regimi possono modificare o cambiare gli interessi degli Stati e quindi l'appetibilità di una ricompensa. La cooperazione è quindi da intendersi come una modalità di risposta a problemi di azione collettiva; ma, come abbiamo visto emergere da questa breve analisi delle principali teorie delle relazioni internazionali che affrontano il tema della cooperazione, la logica cooperativa è un obiettivo che trova molti ostacoli sul percorso che porta al suo raggiungimento. D'altro canto è però abbastanza evidente che la società odierna, soprattutto in seguito alla nascita dell'Unione Europea, dalla fine della Guerra Fredda e alla sempre più stretta collaborazione a livello internazionale tra Stati, si è sempre più orientata verso modalità di soluzione dei problemi di azione collettiva attraverso processi cooperativi; la creazione di istituzioni e organizzazioni internazionali che vanno a costruire una “struttura internazionale”, la quale pur non realizzando a un governo internazionale formalizzato, regola le attività e le azioni degli attori della società internazionale. 1.3. I REGIMI INTERNAZIONALI: una forma di cooperazione internazionale Nell'arena politica internazionale l'armonia e la cooperazione sono situazioni difficili da ottenere, pur essendo le modalità preferite per la soluzione dei problemi di azione collettiva. Come spiega la teoria dei giochi, il rischio di free riding, e cioè che la 15 controparte si comporti in modo da ottenere il massimo guadagno, uscendo quindi dalla logica leale ed armoniosa della cooperazione, è comunque presente. Questi sentimenti di insicurezza e incertezza contrastano con la sempre più incalzante necessità di governance in ambito internazionale e, nello specifico di quest’analisi, in ambito ambientale. La domanda di governance deriva dalla sempre maggiore interdipendenza che esiste tra gli attori della scena internazionale; se le azioni di uno Stato non implicassero conseguenze su altri Stati, non ci sarebbe alcun bisogno di una governance per regolare queste relazioni. Non solo il livello di interdipendenza tra gli attori delle relazioni internazionali sta crescendo sempre più velocemente, ma è significativamente aumentato anche il livello di interdipendenza che esiste tra diversi ambiti delle relazioni tra attori sulla scena internazionale. L'ambiente, inteso sia come ambiente naturale sia come spazio vitale per le attività degli esseri umani, è oggi uno dei settori che soffre allo stesso tempo di due tendenze opposte: la richiesta di una governance internazionale che lo tuteli e lo preservi in un'ottica orientata allo sviluppo sostenibile e la difficoltà degli Stati di dare una forma a questo tipo di governance. Una delle risposte più comuni alla necessità della costruzione di un sistema cooperativo con l'obiettivo di risolvere problemi di azione collettiva, come quello della tutela ambientale, è la creazione di sistemi di governance, chiamati anche regimi internazionali, che sono diventati oggetto di studio sia tra policy-maker sia nell'ambito accademico negli ultimi vent'anni del XX secolo. 16 1.3.1. Definizione di Regime Internazionale In un primo significato generico la parola “regime” è intesa come il ritmo a cui un certo comportamento o un fenomeno deve obbedire per raggiungere un determinato scopo – si pensi qui al funzionamento “a regime” di un motore o ad un “regime alimentare”. Una seconda accezione di questo termine è quella che viene utilizzata dalla politica comparata: con il termine regime in questo senso si identifica il tipo di governo che caratterizza uno stato – repubblica, monarchia, autarchia, dittatura. In ambito storico si usa identificare con la parola regime una situazione di profonda trasformazione non solo degli aspetti giuridici, politici e sociali di una società, ma anche della concezione ideale che si ha di essi (Bonanate, 1989: 19). È difficile stabilire quando questa accezione del termine sia entrata nel linguaggio della politica internazionale, ma la prima traccia di questo concetto espresso “ufficialmente” è da far risalire al secondo fascicolo della rivista International Organizations dell'anno 1982 che era dedicato interamente al tema dei Regimi Internazionali redatto da Stephen Krasner. Lo stesso autore dà la prima, e universalmente riconosciuta come valida, definizione di regime internazionale, che viene definito come “principi, norme, regole e procedure decisionali, impliciti o espliciti, attorno ai quali le aspettative degli attori convergono in una data area delle relazioni internazionali” (Bonanate, 1989: 45). Secondo la definizione di Oran Young, i regimi internazionali sono istituzioni sociali che governano le azioni degli attori coinvolti in uno o più determinate attività (Young, 1989: 12). Come ogni istituzione sociale anche nella concezione di Young i regimi sono caratterizzati da una serie di regole, diritti e pratiche condivise. 17 Prima di addentrarsi nella comprensione di come siano effettivamente composti i regimi internazionali, è importante sottolineare che i regimi internazionali possono essere più o meno formalizzati e possono o meno essere accompagnati da organizzazioni internazionali. È opportuno quindi distinguere tra i due concetti di istituzioni e organizzazioni. Le istituzioni sono definite come “social practices consisting in easily recogized roles coupled with clusters of rules or convention governing relations among the occupants of these roles” (Young, 1989: 32). Le organizzazioni vengono invece definite dallo stesso autore come “material entities possessing physical locations, offices, personnel, equipment and budgets”. La differenza tra questi due concetti è quindi il livello di formalizzazione. Le istituzioni sono concetti astratti basati su regole e norme definite come possono essere ad esempio il mercato o un sistema elettorale; d'altro canto le organizzazioni generalmente possiedono personalità giuridica. Generalmente ci si riferisce a uffici, commissioni, agenzie come organizzazione, come ad esempio l'ONU o Amnesty International. Tutti i regimi possono essere considerati istituzioni, poiché nella loro definizione è contenuto chiaramente il fatto che si basano su regole, norme e pratiche condivise, mentre solo alcuni regimi internazionali, quelli in cui al sistema istituzionale si affianca un sistema organizzato di agenzie e commissioni deputate alla gestione del regime stesso, possono essere considerati anche organizzazioni internazionali. Abbiamo quindi capito che il nucleo centrale di qualsiasi regime internazionale è appunto un insieme di regole e diritti; ma cosa si intende con precisione con questi due termini? 18 Oran Young nel suo libro International Cooperation da una definizione dei due termini. Un diritto è tutto ciò di cui un attore – che può essere uno stato o meno – è autorizzato poiché detentore di un certo ruolo. Il possesso di un diritto però non assicura la garanzia che l'attore beneficiario di quel particolare diritto ne possa godere; sebbene la società contemporanea sia basata per la maggior parte sul rispetto di diritti, essi vengono frequentemente violati nella società odierna. Nel campo dei regimi internazionali sono molti i diritti che vengono regolati; generalmente si tratta di diritti personali e positivi. Con il concetto di regole, o norme, si intendono tutte le linee guida o gli standard entro i quali i membri del regime possono e devono agire. Le regole, per essere considerate tali, devono essere composte da un'indicazione dei soggetti alla regola stessa, degli obblighi di comportamento, e l'indicazione delle circostanze nelle quali la regola è in vigore. Oltre a questa definizione generale del concetto di regola, Young nel suo libro identifica tre diverse categorie di regole. La prima categoria è detta delle use rules (regole di utilizzo), norme che regolano lo svolgimento di certe attività e in particolare l'utilizzo di alcuni spazi, come ad esempio l'aria o l'acqua; generalmente questo tipo di regole limitano la libertà di azione degli attori coinvolti. La seconda categoria è formata dalle liability rules (regole di responsabilità), quelle regole che identificano il grado di responsabilità in caso di danni causati agli altri membri del regime. Infine, l'ultima categoria di regole, è quella delle procedural rules (regole procedurali) che riguardano la soluzione delle dispute o l’ordinamento delle organizzazioni nate per la gestione del regime internazionale stesso. Un regime internazionale quindi non è identificabile con un'organizzazione internazionale, poiché come abbiamo visto, sono due concetti ben distinti. Un regime e 19 un'organizzazione possono esistere l'uno indipendentemente dall'altro. Un regime può essere in parte formalizzato e quindi può dare luogo ad un'organizzazione internazionale, ma questo passaggio non è né automatico né strettamente necessario alla realizzazione del regime. Inoltre un regime internazionale non è da confondere con un qualsiasi accordo ad hoc. Nel caso di un semplice accordo ad hoc l'accordo viene a mancare dello scopo di creare una forma di cooperazione che porti al superamento della logica non cooperativa spiegata dal gioco del “dilemma del prigioniero”, che è fondamentale per parlare di un regime internazionale (Bonanate, 1989: 52). Non ostante la difficoltà di definire il concetto di regime internazionale, usciamo da questa analisi con alcune certezze per quello che riguarda i regimi internazionali: la dimensione normativa e di principi è determinante per la creazione di un regime; i regimi, che sono istituzioni internazionali, possono o meno essere accompagnati da Organizzazioni Internazionali. Partendo da questi punti possiamo ora analizzare i diversi approcci teorici che gli studiosi hanno applicato ai regimi internazionale e in seguito analizzare il processo di creazione di un regime internazionale. 1.3.2. Le teorie “classiche” dei regimi internazionali Sebbene lo studio dei regimi internazionali sia diventata materia di studio solamente negli ultimi decenni, sono già diversi i contributi teorici che riguardano il tema dei regimi internazionali come forma di cooperazione nell'ambito delle relazioni internazionali. 20 Le scuole di pensiero che sono riconducibili allo studio di questo fenomeno sono tre: la scuola realista, quella neo-liberale, e quella cognitivista. Queste tre diverse scuole di pensiero differiscono in maniera sostanziale l'una dall'altra in base al punto di vista che utilizzano nello studio dei regimi internazionali. La teoria neo-liberale dei regimi internazionali è detta interest-based, basata cioè sugli interessi degli attori nel cooperare per la creazione di un regime. Questa scuola di pensiero è sicuramente la più elaborata per quello che riguarda l'analisi dei regimi internazionali. Non mi addentrerò nella analisi del neo-liberalismo ma riassumendo in breve i contenuti e le correnti che vengono fatte confluire in questo approccio teorico, si può affermare che le componenti fondamentali per la formazione di un regime internazionale secondo questo approccio sono: la possibilità di raggiungere n guadagno comune tra gli Stati, la necessità della reiterazione degli incontri tra gli attori (in questo caso il regime internazionale ha il compito di facilitatore della cooperazione) e l'importanza delle issue areas per la creazione del regime internazionale. Se da un lato i neo-liberali basano la nascita dei regimi internazionali sulla convergenza di interessi degli attori attraverso lo strumento della cooperazione internazionale, dall'altro i teorici realisti vedono la cooperazione internazionale come una situazione che si realizza solamente come conseguenza della distribuzione del potere tra gli attori. Il potere viene considerato da questi studiosi come elemento fondamentale per la realizzazione di un regime internazionale. Un esempio chiave di questo approccio che riguarda la teoria dei regimi è la teoria chiamata “della stabilità egemonica”. Questo paradigma enfatizza il fatto che il regime internazionale venga creato solamente quando esiste un attore che possiede una tale 21 quantità di potere in quella determinata issue area che riesce attraverso questa superiorità a realizzare un regime internazionale, anche nel caso in cui altri attori si comportino come free-riders. Lo Stato è visto dai realisti come un massimizzatore della sua utilità, ma soprattutto del suo guadagno relativo sugli altri membri. L'approccio cognitivista infine, rigetta quasi completamente le tesi dei due approcci relativisti, sia quello neo-liberale sia quello realista. L'idea fondamentale che sta alla base di questo ultimo approccio è che le azioni degli Stati non sono mosse dall'interesse, ma bensì dal ruolo degli attori nella società; in questo caso dal ruolo degli Stati nel sistema internazionale. Come spesso accade però questi approcci teorici fanno riferimento ad un livello idealtipico che poco ha a che vedere con la realtà. I tre elementi che caratterizzano la creazione di un regime internazionale, l'interesse per i neo-liberali, il mantenimento del potere per i realisti e il socializzazione degli attori per i cognitivisti, nella realtà si intersecano, interagendo significativamente nella nascita di un regime internazionale. 1.3.3. La “contrattazione istituzionalizzata” di Oran Young Il realismo si basa sull'esistenza di un potere egemonico che è responsabile della presenza e della durata di un regime internazionale. Secondo Young questa è in realtà una condizione estrema rispetto alla realtà della politica internazionale; questo non negando le esistenti asimmetrie nel sistema internazionale ma evidenziando alcune difficoltà della risuscita di un’egemonia effettiva, come il problema della gestione del potere e della sua trasformazione in un esito collettivo (Young, 1989b: 354). 22 D'altro canto Young sostiene che anche la visione neo-liberale che depone la sua fiducia per la riuscita della cooperazione nell'abilità degli attori di massimizzare la propria utilità per un obiettivo comune è infondata (Young, 1989b: 356). Una volta mosse queste critiche alle teorie classiche dei regimi internazionali, Young propone un approccio teorico alternativo; questo nuovo paradigma viene chiamato dall'autore “contrattazione istituzionalizzata”. Secondo Young la contrattazione istituzionalizzata si basa sulla regola dell'unanimità; è cioè necessario per la creazione di un regime internazionale che l'accordo di base possa essere condiviso da tutti gli attori coinvolti, in contrasto con altri approcci che prevedono che sia sufficiente l'accordo della maggioranza o di una potenza egemone. Inoltre non è possibile secondo Young ridurre la spiegazione della negoziazione di un regime internazionale ad una relazione tra due attori poiché un regime internazionale può avere origine sia da un numero limitato di Stati, sia, in casi estremi, dalla quasi totalità degli attori statali. Young sostiene che la costituzione di un regime internazionale, secondo il modello della contrattazione istituzionalizzata, è favorita dalla condizione di incertezza che vige nella sfera delle relazioni internazionali. La situazione di incertezza, dovuta spesso alla grande diversità dei contesti a cui si applicano questo tipo di accordi e alla loro estensione temporale, favorisce l'accettazione delle regole condivise stabilite dal regime internazionale. Un ulteriore elemento che nella visione di Young è importante sottolineare, è l'inclusione nel processo di negoziazione di gruppi di interesse transnazionali, ONG e altre associazioni della società civile, che supportano e fanno pressione per la creazione 23 di determinati regimi internazionali. Young individua sei condizioni alle quali è necessario sottostare affinché la contrattazione istituzionalizzata abbia come esito la creazione di un regime internazionale efficace: le issue areas in gioco si devono prestare ad essere contrattate; l'accordo raggiunto deve essere accettato come equo da tutti gli attori; l'esistenza di soluzioni rilevanti; l'esistenza di efficaci e ben definiti meccanismi di conformità; shock e crisi esogene favoriscono lo sforzo negoziale; l'emergere di una leadership (qui intesa non nell'accezione realista di egemonia ma come entrepreneurship, la creatività dell'invenzione del regime internazionale) (Young, 1989b: 366). Se è vero che le teorizzazioni servono per comprendere meglio cosa avviene poi nella pratica, non troveremo mai, nella realtà dei regimi internazionali, l'applicazione “pura” di una di queste teorie, ma gli elementi che caratterizzano gli approcci classici, interessi, potere e conoscenza sociale, assieme al concetto di contrattazione istituzionalizzata, interagiscono in modo significativo nel processo di creazione di un regime internazionale. 1.3.4. Come si formano i regimi internazionali? Se nell'analisi di questo fenomeno diffuso nell'ambito delle relazioni internazionali ci si fermasse allo studio delle teorie si potrebbe pensare che i regimi internazionali si formino quando sono presenti tra gli attori le condizioni ideali perché i loro rapporti si trasformino in un regime internazionale. Ora, se però i regimi nella realtà vengono istituiti, se esiste quindi una offerta di regimi internazionali, applicando una logica prettamente economica alcuni autori come Oran 24 Young (Young, 1989a: 81) e Anna Caffarena (Caffarena , 1989: 71) si sono spinti ad affermare che esiste una domanda di questo metodo di cooperazione. La domanda di regimi internazionali è determinata, seguendo sempre una logica vicina all'economia, dal rapporto tra i costi della loro istituzione e i benefici che i membri ne traggono poi. Applicando questa logica alla formazione di un regime internazionale appare evidente come i costi siano abbastanza elevati, ma che lo siano anche i benefici che i membri hanno dall'istituzione di un regime, in termini di accesso alle informazioni di altri membri e di gestione dell'issue area. L'istituzione di un regime non ha luogo in un momento preciso, sebbene si possa parlare della data della firma di una certa convenzione o dell'entrata in vigore di un regime internazionale, la nascita di un regime internazionale va intesa come un processo che dura nel tempo; le modalità nelle quali avviene questo processo sono fondamentali poiché vanno ad influenzare l'efficacia del regime in futuro (Caffarena, 1989: 74). Per dirla con lo studioso Oran Young non si può parlare di “scoperta” di un regime internazionale perché essendo essi “artefatti umani” (Young, 1989a: 82), presuppongono necessariamente un processo creativo o istitutivo. Questo processo, che come abbiamo visto, avviene in risposta ad un problema di azione collettiva, secondo Young può avvenire secondo tre modalità differenti. La prima modalità attraverso la quale può avvenire la formazione di un regime internazionale è quella di un accordo spontaneo detto anche self-generating; questo concetto viene ripreso da Young dalla teoria economica e sociale dell'ordine spontaneo proposta dal filosofo ed economista austriaco Friedrich von Hayek. Con questo approccio non si intende l'estraneità dell'azione umana dall'istituzione del regime ma il 25 fatto che è la volontà, il desiderio artificiale che viene a mancare. La caratteristica dei regimi spontanei è quella di non avere bisogno del consenso esplicito delle parti, il che rende questo tipo di regimi particolarmente efficace e resistente. Lo stesso autore però, sottolinea che il processo attraverso il quale i regimi spontanei nascono è ancora abbastanza oscuro. La seconda modalità che spiega come avviene in alcuni casi la formazione di un regime internazionale è quella dei così detti accordi istituzionali negoziati. Questo tipo di regimi sono caratterizzati dal necessario sforzo delle parti coinvolte, questa volta in modo consapevole, di trovare un accordo sulle questioni principali. La negoziazione può, secondo Young avvenire in due diversi modi: constitutional contracts o patti legislativi. Con il primo termine si individuano quei regimi per la cui istituzione tutte le parti che potrebbero essere soggette al regime sono chiamate a partecipare al processo di negoziazione; con il secondo termine si indicano i processi di negoziazione durante i quali le parti che saranno poi sottoposte al regime internazionale vengono rappresentate da altri attori e quindi non partecipano direttamente al processo di negoziazione. La terza modalità attraverso la quale può avvenire la creazione di un regime internazionale è quella degli accordi imposti. La differenza di questo processo rispetto ai due illustrati in precedenza è sostanziale; questa modalità si basa sull'iniziativa di un attore dominante in termini di potere sugli altri attori. Il regime quindi è creato da un attore dominante alle decisioni del quale gli altri membri si conformano, senza che questi membri subordinati debbano necessariamente esprimere un consenso esplicito alle decisioni prese dall'attore egemone. Questo tipo di regime in ogni caso è da 26 considerare più come un'eccezione che come una regola nel panorama internazionale. Queste tre diverse modalità sono considerate dallo stesso autore (Young, 1989a: 90) come degli ideal-tipi che non saranno quasi mai riscontrabili nel mondo reale. Ad esempio, spesso, un regime imposto, sarà poi codificato sotto forma di un trattato internazionale, e con il passare del tempo saranno considerati come condivisi da tutti. In ogni caso la tendenza nel sistema internazionale contemporaneo è quella di preferire la tipologia negoziale per la costruzione di un regime internazionale, anche a causa della molteplicità di attori che prendono parte al processo di costituzione del regime. I negoziati che precedono la formazione di un regime internazionale, frequentemente non sono di breve durata soprattutto quando il regime internazionale è formato da una serie di accordi che hanno solitamente inizio con una convenzione quadro, alla quale in seguito vanno ad aggiungersi una serie di protocolli specifici. In ognuno di questi casi il processo di formazione di un regime secondo il modello della negoziazione segue una struttura abbastanza predefinita: la formazione dell'agenda, la negoziazione, e la messa in atto del regime (Young 1998: 4). La formazione dell'agenda individua quel processo attraverso il quale una determinata issue area acquista importanza sulla scena politica internazionale. Questo processo raramente avviene in modo spontaneo. Spesso le issue areas acquistano importanza in seguito ad un interesse di alcuni attori a spingere quella determinata issue area in cima alla lista delle priorità o in seguito ad eventi che ne mettono in risalto l'importanza. Una volta che una determinata issue area ha acquisito un'importanza strategica nell'ambito della politica internazionale, avviene il passaggio al gradino successivo verso l'istituzione del regime internazionale: la fase di negoziazione. 27 In questa seconda fase avviene la contrattazione tra due o più attori il cui esito può essere la creazione del regime internazionale. La fase di negoziazione è definita anche come la fase creativa del processo cooperativo tra i diversi membri del regime internazionale. Il modello di contrattazione istituzionale, figlio del pensiero di Oran Young, e che applicato alla realtà è probabilmente il modello più realistico, prevede che l'esito di questa fase sia la costruzione del consenso sul contenuto del regime tra la maggior parte di attori e non tra una coalizione vincente di essi (Young, 1998: 13). Se possiamo immaginare a questo punto che il nostro regime internazionale sia stato elaborato, scritto e firmato da parte dei membri che hanno deciso di cooperare alla sua creazione e di vincolarsi ad esso, non possiamo però considerare concluso il processo che stiamo analizzando. L'ultima fase individuata da Young, la messa in atto delle disposizioni contenute nell'accordo tra i membri, è forse la fase determinante dell'intero processo di creazione di un regime internazionale secondo il modello della negoziazione. La messa in atto del regime internazionale avviene a due differenti livelli. Il primo è il livello internazionale, che in pratica comprende l'istituzione degli organi che governano e amministrano il regime stesso. Il grado dell'istituzionalizzazione di un regime non è prestabilita, ma varia da regime a regime e può essere minima o massima. La componente interna della messa in atto del regime fa riferimento invece alle modalità attraverso le quali le parti contraenti dell'accordo traspongono le norme e i principi contenuti in esso nelle proprie giurisdizioni e poi in pratica. La componente interna della messa in atto di un regime passa in primo luogo per la ratifica dell'accordo da parte dell'organo legislativo di quello stato (che solitamente è un trattato 28 internazionale). Dopo l'analisi di come in linea teorica può formarsi un regime internazionale e di come nello specifico nasce un regime negoziato, appare evidente come la creazione di un regime non sia un processo lineare ma abbia molteplici sfumature. Proprio per questo motivo e a causa delle caratteristiche delle società moderne quali la flessibilità, l'esposizione a cambiamenti sociali, il ruolo degli attori non-governativi, la molteplicità delle issue areas in costante mutamento, e l'interdipendenza tra esse, i regimi internazionali non possono oggi essere considerati delle strutture statiche, ma bensì sono spesso oggetto di trasformazioni causate da fattori sia endogeni (Bonanate, 1989: 96) che esogeni (Young, 1989a: 99) 1.3.5. L'efficacia dei regimi internazionali Dopo aver analizzato le ragioni per le quali si forma un regime e i motivi che spingono il linea teorica i diversi attori, statali e non, a cooperare tra loro, per completare l'analisi è necessario chiedersi se i regimi internazionali siano effettivamente efficaci per lo scopo per il quale vengono creati, e cioè la soluzione delle problematiche che li originano. Oran Young, nel suo grande lavoro di analisi di questa forma di cooperazione internazionale, ha analizzato l'efficacia dei regimi internazionali studiando casi di regimi internazionali ambientali. Partendo dal presupposto teorico che sta alla base dell'idea di Young, e cioè che i regimi internazionali attraverso regole, diritti e principi condivisi siano istituzioni che modificano i comportamenti e le azioni dei membri che hanno aderito al regime 29 internazionale in questione, Young considera un regime internazionale come efficace quando “channels behavior in such a way as to eliminate or substantially ameliorate the problem that led to its creation” 1 (Young-Levy, 1999: 1). Non è possibile però considerare il concetto di efficacia come un qualcosa di stabile e chiaramente definibile; i regimi sono classificabili in un continuum che va dai regimi chiaramente inefficaci, fino a regimi molto efficaci, regimi che riescono a produrre delle soluzioni definitive ai problemi che hanno originato il regime internazionale. Ma come è possibile spiegare le differenze che esistono nell'ambito dell'efficacia dei regimi internazionali? Come è possibile che un'istituzione “regolatrice” come un regime internazionale influisca in modo così differente sui comportamenti da un caso all'altro? Innanzi tutto bisogna definire cosa si intenda con efficacia di un regime internazionale; concetto per il quale Oran Young individua cinque diverse tipologie di definizioni. La prima è riferita allo scopo principale di un regime internazionale: il problem-solving. La prima definizione di efficacia che si può dare di un regime internazionale è quindi legata alla capacità del regime internazionale di eliminare o alleviare il problema che lo ha originato. La difficoltà di stabilire se un regime è efficace su questo piano è determinata dal fatto che spesso i problemi dai quali il regime ha origine vengono affrontati anche attraverso altre tipologie di soluzioni, che non fanno riferimento al regime internazionale istituito in per quella issue area; questo comporta una difficoltà ulteriore nello stabilire se il regime ha influenzato o meno la soluzione dei problemi. Una seconda tipologia di definizione del concetto di efficacia è quella legale, con la quale Young identifica il grado al quale gli obblighi e i principi stabiliti dal regime 1 30 “modifica i comportamenti a tal punto da eliminare o migliorare il problema che lo aveva originato” (Traduzione non ufficiale) stesso vengono rispettati. La definizione dell'efficacia di un regime internazionale in termini legali se da un lato è chiaramente identificabile, dall'altro non assicura che all'efficacia di un regime corrisponda una reale soluzione dei problemi che hanno fatto sì che il regime fosse istituito. La terza tipologia che viene identificata da Young è quella che fa riferimento ai concetti tipici delle teorie economiche. In questo caso l'efficacia del regime è dettata dal “costo” che il regime ha; accordi meno costosi, secondo questa definizione, sono da considerare più efficaci. Anche in questo caso, come nella definizione riferita al problem-solving, è difficile riuscire a definire i costi effettivi che la creazione del regime ha generato. La quarta tipologia di definizione di un regime internazionale fa riferimento al rispetto dei principi normativi che vengono stabiliti con la creazione del regime come ad esempio l'amministrazione e la partecipazione al regime da parte dei membri. La quinta ed ultima definizione individuata da Young fa riferimento all'aspetto politico dei regimi internazionali. In questo senso l'efficacia di un regime è dimostrata dalla sua capacità di modificare “the interest of actors or the policies and performance of institutions” (Young-Levy, 1999: 5) in modi che portino poi alla soluzione dei problemi che hanno causato la creazione del regime internazionale. Un regime “politicamente efficace” però, non assicura che l'efficacia sia riscontrabile allo stesso modo analizzando lo stesso regime attraverso un'altra tipologia di definizione. Una volta individuate le diverse sfaccettature della definizione di efficacia di un regime internazionale, è utile per la comprensione dell'argomento spostare l'attenzione verso le diverse dimensioni che gli effetti di un regime possono acquisire. 31 Gli effetti possono in primo luogo essere di tipo esterno o interno. Possiamo definire come effetto interno di un regime quei cambiamenti nei comportamenti degli attori che sono coinvolti direttamente nella creazione del problema originario. Un effetto esterno di un regime internazionale si ha quando il regime ha delle conseguenze al di fuori dei membri per i quali il regime è stato creato. Ma non sempre questi effetti sono solo positivi, ad esempio prendendo in considerazione il caso del regime LRTAP (Convention on Long-range Transboundary Air Pollution) alcuni policy-maker e manager russi hanno preferito spostare alcuni tipi di produzioni al di fuori dell'area coperta dalla giurisdizione del regime internazionale piuttosto che utilizzare tecnologie meno inquinanti. In secondo luogo gli effetti possono essere diretti o indiretti. Questo significa che alcuni effetti sono più strettamente collegati con il cambiamento di abitudini dei membri del regime (effetti diretti), e altri sono causati solo in modo indiretto dal regime. Per individuare questa distinzione è necessario osservare quali cambiamenti nei comportamenti degli attori siano direttamente collegati con l'efficacia del regime. Nel caso di un regime che tutela la qualità dell'acqua di un fiume, gli effetti indiretti del regime sono effetti che non riducono il livello di inquinamento del fiume ma che influenzano altre azioni che a loro volta influenzeranno la qualità dell'acqua di quel fiume. Infine gli effetti dei regimi internazionali possono essere buoni o cattivi, possono cioè aiutare la soluzione dei problemi o addirittura peggiorare i problemi che si volevano risolvere. La difficoltà più grande risulta quindi quella di riuscire a misurare gli effetti dei regimi internazionali, data anche l'impossibilità di riprodurre queste situazioni in esperimenti 32 che li riproducono. Nel primo capitolo del suo libro Environmental Regime Effectiveness, Arild Underdal afferma che la misurazione vera e propria dell'efficacia di un regime internazionale è una delle possibilità di valutazione, ma anche in questo caso oltre alla difficoltà di dover trasformare degli eventi in numeri, si aggiunge anche la difficoltà di avere a che fare con dei cambiamenti di comportamenti che avvengono in tempi spesso estesi. Inoltre l'efficacia dei regimi internazionali, sopratutto di quelli ambientali varia da regione a regione, in base alle politiche che vengono messe in atto in quella particolare area geografica. L'influenza quindi sia della issue area sia della società che deve rispondere alla richiesta di modificare i propri comportamenti per allinearsi con le disposizioni dell'accordo che istituisce il regime internazionale è determinante anche per stabilire l'efficacia del regime stesso. 1.3.6. I regimi internazionali ambientali: un modello di governance globale L'ambiente, intenso come ambiente fisico, geografico, è sempre stato una delle questioni che hanno maggiormente caratterizzato le relazioni internazionali. Ben prima dell'epoca contemporanea possiamo ritrovare alcuni trattati internazionali all'interno dei quali si incontrano le prime rudimentali forme di protezione dell'ambiente, come il Jay'sTreaty, del 1794 concluso tra impero britannico e i neo-nati Stati Uniti d'America, nel quale possiamo trovare una delle prime forme di protezione delle acque. Per individuare i primi regimi internazionali ambientali, consapevolmente istituiti come tali, bisogna risalire ai decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo. 33 Non ostante questi primi slanci verso una gestione internazionale delle questioni ambientali è solamente in un'epoca relativamente recente che la questione ambientale entra a far parte del panorama delle relazioni internazionali. È quindi negli anni novanta del secolo scorso che si assiste ad uno spostamento delle decisioni prese per la gestione dell'ambiente da un approccio frammentato, legato alle normative presenti nei singoli Stato, verso un sempre più frequente uso di strumenti volontari e collaborativi (Busch et al. 2005: 146). In questo periodo si assiste quindi alla diffusione di una serie di innovazioni che riguardano le politiche internazionali riferite all'ambiente anche sulla scia della Conferenza di Rio, in conseguenza della quale attraverso l'Agenda 21, la questione ambientale acquista una vera e propria dimensione internazionale. I fattori che portano all'attuale proliferazione dei regimi ambientali internazionali, come descrive Sicurelli nel suo libro Divisi dall'Ambiente (2007), sono legati sia alle caratteristiche intrinseche alla questione ambientale stessa, sia all'incremento della “consapevolezza internazionale”rispetto a queste tematiche, che si manifesta attraverso la creazione di organizzazioni internazionali e la nascita dei movimenti e associazioni ambientaliste internazionali. In primo luogo vi è il fatto che i danni prodotti dal degrado ambientale non sono circoscrivibili all'interno del territorio di uno Stato, gli interventi di un singolo governo tendono a risultare irrilevanti per la soluzione di questi problemi. In secondo luogo, essendo la questione dell'impatto ambientale molto legata alle performance economiche degli Stati, delle norme in favore di una maggiore sostenibilità ambientale, in alcune volte penalizzanti per il sistema economico, avrebbero potuto 34 essere instaurate solamente se la loro decisione fosse avvenuta in modo volontario, cooperativo e con il più largo consenso, in modo da evitare il rischio di comportamenti di free riding. Infine la fine della Guerra Fredda e il conseguente cambiamento delle relazioni internazionali, ha comportato uno spostamento delle attenzioni della comunità internazionale dai temi della sicurezza e degli armamenti, verso tematiche “smilitarizzate” come quella ambientale. Con il crollo del sistema bipolare, negli anni novanta dello scorso secolo, si è assistito ad un orientamento della cooperazione internazionale verso la creazione di regimi internazionali con l'obiettivo di perseguire obiettivi comuni. Non ostante lo slancio iniziale e la proliferazione dei trattati internazionali che hanno come oggetto la protezione dell'ambiente, ad oggi sono oltre 500, l'ambiente rimane una delle questioni più discusse, e forse meno sanate, a livello internazionale. I regimi ambientali sono spesso in posizioni subordinate ad altri regimi che riguardano tematiche ritenute più importanti dagli Stati, come ad esempio i regimi commerciali; non esiste un'istituzione che guidi dall'interno il processo che porta ad una governance globale dell'ambiente; tra i paesi industrializzati è evidente la mancanza di volontà politica per quello che riguarda la questione ambientale, spesso i trattati non vengono ratificati o, nel caso questo avvenga, non vengono implementati. 1.4. CONCLUSIONE I regimi internazionali sono stati a partire dalla fine della seconda Guerra 35 Mondiale uno tra i sistemi di governance che meglio ha interpretato l'idea della cooperazione internazionale. Gli Stati hanno creato regimi internazionali in moltissimi ambiti delle loro relazioni, la sicurezza (trattati START, SALT, regime di non proliferazione nucleare), l'economia (GATT, WTO, e tutti gli accordi commerciali) e anche l'ambiente e le risorse naturali (LRTAP, CITES, Barcelona Convention). In tutti questi ambiti la domanda di governance internazionale è da sempre molto elevata, sia a causa delle sempre maggiori interconnessioni tra gli attori, statali e non, ma anche a causa dell'importanza nell'ambito delle relazioni internazionali di queste issue areas. Come ho descritto in questo capitolo una delle risposte che gli Stati ed altri attori hanno saputo dare alla continua e sempre maggiore richiesta di governance internazionale in questi settori, è stata la creazione di numerosi regimi internazionali. Sebbene, come abbiamo visto, definire il concetto di regime internazionale non sia una questione semplice, non ostante le critiche che vennero mosse da Susan Strange alla prima definizione di regime internazionale di Stephen Krasner, ancora oggi questo sistema di governance viene utilizzato in molte occasioni nella scena politica internazionale. Assistiamo oggi alla creazione di molti regimi ambientali poiché questa forma di cooperazione internazionale, soprattutto nel caso in cui il regime sia esito di un processo che viene descritto come negoziale da Young, può essere considerata la migliore soluzione cooperativa nell'ambito delle relazioni tra attori statali. Bisogna però sottolineare che non tutti i regimi internazionali hanno avuto successo nella soluzione dei problemi che avevano portato alla loro creazione. I fattori che possono minare l'efficacia di un regime internazionale sono molti, e non sempre fanno riferimento al contenuto o agli attori del regime internazionale stesso, ma possono 36 essere fattori che vengono a crearsi anche in seguito all'istituzione del regime o proprio in conseguenza della sua nascita (effetti collaterali). Oggi forse il sistema di governance offerto dai regimi internazionali non è più sufficiente a garantire la risposta alla onnipresente domanda di un “governo internazionale”. Oggi gli attori statali rappresentano solamente una parte limitata del panorama degli attori delle relazioni internazionali; sulla scena internazionale sono apparsi nuovi attori come quelli della società civile o del settore privato, come ad esempio le grandi compagnie multinazionali. Pur non potendo considerare come “obsoleti” i regimi internazionali l'analisi della loro struttura è da intersecare con altri e più nuovi sistemi di governance. 37 2. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE “Molti obiettivi non possono essere conseguiti con un'azione individuale: la loro realizzazione ci impone un'azione collettiva. L'Unione europea, gli Stati membri e le loro regioni e comuni si dividono i compiti.” (Dichiarazione di Berlino) 2.1. INTRODUZIONE L'ambiente non è solamente un tema centrale per le relazioni internazionali, ma sempre più frequentemente anche in ambito locale temi come ad esempio il cambiamento climatico, la tutela della biodiversità, la gestione degli ecosistemi, lo sviluppo sostenibile o la gestione degli spazi urbani sono al centro del dibattito tra i diversi attori. Molti di questi temi non hanno dei confini definiti, e quando li hanno, raramente sono perfettamente aderenti ai confini nazionali. Se pensiamo al nostro caso studio ad esempio, la Convenzione delle Alpi definisce chiaramente cosa si intende per territorio alpino, ma questo territorio non appartiene solamente ad uno Stato, ma bensì a otto diversi Stati, i quali esercitano ognuno la propria sovranità sulla porzione di territorio che è contenuta nei propri confini nazionali. È evidente quindi come il tema delle politiche ambientali, intese come tutte quelle politiche pubbliche che riguardano i diversi argomenti legati alla tutela dell'ambiente e allo sviluppo sostenibile delle società, non possano essere costrette entro i confini nazionali. 38 Lo studio di questo tipo di policies deve essere di conseguenza necessariamente orientato verso un'analisi di ciò che avviene nell'area interessata da una particolare issue, e che alla presenza di issue areas che oltrepassano i confini nazionali, come nel caso della Convenzione delle Alpi, la questione venga affrontata utilizzando degli approcci che tengano conto di questa caratteristica. Addentrandoci verso il cuore di questo capitolo bisogna sottolineare, in riferimento alla questione ambientale, che come si legge e si sente spesso, lo Stato non è più l'attore egemonico anche in materia di politiche ambientali. Non si tratta però di una scomparsa dello Stato come attore della politica internazionale (o locale), ma un’erosione di quello che era stato fino alla metà del XX secolo il ruolo di questo attore sulla scena politica internazionale (Eckerberg, 2004: 406). Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un cambiamento significativo sulla scena della politica nazionale e internazionale, si parla sempre meno di governo, inteso come “un passato in cui le istituzioni governative – i ministeri e le loro burocrazie – sarebbero stati in grado sia di decidere che di attuare le decisioni di policy” (Piattoni, 2005: 421) ed è stato introdotto il termine governance, intesa come la condizione presente nella quale le istituzioni governative non sono più gli unici attori decisionali ed esecutivi delle politiche pubbliche. Al termine governance Oran Young associa la seguente definizione: “a social function centered on efforts to steer or guide societies toward collectively beneficial outcomes” (Young, 2009: 12). Lo scopo di questa funzione sociale è quindi, secondo questo autore, il mantenimento dell'ordine sociale, non secondo una logica autoritaria ma al contrario promuovendo norme condivise e cooperazione. 39 Cercherò in questo capitolo di spiegare in che modo la teoria della governance multilivello può essere utile per spiegare le politiche ambientali e come questo concetto può essere ampliato, verso l'idea di multi-partner governance di Oran Young, utilizzando anche il concetto di ecoregione proposto dall’ONG WWF, cercando di analizzare il ruolo di attori locali e transnazionali nel processo di governance ambientale. 2.2. LA GOVERNANCE MULTILIVELLO E LA QUESTIONE AMBIENTALE Il termine governance multilivello (GML) è un'espressione relativamente recente, coniata da Gary Marks nel 1992. Non ostante la relativa novità di questo termine, oggi quella della governance multilivello è una questione piuttosto popolare sia tra gli studiosi delle politiche europee sia tra gli esperti di relazioni internazionali. I primi studi nei quali venne identificata la GML come teoria per analizzare e comprendere i processi decisionali vennero svolti in seguito all'approfondimento del processo di integrazione europea avvenuto alla fine degli anni '80 del secolo scorso, in seguito alla firma dell'Atto Unico Europeo (1987). La prima definizione di GML fu di Marks, il quale considerava questo sistema di governance come “a system of continuous negotiation among nested governments at several territorial tiers” (Bache & Flinders, 2004: 3). All'interno di questa definizione bisogna porre l’accento sull'importanza che l'autore dà alla negoziazione e alla frequenza delle relazioni tra i governi e i territori coinvolti in 40 questo processo. Già diversi autori hanno definito questa tipologia di governance come una modalità innovativa nell'ambito dello studio delle politiche pubbliche sia europee sia internazionali. A questo proposito bisogna ricordare che fino ai primi anni '90, il campo delle relazioni internazionali e anche degli studi sull'Unione Europea erano stati dominati dalle teorie classiche come neo-funzionalismo, realismo, inter-governativismo. Il punto di svolta, secondo Marks, che ha dato il via all'approccio della GML è stato l'esistenza di competenze che si sovrappongono tra diversi livelli di governo; gli attori quindi secondo questo approccio partecipano a diverse reti di policy e gli stessi attori appartengono a diversi livelli ( si parla infatti non solo di multi-level ma anche di multi actor governance). Sono questi quindi i fattori, apparsi sulla scena internazionale con l'esperienza dell'Unione Europea verso la fine del XX secolo, che stimolano la necessità di mettere in atto un sistema di decisione e implementazione delle politiche diverse da quello espresso dalle teorie classiche che vedevano lo Stato come unico e centrale attore. Analizzando i due termini con i quali viene chiamata questa tipologia di governance, è necessario sottolineare inoltre che il concetto di GML è caratterizzato da una duplice dimensione: una dimensione orizzontale e una verticale. L'aggettivo “multilivello” si riferisce alle diverse politiche che sono attuate a differenti livelli territoriali, mentre il termine governance evidenzia l'interdipendenza tra gli Stati e altri attori pubblici e privati che sono entrati a fare parte a pieno titolo nel “governo” di molti ambiti delle relazioni nazionali e internazionali. Anche se solitamente il concetto di GML viene applicato all'Unione Europea come 41 metodo di descrizione dei processi decisionali che avvengono in seno alle istituzioni dell'Unione nel loro complesso, la GML può essere applicata anche ad altri ambiti più specifici, come quello ad esempio delle politiche ambientali, a patto che riguardi la questione del “coordinamento fra entità formalmente sovrane ma funzionalmente interdipendenti” (Piattoni, 2005: 426). Se pensiamo quindi alla GML ad una teoria del coordinamento fra entità indipendenti è necessario distinguere tra due tipi di GML, che identificano due diverse tipologie di organizzazione della governance. La GML di Tipo I si caratterizza per la dispersione dell'autorità in un numero limitato di giurisdizioni - intese sia come l'ambito di esercizio dell'autorità, sia come l'esercizio materiale dell'autorità (Piattoni, 2005: 431) - o livelli, non sovrapposti. Questa tipologia di GML oltre che ad essere caratterizzata per un numero limitato di livelli giurisdizionali, si distingue per mantenere la stessa struttura sia che si tratti di piccoli sistemi di governance sia che si faccia riferimento a sistemi più estesi, e per la stabilità temporale della sua struttura. Il Tipo I di GML esprime l'identificazione dei cittadini con una particolare comunità. A questo proposito Gary Marks e Lisbet Hooghe parlano di “comunità intrinseca”, per indicare dei sistemi di governance molto basati su delle identità forti come la nazione o identità locali, la religione o l'etnia. Questo tipo di GML è caratterizzato inoltre da delle barriere elevate per quello che riguarda la possibilità degli attori di porsi al di fuori del sistema. Essendo l'identità a caratterizzare l'apparenza a questo sistema di governance, una exit stategy significherebbe modificare la propria identità. 42 Attraverso questa tipologia di GML è possibile ottenere delle scelte più ponderate anche grazie alla possibilità data da questo sistema di raggruppare diverse questioni in un numero limitato di livelli. Si avvicinano a questa tipologia di governance quegli studiosi che ritengono che il ruolo dello Stato non sia stato marginalizzato come attore di politiche pubbliche ma che ad esso si siano affiancati altri attori. La GML di Tipo II è invece caratterizzata da molte giurisdizioni che si sovrappongono a molti livelli. Questo tipo di governance riflette l'immagine di una società centerless, senza un centro egemonico, nella quale le competenze delle giurisdizioni si intersecano e si sovrappongono continuamente (Piattoni, 2005: 431). Questa seconda tipologia di GML è caratterizzata da dei livelli giurisdizionali distinti in base alla funzione che svolgono; i cittadini in questo caso non hanno al loro servizio un governo ma al contrario, è come se ottenessero i servizi da diverse società erogatrici, ognuna specializzata in un unico settore. Questo tipo di governance è quindi caratterizzato sia da una elevata flessibilità dei suoi livelli e della struttura che essi formano, sia da una forte intersezione tra i diversi livelli giurisdizionali; i confini che ogni livello giurisdizionale possiede sono frequentemente valicati in questo secondo modello di GML. Il Tipo II di GML è caratterizzato da una forte “mortalità” dei livelli giurisdizionali che lo compongono, la durata nel tempo di questi livelli è funzionale al compito che viene loro richiesto; vi è quindi una sostanziale differenza in questo ambito rispetto al Tipo I. Infine il Tipo II di GML si basa su delle partnership pubblico/privato molto frequenti, caratteristica che lo distingue dal primo tipo. 43 Se il primo tipo è quello a cui ci siamo maggiormente abituati studiando la storia dello Stato-nazione, il secondo sorge più facilmente dove risultano necessarie forme di governo ad hoc per questioni ben precise, che non sono governabili dalle istituzioni proposte dal Tipo I di GML. Situazioni di questo tipo possono essere individuate nei numerosi casi di regioni transfrontaliere, dove la cooperazione ad esempio nella gestione di risorse comuni o di territori condivisi è complicata dalle diverse competenze e risorse che le autorità locali dei diversi Stati hanno a disposizione. Bisogna però rilevare che queste due tipologie di governance sono solamente dei tipi ideali. Nella realtà le due tipologie spesso si sovrappongono dando luogo a quella che viene definita come governance policentrica (Piattoni, 2005: 432). La definizione che all'interno delle istituzioni europee viene data di governance multilivello è contenuta all'interno del Libro Bianco del Comitato delle Regioni sulla Governance Multilivello la GML viene definita come “un processo dinamico a carattere nel contempo orizzontale e verticale, che non diluisce affatto la responsabilità politica, ma, al contrario, […] favorisce l'appropriazione della decisione e dell'attuazione comune” (Libro Bianco, 2009: 6). All'interno del Libro Bianco sono ripresi i cinque principi che il Comitato delle Regioni reputa basilari per una buona governance che già erano presenti nel Libro Bianco del 20012: apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza. Inoltre in ambito europeo, la governance multilivello poggia sul principio di sussidiarietà, concetto ripreso anche da Piattoni (2005: 438), che prevede che le decisioni vengano prese al livello più appropriato di potere e che, una volta individuato, avvengano solo a quel livello. Il Comitato delle Regioni, nel Libro Bianco del 2009 sottolinea come gli attori locali e regionali siano veri e propri “attori della 2 44 La governance europea: un Libro bianco (COM(2001) 428 def.) globalizzazione” (Libro Bianco, 2009: 12). La definizione della GML che emerge da questo quadro può sembrare sfumata e polisemica (Piattoni, 2005: 421). Quello che è certo però, è che oggi l'approccio della governance multilivello è un approccio importante per la spiegazione non solo del policy-making europeo, addosso al quale spesso la teoria della GML è stata vestita, ma anche per la spiegazione del ruolo dei nuovi attori che sono emersi sulla scena delle relazioni internazionali come gli attori transnazionali della società civile o le grandi corporations. Inoltre la GML può essere un utile strumento analitico per affrontare alcune grandi tematiche che al giorno d'oggi permeano tutti i livelli di governo della società, da quello internazionale, fino alle realtà locali. 2.2.1. La governance multilivello ambientale L'ambiente è uno dei temi nei quali a livello globale gli Stati incontrano maggiori difficoltà nel trovare delle soluzioni comuni ai problemi che si presentano sempre più urgenti in questi anni, come ha in parte dimostrato il fallimento del vertice mondiale di Copenhagen tenutosi nel dicembre del 2009. D'altra parte questi problemi sono però difficilmente risolvibili senza la partecipazione di tutti gli Stati poiché molto spesso come ho già ripetuto più volte il problemi legati all'ambiente valicano spesso i confini nazionali e, anche all'interno dei confini nazionali, coinvolgono attori, pubblici e privati, a differenti livelli. La necessità di una governance ambientale sia a livello internazionale sia in ambito europeo è una questione relativamente recente. Solamente verso la fine degli anni sessanta del secolo scorso la comunità internazionale, e più nello specifico l'Unione 45 Europea, hanno cominciato ad acquisire una certa consapevolezza per quello che riguarda i temi legati all'ambiente e alla sostenibilità ambientale. La teoria della governance multilivello si applica quindi al soggetto della politica ambientale proprio in conseguenza del fatto che questo tema non coinvolge come attori solamente gli Stati, ma che al contrario chiama in causa una molteplicità di attori a diversi livelli. Sono molti gli strumenti normativi nei quali, a livello internazionale e comunitario negli ultimi vent'anni, sono stati inseriti dei riferimenti al concetto di GML con riferimento alla questione ambientale. Partendo dal livello più elevato e cioè dal sistema internazionale possiamo individuare l'applicazione del concetto della GML nei contenuti di quella che durante la Conferenza di Rio sull'ambiente indetta dall'ONU nel 1992 fu chiamata Agenda 21; questa definizione vedeva al suo interno l'elenco degli obiettivi da conseguire per raggiungere la sostenibilità ambientale nel corso del ventunesimo secolo. Se da un lato l'intera Agenda 21 è costellata di riferimenti alla necessità di mettere in atto comportamenti orientati verso l'obiettivo della sostenibilità ambientale a tutti i livelli, da quello internazionale a quello locale, è nel Capitolo 28, che possiamo ritrovare il più chiaro dei riferimenti alla necessità, per quello che riguarda la sostenibilità ambientale, di sviluppare azioni a livello locale. Secondo il documento ufficiale dell'Agenda 21, al Capitolo 28 si legge che “Local authorities construct, operate and maintain economic, social and environmental infrastructure, oversee planning processes, establish local environmental policies and regulations, and assist in implementing national and subnational environmental 46 policies”3. Analizzando queste linee-guida, appare evidente come parallelamente all'evoluzione della questione ambientale come problema globale, si sia sviluppata anche l'idea che le autorità locali sono sempre più chiamate a rispondere a questo tipo di problematiche. Nel testo dell'Agenda 21 si suggerisce che è fondamentale, per il raggiungimento di risultati ottimali in ambito ambientale che conducano alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile, il coinvolgimento delle autorità locali, sia come attuatori delle politiche ambientali elaborate a livello nazionale o internazionale, ma anche come creatori di politiche ambientali locali che siano in grado di dare delle risposte efficaci ai problemi di un determinato territorio. É però a livello europeo che la GML si è sviluppata maggiormente come sistema di governance, anche per quello che concerne la questione ambientale. All'interno del panorama delle attività delle istituzioni europee in materia ambientale, gli Stati membri, sono stati sì attori importanti per lo sviluppo della politica ambientale dell'Unione ma lo sono stati altrettanto gli attori sub-nazionali, i gruppi di interesse, la società civile, gli attori privati che proprio per la tipologia di governance che l'UE si è data hanno trovato spazio sia durante il policy making che in seguito nella fase di implementazione delle norme comunitarie. La politica ambientale può essere considerata da alcuni autori che molto hanno scritto su queste tematiche “a case par excellence of the dispersion of authoritative decisionmaking across multiple territorial levels” (Fairbrass & Jordan, 2004: 148); proprio per 3 “Le autorità locali costruiscono, operano e mantengono infrastrutture economiche, sociali e ambientali, supervisionano processi di progettazione, stabiliscono le politiche locali ambientali e i regolamenti, assistono inoltre l'implementazione di norme ambientali nazionali e sub-nazionali” (Traduzione non ufficiale) tasto originale in lingua inglese, disponibile al sito: http://www.un.org/esa/dsd/agenda21/res_agenda21_28.shtml 47 questo possiamo ritenere che sia un buon esempio di quali effetti abbia l'approccio della GML sulla governance ambientale. La politica ambientale europea ha visto la luce a metà degli anni settanta del secolo scorso, con l'adozione di un Programma d'Azione sull'ambiente da parte degli allora nove membri della CEE; nel corso degli anni sono diversi gli strumenti che all'interno della sfera normativa dell'UE ha sedimentato il modello della GML. É quindi, quello delle politiche ambientali, un ambito recente delle politiche europee, ma che si è velocemente sviluppato, anche in seguito alle pressioni originate dai numerosi accordi internazionali che hanno visto la luce tra gli anni settanta e giorni nostri. Una prima questione da mettere in risalto è la caratteristica modalità attraverso la quale le istituzioni dell'Unione Europea affrontano la tematica ambientale è appunto il lavoro attraverso i così detti Programmi comunitari d'azione. Il grande vantaggio di questo approccio è che permette a tutti gli attori coinvolti nel processo di governance, dalla fase di decision-making a quella di implementazione, di essere consapevoli e coinvolti nelle azioni prioritarie da intraprendere per raggiungere gli obiettivi stabiliti (Krämer, 2006: 336). All'interno dell'ultimo Programma comunitario di azione, approvato nel 2002 e ora in vigore fino al 2012, il sesto nella storia della politica ambientale dell'Unione, troviamo alcuni importanti riferimenti alla governance multilivello europea. Uno di questi è la motivazione numero 14, nella quale Parlamento Europeo e Consiglio affermano la necessità di “un approccio strategico integrato, che induca nuove modalità di interazione con il mercato e coinvolga i cittadini, le imprese ed altri ambienti interessati, per indurre i necessari cambiamenti dei modelli di produzione e di consumo 48 pubblico e privato” (Parlamento Europeo e Consiglio, 2002). Inoltre nell'articolo 2 della Decisione, in cui vengono definiti Principi e Scopi Globali, troviamo numerosi riferimenti alla necessità di cooperazione e dialogo tra i diversi attori coinvolti nelle politiche ambientali sia a livello comunitario, sia nazionale che locale. Un secondo strumento normativo dell'UE all'interno del quale è possibile riconoscere l'approccio di GML è la Convenzione di Aarhus firmata nel 1998, che riguarda la partecipazione di tutti gli attori coinvolti e l'informazione ai cittadini riguardo a tematiche di tipo ambientale. La convenzione prevede che gli attori, che vengono chiamati “autorità pubbliche” all'interno del testo della Convenzione (da intendersi come le istituzioni comunitarie, nazionali e/o locali) favoriscano la partecipazione e l'informazione dei cittadini riguardo alle questioni ambientali, ciascuna in riferimento alla propria giurisdizione. La GML appare quindi come un modello analitico molto utile per spiegare i comportamenti degli attori e le novità della governance che si riscontrano nell'analisi delle politiche comunitarie. La GML oggi è esclusivamente identificata con il contesto europeo, ma in futuro potrebbe essere estesa anche ad altre regioni del pianeta, andando pian piano a sostituire, o per lo meno ad affiancare il modello intergovernativo, che vede negli Stati-nazione i soli attori delle relazioni internazionali. È stato possibile osservare, analizzando la natura della GML, come sul piano delle politiche ambientali, questa tipologia di governance sia un modello che descrive molto bene la tendenza che ha caratterizzato lo sviluppo delle politiche e delle norme riferite alla questione ambientale, una tematica sempre più importante per quello che riguarda le relazioni internazionale soprattutto negli ultimi quattro decenni, sia sul piano internazionale che al livello comunitario. 49 2.3. LA COOPERAZIONE TERRITORIALE EUROPEA IN MATERIA AMBIENTALE Abbiamo visto come la teoria della GML si applichi molto bene alle politiche e al sistema di policy-making europeo. Questo approccio descritto nella prima parte del capitolo trova una delle sue più chiare e importanti applicazioni nelle politiche di cooperazione territoriale dell'UE. All'interno del territorio europeo, assistiamo oggi a una moltitudine di forme di cooperazione, oltre che tra gli Stati membri, tra diverse entità regionali o locali; è pressoché impossibile trovare all'interno del territorio europeo delle autorità regionali o locali che non siano coinvolte in qualche iniziativa di cooperazione territoriale. Questo processo di regionalizzazione delle relazioni intra-europee e delle relazioni tra i territori dell'UE e paesi terzi è conosciuto con il nome di politica di coesione. Nata con l'Atto Unico Europeo nel 1987, caratteristica delle'Unione Europea, la politica di coesione si basa sul fondamentale principio di sussidiarietà, secondo il quale l'Unione Europea non ha delle competenze esclusive, ma la sua azione avviene sempre in collaborazione con i più appropriati livelli giurisdizionali. La politica di coesione nasce quindi per favorire lo sviluppo delle zone più deboli e più bisognose e per fronteggiare i problemi di natura strutturale presenti in larga parte dei territori dell’Unione. La cooperazione territoriale è oggi una delle forme più frequenti nelle quali la politica di coesione si manifesta, sia a causa dei problemi strutturali dei territori dell'Unione, sia in conseguenza del diverso impatto che a globalizzazione e gli eventi internazionali hanno sui territori dell'Unione che oggi, in seguito agli ultimi 50 allargamenti compre un vasto spazio da Est a Ovest nel continente europeo. È necessario specificare che esistono tre diverse tipologie di cooperazione territoriale. La prima è detta cross-border cooperation, ha l'obiettivo di favorire la cooperazione esclusivamente a livello locale, tra regioni (NUTS III, secondo la classificazione delle zone geografiche europee4) adiacenti ma appartenenti a stati differenti. I campi di azione prioritari per questo tipo di cooperazione sono diversi e spaziano dalla cooperazione in materia di sviluppo urbano e rurale, la cooperazione in ambito di trasporti e comunicazioni, la cooperazione in ambito culturale, sanitario e educativo, fino alla cooperazione in ambito ambientale. Il secondo tipo di cooperazione territoriale e la cooperazione transfrontaliera, termine con il quale si identifica le forme di cooperazione che avvengono non solo a livello regionale ma anche coinvolgendo altri livelli giurisdizionale come quello nazionale o locale, fino alla collaborazione con la stessa UE. Questo tipo di cooperazione avviene all'interno di regioni vaste europee che raggruppano territori, come ad esempio quelli dello spazio alpino, che condividono delle problematiche comuni. Le aree prioritarie per l'azione di questo ambito sono quella ambientale, la questione dei trasporti e delle comunicazione e l'integrazione economica. La terza ed ultima tipologia di cooperazione, quella della cooperazione interregionale, si caratterizza per la suddivisione del territorio europeo in grandi network che hanno l'obiettivo di incrementare l'efficacia della cooperazione su larga scala. L'obiettivo principale di questa terza strategia di cooperazione è lo scambio di esperienze e di buone pratiche tra gli Stati membri e con paesi terzi, riguardo alle esperienze maturate 4 Disponibile al sito: http://europa.eu/legislation_summaries/regional_policy/management/g24218_en.htm 51 nei primi due ambiti di cooperazione, quello cross-border e quello transfrontaliero. Queste diverse tipologie di cooperazione territoriale sono state programmate nell'ambito del programma europeo INTERREG, lanciato alla fine degli anni ottanta, che era appunto composto da tre elementi, la cross-border cooperation (A), la cooperazione transfrontaliera (B) e la cooperazione interregionale (C). Per quello che riguarda la mia analisi della cooperazione territoriale europea, tenendo come riferimento il caso studio da me identificato, mi soffermerò nell'analisi del secondo tipo di cooperazione territoriale, la cooperazione transfrontaliera. La prima definizione di cooperazione transfrontaliera si può trovare all'interno della Convenzione Quadro europea sulla cooperazione transfrontaliera delle collettività e autorità territoriali, detta Convenzione di Madrid del Consiglio d'Europa, firmata nella capitale spagnola nel 1980. All'interno di questo testo normativo all'articolo 2, la cooperazione transfrontaliera viene definita come “ogni comune progetto che miri a rafforzare e a sviluppare i rapporti di vicinato tra collettività o autorità territoriali dipendenti da due o da più Parti contraenti, nonché la conclusione di accordi e intese utili a tal fine” (Consiglio d'Europa, 1980). Una definizione più precisa di cooperazione transfrontaliera viene definita da alcuni studiosi come una “more or less istitutionalized collaboration between contiguous subnational authorities across national borders” (Perkmann: 2003, 156). Le caratteristiche più importanti che questo autore individua in merito alla cooperazione transfrontaliera sono il grado di istituzionalizzazione, la collaborazione tra autorità territoriale contigue e il superamento dei confini nazionali. Oltre a questa definizione, Perkmann propone quattro criteri più specifici che 52 descrivono la cooperazione transfrontaliera: il fatto che questo tipo di cooperazione sia localizzata nell'ambiente delle agenzie pubbliche, che si riferisca a forme di collaborazione tra agenzie sub-nazionali che non sono normalmente soggetti di diritto internazionale, che faccia riferimento alla soluzione di problematiche legate alla vita quotidiana, che conduca ad una qualche forma di stabilizzazione, come ad esempio un processo di nascita di istituzioni comuni. Il processo di cooperazione transfrontaliera, sin dai suoi esordi è stato sempre collegato ad una qualche forma di istituzionalizzazione. Spesso quindi ad una forma di cooperazione di questo tipo segue la creazione delle così dette regioni transfrontaliere, che all'interno del contesto europeo vengono chiamate anche Euro-regioni. Il Consiglio d'Europa (CoE) definisce una regione transfrontaliera come “ an area of land and a number of human communities, together with the network constituted by all the relationships interlinking them, and is disturbed or even disrupted by the frontier” (Ricq, 2006: 17). Secondo questa definizione data dal CoE, ciò che forma una regione transfrontaliera sono tutte le interconnessioni che esistono tra territori e comunità umane. Questo tipo di connessioni possono essere di tipo storico, culturale e socio-economico, e solitamente sono dovute al fatto che questi territori hanno condiviso dei periodi storici precedenti, durante i quali hanno vissuto una dimensione unitaria. Questo tipo di cooperazione territoriale in Europa, ma della quale esistono tentativi di attuazione anche in altre parti del pianeta, ha l'obiettivo quindi di “compensare gli svantaggi strutturali” di alcuni particolari territori “imposti dalla loro situazione periferica in rapporto allo Stato nel quale essi si trovano” (Comitato delle Regioni, 2007: 15). 53 Solitamente questi territori sono periferici rispetto al resto dello Stato al quale appartengono, sono territori che hanno subito divisioni e lacerazioni, fino a casi estremi di guerre, nel periodo di formazione degli Stati-nazione, a volte sul loro territorio convivono popolazioni originarie da gruppi etnici differenti; in altri casi le frontiere degli Stati sono sorte in territori, dove già sono presenti barriere naturali, come corsi d'acqua o rilievi montani, casi questi in cui, oltre che ad essere barriere naturali, questi territori sono anche habitat fondamentali per numerose specie viventi. Ecco che quindi la cooperazione transfrontaliera risulta necessaria per la gestione di questi territori particolari, che altrimenti non riuscirebbero ad uscire dalla loro condizione periferica. In Europa in modo particolare le frontiere, i confini nazionali, rappresentano numerosi dei casi che ho appena elencato; un esempio tipico e vicino di questa situazione è l'origine storica dell'Euroregione Tirolo - Alto Adige – Trentino. Ma molte delle regioni transfrontaliere presenti in Europa, traggono la loro origine da queste caratteristiche dei confini degli Stati europei. In altre situazioni, come in molte aree dell'America Latina o del continente africano, molte regioni transfrontaliere possono essere identificate come i territori che erano occupati dalle popolazioni autoctone di quei luoghi e che solamente in seguito alle colonizzazioni occidentali, e quindi alla creazione di Stati-nazione sono state separate dai confini nazionali. Una regione transfrontaliera è definibile, dopo queste considerazioni, come un'unità territoriale composta dai territori delle autorità che partecipano a iniziative di cooperazione transfrontaliera; queste regioni quindi, non solo da intendere solamente 54 come spazi funzionali, ma anche come unità socio-territoriali con un certo grado di capacità strategica (Perkmann, 2003: 157). Non tutte le regioni transfrontaliere però sono uguali; Perkmann individua tre dimensioni di analisi attraverso le quali è possibile distinguere e classificare queste regioni: l'estensione geografica, l'intensità di cooperazione e la tipologia di attori coinvolti. La prima dimensione, quella geografica, si riferisce al numero di regioni coinvolte: le regioni transfrontaliere meno numerose, come ad esempio l'Euroregione Tirolo – Alto Adige – Trentino, è da distinguere da regioni transfrontaliere più numerose, con cinque o più membri, che solitamente vengono chiamate Working Communities. La seconda dimensione si riferisce al livello di autonomia che le istituzioni transfrontaliere hanno nei confronti delle singole autorità partecipanti all'accordo. La terza ed ultima dimensione riguarda il tipo ed il livello delle autorità coinvolte, che in base agli Stati coinvolti e al tipo di iniziativa possono variare sensibilmente dal livello regionale a quello provinciale o addirittura locale. A livello europeo la prima regione transfrontaliera, la prima euro-regione, ad essere riconosciuta come tale è stata l'EUREGIO, nata nel 1965 tra enti territoriali olandesi e tedeschi. Negli anni successivi sono state istituite numerose altre euro-regioni alle quali l'UE fornisce un’importante cornice istituzionale. Le euro-regioni, oggi chiamate all'interno dell'UE GECT (Gruppo europeo di cooperazione territoriale), sono definite dalle norme dell'Unione strumenti di cooperazione comunitaria che premettono la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale tra i membri dell'Euroregione. Un’euroregione è 55 composto da tutti gli attori coinvolti le politiche dell'UE: Stati membri, regioni e collettività locali. I GECT, che hanno alla loro origine la firma di una convenzione tra gli Stati che ne fanno parte, sono quindi strumenti fondamentali oggi per la cooperazione in ambito ambientale tra i paesi dell'Unione, poiché il Gruppo stesso, possedendo capacità giuridica, può essere incaricato di attuare programmi cofinanziati dalla stessa UE e dagli Stati membri (Parlamento Europeo e Consiglio, 2006). Una delle prime iniziative comunitarie, orientate a favorire tra l'altro la cooperazione transfrontaliera tra i territori dell'Unione e con i territori confinanti, è stata l'iniziativa INTERREG, lanciata nel 1989 con lo scopo di sostenere i progetti transfrontalieri che riguardassero infrastrutture, protezione dell'ambiente e cooperazione tra enti locali e aziende, della quale ho già accennato in precedenza. L'importanza sia a livello internazionale sia a livello comunitario degli anni nei quali fu lanciata l'iniziativa di cooperazione territoriale INTERREG è molto rilevante. L'UE, che allora era ancora solamente Comunità Europea (CE), con la firma dell'Atto Unico Europeo, nel 1986 ritrova slancio verso una maggiore integrazione in ambito politico, dopo un periodo durante il quale i paesi membri e le istituzioni si erano limitati al mantenimento della comunità economica. In aggiunta, la caduta del Muro di Berlino e del blocco orientale dopo il 1989 e la conseguente apertura dell'UE verso Est, hanno portato alla necessità di mettere in atto delle vere e proprie partnership regionali per aumentare il livello di integrazione europea. Iniziative come INTERREG, e i diversi progetti che sono stati portati avanti all'interno di questa iniziativa comunitaria, oltre che a tutta la strategia comunitaria di cooperazione transfrontaliera, sono stati uno dei motori dello sviluppo della stessa 56 Unione Europea verso la forma che conosciamo oggi. Nel 2006, al termine della terza edizione dell'iniziativa INTERREG, viene lanciata una nuova formula di cooperazione a livello comunitario, il GECT appunto. Questa nuova formula cooperativa ha l'obiettivo di “facilitare e promuovere la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e/o interregionale [...] al fine esclusivo di rafforzare la coesione economica e sociale.” (Parlamento Europeo e Consiglio, 2006). L'adozione di questo regolamento ha comportato, nel panorama in materia di cooperazione territoriale all'interno dell'Unione Europea, un indicativo cambiamento nell'approccio a questa materia. Il GECT diventa il fulcro del processo di integrazione europeo. Le disposizioni contenute nel regolamento consentono la partecipazioni ad iniziative di cooperazione non solo ad un livello orizzontale, ma consentono la cooperazione territoriale anche tra autorità territoriali che si pongono ad un livello diverso. Gli Stati quindi potranno cooperare assieme alle autorità locali e regionali, come attori paritari in questo tipo di cooperazione. All'interno di un GECT è possibile ad esempio quindi che piccoli Stati cooperino con entità territoriali regionali o locali appartenenti al territorio di altri Stati membri. Il GECT si pone come obiettivo fondamentale quello di favorire la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale in diversi settori che oggi richiedono una sempre maggiore cooperazione tra territori diversi, oltre che per favorire il livello d’integrazione e di coesione comunitarie, anche per affrontare determinate questioni, come la sicurezza o l'ambiente ad esempio che sarebbero difficilmente gestibili senza iniziative si cooperazione territoriale di questo tipo. 57 L'innovazione portata dal GECT come strumento cooperativo è riscontrabile anche nel fatto che la nuova possibilità di cooperazione territoriale tra diversi livelli di autorità, offre un grande potenziale per lo sviluppo di sistemi di governance multilivello. 3.1 Il “Programma Spazio Alpino” Per quello che riguarda le tematiche della tutela ambientale e lo sviluppo sostenibile, credo sia opportuno evidenziare uno dei programmi che hanno visto la luce nell'ambito dell'iniziativa INTERREG e che è poi proseguito con la trasformazione della cooperazione comunitaria con l'avvento del GECT, il Programma Spazio Alpino, tra i cui campi di azione prioritari troviamo la questione ambientale. Questo programma si inseriva nell'ambito dell'iniziativa INTERREG al livello B, quello cioè della cooperazione transnazionale. L'obiettivo principale di questo programma fissato alla sua nascita nell'ambito dell'iniziativa comunitaria INTERREG era la cooperazione “tra autorità nazionali, regionali e locali ai fini della promozione di una maggiore integrazione territoriale tra ampi raggruppamenti di regioni europee, per realizzare uno sviluppo sostenibile, armonioso ed equilibrato nella Comunità e una migliore integrazione territoriale con i paesi candidati e altri paesi terzi limitrofi” (Comunicazione 2004/C 226/02). Ora con l'avvento del gli obiettivi e le aree prioritarie d’intervento individuate nell'ambito dell'iniziativa INTERREG non vengono a mutare. L'area geografica coperta dal Programma comprende i territori alpini e della cintura peri-alpina presenti nei sette Stati che si dividono porzioni dell'arco alpino: Francia, Italia, Svizzera, Liechtenstein, Germania, Austria e Slovenia. L'area coperta dal Programma Spazio Alpino sin dalla seconda metà del XX secolo si è 58 caratterizzata per aver visto la nascita di numerose comunità per la realizzazione di obiettivi condivisi in quest'area e per favorire il processo d’integrazione europea; bisogna ricordare tra le altre ARGE ALPS, COTRAO e Alliance in the Alps. Questo programma di cooperazione transfrontaliera si basa su tre tematiche prioritarie. La prima riguarda la competitività e l'attrattiva della regione alpina. L'incremento di queste due importanti caratteristiche è fondamentale per lo sviluppo futuro dell'area alpina, anche siccome tendenze come lo spopolamento di queste aree e la crescita incontrollata dei centri urbani, influiscono negativamente sulle opportunità di sviluppo di questo territorio. La seconda priorità riguarda le tematiche di connessione e accessibilità dell'area alpina con i territori circostanti. Non ostante il territorio alpino sia economicamente florido e sia anche un nucleo nevralgico per quello che riguarda i trasporti sia tra gli Stati che hanno in questo territorio i loro confini, che a livello europeo, sono questi due delle questioni che risultano maggiormente problematiche in questo territorio, anche a causa delle difficoltà in questi ambiti che la conformazione fisica dello spazio alpino accentua. La terza priorità infine riguarda l'ambiente e la prevenzione dei rischi. Il territorio alpino è indiscutibilmente ricco di un’elevatissima eredità naturale, la biodiversità in questa zona è massima e funge da habitat per moltissime specie viventi, animali e vegetali. È un ambiente naturale indispensabile anche per la vita degli esseri umani, per i quali funge oltre che da “polmone verde” grazie alle sue foreste anche da riserva d'acqua, elemento indispensabile per la vita umana. Allo scopo di migliorare la situazione in questi ambiti sul territorio alpino il Programma co-finanzia dei progetti di cooperazione transnazionale nei sette Stati membri. Ai bandi 59 dei progetti, che periodicamente vengono lanciati dagli organi centrali del Programma, possono partecipare diversi tipi di partner: istituzioni del settore pubblico, camere di commercio, aziende erogatrici di servizi pubblici e ONG. Alcuni esempi di questi programmi sono il programma MONITRAF!, operativo dall'ottobre del 2009, ha l'obiettivo di sviluppare un’ampia rete politica nelle regioni alpine e di elaborate comuni strategie al fine di regolare in modo migliore l'incremento del traffico transalpino; e il programma SHARE, un progetto che ha come obiettivo lo sviluppo sostenibile della produzione di energia idroelettrica negli ecosistemi dei fiumi alpini. Questo tipo di produzione energetica comporta serie conseguenze per l'ambiente, pur essendo una delle fonti rinnovabili di energia per eccellenza. Questa partnership transnazionale intende sviluppare e promuovere un sistema di supporto decisionale per tenere conto delle esigenze degli ecosistemi fluviali durante il processo di produzione di energia idroelettrica. Il Programma Spazio Alpino, in ciascuno dei suoi aspetti prioritari, ripropone la struttura della governance messa in luce dalla teoria della GML; il coinvolgimento di diversi livelli giurisdizionali è un elemento fondamentale in questo programma, soprattutto grazie alla capacità all'interno dei progetti promossi di raccogliere le adesioni e la partecipazione non solo delle di partner istituzionali, ma anche provenienti dal settore privato o dalle ONG. 60 2.4. VERSO UNA REGIONALIZZAZIONE DELLA GOVERNANCE? Le politiche ambientali dell'Unione Europea, i programmi comunitari d'azione, le iniziative INTERREG prima e oggi il GECT, sono dei chiari esempi di come la teoria della GML sia sempre più centrale per la risposta ad una nuova domanda di governance in materie, come quella ambientale, che coinvolgono molti attori, non solamente statali e che hanno la tendenza ad essere molto variabili a causa del fatto che spesso coinvolgono non solamente più livelli giurisdizionali ma anche territori appartenenti a diversi Stati che però si trovano ad affrontare delle problematiche condivise. Francisco Adelcoa nel libro Paradiplomacy in action, introduce un concetto che ritengo utile per la comprensione del ruolo della cooperazione territoriale in Europa come modello. Il concetto a cui fa riferimento questo autore è quello di plurinational diplomacy, che identificano con la ridefinizione delle modalità e degli attori delle relazioni internazionale (Adelcoa, 1999:84). Adelcoa sostiene che le regioni, e la cooperazione regionale come nel caso europeo, possono essere considerate come nuovi attori di politica internazionale. Suggeriscono quindi oltre che ad una visione della cooperazione territoriale come politica interna dell'UE, anche in un'ottica di politica internazionale. Questo dibattito, che meriterebbe una adeguata ed approfondita analisi, si lega al concetto espresso sia da questi due autori che d Caciagli di “Terzo livello” dell'architettura europea. Con questo termine s’intende il raggiungimento da parte delle regioni e della cooperazione regionale di un livello politico istituzionale pari a quello delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri. Il concetto di “Terzo livello” sta alla 61 base del progetto che vorrebbe vedere l'UE diventare “l'Europa delle regioni” alle cui fondamenta troviamo l'approccio teorico della GML. L'idea che si è diffusa negli ultimi anni di una “Europa delle regioni” come processo che porterebbe le euroregioni europee a diventare attori importanti della politica interna ed esterna dell'Unione, il già citato “Terzo livello”, è ancora lontano da raggiungere ma probabilmente è anche l'unica strada percorribile per quello che riguarda la governance di certe questioni; questa idea ritorna a porre l’accento su come oggi, la governance multilivello sia una delle migliori risposte alla crescente domanda di governance che esiste in certi settori, come ad esempio quello ambientale. Scostandoci per un attimo dall’ambiente europeo, dove il processo della regionalizzazione delle politiche sembra essere in una fase più avanzata, è a livello internazionale che ci si potrebbe chiedere se, viste le difficoltà ad affrontare e risolvere certe questioni su scala globale, una regionalizzazione della governance anche a questo livello non gioverebbe all'intero sistema. Non ostante che, come sottolinea Krämer (2006), la struttura della politica ambientale europea non possa ancora essere considerato un modello in grado di essere esportato in altre regioni, alcuni elementi della struttura di governance che ho descritto in precedenza possono essere utili per risolvere problemi ambientali in altre regioni del pianeta. A quest’affermazione di Krämer mi sento di aggiungere che probabilmente è l'intera struttura della cooperazione territoriale, non solo riferita al tema ambientale che potrebbe essere uno strumento utile non solamente per le regioni d'Europa ma anche per altre regioni del pianeta. É questa idea che ha portato l'ONG internazionale WWF a sviluppare una strategia in 62 linea con l'approccio regionale che già abbiamo analizzato per quello che riguarda il contesto europeo, la conservazione ecoregionale. WWF definisce questa strategia come “necessaria per il raggiungimento di risultati consistenti e funzionali al mantenimento della vita sulla Terra e alla creazione di nuove potenzialità per lo sviluppo umano” (WWF, 2004:1). Lo strumento principale che è stato messo in atto per la realizzazione di questa strategia è stata l'individuazione di più di 200 ecoregioni prioritarie nel mondo su 873 individuate in totale. All'interno di queste ecoregioni prioritarie, chiamate GLOBAL 200, WWF prevede poi di attuare delle strategie volte alla conservazione degli habitat e allo sviluppo sostenibile. WWF definisce un’ecoregione come “una unità terrestre e/o marina relativamente estesa che contiene un insieme distinto di comunità naturali le quali condividono la maggior parte delle specie, delle dinamiche ecologiche e delle condizioni ambientali” (WWF, 2004:2). Un'ecoregione è quindi una classificazione bio-geografica, al cui interno però si nasconde un’opportunità politica (Int. WWF) nel senso che spesso i territori individuati come appartenenti ad una ecoregione secondo la classificazione del WWF sono allo stesso tempo già legati da accordi di cooperazione territoriale come ad esempio nel caso dell'ecoregione alpina, il cui territorio corrisponde sia al territorio sul quale si applica la Convenzione delle Alpi sia al territorio del Programma Spazio Alpino. Su questo tema non solo si stanno muovendo i singoli Stati o le organizzazioni della società civile, anche l'UNEP, l'agenzia ONU per la tutela sin da metà degli anni settanta del secolo scorso ha messo in atto dei progetti che prevedono un modello di cooperazione regionale in diverse parti del mondo. 63 A livello internazionale la base normativa che stabilisce la necessità che le autorità territoriali cooperino al fine di una migliore soluzione delle problematiche, per lo meno in ambito ambientale, è il principio 24 della Dichiarazione di Stoccolma, firmata nel 1972, nel quale si afferma che “la cooperazione per mezzo di accordi internazionali o in altra forma è importante per impedire, eliminare o ridurre e controllare efficacemente gli effetti nocivi arrecati all'ambiente da attività svolte in ogni campo, tenendo particolarmente conto della sovranità e degli interessi di tutti gli Stati”. Sullo stimolo di questo principio nel 1974 l'UNEP ha dato il via al Regional Seas Programme, un’iniziativa di cooperazione territoriale per la tutela dell'ambiente marittimo che oggi comprende 140 paesi partecipanti e 13 programmi regionali. La regionalizzazione, e un approccio multilivello alla governance di questioni, come quella ambientale, difficilmente gestibili da politiche nazionali sembra quindi essere la strada che quasi tutte le autorità si avviano a intraprendere. 2.5. CONCLUSIONE L'approccio della GML si è rivelato quindi decisivo per la comprensione della cooperazione territoriale in ambito europeo. Sin dalla firma dell'AUE, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, la allora Comunità Europea, che nei cinque anni successivi sarebbe diventata Unione Europea, ha dato il via ad una sempre più fitta e elaborata integrazione politica. Con questo non voglio affermare che si possa parlare di una compiutezza oggi di questo tipo d’integrazione all'interno dell'Unione, ma certamente nel corso degli ultimi vent'anni il livello di integrazione politica è 64 notevolmente aumentato. A livello europeo inoltre, la questione ambientale è stata uno degli argomenti che più hanno beneficiato delle innovazioni nell'ambito della governance portate sia dall'approccio della GML che dai programmi e dalle iniziative messe in atto in questi anni. Anche a livello internazionale l'Unione Europea ha acquisito, fine degli anni ottanta ad oggi, sempre maggiore forza nei dibattiti e nelle conferenze internazionali che hanno avuto come tema centrale la questione ambientale. Questo processo non è certamente stato semplice, la grande diversità presente all'interno dell'Unione, per non parlare di quella a livello internazionale, riguardo a questi temi ha sicuramente complicato anche le molte forme di cooperazione che sono state messe in atto in riferimento a questo argomento. Ma grazie ai successi di programmi come il Programma Spazio Alpino o altri programmi di cooperazione territoriale, è possibile affermare che oggi l'approccio cooperativo suggerito dalla GML è certamente il più adatto a gestire da un lato la sempre maggiore interdipendenza degli attori, e dall'altro le forti spinte che il provengono dal sistema internazionale sui singoli attori, e che potrebbero far traballare l'intera struttura unitaria che ha assunto l'Unione Europea. Come abbiamo visto alla fine del capitolo, non solo questo l'approccio della cooperazione territoriale è utilizzato all'interno dell'UE, che possiamo considerare uno spazio particolarmente favorevole a questo tipo di collaborazioni, ma lo possiamo ritrovare anche come struttura portante di azioni intraprese da Organizzazioni Internazionali come nel caso del programma riguardante i mari dell'UNEP. Ecco quindi che si assiste ad una diffusione di questo modello, seppur lenta, anche a livello internazionale, situazione che non può che testimoniarne il successo. 65 3. UN ESEMPIO DI COOPERAZIONE TRANSFRONTALIERA: LA CONVENZIONE DELLE ALPI “Il silenzio solenne di questo salone di Sua Maestà la Natura era rotto solo dal rumore delle acque, dalla caduta di qualche blocco di ghiaccio, dal tuono della valanga o dallo schiantarsi, riecheggiato da tutte le montagne, degli ammassi di ghiaccio che per l'opera silenziosa di leggi immutabili, di tanto in tanto si crepavano e si spaccavano come fossero stati giocattoli nelle loro mani. Queste scene sublimi e magnifiche mi donarono tutto il conforto che potevo ricevere [..]” (Mary Shelley, Frankenstein) 3.1. INTRODUZIONE Pensando alla parola “Alpi”, messa in relazione con concetti come “protezione” o “tutela” normalmente viene spontaneo fare riferimento all'aspetto naturale dell'arco alpino. Se però alla parola “Alpi” associamo il concetto di “sviluppo”, ecco che il panorama cambia ed entra in gioco un attore fondamentale per questo territorio: l'uomo. È proprio l'uomo, il protagonista di due avvenimenti che hanno segnato la vita delle Alpi in passato. L'anno 1991 è stato un anno importante per il territorio alpino per due ragioni. In primo luogo nel mese di Settembre venne scoperto, a 3210 metri di quota nelle Alpi Venoste, il corpo dell'Uomo di Similaun, meglio conosciuto come Ötzi o come L'uomo venuto dal ghiaccio. Vissuto circa 5000 anni fa nell'età del bronzo, apparteneva quasi certamente al primo gruppo culturale alpino. Il ritrovamento di Ötzi è la conferma che le Alpi, non solamente negli ultimi secoli sono state uno dei centri economici e culturali dell'Europa, 66 ma già nell'età del bronzo erano un luogo centrale nella vita delle popolazioni che abitavano le valli a nord e a sud delle montagne. A novembre dello stesso anno venne firmata a Salisburgo, in Austria, La Convenzione per la protezione delle Alpi, da sei Stati (Austria, Francia, Italia, Germania, Svizzera e Liechtenstein) e dall'UE. Questi due eventi apparentemente scollegati tra loro sono in realtà legati da un filo conduttore che ha accompagnato la vita delle Alpi per millenni; l'importanza dell'uomo, con le sue attività e le sue decisioni per la vita di questo territorio. 3.2. LA STORIA DELLE ALPI La scoperta dell'Uomo di Similaun è un ottimo punto di partenza per comprendere cosa sono le Alpi nel panorama europeo. Fin dagli albori della vita degli esseri umani in queste zone, essi si muovevano attraverso la “regione alpina” considerandola come un unico habitat nel quale vivere, allevare gli animali, cacciare, e dedicarsi alla raccolta. Le differenti civiltà alpine nel corso dei millenni hanno sviluppato diverse culture e abitudini per superare le stesse difficoltà: inverni severi, la coltura di pendii scoscesi, fare economia delle risorse naturali. Percorrendo a ritroso la storia delle Alpi è inevitabile accorgersi come esse siano nell'immaginario europeo e non solo, cariche di significati unici che rendono questo territorio, da sempre un luogo controverso. Fino al XVIII secolo le Alpi, spartite tra i grandi imperi europei, erano considerate come montes horribiles (Bätzing, 2004: 19), luoghi nei quali non era desiderabile vivere e i 67 cui abitanti erano considerati “barbari”. Questa immagine del territorio alpino, creata dal punto di osservazione delle città, è però abbastanza distante dalla realtà oggettiva della regione alpina. La vita, gli spostamenti e la cultura nelle Alpi erano già molto sviluppati sino a partire dall'età del rame e per i millenni a seguire, come dimostrano i ritrovamenti di insediamenti abitativi nella valli alpine (Camanni, 2002: 18-19). Solo nella metà del XVIII secolo la montagna, così come gran parte degli ambienti naturali, smette di essere considerata pericolosa e ostile bensì acquista un fascino irresistibile. Furono la nuova concezione razionale del mondo, la fiducia nelle scienze naturali e nel progresso, nella superiorità dell'uomo sulla natura che fecero si che la stessa natura si riempisse di un fascino che mai aveva avuto prima. La distorsione anche in questa visione delle Alpi è notevole. Le Alpi non sono sempre idilliache ed è in questi anni che ebbe inizio un processo di alterazione della natura montana da parte delle attività umane che non ha termine ancora oggi. Il rinnovato interesse per le Alpi e quindi la nascita delle prime forme di “turismo alpino” provocarono in alcune zone lo smantellamento delle comunità tradizionali, accompagnato da un progressivo spopolamento delle Alpi. L'industrializzazione e le guerre dei primi decenni del XX secolo comportarono una progressiva riduzione della capacità di assorbimento dei cambiamenti tipica del mondo rurale alpino; in conseguenza di ciò divenne sistematica la fuga verso le valli e le pianure dei giovani a causa dell'insostenibilità dell'economia rurale alpina. Fu in questo momento che le Alpi subirono l'attacco del modello consumistico urbano, un modello che tende all'omologazione funzionale delle Alpi. È il modello turistico della nuova borghesia quello dell'alpinismo, dei resort sulle montagne e da metà del XX secolo in poi dello 68 sci, l'oro bianco delle Alpi (Camanni, 2002: 50). Oltre al turismo fu tra la fine del XIX secolo e il XX secolo che si sviluppò il sistema di trasporti che attraversa le Alpi; il primo fu il traforo ferroviario del Frejus aperto nel 1871, nuova ragione della trasformazione culturale, sociale, economica e ambientale avvenuta dopo la “scoperta” e i numerosi tentativi di “conquista” delle Alpi da parte degli Stati, con l'obiettivo di spartirsi il territorio alpino. Questa visione delle alpi come cuore pulsante d'Europa, soprattutto per la borghesia europea, accompagnò la vita delle Alpi fino al periodo delle due guerre mondiali. Tra il 1914 e il 1945 i territori alpini furono uno dei campi di battaglia sul quale si misurano le forze degli Stati europei; questo provocò inevitabilmente un arresto nelle trasformazioni e nello sviluppo della regione alpina. Il 1945 oltre che la fine del secondo conflitto mondiale è una data rilevante anche per un altro motivo. L'esplosione delle due bombe atomiche sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki fu il momento nel quale l'umanità intera si accorge che la tecnologia umana racchiude in sé un'immensa forza distruttrice; fu questo il punto di svolta nei rapporti tra società umana l'ambiente naturale nel quale essa era inserita. Ma la “crisi ecologica” che si sviluppò nel secondo dopoguerra (Pellizzoni – Osti, 2008: 55), non su solamente l'esito di questo avvenimento. L'intensificazione degli scambi commerciali, l'aumento della popolazione mondiale, la sempre maggiore dipendenza dal petrolio, l'industrializzazione di molte aree del mondo fecero si che si verificassero sempre più numerosi incidenti, causati dal sempre maggiore impatto delle attività umane sull'ambiente, e che questi cambiamenti assieme ai grandi insediamenti urbani e industriali incomincino ad essere percepiti dai media e dall'opinione pubblica come 69 grandi inquinatori dell'ambiente naturale. Fu a causa di questa presa di coscienza che tra gli anni sessanta e settanta sia nelle istituzioni che soprattutto all'interno della società civile mossero i primi passi le correnti di pensiero e movimenti ambientalisti. L'immagine della Alpi idilliache andò pian piano sfumando. Il territorio alpino si trasformò prevalentemente in un'arena sportiva, le Alpi diventarono un “centro sportivo” ideale per le vicine aree metropolitane, in conseguenza delle caratteristiche della società post-moderna. L'avvento della società dei servizi causò la perdita dell'entusiasmo collettivo che aveva caratterizzato i periodi precedenti; le Alpi persero l'aura di fascino che le aveva caratterizzate fino all'avvento della prima Guerra Mondiale, ritornando ad essere una propaggine degli Stati che si spartiscono il territorio alpino. Il quesito che deve porsi quindi chi affronta la tematica della “questione Alpi” è che ruolo hanno le montagne europee oggi? Hanno ancora un ruolo sia in ambito socio culturale sia economico nell'Europa di oggi? È unanime nel mondo degli studiosi della realtà della regione alpina l'idea che le posizioni estreme, sia quelle che puntano all'estrema modernizzazione della Alpi che quelle che la rifiutano totalmente, non siano sostenibili per lo sviluppo futuro della regione; è necessario quindi puntare l'attenzione verso delle strade intermedie. La così detta “terza via” (Camanni, 2002: 81) o l'idea del “doppio uso equilibrato” (Bätzing, 2004: 425), due concetti molto simile che possono essere considerati come sinonimi e che quindi userò alternativamente e al singolare, presuppone che i territori alpini, non si isolino dal resto dell'Europa ma nemmeno si riducano ad avamposto del progresso urbano, trovando quindi una strada che sia conciliante della complessità di questo territorio e che ne esalti la sua unitarietà. 70 Questa terza via, secondo questi autori, potrebbe garantire alle Alpi di diventare nel panorama europeo una regione con una relativa autonomia dal punto di vista non solo ambientale ma anche per quello che riguarda l'economia e gli spazi abitativi, in grado quindi di garantire alle Alpi una realistica prospettiva per la sua sopravvivenza futura; questo, anche alla luce del concetto di sviluppo sostenibile introdotto dal Rapporto Brundtland (con il titolo originale di Our Common Future, pubblicato dalla WCED) nel 1987 che, all'interno del documento, viene definito come “lo sviluppo che garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. Inoltre l'idea del “doppio uso equilibrato” è promossa anche dall'Agenda 21 dell'ONU, il programma di azioni indicato dalla Conferenza di Rio per invertire l’impatto negativo delle attività dell'uomo sull’ambiente, che al capitolo 13 affronta il problema dello sviluppo sostenibile delle aree montane, considerate come un “ecosistema fragile” (dal titolo del capitolo 13 del documento). È in questo quadro che cresce e si fortifica sin dai primi anni del secondo dopoguerra, soprattutto nelle associazioni della società civile impegnate nella tutela delle montagne alpine, riunite sotto l'ONG ombrello CIPRA, l'idea che fosse necessario un'insieme di regole internazionali e condivise volte a tutelare lo spazio alpino. Cinque millenni dopo i primi insediamenti umani nell'arco alpino, questa idea ha trovato compimento nella firma di un trattato internazionale, la Convenzione per la Protezione delle Alpi, che vuole essere considerato un modello per lo sviluppo sostenibile delle aree montane. 71 3.3. IL TRATTATO INTERNAZIONALE Prima di analizzare la Convenzione della Alpi nei suoi contenuti occorre dare una breve spiegazione della relazione che corre tra diritto internazionale e le questioni ambientali e del processo che ha portato alla nascita della Convenzione a cui premetto una nota linguistica. Nel corso del capitolo quando si parlerà di ambiente, prego i lettori di considerare il termine ambiente con il significato di “le risorse naturali, abiotiche e biotiche, come l'aria, l'acqua, il suolo, la fauna, la flora nonché l'interazione tra di esse; i beni culturali; e, infine, gli aspetti caratteristici del paesaggio” (Convenzione sulla responsabilità civile dei danni derivanti da attività pericolose per l'ambiente, 1993: art. 2). La Convenzione per la Protezione delle Alpi è un trattato internazionale, è espressione della “convergenza di volontà di due o più soggetti di diritto internazionale, ciascuno dei quali si impegna a rispettare, nei confronti degli altri, la disciplina contenuta in un documento scritto o in più documenti tra loro connessi” (Cassese, 2006: 231). Nel caso della Convenzione delle Alpi i soggetti sono gli otto Stati che hanno firmato il trattato, Italia, Francia, Principato di Monaco, Svizzera, Liechtenstein, Germania, Austria e Slovenia e dalla Comunità Europea. La Convenzione è stata firmata il 7 novembre 1991 a Salisburgo da sei Stati Italia, Francia, Svizzera, Liechtenstein, Germania e Austria e dalla Comunità Europea; in seguito dalla Slovenia nel 1993 e dal Principato di Monaco nel 1994. La Convenzione è entrata in vigore nel marzo 1995, tre mesi dopo che il terzo Stato ne ha depositata la ratifica presso il Depositario, la Repubblica d'Austria, come stabilito 72 dall'articolo 12 della Convenzione delle Alpi. Il campo d'applicazione della Convenzione, riconosciuto dalle parti contraenti, si estende nel cuore dell'Europa nei territori degli otto Stati per una superficie totale di 190.912 km 2; tra gli otto Stati le parti più grandi del territorio alpino fanno parte di Italia e Austria (28% ciascuno). L'Italia conta la maggior parte della popolazione delle Alpi con un terzo della popolazione totale che è di 13.183.901 abitanti. È quindi dal 1995 che si può parlare di uno spazio alpino ben definito nel quale ha applicazione la Convenzione delle Alpi (Appendice 1). Il trattato si pone l'obiettivo di conciliare gli interessi di sviluppo economico e sociale dell'area alpina con la tutela del patrimonio ecologico che caratterizza fortemente la regione. Come ho già accennato in precedenza il processo che ha portato alla scrittura della Convenzione, è iniziato nei primi anni del dopoguerra quando l'associazione CIPRA esprimeva la necessità di elaborare un trattato internazionale per le Alpi. Non ostante queste espressioni di volontà da parte della società civile fu solo con l'avvento della questione ambientale nella seconda metà del XX secolo che gli strumenti del diritto internazionale vennero applicati per regolare le relazioni tra gli Stati in materia ambientale. Fino ad allora “gli Stati ritenevano di non dover interferire nella gestione degli spazi e delle risorse naturali sottoposte alla sovranità di un altro Stato” (Cassese – Gaeta, 2008: 221) e neppure l'opinione pubblica era cosciente della crisi ambientale che si sarebbe manifestata in un futuro non troppo lontano. Fu con la conferenza di Stoccolma del 1972, e poi con la successiva conferenza di Rio del 1992, che l'intera comunità internazionale comprese la natura indiscutibilmente globale delle problematiche legate 73 all'ambiente. All'interno delle Dichiarazioni emerse dalle rispettive conferenze e dal Rapporto Brundtland5 emergono tre principi che stanno alla base della nascita della Convenzione delle Alpi. Il primo è il principio di cooperazione definito nella Dichiarazione di Stoccolma del 1972 al Principio 24, pone agli stati l'obbligo di cooperare per la tutela dell'ambiente. Questo principio affronta la questione della generalità delle problematiche ambientali e sostiene di conseguenza l'impossibilità da parte degli Stati di tirarsi indietro di fronte ad effettive necessità di protezione dell'ambiente. Il secondo principio è il principio di precauzione espresso nella Dichiarazione di Rio del 1992 al Principio 15 che stabilisce che: “quando vi è la minaccia di danni gravi e irreversibili, l'assenza di certezza scientifica non può giustificare il rinvio dell'adozione di misure efficaci rispetto al contenimento dei costi per impedire il degrado ambientale” (Dichiarazione di Rio, 1992). Questo secondo principio costituisce il punto di partenza per l'adozione di norme o per attuazione di politiche volte ad evitare, o almeno ridurre, gravi e irreversibili rischi per l'ambiente. Questo principio, successivo alla firma della Convenzione per la Protezione delle Alpi avvenuta un anno prima dell'apertura della Conferenza di Rio, sta alla base dei contenuti dei protocolli attuativi della convenzione. Infine il terzo concetto che possiamo considerare come pilastro della Convenzione delle Alpi è il così detto sviluppo sostenibile, contenuto nel Rapporto Brundtland che, come ho già illustrato in precedenza, si focalizza sulla necessità della preservazione dell'ambiente per la vita delle generazioni future. I pilastri sui quali la Convenzione si basa sono fondamentali per la comprensione dei 5 74 Rapporto del WECD dal titolo “Our Common Future” contenuti del testo della Convenzione Quadro e dei nove Protocolli attuativi. La struttura della Convenzione delle Alpi, Convenzione Quadro e Protocolli attuativi, possono essere certamente definiti come un “sistema convenzionale” (Kiss, 2002: 80); questa struttura, utilizzata frequentemente nel diritto internazionale dell'ambiente, permette nella prima parte di dettare dei principi generali sui quali si basa la cooperazione e nella seconda parte permette l'enunciazione di regole precise per la messa in opera del trattato. D'altra parte i protocolli, che sono stati prodotti negli anni successivi alla Dichiarazione di Rio (1992), contengono degli aspetti innovativi per la protezione sello spazio alpino. 3.3.1. La Convenzione Quadro La Convenzione Quadro si compone di 14 articoli nei quali sono contenuti i principi che regolano la cooperazione tra gli Stati che prendono parte al trattato, e le linee guida che devono animare le politiche degli Stati per quello che riguarda la regione alpina. Inoltre la Convenzione Quadro contiene una serie di articoli che fanno riferimento agli organi della Convenzione e al loro funzionamento. Per quello che riguarda l'aspetto contenutistico, gli articoli più rilevanti sono il preambolo, il secondo e il quarto articolo. Per quello che riguarda gli organi della Convenzione ed il loro funzionamento, le norme sono contenute negli articoli 5, 6, 8 e 9. Gli ultimi articoli della Convenzione fanno riferimento alla regola di modifica della Convenzione e dei Protocolli e le norme di firma e ratifica, oltre che le notifiche. 3.3.1.1. Contenuti 75 Il preambolo della Convenzione il primo punto rilevante è la riaffermazione della centralità della regione alpina in Europa, le Alpi vengono definite come “uno dei più grandi spazi naturali continui in Europa, un habitat naturale e uno spazio economico, culturale e ricreativo nel cuore dell'Europa” (Convenzione delle Alpi, 1991: preambolo). Già dal primo paragrafo si comprende l'attenzione data allo spazio alpino a tutto tondo, considerato sia come habitat naturale ma anche come locus economico, sociale e culturale. Le Alpi sono inoltre considerate come un territorio in cui convivono insediamenti umani, ai quali il testo fa riferimento con il termine “popolazioni locali”, e molte specie animali e vegetali che richiedono di essere tutelate. Le parti contraenti nel preambolo esprimono la consapevolezza delle “grandi differenze esistenti tra i singoli ordinamenti giuridici” (Convenzione delle Alpi, 1991: preambolo), oltre che dei territori e in conseguenza della necessità di compiere grandi sforzi per raggiungere un livello accettabile e funzionale di cooperazione. La parte conclusiva del preambolo è dedicata alla dichiarazione delle minacce che gravano sull'area alpina “in misura sempre maggiore” (Convenzione delle Alpi, 1991: preambolo). L'articolo 2 contiene le indicazione che vanno sotto la definizione di obblighi generali. Nel primo paragrafo vengono enunciati i principi su cui si basa la Convenzione delle Alpi che ho già espresso in precedenza: principio di prevenzione, di cooperazione, della responsabilità di chi causa danni ambientali con lo scopo di assicurare “una politica globale per la conservazione e la protezione delle Alpi” (Convenzione delle Alpi, 1991: art. 2). In questo articolo viene fatto un importante riferimento all'intensificazione della cooperazione transfrontaliera nell'ambito della Convenzione delle Alpi tra le Parti 76 contraenti. Nel secondo paragrafo sono individuati tredici campi nei quali le Parti contraenti si impegnano ad attuare delle norme e delle politiche adeguate al raggiungimento degli obiettivi generali contenuti nel primo paragrafo dello stesso articolo 2. I campi definiti dalle Parti contraenti sono: popolazione e cultura, pianificazione territoriale, tutela della qualità dell'aria, difesa del suolo, idro-economia, protezione della natura e tutela del paesaggio, agricoltura di montagna, foreste montane, turismo e attività del tempo libero, trasporti, economia dei rifiuti. L'ultimo articolo della Convenzione che riguarda i contenuti generali è l'articolo 4 nel quale le Parti contraenti si impegnano ad agevolare e promuovere lo scambio di informazioni considerate rilevanti per l'attuazione della Convenzione delle Alpi. Questo articolo pur sembrando meno significativo dei precedenti è sicuramente di grande importanza poiché lo scambio di informazioni tra gli Stati che prendono parte alla Convenzione delle Alpi è un elemento chiave per il raggiungimento di un'applicazione condivisa e diffusa della stessa Convenzione. 3.3.1.2. Organi e funzionamento Gli organi che garantiscono il funzionamento e l'applicazione della Convenzione delle Alpi e dei suoi Protocolli sono tre: la Conferenza delle Parti contraenti (chiamata Conferenza delle Alpi), il Comitato Permanente, e il Segretariato Permanente. La Conferenza delle Alpi è l'organo decisionale della Convenzione. È composta dai ministri degli Stati membri che hanno il compito risolvere i “problemi di interesse comune delle Parti contraenti” (Convenzione delle Alpi, 1991: art. 5). 77 I compiti fondamentali della Conferenza delle Alpi sono quello di esaminare lo stato di attuazione della Convenzione e dei Protocolli attuativi, e di adottare le modifiche alla Convenzione, adottare i Protocolli e le eventuali modifiche, costituire i Gruppi di Lavoro, raccomandare la realizzazione degli obiettivi di comunicazione e informazione contenuti negli articoli 3 e 4 della Convenzione. All'interno della Conferenza delle Alpi godono dello status di osservatori l'ONU, il Consiglio d'Europa, e gli altri Stati europei. Le riunioni di questo organo si tengono ogni due anni nello Stato che in quell'anno detiene la Presidenza della Convenzione delle Alpi. La Presidenza della Convenzione spetta allo Stato che detiene la Presidenza del Comitato Permanente, carica che ruota ogni due anni tra gli Stati membri della Convenzione delle Alpi. Il Comitato permanente è formato dai delegati delle Parti contraenti ed è l'organo esecutivo della Convenzione. Il compito principale di questo organo è l'attuazione, la messa in pratica delle idee e dei principi che guidano la Convenzione e i Protocolli. A questo scopo il Comitato raccoglie e valuta la documentazione riguardante l'attuazione della Convenzione e dei Protocolli e riferisce alla Convenzione delle Alpi su questo; insedia i Gruppi di Lavoro per l'elaborazione dei Protocolli e armonizza i contenuti dei Protocolli in quanto depositario di una visione globale sugli obiettivi della Convenzione delle Alpi. L'ultimo importante organo previsto dalla Convenzione è il Segretariato Permanente della Convenzione delle Alpi. Il Segretariato è l'unico organo che non è stato direttamente creato dalla Convenzione all’epoca della sua entrata in vigore, ma nella quale si legge che “La Conferenza delle Alpi può deliberare per consenso l'istituzione di 78 un Segretariato Permanente” (Convenzione delle Alpi, 1991: art. 9). La decisione di istituire il Segretariato è stata presa nel 2002 (costituito effettivamente nel 2003), con lo scopo di migliorare il coordinamento delle azioni tra gli Stati membri. Il compito principale del Segretariato è di supportare i lavori degli altri organi della Convenzione, coordinare progetti di ricerca e gestire le pubbliche relazioni della Convenzione delle Alpi. Le sedi del Segretariato sono due Innsbruck (Austria) e Bolzano (Italia), e nel 2006, è stata istituita a Chambéry (Francia) una Task Force Aree Protette, incorporata nel Segretariato permanente, con l'obiettivo di mettere in atto il programma per la gestione delle aree protette nelle Alpi (ALPARC 6). 3.3.2. I Protocolli attuativi Se la struttura della Convenzione Quadro può essere definita come uno strumento che “reflètent bien les tendances lourdes du droit international et de l'environnement”7 (Kiss, 2002: 79), al contrario i Protocolli attuativi della Convenzione introducono degli aspetti innovativi nell'ambito della protezione del territorio alpino sia per quello che riguarda gli argomenti che vanno a regolamentare, si per i metodi proposti per la tutela di questo territorio. I Protocolli attuativi della Convenzione delle Alpi sono nove, aperti alla ratifica solamente degli Stati che hanno firmato e ratificato la Convenzione Quadro della Convenzione delle Alpi e elaborati attraverso la cooperazione degli Stati membri stessi. La principale causa delle innovazioni contenute all'interno dei Protocolli è la cronologia degli eventi. La Convenzione delle Alpi è stata firmata nel 1991, prima della 6 7 http://it.alparc.org/ “ riflette bene le tendenze di pesantezza del diritto internazionale e dell'ambiente” (traduzione non ufficiale) 79 Conferenza di Rio che si è tenuta nel 1992, mentre i Protocolli sono stati tutti elaborati nella seconda metà del decennio successivo. La Convenzione Quadro non contiene quindi riferimenti agli contenuti nella Dichiarazione di Rio e nell'Agenda 21, mentre i Protocolli ne sono stati fortemente influenzati. Il leitmotif dei contenuti dei Protocolli applicativi è, assieme al principio di precauzione, il concetto di sviluppo sostenibile. Il Protocollo Pianificazione territoriale e sviluppo sostenibile, firmato nel dicembre del 1994, si basa sui contenuti espressi nel capitolo 10 dell'Agenda 21 (Integrated Approach to the Planning & Management of Land Resources). Nel preambolo di questo Protocollo viene ribadito il ruolo fondamentale degli enti territoriali nella risoluzione dei problemi legati alla pianificazione territoriale. Due sono gli articoli nei quali troviamo indicate le finalità di questo Protocollo. Nell'articolo 3 vengono indicati i settori verso i quali si dovrebbero concentrare le politiche di pianificazione territoriale e sviluppo sostenibile: l'equilibrio ecologico, la tutela della biodiversità, l'uso parsimonioso delle risorse naturali, la tutela degli ecosistemi, la protezione dai rischi naturali e la valorizzazione delle peculiarità culturali delle regioni alpine. Nell'articolo 1 si fa riferimento al “favorire le pari opportunità delle popolazioni locali” (Convenzione delle Alpi, 1994a : art. 1). Il Protocollo Agricoltura di Montagna, affronta uno dei temi più antichi per il territorio alpino, “il contadino alpino non è mai un vagabondo o un viaggiatore, ma resta il custode della terra e dei pascoli che ha ricevuto in eredità” (Camanni, 2002: 114). Gli obiettivi del protocollo si concentrano sulla necessità di un'agricoltura per il territorio alpino, sia come fonte di sostentamento per le popolazioni alpine sia per il territorio stesso; agricoltura che deve però essere orientata alla sostenibilità, alla 80 compatibilità con l'ambiente. L'articolo 4 mette in evidenza il ruolo fondamentale per uno sviluppo in questo senso, degli agricoltori. Il Protocollo Protezione della natura e tutela del paesaggio, è forse il meno innovativo come argomento nei nove Protocolli. La “natura” è stata oggetto di numerosi trattati internazionali nel corso degli anni. Uno degli strumenti individuati in questo protocollo per la protezione della natura è la costituzione di una Rete Ecologica 8, cioè una serie di connessioni tra le varie nicchie ecologiche presenti nell'arco alpino. Questo protocollo è il precursore della Convenzione europea del Paesaggio 9 firmata nel 2000. Il Protocollo Foreste montane, firmato nel 1996, affronta un argomento molto più specifico dei precedenti poiché riguarda la tutela di una specifica parte del territorio alpino, le foreste. I principi espressi in questo Protocollo si riallacciano molto chiaramente a quelli contenuti nel capitolo 11 dell'Agenda 21 (Combating Deforestation), nel quale la situazione delle foreste viene descritta come “threatened by uncontrolled degradation and conversion to other types of land uses, influenced by increasing human needs” 10 (Agenda 21, Section II, Chapter 11: art.10). Il Protocollo Turismo, firmato nell'ottobre del 1998, è il più lungo Protocollo della Convenzione delle Alpi. Il Protocollo affronta una delle relazioni allo stesso tempo più complesse ma insolubili presenti nella regione alpina, quella tra sostenibilità ambientale e turismo. La strada da perseguire viene indicata dal Protocollo in questi termini: “si rende necessario uno sviluppo sostenibile dell'economia turistica basato sulla 8 9 10 http://it.alparc.org/le-nostre-azioni/rete-ecologica-transalpina disponibile al sito http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/176.htm “minacciate da una incontrollata degradazione e trasformazione verso altri usi, influenzate necessità umane sempre maggiori” (traduzione non ufficiale) 81 valorizzazione del patrimonio naturale e sulla qualità delle prestazioni e dei servizi, tenuto conto della dipendenza economica della maggior parte delle regioni alpine dal turismo” (Convenzione delle Alpi, 1998a : preambolo). Allo scopo del raggiungimento di questi obiettivi vengono indicate delle misure da mettere in atto nell'area coperta dalla giurisdizione delle Convenzione delle Alpi come: un equilibrio tra le forme di turismo, la delimitazione delle zone turistiche, l'imposizione di limiti per l'installazione di infrastrutture sportive, misure volte alla riduzione del traffico. Il Protocollo Difesa del suolo vene firmato nel dicembre 1998 e affronta un argomento indispensabile per la realizzazione dei principi della Convenzione delle Alpi. L'innovazione di questo protocollo è rilevante perché l'Agenda 21 non fa riferimento al suo interno alla tutela del suolo, e l'unica norma anteriore alla Convenzione delle Alpi che si occupa di questo argomento è la Carta mondiale del suolo 11 promossa dalla FAO. Questo Protocollo della Convenzione delle Alpi è quindi uno dei pochi strumenti normativi che si occupa di questo argomento molto rilevante in un'ottica di sviluppo sostenibile globale. Il suolo è considerato funzionale sia alla vita di flora e fauna che degli insediamenti umani, è una riserva genetica, parte di ecosistemi unici e anche elemento chiave per lo sviluppo economico della regione alpina; questi principi esprimono chiaramente le fitte interconnessioni tra questo Protocollo e gli altri Protocolli della Convenzione. Il suolo “influisce in vari modi sulle altre politiche settoriali nel territorio alpino, rendendo necessario un coordinamento interdisciplinare e intersettoriale” (Convenzione delle Alpi, 1998b: preambolo). Il Protocollo Energia, anch'esso firmato nel 1998, affronta il tema dell'energia attraverso un duplice punto di vista. Gli Stati che hanno ratificato il Protocollo 11 82 Disponibile al sito http://www.fao.org/docrep/t0389e/T0389E0b.htm s’impegnano ad “assumere concrete misure in materia di risparmio energetico” (Convenzione delle Alpi, 1998c: art. 1), ma considerano la relazione tra Alpi ed energia anche dal punto di vista delle “reti internazionali di distribuzione energetica” (Convenzione delle Alpi, 1998c: preambolo) e da quello della produzione di energia, arrivando a definire le Alpi come una zona di “massima rilevanza per i territori extraalpini” (Convenzione delle Alpi, 1998c: preambolo). Il Protocollo Trasporti, elaborato nel 2000, affronta una questione di grande importanza per lo sviluppo sostenibile della regione alpina, quella dei trasporti. Anche questo Protocollo come quello della Difesa del suolo non trova strumenti equivalenti ne nell'Agenda 21 ne in altri trattati internazionali. All'interno del Protocollo oltre al concetto di sviluppo sostenibile e di rischio ambientale legato ai trasporti, un elemento molto interessante è l'orientamento delle Parti contraenti verso l'idea che “una politica dei trasporti orientata ai principi di sostenibilità non è di interesse per la sola popolazione alpina ma anche per quella extra-alpina” (Convenzione delle Alpi, 2000: preambolo). I protocolli sin qui elaborati e da alcuni Stati ratificati coprono solamente otto delle tredici tematiche individuate nell'articolo 2 della Convenzione Quadro e considerate prioritarie per raggiungere “una politica globale per la conservazione e la protezione delle Alpi” (Convenzione delle Alpi, 1991: art.1). I campi per i quali non è ancora stato elaborato nessun protocollo sono Salvaguardia della qualità dell'aria e Gestione dei rifiuti. Per quello che riguarda il protocollo Popolazione e Cultura alla fine dell'Ottobre dell'anno 2000 sono iniziati i lavori preparatori di ricerca dei dati e dei documenti per 83 poter creare un gruppo di lavoro ad hoc su questo argomento. Pur essendo il primo dei temi che la Convenzione delle Alpi si propone di affrontare, non tutti gli Stati membri della Convenzione delle Alpi ritengono questa una questione fondamentale. Francia, Austria in particolare ritengono inutili le norme vincolanti di un protocollo per questo argomento; mentre Italia, Slovenia e Svizzera ritengono fondamentale l'adozione di misure chiare e vincolanti anche in questo ambito, per poter dare una completa attuazione alla Convenzione Quadro. Anche la società civile, che ha un ruolo tutt'altro che marginale nel dare forma alla Convenzione e ai suoi Protocolli, attraverso l'ONG CIPRA (Commissione Internazionale per la protezione delle Alpi) spinge per l'elaborazione di questo protocollo ritenendolo urgente per riuscire a porre gli esseri umani che abitano l'arco alpino in primo piano della Convenzione delle Alpi. Questa idea promossa da CIPRA trova la sua origine nell'idea del “triangolo della sostenibilità” espresso nella Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e sullo Sviluppo. L'originalità di questo concetto, ripreso poi dai contenuti della Convenzione delle Alpi, sta nella multi-dimensionalità data all'idea di sostenibilità. I vertici del triangolo sono lo sviluppo economico sostenibile, la protezione ambientale, e lo sviluppo sociale sostenibile. Popolazione e cultura diventano quindi temi essenziali in un’ottica di sviluppo sostenibile. Nel 2006 è stata adottata la Dichiarazione “Popolazione e Cultura” da parte dei Ministri delle Parti Contraenti. La dichiarazione si propone l'obiettivo di far si che “le popolazioni si identifichino con i contenuti della Convenzione delle Alpi e dei suoi Protocolli” (Dichiarazione “Popolazione e Cultura”, 2006). Gli argomenti che gli Stati membri hanno voluto approfondire con la Dichiarazione sono stati l'acquisizione di una 84 coscienza di essere comunità, incoraggiando pratiche di cooperazione e partecipazione, la diversità culturale dal punto di vista delle tradizioni e delle lingue, la qualità della vita e le pari opportunità, l'idea dell'arco alpino come uno spazio economico e il ruolo delle città e dei territori rurali, entrambe indispensabili per lo sviluppo della regione alpina. Nel caso del protocollo Gestione dell'acqua (Idro-economia), la proposta per questo protocollo è stata fatta nel 2003 da Austria e CIPRA. La gestione delle riserve d'acqua presenti nelle Alpi è di fondamentale importanza, poiché in esse sono racchiuse la maggior parte delle riserve idriche del continente europeo. Alcuni punti fondamentali sui quali è necessario elaborare delle strategie all'interno del protocollo sono: la protezione dei ghiacciai, l'utilizzo della neve artificiale, la tutela di bacini fluviali, falde acquifere e degli spartiacque. 3.4. APPLICAZIONE DELLA CONVENZIONE La Convenzione Quadro è entrata in vigore nel 1995 dopo le ratifiche dei primi tre Stati che per primi ne hanno recepito i contenuti nella legislazione nazionale. Negli anni successivi si sono aggiunte le ratifiche degli altri cinque stati (ultimi Italia e Principato di Monaco nel 1999). I Protocolli applicativi sono stati firmati da tutti gli Stati membri (UE esclusa) entro l'anno 2002, molti di essi sono anche stati ratificati e quindi sono entrati in vigore nella maggior parte degli Stati membri. Fanno eccezione in questo senso Italia, Svizzera ed Unione Europea. La Convenzione delle Alpi essendo un trattato internazionale necessita nella maggior parte degli ordinamenti di essere recepita nell'ordinamento nazionale attraverso una legge promulgata dal Parlamento anche se 85 alcune disposizioni contenute nei Protocolli applicativi possono essere considerate selfexecuting, norme che a causa della loro precisione nell'individuare gli obblighi ai quali i soggetti devono sottostare, non necessitano di ulteriori chiarificazioni da parte del legislatore nazionale, e che possono in conseguenza essere impugnate in caso di dispute nei tribunali nazionali (Geslin, 2008: 29). L'applicazione della Convenzione è avvenuto in modo multiforme nei diversi Stati membri. Una delle principale forme di attuazione della Convenzione è la partecipazione da parte delle Parti contraenti ai programmi settoriali in questa materia come il programma europeo Spazio Alpino, all'interno dell'orientamento INTERREG. La verifica dei processi applicativi della Convenzione delle Alpi e dei Protocolli viene effettuata dal Gruppo di Verifica, istituito con la decisione VII/4, è composto da due rappresentanti per ogni Parte contraente e la sua presidenza coincide con quella della Convenzione delle Alpi. Il Gruppo svolge sia funzioni di esaminatore dei rapporti nazionali prodotti dagli Stati membri, sia di assistenza delle stesse quando ne viene fatta richiesta. Inoltre il Gruppo si Verifica redige un rapporto periodico sullo stato dell'attuazione della Convenzione delle Alpi, del quale vengono informate le Parti contraenti e l'opinione pubblica. Per comprendere con chiarezza il livello di applicazione della Convenzione delle Alpi e dei suoi Protocolli applicativi è necessario analizzare brevemente i diversi gradi di applicazione della Convenzione e dei Protocolli nelle legislazioni nazionali degli Stati membri. 3.4.1. Austria La Repubblica austriaca, paese tra i firmatari del trattato, ha ratificato la Convenzione 86 Quadro nel 1994. I Protocolli applicati sono in vigore in Austria dal 2002, anno della loro ratifica. A causa del suo ordinamento federale l'Austria vede fortemente coinvolte nel processo di implementazione delle Convenzione e dei Protocolli le istituzioni governative dei Länder oltre che quelle federali. Il Land più interessato dalla Convenzione delle Alpi in Austria è il Tirolo, all'interno delle cui strutture amministrative e giudiziarie sono state emesse numerose sentenze o decisioni che riguardano i contenuti della Convenzione Quadro e dei Protocolli attuativi. In questo paese una delle maggiori difficoltà incontrate è quello della mancanza di consapevolezza nei confronti degli obiettivi della Convenzione e dei Protocolli da parte dell'opinione pubblica, per questo sin dagli anni successivi alla ratifica della Convenzione è in atto una campagna informativa sulla Convenzione delle Alpi (Plicanič, 2002: 124). Inoltre, a causa dell'ampiezza di alcuni contenuti sia della Convenzione Quadro che dei Protocolli attuativi, spesso le autorità esecutive incontrano difficoltà nell'implementare questi contenuti; per questo si auspica un coordinamento tra le Parti contraenti per l'attuazione di piani e programmi. 3.4.2. Francia La Francia, terzo stato per estensione del territorio alpino racchiuso nei suoi confini, è tra i firmatari della Convenzione delle Alpi nel 1991, ratificata ed entrata in vigore, attraverso la promulgazione di una legge nazionale, solamente nel 1995. L'applicazione della Convenzione delle Alpi sul territorio francese non è privo di 87 difficoltà. Una delle principali difficoltà è stata che la Convenzione va a ricoprire molti degli argomenti già affrontati nella legge sulla montagna del 198512; per questo molti dei contenuti della Convenzione vengono ritenuti ridondanti (Servoin, 2002: 101). Inoltre la Convenzione delle Alpi è, dal punto di vista francese, un testo parziale poiché si occupa solamente di una delle zone montane presenti sul territorio francese. La Convenzione e i Protocolli attuativi sono oggetto di critiche anche da parte delle comunità montane, soprattutto a causa del poco spazio lasciato per il dialogo tra queste ultime e gli organi della Convenzione. La Convenzione delle Alpi viene vista quindi in funzione di un rafforzamento, qualora ce ne fosse bisogno, della legislazione nazionale piuttosto che di una base legislativa per una maggiore e più coesa cooperazione tra gli Stati membri della Convenzione. 3.4.3. Svizzera La Svizzera, assieme all'Italia e all'Unione Europea, non ha ratificato nessun Protocollo applicativo della Convenzione non ostante il campo di applicazione della Convenzione delle Alpi copra più di metà della superficie territoriale della Svizzera. Una delle ragioni che giustificano la riluttanza della Svizzera nella ratifica di questo strumento è che la questione della gestione delle montagne è già presente nella legislazione nazionale svizzera già in precedenza alla Convenzione delle Alpi a causa della morfologia del territorio dello Stato. 3.4.4. Germania La Germana ha ratificato la Convenzione nel 1994, ed ha ratificato tutti i Protocolli attuativi fin ora realizzati. La regione alpina tedesca coincide con parte della 12 88 Legge 85-30 del 9 Gennaio 1985 Baviera che rappresenta poco più del 5% dell'intera superficie sulla quale si applica la Convenzione delle Alpi. É quindi lo stato che contribuisce in misura minore al “volume” della regione alpina in termini numerici. Altrettanto non si può dire in termini di applicazione delle norme della Convenzione Quadro e dei Protocolli, e soprattutto nell'ambito della cooperazione con gli altri Stati membri, con i quali la Germania condivide numerosi progetti cooperativi (Rapporto della Repubblica Federale di Germania sul secondo rapporto di attuazione della Convenzione delle Alpi e dei suoi protocolli in conformità alla decisione VII/4 della VII Conferenza delle Alpi, 2009: punto 6) 3.4.5. Slovenia La Slovenia è entrata a far parte degli Stati membri della Convenzione delle Alpi nel 1993, ratificandola nel 1995. Ad oggi la Slovenia ha ratificato anche tutti i Protocolli applicativi della Convenzione. Molte delle norme contenute nella Convenzione delle Alpi facevano già parte della legislazione slovena, contenute nella legge per la protezione ambientale 13 la quale, nonostante faccia riferimento a molti dei temi individuati nella Convenzione delle Alpi, non fa riferimenti specifici alla “regione alpina”. Per questo sarebbe necessaria in Slovenia una legge sulle aree montane che incorporasse adeguatamente i contenuti della Convenzione della Alpi nell'ordinamento nazionale. Le istituzioni slovene auspicano che le norme contenute nella Convenzione Quadro e nei Protocolli diventino “la norma per i comportamenti nell’ambiente alpino” (Modello standardizzato che dovrebbe servire alle Parti contraenti per i loro rapporti periodici in conformità con la Decisione 13 Si veda la OJRS 32/93 89 VII/4 della Conferenza delle Alpi_ Slovenia, 2004: punto 4). 3.4.6. Liechtenstein Il Liechtenstein è assieme al Principato di Monaco lo stato più piccolo per estensione e popolazione tra i membri della Convenzione delle Alpi. Il Liechtenstein è inoltre l'unico Stato il cui territorio ricade al 100% nella regione alpina delimitata dalla Convenzione Quadro, tutto lo Stato quindi è coinvolto nelle politiche previste dalla Convenzione e dai Protocolli attuativi. Il Liechtenstein fa parte dei così detti Stati monistici, ordinamenti nei quali diritto interno e internazionale sono considerati un tutt'uno “la trasformazione delle norme internazionali in diritto interno non è necessaria dal punto di vista del diritto internazionale, poiché il diritto internazionale e i sistemi giuridici nazionali fanno parte di un unico ordinamento giuridico” (Cassese, 2006: 283); la Convenzione delle Alpi quindi viene incorporata direttamente nell'ordinamento nazionale a partire dalla sua data di entrata in vigore ufficiale, anche se alcune disposizioni contenute nei Protocolli applicativi necessitano di alcuni interventi legislativi. 3.4.7. Principato di Monaco Il Principato di Monaco è entrato a far parte degli Stati membri della Convenzione delle Alpi nel 1994, attraverso la firma delle Parti contraenti del Protocolli di Monaco. Il Principato, a causa del pochissimo territorio sotto la sua giurisdizione al di fuori dell’abitato di Monaco, ricopre un ruolo marginale nell’ambito della Convenzione. È lo Stato, tra gli altri, con la minor superficie di territorio alpino rispetto 90 all’intera superficie stabilita dalla Convenzione (0,01%), oltre che con la minore percentuale di popolazione alpina. Il Principato di Monaco ha ancora in atto le ratifiche numerosi Protocolli attuativi della Convenzione. 3.4.8. Unione Europea La partecipazione dell'Unione Europea come Parte contraente della Convenzione è un’importante manifestazione sia d’interesse sia di preoccupazione per la regione alpina. A livello comunitario i temi della Convenzione delle Alpi si inseriscono negli argomenti più generale della protezione dello sviluppo sostenibile e della protezione delle zone montane. Per quello che riguarda il primo dei due, troviamo dei riferimenti nel Trattato che istituisce l'Unione Europea: “La Comunità ha il compito di promuovere nell'insieme della Comunità […] uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche […] un elevato livello di protezione dell'ambiente ed il miglioramento della qualità di quest'ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri” (Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, art. 2) Il secondo argomento ha all'interno dell'UE due dimensioni: una interna e una esterna. Uno degli strumenti principali della strategia che l'UE mette in atto per lo sviluppo di politiche mirate alla protezione delle aree montane è la Convenzione per la Protezione delle Alpi, ratificata nel 1996 ed è entrata in vigore solamente nel 1998. Per quello che riguarda i Protocolli applicativi, l’Unione Europea ne ha ratificati solamente quattro su otto. Questo ritardo è giustificato dalla stessa Unione con lo scopo di rispettare il 91 principio di sussidiarietà, il principio secondo il quale l'azione amministrativa deve avvenire al livello amministrativo più vicino al cittadino, e solo nel caso in cui essa possa essere svolta più efficientemente più avvenire al livello superiore. Inoltre l'ambiente è uno degli argomenti tra quelli di più difficile gestione a livello europeo. Le competenze di Stati e Unione Europea si sovrappongono e confliggono l'una con l'altra. Un'altra fonte di problemi è che tra gli Stati membri della Convenzione ci sono sia Stati membri dell'UE che stati non-membri, fatto che complica la possibilità di creare accordi nell'ambito della Convenzione delle Alpi. In realtà le azioni compiute dall'Unione verso una politica in favore delle regioni di montagna sono state numerose;si pensi ad esempio al Programme Interreg III o al programma Leader +. Anche a livello legislativo l'UE ha adottato delle norme direttamente riferite alla questione dello sviluppo sostenibile delle regioni di montagna, come le direttive Nature 2000, il regolamento 352/86 o la direttiva 268/75. 3.4.9. Italia L'Italia ha ratificato la Convenzione delle Alpi nel 1999 attraverso la legge n° 403/99, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la protezione delle Alpi, con allegati e processo verbale di modifica del 6 aprile 1993, fatta a Salisburgo il 7 novembre 1991 ". Con questa legge, il Parlamento italiano autorizza “Piena ed intera esecuzione” 14 alle norme contenute nella Convenzione, attribuendo i compiti di attuazione al Ministero dell'Ambiente e ai ministeri competenti nelle tematiche dei vari Protocolli. Lo scopo della Consulta è quello di coordinare l'attuazione della Convenzione Quadro e 14 92 Legge n° 403/99 dei Protocolli attuativi ad ogni livello amministrativo, evitando quindi la sovrapposizione di norme, o delle mancanze nella legislazione. L'Italia, pur avendo firmato tutti i Protocolli attuativi della Convenzione, non ne ha a tutt'oggi ratificato nessuno. La ratifica dei Protocolli è ferma all'approvazione del Senato della Repubblica, avvenuta solamente nel Maggio 2009, a cui però non è seguita l'approvazione della Camera dei Deputati. Una delle maggiori difficoltà espresse dall'Italia nell'implementazione, e quindi nella ratifica, delle norme della Convenzione, è che in Italia lo spazio alpino è caratterizzato da zone a forte vocazione industriale, nelle quali la tutela dell'ambiente deve essere necessariamente coordinata con il mantenimento dello sviluppo economico. Un altro elemento difficile è che l'Italia è lo Stato con la maggiore estensione di territorio alpino, territorio sul quale hanno giurisdizione sia lo Stato, ma anche le amministrazioni regionali e locali. È necessario quindi armonizzare le misure prese ad ogni livello amministrativo per giungere ad una politica verso la “regione alpina” comune, per questo è stata creata la Consulta Stato-regioni dell'arco alpino. La Consulta Stato-regioni dell'arco alpino è formata da un rappresentante dell'amministrazione nazionale pertinente ai Ministeri coinvolti (Ministero dell'ambiente, Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, Ministero per le politiche agricole, Ministero dei trasporti e della navigazione, Ministero dei lavori pubblici, Ministero dell'interno, Ministero per i beni e le attività culturali, Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica); oltre che dai rappresentanti delle amministrazioni regionali e delle provincie autonome, e i rappresentanti delle amministrazioni locali (UNCEM, ANCI, UPI). I dati più aggiornati 93 di questa breve analisi dell'applicazione della Convenzione Quadro e dei Protocolli applicativi fanno riferimento ad un questionario che il Gruppo di Verifica, attraverso la cui somministrazione agli Stati membri è stato possibile verificare l'attuazione della Convenzione. Il rapporto, esito del questionario, dovrebbe essere presentato dagli Stati membri ogni quattro anni; l'ultimo è del 2009 (solo per alcuni Stati). 3.5. CONCLUSIONE In questo capitolo, partendo dalle ragioni che stanno alla base della elaborazione della Convenzione per la protezione delle Alpi e dei suoi Protocolli applicativi fino ad arrivare ad una breve analisi della sua applicazione, è stata in un certo senso tracciata la strada percorsa dal territorio alpino e dai suoi abitanti fino ad oggi. Le differenze e la complessità di questo ampio territorio situato nel mezzo dell'Europa e che ne coinvolge otto stati più la stessa Unione Europea appaiono evidenti; ma sono altrettanto evidenti i tratti comuni che caratterizzano il territorio della regione alpina, la storia, l'evoluzione urbana e culturale, ma soprattutto la necessita di un coordinamento politico-normativo per evitare che le Alpi diventino una periferia delle pianure industriali. La Convenzione delle Alpi si propone sulla scena internazionale e comunitaria come un importante strumento per la regolamentazione della vita nella regione alpina ma anche una base giuridica per l'implementazione di politiche orientate allo sviluppo sostenibile in questo territorio. Alla fine dell'analisi della Convenzione non è possibile evitare di elencare quelli che vengono indicati come i punti più problematici dei contenuti di questo trattato e della sua applicazione. 94 Una delle criticità più evidenti è la mancanza di comunicazione, intesa sia come diffusione dei contenuti della Convenzione agli abitanti delle Alpi, sia come comunicazione tra gli Stati membri. La comunicazione è un elemento fondamentale per far si che i contenuti della Convenzione siano accettati non solo dagli apparati amministrativi degli stati, ma anche dalle persone che popolano le Alpi, poiché coinvolte direttamente dalle norme contenute in essa. Un altro elemento chiave per un’efficacia sempre maggiore della Convenzione Quadro e dei Protocolli è la partecipazione dell'UE, che potrebbe avere un ruolo fondamentale per giungere ad una coesione delle politiche dei diversi Stati membri nelle politiche riguardanti i temi individuati nella Convenzione stessa. Anche il ruolo delle associazioni e delle ONG è stato importante per la creazione della Convenzione e lo è per la sua applicazione. Lo stimolo della società civile transnazionale, come nel caso di CIPRA, può diventare un collante importante per il raggiungimento di obiettivi condivisi tra le Parti contraenti. 95 4. LA CONVENZIONE DELLE ALPI: UN MODELLO IBRIDO “Così […] ci affacceremo al nuovo millennio, senza sperare di trovarvi nulla di più di quello che saremo capaci di portarvi” (Italo Calvino, Lezioni Americane) 4.1. INTRODUZIONE Le montagne sono oggi tra gli habitat più densi che esistano sul pianeta. La loro densità è data dal fatto che in queste aree geografiche si intrecciano le relazioni tra molte specie viventi. Queste zone geografiche, proprio a causa di questa densità e delle conseguenti problematiche, sono oggi sotto i riflettori poiché è in questi territori che grandi questioni come il cambiamento climatico, l'impronta delle attività umane sull'ambiente, la finitezza delle risorse naturali si manifestano maggiormente. In questo panorama le montagne, così come altri spazi geografici simili per estensione, appartenenza a Stati differenti, importanza naturale come i mari, vengono ad acquistare un carattere sempre più particolare. Le comunità locali che stanno alla base della vita di questi luoghi, si trovano ad affrontare dei problemi di azione collettiva per la gestione delle montagne. Per questo vi è una sempre maggiore ricerca di modalità partecipative per la soluzioni di problemi di questo tipo. L'insieme degli interessi comuni e la dimensione comunitaria che le zone geografiche di questi tipo vivono, sono quindi sempre più elementi fondamentali per lo sviluppo di logiche cooperative che possano portare alla soluzione di tematiche complesse come 96 quelle affrontate dalla Convenzione delle Alpi, in grado poi in alcuni casi di essere esportate come modelli di governance innovativi. In questo capitolo cercherò di analizzare, partendo dalla base teorica che ho costruito nel primo e nel secondo capitolo, come la Convenzione delle Alpi possa essere considerata uno strumento cooperativo in bilico tra l'essere un regime internazionale e un sistema di governance multilivello. Farò questo soffermandomi sulle particolarità della stessa Convenzione, cercando di capire se essa è efficace come regime internazionale ambientale, utilizzando in questo caso i criteri che ho elencato nel primo capitolo proposti da Oran Young, assieme a Marc Levy, nel libro “The Effectiveness of environmental regimes” (1999) e la sua efficacia all'interno del framework europeo della cooperazione territoriale. Mi soffermerò inoltre sull'importanza degli attori non-statali nella costruzione di questo tipo di sistema di governance, introducendo infine il concetto secondo cui facendo riferimento a questioni pluridimensionali come quella ambientale, si possa parlare di sistemi ibridi di governance. 4.2. LA CONVENZIONE DELLE ALPI IN BILICO: il livello internazionale e quello comunitario La Convenzione della Alpi, come ho descritto nel capitolo precedente, si propone come obiettivo fondamentale quello di promuovere un modello di sviluppo sostenibile per il territorio alpino, che attraverso la Convenzione acquista sempre più lo status di regione globalmente importante per il pianeta. 97 La Convenzione delle Alpi, come molti alti trattati internazionali, prevede e promuove una tipologia di sviluppo sostenibile su base regionale; si parla infatti di regional sustainable development (Balsiger: 2008, 2) per la gestione di questioni riferite all'ambiente che non potrebbero essere affrontate attraverso delle azioni unilaterali o comunque non cooperative, proprio a causa della difficoltà di dare dei confini a questioni come quella ambientale. La Convenzione è interessante sul piano delle relazioni internazionali per diversi motivi. Il primo di questi è il fatto di avere prodotto, sviluppato e in gran parte ratificato oltre alla Convenzione Quadro, dieci ulteriori protocolli tematici. Questa è una caratteristica peculiare della Convenzione delle Alpi, che contrasta con altre Convenzioni, pur sempre in ambito ambientale, come ad esempio la Convenzione sul Cambiamento Climatico del 1992 (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il cui acronimo inglese è UNFCCC), che solamente dopo anni ha prodotto un solo protocollo attuativo, il famoso Protocollo di Kyoto, del 1997. All'interno di questa prima importante caratteristica della Convenzione delle Alpi bisogna rilevare anche che, al contrario di quello che avviene normalmente, gli ambiti nei quali secondo i Paesi membri è necessario collaborare per raggiungere un effettivo sviluppo sostenibile sono definiti direttamente nella Convenzione Quadro. Questo approccio, pur essendo innovativo e obbligando gli Stati membri ad affrontare le tematiche individuate, favorendo il processo di creazione dei Protocolli, ha anche incontrato numerosi problemi legati alla rapidità di creazione dei Protocolli e alla necessità di mantenere un nesso linguistico e logico tra la Convenzione Quadro e i Protocolli. 98 La seconda caratteristica che a mio parere è importante evidenziare della Convenzione delle Alpi è il suo approccio olistico. Una delle sue prerogative è proprio quella di non limitare il proprio campo d'azione alle più classiche delle tematiche dello sviluppo sostenibile. Essendo la regione alpina molto variegata sia dal punto di vista dell'ecologia, ma anche per quello che riguarda le attività umane, i trasporti e le popolazioni che vivono in essa, è necessario utilizzare un approccio interdisciplinare. La cooperazione, necessaria per il raggiungimento degli obiettivi previsti dalla Convenzione, deve essere quindi di tipo inter-settoriale; l'intersezione tra tematiche diverse come ad esempio quello delle popolazione e delle culture e quello dell'energia è fondamentale per il raggiungimento di uno sviluppo sostenibile in una regione con queste caratteristiche. La terza ed ultima caratteristica rilevante di questa convenzione è il fatto di rappresentare un caso di istituzionalizzazione eco-regionale (Balsiger, 2008: 3). Con questo termine si intende sottolineare che pur essendo la Convenzione delle Alpi un trattato internazionale, che come tale basa la sua esistenza sulla volontà degli Stati, il suo scopo e il suo campo di attuazione sono definiti basandosi sulla partecipazione di unità sub-nazionali come regioni, provincie e comuni. Ecco quindi apparire l'approccio orientato alla partecipazione locale della Convenzione. Nel corso dell'analisi dell'efficacia della Convenzione delle Alpi, consci del fatto che è possibile definirla sia come un trattato internazionale sia come sistema di governance multilivello, ci accorgeremo del fatto che è solamente dalla sintesi di questi due approcci che è possibile vedere nella Convenzione il senso di questo tipo di cooperazione internazionale. 99 Considerando da un lato la Convenzione come un regime internazionale, il rischio è di cadere in alcuni errori che secondo Susan Strange (1983) sono insiti nella definizione di regime internazionale, come ad esempio la staticità, intesa come rigidità ai cambiamenti sul piano internazionale, e il forte orientamento stato-centrico che i regimi internazionali tendono ad avere. D'altra parte, pensare alla Convenzione unicamente come un sistema di governance multilivello inserito nelle iniziative di cooperazione territoriale europee, riduce la portata del trattato internazionale. In questo secondo caso viene a mancare la dimensione di internazionalità che risulta fondamentale affinché il modello proposto dalla Convenzione non rimanga relegato a questo territorio ma possa trovare applicazione anche in riferimento ad altre realtà. É necessario quindi proporre per quello che riguarda questo tipo di cooperazione territoriale, un modello che faccia convergere i due approcci teorici che ho illustrato nei primi capitoli. 4.2.1. La Convenzione delle Alpi: un regime internazionale efficace? Prima di applicare, a questo caso studio, i criteri che Young e Levy propongono per determinare l'efficacia o meno di un regime ambientale internazionale, è indispensabile volgere lo sguardo verso alcune importanti classificazioni degli effetti che un regime come quello descritto può avere. Gli effetti di un regime possono essere identificati, secondo questi due autori, su due assi distinti: interni o esterni e diretti o indiretti (Young & Levy, 1999: 10). Gli effetti interni della Convenzione delle Alpi, intesi come quegli effetti che 100 coinvolgono gli Stati membri della Convenzione, sono ben visibili: la partecipazione dei ministri dei Paesi membri alle sedute della Conferenza delle Alpi e dei rappresentanti delle parti contraenti, le ratifiche e le applicazioni negli ordinamenti nazionali della Convenzione, evidenziano la visibilità dei suoi effetti interni. Per quello che riguarda gli effetti esterni di questo regime internazionale, esso sono identificabili con quell’insieme di conseguenze che la Convenzione ha al di fuori del suo territorio, il più eclatante e importante è forse il processo di diffusione di regimi ambientali simili alla Convenzione delle Alpi nelle regioni dei Carpazi (Convenzione dei Carpazi15), i Balcani e l'area andina. Spostandoci su l'altro asse individuato dai due autori, gli effetti diretti sono quelli che derivano direttamente da principi e norme contenute nella Convenzione e nei Protocolli. Al contrario gli effetti indiretti di un regime internazionale come quello creato dalla Convenzione delle Alpi possono essere individuati ad esempio in una sempre più marcata attenzione verso le regioni montane a livello globale, sia da parte delle organizzazioni internazionali (come l’UNEP) o sovranazionali (come l’UE), ma anche da parte di associazioni ambientaliste o reti della società civile. Avendo chiaro quindi i diversi livelli nei quali un regime può manifestare la sua efficacia, seguendo l’approccio analitico proposto da Young e Levy possiamo ora concentrarci sulla valutazione dell’efficacia della Convenzione, sulla sua capacità quindi di produrre le diverse tipologie di effetti che ho descritto all'inizio di questo paragrafo. Per fare questo farò riferimento ai cinque criteri di efficacia utilizzate da Young e Levy nel loro testo (Young & Levy: 1999). Il primo è l'efficacia riferita alla capacità di problem-solving che un determinato regime 15 http://www.carpathianconvention.org/index.htm 101 possiede. Da questo punto di vista è necessario chiedersi se la Convenzione delle Alpi, sia riuscita o meno ad affrontare la questione che ha portato alla sua creazione, cioè quella della necessità di regolare lo sviluppo dell'area alpina, per evitare che questo territorio diventasse sempre più periferico rispetto ai grandi centri economici urbani. Sin dalla fine del secondo conflitto mondiale si comincia quindi ad elaborare una strategia per orientare lo sviluppo dello spazio alpino verso la sostenibilità. Non è semplice stabilire se la Convenzione abbia raggiunto questo suo scopo e quando lo raggiungerà, anche se sicuramente alcuni passi importanti sono stati fatti, come ad esempio la presa di coscienza da parte degli Stati alpini della necessità di riconsiderare il ruolo delle montagne. È molta la strada ancora da percorrere, anche per il semplice fatto che non tutti i Protocolli che erano stati previsti nella Convenzione Quadro sono stati elaborati. È necessario quindi spostarsi ad analizzare al secondo criterio di efficacia, quello legale. Da questo punto di vista bisogna segnalare che non ostante che la Convenzione Quadro sia stata ratificata da tutti gli otto Stati alpini, molti Protocolli rimangono non ratificati o inattuati. L'Italia, come la Svizzera, ad esempio ha firmato tutti i Protocolli applicativi della Convenzione, senza però ratificarne nessuno. In Italia in particolare la proposta di ratifica dei Protocolli è stata portata dal Governo e nel 2009 è stato formulato un Disegno Legge per la ratifica dei Protocolli, approvato dalla Camera dei Deputati, ora al vaglio del Senato. È però notizia di pochi mesi fa che in contrasto con la linea del Governo, la Lega Nord, sotto pressione delle associazioni degli autotrasportatori, è riuscita a bloccare la ratifica del Protocollo Trasporti 16. Possiamo quindi affermare che dal punto dell'efficacia legale, molto è ancora da 16 Corriere della Sera “Quel localismo irragionevole che ci taglia fuori dall'Europa”, 18/04/2010 102 realizzare nell'ambito normativo-legale della Convenzione. Il terzo criterio di efficacia di un regime che Young e Levy individuano è quello riferito ai costi del regime. Secondo questo approccio possiamo parlare di efficacia di un regime solamente quando i costi della sua istituzione non sono eccessivi. Da questo punto di vista la Convenzione delle Alpi non sembra presentare dei costi diretti, come potrebbe invece averne un regime internazionale che stabilisce ad esempio il divieto di utilizzo di un certo tipo di pesticidi in agricoltura; gli Stati membri quindi non sembrano dover spendere o perdere denaro con la ratifica della Convenzione. Vi possono essere però dei costi indiretti che un regime come la Convenzione delle Alpi può causare. Questo discorso ci avvicina ad un punto che toccherò in seguito, e cioè quello degli effetti diretti o indiretti dei regimi. Il successivo criterio di efficacia che i due autori identificano, il quarto, fa riferimento all'efficacia normativa. Questo termine usato da Young e Levy non deve essere confuso con la dimensione legale di cui ho parlato prima, bensì si deve intendere il livello di partecipazione delle autorità nel regime o la tutela della giustizia. La Convenzione delle Alpi, per quello che riguarda questa tipologia di efficacia, ha compiuto qualche passo verso una maggiore partecipazione degli enti territoriali coinvolti, ma da questo punto di vista molto rimane ancora da compiere per diffondere la Convenzione e in seguito le norme in essa contenute17; in seguito vedremo come, soprattutto in ambito comunitario, questo punto sia di fondamentale importanza. La quinta ed ultima tipologia di efficacia di un regime ambientale internazionale è l'efficacia politica. Affinché un regime possa essere considerato efficace sul piano 17 Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo Consiliare Verdi-Democratici 103 politico è necessario, secondo Young e Levy, che esso sia in grado di modificare gli interessi degli attori, le politiche e quindi le performance delle istituzioni. Per quello che riguarda il mio caso studio, la Convenzione delle Alpi fino ad ora non ha avuto questo tipo di “forza” politica. Solamente in alcuni casi, quello del comune di Budoia in Friuli Venezia Giulia, quello di Cavalese in Trentino e alcune leggi della Provincia Autonoma di Trento, è possibile parlare di efficacia politica della Convenzione e dei suoi Protocolli. Per quello che riguarda il comune di Cavalese, la Convenzione è stata inserita nello statuto comunale 18, mentre il regolamento comunale di Budoia 19 prevede la partecipazione del comune al network Alleanza nelle Alpi. Nel caso della Provincia Autonoma di Trento i principi della Convenzione sono stati inseriti ad esempio nella Legge Urbanistica Provinciale (01/2008)20 e nella Legge Provinciale sulle foreste e sulla protezione della natura (11/2007)21. Sia dal punto di vista delle istituzioni 22 che da quello delle associazioni della società civile23, emerge che è proprio la mancanza di volontà politica che spesso riduce la Convenzione ad essere definita come una “ineffective paper tiger” 24 (Balsiger, 2008: 3). Il quadro che emerge da questa analisi dell'efficacia della Convenzione delle Alpi, intesa come regime internazionale ambientale, è positivo solo a tratti. 18 19 20 21 22 23 24 Statuto comunale del Comune di Cavalese (TN) disponibile al sito http://www.mbtechzone.it/comunecavalese/StatutoRegolamenti.aspx Regolamento Comunale del Comune di Budoia (PN) disponibile al sito http://www.comune.budoia.pn.it/Atti-e-Documenti.6.0.html disponibile al sito della PAT: http://www.consiglio.provincia.tn.it/banche_dati/codice_provinciale/clex_documento_camp.it.asp? pagetype=camp&app=clex&at_id=17431&type=testo&blank=N disponibile al sito della PAT: http://www.consiglio.provincia.tn.it/banche_dati/codice_provinciale/clex_documento_camp.it.asp? pagetype=camp&app=clex&at_id=16530&type=testo&blank=N Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo Consiliare Verdi-Democratici Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, rappresentante di CIPRA – Italia “Tigre di carta inefficace” (traduzione non ufficiale) 104 Non ostante alcune zone felici, nelle quali la Convenzione ha trovato applicazione anche a livello locale, nella maggior parte di territori compresi nel suo territorio manca, a detta sia di amministratori locali che della società civile, oltre ad una buona informazione nei confronti della cittadinanza, una chiara volontà politica orientata al sostegno dello sviluppo sostenibile in questa zona geografica, elemento imprescindibile per una montagna sana, non solamente fonte di sviluppo economico, ma anche di sviluppo umano. La Convenzione oggi, anche nei paesi che l'hanno ratificata nella sua completezza (mancano all'Appello UE, Svizzera e Italia), è spesso non applicata soprattutto a livello locale. Il regime ambientale istituito dalla Convenzione delle Alpi risulta quindi efficace solo in parte; pur considerando il regime internazionale teoricamente una strategia efficace per la promozione della cooperazione nella soluzione di problemi condivisi, il caso della Convenzione delle Alpi dimostra come il regime internazionale non riesca a rendersi davvero efficace sul territorio. 4.2.2. La Convenzione delle Alpi: un Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale efficace? Quando si parta di Alpi, non possiamo dimenticare che questo territorio sia all'interno dei confini dell'Unione Europea. È impossibile quindi pensare ad uno sviluppo cooperativo dell'arco alpino, come di altre regioni montane europee, senza prendere in considerazione da dimensione comunitaria, che spesso diventa quella preponderante. Le Alpi, a causa della loro posizione geografica, per anni hanno solo avuto il ruolo di 105 territorio di confine. L'avvento della dimensione comunitaria, l'uscita dalla logica di Stati nazione chiusi in se stessi, il boom economico e il rinnovato interesse per il turismo, hanno trasformato le Alpi in un luogo di transito fisico e culturale, oltre che in una meta ambita. Dal punto di vista della governance, le Alpi sono state definite come un laboratorio per l'Europa (Morandini & Reolon, 2010: 45). Questo concetto, già introdotto da Cammanni (2004), ci mostra le Alpi non come un “paradiso” o un “isola incontaminata”; al contrario, poiché questo territorio coniuga in se stesso molte delle contraddizioni che ritroviamo anche in molti altri territori dell'Unione, oltre che molti dei problemi dell'economia capitalistica del modello consumistico odierno, è solamente “grazie” alle sfide che il territorio alpino affronta quotidianamente che è possibile parlare di questo territorio come di un laboratorio. Come abbiamo visto in precedenza lo strumento più importante per l'applicazione della governance multilivello, considerata oggi come la modalità di policy-making europea, è quello che vede dal 2006 in poi la creazione dei GECT. In questo caso la Convenzione delle Alpi è da considerare come uno strumento di cooperazione territoriale. La formalizzazione di questa modalità di cooperazione è avvenuta, per quello che riguarda la Convenzione, con la creazione e del Programma comunitario Spazio Alpino, che, prima nell'ambito del programma INTERREG e ora come GECT, ha dato alla Convenzione una dimensione europea, rendendo possibile l'istituzione di progetti ci cooperazione tra gli Stati dell'Unione membri della CA. Bisogna ora chiedersi se questo nuovo strumento di cooperazione territoriale, i GECT introdotti dal Regolamento (CE) n. 1082/2006, sia efficace per l'implementazione della 106 governance multilivello tra gli Stati membri della Convenzione. Essendo la questione dell'efficacia molto sfaccettata, le dimensioni che è necessario indagare sono diverse. Dal punto di vista della comunicazione e dello scambio di informazioni utili alla gestione del territorio alpino, la presenza di uno o più GECT 25 sul territorio definito dalla Convenzione delle Alpi come alpino favorisce in modo indiscutibile i contatti non solo tra gli otto Stati, ma anche tra le diverse autorità locali che si trovano all'interno di questo territorio. La partecipazione delle autorità locali, nonché delle comunità locali, è molto incentivata in questo ambito cooperativo; questo è un elemento sicuramente significativo per valutare l'efficacia di un GECT. In questo senso è necessario però rilevare che il ruolo della politica, intesa come attività di governo, è fondamentale per la gestione del processo di governance proposto dalla cooperazione territoriale europea. Un esempio dell'orientamento che anche l'UE sta incominciando a seguire, é la Strategia europea per la regione del Mar Baltico (Commissione Europea, 2009) che si pone l'obiettivo di migliorare il coordinamento fra gli otto Stati membri che si affacciano sul Mar Baltico, e gli altri paesi costieri che non sono membri dell’Unione Europea, per rispondere alla sfide a cui questa regione è sottoposta; una soluzione che potrebbe essere presa in considerazione dall'UE anche per la regione alpina. Nel paragrafo conclusivo del documento della Commissione Europea si legge che “La regione del Mar Baltico presenta una lunga tradizione di reti e di cooperazione in numerosi settori di intervento. Questa strategia offre la possibilità di passare dalle parole ai fatti e di conseguire effettivi vantaggi per l'intera regione” (Commissione Europea, 25 una euroregione alpina vera e propria non esiste formalmente; anche se, pur essendo presenti tre euroregioni nell'arco alpino, una euro-regione estesa a tutto l'arco alpino sarebbe auspicabile 107 2009). Con l'adozione di questa strategia l'UE ha aperto le porte ad un’idea di cooperazione territoriale più estesa rispetto alle ridotte dimensioni che le euroregioni hanno fino ad ora assunto; si parla in questo caso di macroregione, un concetto nuovo per l'Unione che potrebbe portare ad una strategia regionale anche per l'arco alpino in un futuro prossimo (Morandini & Reolon, 2010: 77). Per quello che riguarda la situazione attuale a causa delle caratteristiche del territorio alpino e dell'estensione del territorio alpino definito dalla Convenzione delle Alpi, della relativa novità dei GECT come strumento per implementare la governance multilivello europea e a causa della scarsa volontà politica, soprattutto a livello locale, nemmeno un modello di governance come quello proposto negli ultimi anni dall'UE può essere considerato come totalmente efficace per la gestione di regioni transfrontaliere come quella alpina. Facendo riferimento a quanto scritto all'inizio del secondo paragrafo, la Convenzione delle Alpi non sembra trovare piena efficacia né nella sua forma di regime internazionale, né come sistema di governance multilivello. É necessario elaborare, per quello che riguarda questo tipo di cooperazione territoriale, un modello che faccia convergere i due approcci teorici che ho illustrato fino ad ora. Prima di fare questo però vorrei volgere lo sguardo verso alcuni progetti messi in atto nell'ambito della Convenzione delle Alpi, efficaci per la comprensione del ruolo dei diversi attori coinvolti in questo sistema di governance. 4.3. ATTORI E BUONE PRATICHE L'ambiente è forse il tema che oggi più incarna l'idea di una molteplicità di attori coinvolti a tutti i livelli, dal policy making, all'implementazione delle decisioni. 108 La questione ambientale, che come abbiamo avuto modo di vedere negli ultimi anni, è oramai entrata a pieno titolo a far parte delle relazioni internazionali e come molti altri ambiti vede coinvolti nei vari sistemi di governance numerosi attori. Per quello che riguarda la Convenzione delle Alpi una delle caratteristiche più importanti è l’insieme delle complesse relazioni che sono venute a crearsi tra attori locali, attori appartenenti alla società civile, istituzioni nazionali e sovra-nazionali, reti e network globali. In questo vasto panorama di relazioni, un ruolo fondamentale è ricoperto dagli attori non statali, cioè quegli attori che non sono rappresentativi degli interessi dei governi degli Stati. Ecco quindi che si sente sempre più spesso parlare di organizzazioni non governative (ONG), d’imprese transnazionali e di comunità epistemiche. Sulla scena politica internazionale appaiono quindi sempre più frequentemente attori della società civile o attori portatori di interessi privati o elitari. Nel caso della Convenzione delle Alpi l'apporto dell'associazionismo della società civile è stato fondamentale, sia nel periodo durante il quale la Convenzione era elaborata in azione congiunta con i governi dei futuri Stati membri, sia oggi, come stimolo per le autorità locali a seguire le linee-guida dettate dalla stessa Convenzione, o come esecutori del compito di monitorare l'efficacia delle decisioni prese. L'ONG più importante a livello alpino è sicuramente CIPRA, un’organizzazione transalpina, nata nel 1952, che riunisce al suo interno tutte le associazioni legate al mondo della montagna nelle Alpi degli otto Stati alpini. È quindi dai primi anni cinquanta del secolo scorso che la società civile lavora per lo sviluppo di un sistema di norme e principi che regolino la vita dei territori alpini. CIPRA è stato un attore fondamentale per la realizzazione della Convenzione delle Alpi quarant'anni dopo la sua 109 nascita. Oggi è presente con delle agenzie nazionali negli otto Stati alpini e svolge il compito di monitoraggio sull'operato dei diversi attori per quello che riguarda l’applicazione della Convenzione, oltre che di gestione dei diversi network e i progetti che sono sviluppati sulla spinta delle linee-guida tracciate dalla Convenzione delle Alpi. Non bisogna però sottovalutare il ruolo che gli stessi organi della Convenzione delle Alpi, in particolare il Segretariato, e alcuni Stati membri hanno avuto, come attori principali per la diffusione e l'implementazione dei principi e delle norme contenuti nella Convenzione. Per chiarire meglio in che modo oggi la presenza simultanea di questi attori sia un elemento chiave nell’ambito della Convenzione delle Alpi, è utile presentare alcune buone pratiche, intese come tutte quelle azioni, iniziative e programmi messi in atto da questi attori per favorire l’applicazione dei principi e delle norme presenti nella Convenzione. Tra gli altri progetti, messi in atto in collaborazione con attori della società civile in questi anni nell'arco alpino, due in particolare sono da ricordare, Alparc (Rete Alpina delle Aree Protette) e Alleanza nelle Alpi. La Rete Alparc, istituita nel 1995, si pone l'obiettivo di favorire un continuo scambio di informazioni tra i parchi alpini, le riserve naturali, le riserve di biosfera e altre forme di protezione che sono state mese in atto nell'arco alpino. Lo scopo principale di questa rete, è di creare uno scambio di conoscenza tra le varie esperienze che nel corso degli anni sono maturate nella regione alpina attraverso la messa in atto di una rete tematica, una rete ecologica e una rete comunicativa rifacendosi ai contenuti della Convenzione delle Alpi e ai Protocolli applicativi. In 110 particolare la missione di questo progetto è esplicitata nella Convenzione all'articolo 12 che recita “Le Parti contraenti assumono le misure idonee a creare una rete nazionale e transfrontaliera di aree protette istituite, di biotopi e altri beni ambientali protetti o meritevoli di protezione. Esse si impegnano ad armonizzare gli obiettivi e le misure in funzione di aree protette transfrontaliere”. Alleanza nelle Alpi è un network di comuni dell'arco alpino fondato nel 1997. Queste autorità locali e i loro cittadini, riconoscono nella Convenzione delle Alpi le linee guida per raggiungere l'obiettivo di uno sviluppo sostenibile per i diversi territori che fanno parte dell'arco alpino. Questo secondo progetto è particolarmente rilevante anche secondo CIPRA26, poiché è a livello locale che la dimensione della società civile e quella della pubblica amministrazione si incontrano, sviluppando così una maggiore consapevolezza della Convenzione delle Alpi e delle linee-guida per uno sviluppo sostenibile dell'area alpina in essa contenute. Per quello che riguarda il contributo degli attori istituzionali danno allo sviluppo di una governance per le tematiche ambientali, sul modello della Convenzione delle Alpi, il contributo più recente è la nascita nel 2003 della Convenzione dei Carpazi. I Carpazi sono una zona montana collocata tra l'Europa centrale e l'Est Europa, con una superficie di poco superiore a quella alpina. La regione affronta ancora oggi le problematiche legate alla transizione dal sistema sovietico a quello occidentale, e per questo molti degli sforzi profusi dall'UE si concentrano in questa direzione. Il processo di creazione della Convenzione dei Carpazi ha coinvolto non solo gli organi della Convenzione delle Alpi ma anche i Governi di alcuni paesi membri, Austria e Liechtenstein, il governo Olandese, l'ONG WWF International, il Ministero italiano 26 Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, rappresentante di CIPRA – Italia 111 dell'Ambiente ed EURAC. La ratifica di questa Convenzione, avvenuta nel 2006, ha l'obiettivo di portare all'attenzione degli Stati l’importanza della regione montana presente nei loro territori e di attuare strategie cooperative per garantire uno sviluppo sostenibile anche per questo territorio. La Convenzione dei Carpazi è sia nella struttura sia nei contenuti molto simile alla Convenzione delle Alpi, avendo anch'essa un carattere transnazionale poiché comprende sette diversi territori nazionali, essendo anch'essa una Convenzione Quadro che non fissa obblighi ma solamente delle linee-guida indispensabili per uno sviluppo sostenibile per questa regione montana. Questo esempio di diffusione del modello della Convenzione delle Alpi non è stato l'unico, né all'interno del territorio europeo, né in altri continenti. Per quello che riguarda il territorio europeo, un percorso simile a quello avvenuto nella regione dei Carpazi sta avvenendo nei Balcani. Non ostante le grandi difficoltà che in questa regione si incontrano nei tentativi di cooperazione tra gli Stati, è in atto in questi anni, un complesso processo per la creazione di una Convenzione simile alle due precedenti con lo scopo di promuovere uno sviluppo sostenibile per le aree montane dei Balcani. All'esterno del territorio europeo, nella regione andina dell'America Latina è stato istituito nel 1994 il Consortium for Sustainable Development of the Andean Ecoregion (CONDESAN), una piattaforma ecoregionale che si occupa dello sviluppo sostenibile in questa regione montana. Tutte queste reti e alleanze, che formano in tutto il pianeta delle ecoregioni o delle regioni montane, fanno capo all'organizzazione Mountain Partnership, un’alleanza 112 volontaria diffusa in 50 paesi, che comprende 16 organizzazioni intergovernative e 101 tra istituzioni, associazioni e ONG. Non ostante la dimensione globale che organizzazioni come Mountain Partnership hanno assunto, un governo dell'ambiente globale è assolutamente impensabile sia a causa dei costi che della presumibile inefficacia causata dal fatto che gli Stati sono sempre meno inclini in realtà a trovare degli accordi su questo tema, come abbiamo visto nell'ultimo Earth Summit di Copenhagen nel Dicembre 2009. Bisogna quindi concentrarsi sugli strumenti già in atto sia a livello globale che locale o nazionale per muovere passi efficaci verso l'obiettivo dello sviluppo sostenibile. In questo senso si può affermare che anche l'ONU può essere considerato come un attore chiave verso un processo globale coordinato di gestione dell'ambiente. L'UNEP, l'Agenzia dell'ONU per l'ambiente, è oggi fortemente orientata verso un approccio regionale della governance ambientale globale. All'interno del documento finale del Fifth Global Environment Outlook (UNEP, 2010) si legge tra gli obiettivi si trova la necessità di dare supporto ai processi di decision-making che avvengono ai livelli appropriati. La parte 2 del documento è interamente dedicata alla descrizione di “Options for Regional Policy Action”, mentre la terza parte mette in luce l'idea che sta alla base dell'approccio regionale dell'agenzia: un approccio regionale per una risposta globale alle sfide poste dalla questione ambientale. Non solo quindi l'approccio regionale è promosso all'interno dell'UE dal sistema dei GECT, dal WWF con la classificazione delle ecoregioni presenti sul pianeta e dalla presenza di network globali come Mountain Partnership, ma anche l'UNEP è orientata verso una struttura regionale per la governance ambientale. 113 4.4. UN SISTEMA IBRIDO? Il panorama degli attori e degli approcci coinvolti nella governance di questioni così sfaccettate come quella ambientale è evidentemente molto ampio. Abbiamo visto come gli attori istituzionali giochino ancora un ruolo fondamentale, sebbene sia sempre più intrecciato con le azioni intraprese da attori non-statali che sono fondamentali per la gestione di questioni di questo tipo. Se gli attori istituzionali possono essere considerati come portatori di “governo”, elemento imprescindibile per dare attuazione locale ad accordi internazionali o a principi condivisi, gli attori non statali come le imprese transnazionali, i network e le ONG transnazionali (transalpine in questo caso) sono portatori di un modello di “ordine” nuovo, rispetto a concezioni delle relazioni internazionali stato-centriche. La spiegazione del meccanismo d’intersezione di questi due approcci è più chiara pensando al gap tra governo e governance come un continuum all'interno del quale troviamo le molteplici forme di combinazione di queste due anime della politica internazionale (Börzel, 2010: 9). La soluzione mediana, che evita un modello top-down senza però dare luogo al complesso e costoso sistema del conflitto politico è quella della governance con il governo (governance with government). Il prerequisito per il sorgere di un modello di governance che racchiuda una molteplicità di attori ampia come quella che abbiamo descritto nei casi delle partnership per le regioni montane, è la così detta shadow of hieracy, l'idea cioè che il governo e il ruolo dello stato siano dei prerequisiti alla nascita di un modello di governance che coinvolga 114 anche attori non-statali. Questa idea non vuole togliere veridicità all'idea che questioni come quella ambientale richiedano un sistema di governance più complesso di quelli che abbiamo sin ora valutato, ma sottolinea proprio l'interdipendenza tra un approccio basato sul ruolo importante che gli Stati giocano ancora oggi nel campo delle relazioni internazionali, e le nuove pressioni dovute alla sempre maggiore interdipendenza tra stati e altri attori, causate anche dal fatto che oggi problemi globali necessitano di soluzioni globali. La domanda di sistemi di governance misti è oggi all'ordine del giorno. Le diverse sfere delle relazioni internazionali, come l'economia o l'ambiente subiscono oggi forti pressioni a causa dell'interdipendenza tra gli Stati; le azioni dell'uomo, la maggior parte delle volte, non solo hanno conseguenze locali ma oggi hanno ripercussioni su larga scala. Se da un lato è chiaro che non è più possibile limitare l'analisi di questo tipo di questioni ai soli attori istituzionali, dall'altro, come ho già scritto, anche la governance senza il governo risulterebbe difficilmente gestibile. È necessario ragionare in un’ottica che veda questi approcci confluire verso un'unico sistema di governance. Unico sistema di governance, che Lemos e Argwal nel loro saggio all'interno del libro di Young e Delmas “Governance for the environment” (2009) chiamano governance ambientale ibrida. Questo approccio si basa sul fatto, oramai dimostrato, che nessuno dei singoli attori presenti sulla scena politica internazionale è in grado di gestire la molteplicità di sfaccettature e crescenti interdipendenze insite in questioni oggi globali come quella ambientale. Il modello della Convenzione delle Alpi, inteso non solo come trattato internazionale, 115 ma nella sua vasta applicazione sia a livello statale sia nella società civile, si avvicina molto all'idea di governance ibrida. La forma ibrida in questo caso è data dalla presenza simultanea del livello internazionale, nazionale, locale, con quello comunitario oltre che dalla presenza di azioni messe in atto da ONG come CIPRA o il WWF e dalle relazioni che avvengono, nel rispetto dei principi espressi nella Convenzione delle Alpi, tra enti privati ad esempio per la costruzione di infrastrutture o per lo sfruttamento delle risorse naturali. Questa fitta intersezione di livelli e attori fa si che la responsabilità del raggiungimento degli obiettivi stabiliti non sia concentrata su un attore soltanto, come ad esempio un’organizzazione intergovernativa, ma al contrario che sia dispersa a più livelli, contribuendo così a evitare tentativi di free riding da parte dei diversi attori coinvolti nel processo di soluzione della questione ambientale. Non ostante l'evidente necessità di un modello ibrido di governance, espressa non solo dalla spinta regionalista dell'UNEP, ma anche dall'espansione del modello di governance per le zone montane proposto con la Convenzione delle Alpi, è necessario porre l’accento su alcuni limiti insiti in questa strategia (Lemos & Agrawal, 2009: 80). Un primo aspetto critico è l’effettiva capacità di questo tipo di approccio per la soluzione dei problemi che altri sistemi di governance presentano; questo perché non sempre attori che da sempre ricoprono un ruolo centrale per quello che riguarda l'ambiente sono disponibili ad accettare l'ingresso sulla scena politica internazionale di nuovi attori. La seconda criticità riguarda la coesistenza di attori privati e pubblici in una stessa partnership. Infine l'ultimo problema riguarda gli equilibri di potere tra i diversi attori coinvolti. In 116 questo caso la questione fondamentale è la distribuzione del potere all'interno della partnership; l'approccio bottom-up proposto da questo tipo di governance potrebbe non essere sufficiente per modificare le preesistenti distribuzioni di potere, essendo in questo caso inutile. È necessario quindi prestare attenzione alle ineguaglianze a livello economico, educativo e di potere che possono vanificare l'intera strategia di governance. Non ostante nemmeno la proposta di un sistema ibrido sia esente dall'affrontare delle difficoltà e dei limiti, questa soluzione appare oggi la soluzione non solo auspicata dall'Agenzia dell'ONU per l'ambiente, come è scritto nel Fifth Global Environment Outlook (UNEP, 2010), ma anche la strada che gli stessi attori pubblici e privati, istituzionali e non-statali, vanno pian piano intraprendendo, sulla scia dell'idea che sia necessaria una riconfigurazione della governance ambientale, verso un modello in grado non solo di essere efficace, ma anche che deve essere necessariamente ibrido, multilivello e che attraversi più settori (Lemos & Agrawal, 2009: 96). 4.5. CONCLUSIONE Alla luce di quest’analisi, la Convenzione delle Alpi appare con delle evidenti criticità, ma anche con dei rilevanti punti di forza. Una prima criticità è identificabile nella “sfera politica” della Convenzione; la lentezza nella ratifica da parte di alcuni Stati 117 della Convenzione Quadro, per non parlare della riluttanza di alcuni tra gli otto paesi, tra cui l'Italia, nella ratifica e nell'applicazione dei Protocolli attuativi. Da questo punto di vista appare prioritario che le Alpi acquistino una forza politica, magari creando un’euroregione alpina27. Un secondo aspetto critico della Convenzione è la poca conoscenza che i cittadini e le amministrazioni locali del territorio alpino hanno di essa. La Convenzione necessita, per essere davvero efficace nei suoi principi, di essere compresa e fatta propria in primo luogo dai cittadini delle alpi e dalle amministrazioni che li rappresentano. Anche secondo CIPRA, che si occupa del monitoraggio sul territorio dell'applicazione Convenzione, è necessario uno sforzo della Convenzione verso i cittadini; per questo bisognerebbe, secondo CIPRA, ritenere prioritaria per gli organi della Convenzione, la firma da parte dei paesi membri del protocollo riguardante il tema “Popolazione e Cultura”28, per il quale oggi esiste solamente una dichiarazione. D'altra parte però la Convenzione dimostra anche degli inequivocabili successi. Innanzi tutto la stessa firma della Convenzione segna un punto di svolta di un processo di avvicinamento all’obiettivo cardine della Convenzione delle Alpi, cioè la creazione di un framework normativo per questa regione, che CIPRA e i governi nazionali hanno portato avanti per decenni. In secondo luogo, come ho già scritto, la struttura della convenzione è innovativa rispetto ad altri trattati internazionali; raramente, prima della Convenzione delle Alpi, ad una convenzione quadro erano seguiti così tanti protocolli attuativi e mai l'oggetto dei protocolli era stato prestabilito nella convenzione quadro. Inoltre, come sembrano dimostrare la nascita della Convenzione dei Carpazi e il 27 28 Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo Consiliare Verdi-Democratici Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, rappresentante di CIPRA – Italia 118 processo in atto nella regione balcanica, ai quali si devono aggiungere le sempre più frequenti iniziative di cooperazione territoriale, sia in ambito comunitario (GECT e Strategia dell'Unione europea per la regione del Mar Baltico), che in ambito internazionale (UNEP, Programma Regionale per le Aree marine), il modello di governance proposto dalla Convenzione delle Alpi appare il linea di principio applicabile anche in altre regioni montane. La Convenzione delle Alpi ha infine il merito di mantenere aperto il dialogo tra attori istituzionali e non-statali, cercando così di limitare i possibili conflitti per la gestione dello spazio alpino, evitando di lasciare le Alpi in una condizione di marginalità rispetto agli interessi prioritari dei governi nazionali e sovra-nazionali. 119 CONCLUSIONI L’accelerazione dei cambiamenti ambientali è oggi una delle questioni chiave della politica interna ed esterna degli Stati. Gli attori internazionali, in riferimento alla questione ambientale, e in particolare per quello che riguarda le zone montane, si trovano oggi ad affrontare una duplice sfida. Da un lato vi è l’idea che l’ambiente vada conservato e tutelato in quanto habitat fondamentale per molte specie viventi, oltre che per gli esseri umani; dall’altro oggi sembra che parlando di ambiente sia inevitabile fare riferimento alla nozione di sviluppo sostenibile. Questi due concetti sono evidentemente due opposti: conservazione e sviluppo, tradizione e progresso sono chiaramente due idee che normalmente tendono in direzioni divergenti, difficilmente conciliabili. Molte regioni del pianeta, come quella alpina, sono al tempo stesso sia zone all’interno delle quali è sempre maggiore la difficoltà di raggiungere modelli di sviluppo sostenibile sia luoghi nei quali è possibile e necessario attuare modelli innovativi di governance. Prendendo in considerazione come caso studio la Convenzione per la Protezione delle Alpi, ho voluto in questo elaborato, analizzare sia l’efficacia di un regime internazionale ambientale, sia la nascita e l’attuazione di un sistema di governance multilivello nell’ambito delle politiche comunitarie, approcci che coesistono nel caso della Convenzione. Il punto da cui sono partito nell’analisi di quest’argomento è lo studio del ruolo della cooperazione nell’ambito delle relazioni internazionali. Gli Stati, attori del sistema internazionale per eccellenza, hanno sempre associato la stipulazione di accordi all’uso 120 massiccio della forza per la soluzione di controversie. Con il passare dei secoli le interdipendenze tra gli Stati sono andate man mano aumentando, e questo ha portato a un cambiamento anche nell’ambito delle relazioni internazionali. I problemi, in conseguenza dei grandi cambiamenti che sono avvenuti in particolare nel corso dell’ultimo secolo, hanno assunto sempre più un carattere globale e gli attori coinvolti sono aumentati notevolmente di numero; questo è avvenuto in maniera particolarmente rilevante in ambiti che valicano i confini degli Stati come quello ambientale. I trattati internazionali, e quindi i regimi internazionali sono oggi diventati sempre più frequentemente la soluzione a problemi di azione collettiva; dalla fine del secondo conflitto mondiale abbiamo assistito alla creazione di moltissimi regimi internazionali negli ambiti più diversi, dalla sicurezza al commercio e all’ambiente. A questo si aggiunga che non solo è aumentato il numero di attori statali, ma sono apparsi sulla scena internazionale attori sovranazionali o non-statali, che hanno fatto in modo che la domanda di governance aumentasse sensibilmente nell’ultimo ventennio del XX secolo. Applicando un ragionamento economico ad una questione politica dopo aver constatato l’aumento della domanda, è necessario osservare il parallelo movimento dell’offerta di governance. Questa appare oggi sempre più difficile da ottenere soprattutto in riferimento alla questione ambientale, come hanno dimostrato le difficoltà incontrate negli ultimi vertici internazionali relativi a questo tema. Ecco quindi che si sta assistendo a un fenomeno che potremmo chiamare regionalizzazione della governance. I motivi di questo spostamento dal piano internazionale a quello regionale sono diversi. Il primo di questi è il fatto che spesso i confini degli Stati non corrispondono ai limiti di 121 realtà naturali omogenee. È il caso questo delle oltre duecento ecoregioni che l’ONG WWF International ha individuato nell’ultimo decennio in tutto il pianeta. Prendendo ad esempio le Alpi, che sono una di queste ecoregioni, è evidente come la soluzione al problema della conservazione e dello sviluppo sostenibile di questo territorio non veda gli Stati come unici attori di questo processo, ma veda anche coinvolte nel ricoprire un ruolo primario per il raggiungimento di questi obiettivi le amministrazioni regionali e locali, assieme all’Unione Europea, oltre che attori della società civile e attori privati. Un secondo motivo riguarda il fatto che l’efficacia di un accordo che prevede la cooperazione tra un numero limitato di attori per un obiettivo comune, è sicuramente maggiore che non quella di un accordo più ampio che, fissando degli standard globali, non rispetti le differenze, le necessità e le possibilità dei diversi territori. Inoltre la regionalizzazione della governance ambientale è oggi incentivata dal crescente numero di attori coinvolti nel processo. Ecco quindi come la teoria della governance multilivello, sviluppatasi nell’ambito delle politiche comunitarie, possa oggi essere considerata un approccio chiave per comprendere a fondo i meccanismi che permettono a diversi attori, pubblici e privati, istituzionali e non, di mettere in atto dei processi cooperativi per la realizzazione d’iniziative volte a rispondere a questa crescente domanda di governance. La Convenzione delle Alpi, firmata nell’ultimo decennio del secolo scorso, è un chiaro esempio di un trattato internazionale orientato verso la tutela di una regione comprendente solamente una parte dei territori degli Stati membri. Da un lato, questa può essere considerata una caratteristica problematica, in quanto ha certamente determinato un diffuso disinteresse tra molti degli Stati membri, che si è trasformato 122 nella difficoltà di ratifica e di applicazione delle norme e dei principi contenuti nella Convenzione Quadro e nei Protocolli applicativi della Convenzione delle Alpi all’interno del territorio alpino. D’altra parte però, questa unicità della Convenzione delle Alpi, ha permesso l’applicazione di un modello di cooperazione territoriale, non più basato solamente sull’azione di autorità nazionali, relativamente distanti dall’applicazione locale degli accordi, ma che coinvolgesse livelli giurisdizionali più bassi come le regioni o le amministrazioni locali (comuni e provincie), oltre che attori della società civile e privati. Questo cambio di prospettiva, per quello che riguarda la regione alpina è stato sicuramente agevolato dal fatto che, trovandosi sul territorio dell’Unione Europea, l’approccio “regionale” della Convenzione ha colto un valido sostegno nella politica di coesione, la strategia comunitaria volta alla promozione dello sviluppo di regioni più svantaggiate all’interno e sui confini dell’UE, e nei progetti comunitari messi in atto proprio per questi motivi. Il percorso della Convenzione delle Alpi è certamente composto di luci e ombre, ma dimostra come in un mondo sempre più interconnesso, nel quale i problemi di azione collettiva acquistano quasi sempre una dimensione globale, un modello di governance ambientale ibrido sembri oggi l’orientamento prevalente. I soli regimi internazionali, pur rimanendo basi giuridiche e politiche chiave per la realizzazione di una cooperazione efficace tra attori statali, non sembrano più in grado di risolvere in maniera efficace questioni come quella ambientale in maniera autonoma, a causa di diversi fattori come la sempre maggiore interdipendenza, la globalizzazone e la spartizione del potere tra gli Stati e altri attori. 123 Le strategie di governance multilivello, d’altra parte, per funzionare in modo autonomo hanno bisogno della presenza di una struttura sovranazionale che gestisca le relazioni tra i diversi attori. Un modello ibrido di governance ambientale per regioni che condividono caratteristiche simili a quella alpina, sembra dare quindi la possibilità di conciliare sviluppo e tutela della natura, un obiettivo fondamentale non solo per la Convenzione delle Alpi, ma anche per la questione ambientale globale, come evidenziato in diverse convenzioni e dichiarazioni internazionali. Lo sviluppo è fondamentale per evitare che regioni come questa rimangano relegate nella loro condizione di marginalità rispetto al resto dei territori del pianeta, e per permettere e che si riesca a far emergere le loro particolarità e priorità. Tuttavia, al fine di raggiungere uno sviluppo sostenibile è necessario tutelare non solo il patrimonio naturale di queste aree geografiche, ma anche le tradizioni sociali e culturali di questi territori. Nel 2002, in occasione dell’Anno Internazionale della Montagna, l’allora Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan, nel suo messaggio, pose l’accento sul fatto che “per raggiungere gli obiettivi preposti sarà necessario stimolare la cooperazione tra le popolazioni montane, gli operatori del turismo, gli ambientalisti e il settore privato. siamo infatti tutti chiamati a batterci per assicurare alle generazioni future l'enorme disponibilità di risorse di questi territori” 29. È proprio questo lo scopo che la Convenzione delle Alpi, attraverso i suoi Protocolli applicativi vuole raggiungere. Ogni protocollo detta le linee guida per uno sviluppo 29 dal messaggio del Segretario Generale per la cerimonia di lancio dell'Anno Internazionale delle Montagne, disponibile al sito: http://www.difesa.it/Approfondimenti/FestaRepubblica/2giugno02/Temi/msg-kofi-annan.htm 124 sostenibile all’interno del territorio alpino in un determinato settore, e si rivolge sia alle scelte dei governi centrali degli Stati sia a quelle delle amministrazioni locali, alle organizzazioni della società civile e agli attori privati attivi sul territorio alpino. La proposta è quindi quella di un modello cooperativo per la gestione integrata e multidisciplinare di un territorio unitario, suddiviso però tra diverse autorità giurisdizionali. 125 APPENDICI: Appendice 1: Perimetro della Convenzione delle Alpi, Mappa politica; 1: 126 Appendice 2: Perimetro del Programma Spazio Alpino, fonte: www.alpinespace.org 127 BIBLIOGRAFIA: Balsiger Jörg, 2008, Regional Sustainable Development in the European Alps, EUI Working Papers, MWP 2008/23; Börzel Tanja, 2010, Governance with/out Government. 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Marco Onida, Segretario Generale della Convenzione delle Alpi e Marcella Morandini, funzionario del Segretariato Generale della Convenzione delle Alpi; Intervista del 17/02/2010 al Dott. Roberto Bombarda, Consigliere Prov. Aut. Trento, Gruppo Consiliare Verdi-Democratici; Intervista del 17/02/2010 a Luigi Casanova, CIPRA Italia; Intervista del 07/04/2010 al Dott. Guido Trivellini, consulente scientifico per WWF Italia. 136 RINGRAZIAMENTI: Desidero ringraziare la Professoressa Sicurelli per il tempo e i suggerimenti dedicati al mio lavoro di ricerca; ringrazio il Dottor Onida e la Dottoressa Morandini del Segretariato della Convenzione delle Alpi, oltre che per il materiale e i riferimenti bibliografici che mi hanno suggerito, per la disponibilità ad essere intervistati. Ringrazio inoltre il Dottor Bombarda, consigliere provinciale della Provincia Autonoma di Trento, il signor Casanova, di CIPRA Italia, il Dottor Trivellini, consulente di WWF per la disponibilità alle mie richieste d’informazioni. 137