Editoriale - Libri Professionali

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Editoriale
Dialoghi Tributari e la Fondazione STUDE
per una teoria della tassazione individuale
Dialoghi Tributari fa parte da oltre un anno della «famiglia» IPSOA; con questo numero rinnova la
veste grafica, continuando ad esporre la propria filosofia ispiratrice e la propria missione e calandosi
nel progetto, condiviso con l’Editore, della «Fondazione Studi Tributari nell’unità di diritto ed economia - STUDE», costituita dai promotori di Dialoghi.
Una teoria per la tassazione individuale
Per illustrare lo scopo della Fondazione occorre una breve premessa. La tassazione individuale riguarda il comportamento di singoli individui e organizzazioni, nella determinazione dei tributi. L’aggettivo
«individuale» la distingue dallo studio degli effetti della tassazione sull’economia generale, teorizzati dalla scienza delle finanze. Sempre di scienze sociali si tratta, cioè di studio di comportamenti umani, ma
la tassazione individuale riguarda specifiche vicende tributarie, e si pone da un punto di vista che gli
economisti chiamerebbero «microeconomico»; è un punto di osservazione incardinato nel diritto, in
quanto le decisioni se pagare le imposte, evaderle o come gestire i rapporti con l’Autorità fiscale dipendono anche da previsioni sul comportamento di Amministrazioni e giudici. Finché le modalità di tassazione sono state grossolane, non serviva una teoria della tassazione individuale, ed era sufficiente il
retroterra economico giuridico, diffuso tra gli uomini di legge e gli uomini di azienda; ad esempio, per
tassare il passaggio fisico delle merci o il rilascio dei passaporti, bastava sensibilità civilistico-generalista
con vaghi apprezzamenti economicistici.
La diffusione delle organizzazioni d’impresa ha consentito la tassazione analitico aziendale, dove rilevano elementi di bilancio, contabilità e amministrazione aziendale, ma soprattutto analisi economica
dei più disparati rapporti giuridici. A questo punto la sensibilità giuridico-economica generalista non
basta più, e servono teorie per amalgamare gli elementi di discipline diverse, che influenzano la tassazione analitico aziendale. Serve una teoria, insomma, che consenta di considerare gli innumerevoli episodi della tassazione come parte di un tutto, anziché come schegge impazzite, dettagli secondari, casi limite dovuti a sfasamenti legislativi, imperfezioni, scoordinamenti, magari curiosi, sottigliezze divertenti,
ma prive di peso operativo, su cui magari ci disperdiamo senza cogliere aspetti più strutturali. Altrimenti si ripiega sull’attualità, su un continuo aggiornamento del nulla, senza basi e dove ogni giorno
si riparte da zero; da quasi trent’anni, ogni giorno l’attualità di oggi uccide quella di ieri, e viene subito
eliminata da quella di domani, senza sedimentare concetti stabili. Il piano professionale è anche peggio,
concentrato su aspetti settoriali, contingenze aziendali, d’ufficio, giurisdizionali o di consulenza; senza
fili conduttori, teorie che diano anima e sentimento, o con teorie che allontanano invece di avvicinare,
ci si riduce a far cose noiose per lavoro, ci si occupa con fastidio delle varie incombenze, senza capirne
il senso complessivo. Innumerevoli aspetti teorici della tassazione sono periodicamente presentati dalla
stampa specialistica come fossero novità (evergreen che ogni tanto si ritirano fuori quando non c’è nulla da scrivere), senza una cornice generale dove inquadrare i casi particolari.
Senza spiegazioni condivise, intorno cui ritrovarsi, gli operatori sono risucchiati, loro malgrado, da
una routine di cui nessuno spiega il senso, dove i professionisti pensano agli adempimenti per la clientela, il legislatore cerca di conciliare consenso ed esigenze di cassa, le Amministrazioni gestiscono la
prassi, la magistratura le sentenze, le associazioni di categoria i loro problemi di settore. Nessuno ha il
tempo per darsi carico di una teoria della tassazione, che pure servirebbe a tutti.
La Fondazione come polo di aggregazione per costruire una teoria della tassazione
La Fondazione Studi Tributari vuole fare da polo di aggregazione, da catalizzatore, per una teoria
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della tassazione individuale. Le istituzioni sono troppo invischiate nella pratica, nel contingente, per costruire da sole una teoria e, lasciate sole, rischiano di essere le prime vittime della sua mancanza. Gli
studiosi devono prima di tutto comprendere le istituzioni, comprendere le motivazioni del loro agire, e
solo dopo, se proprio si deve, cercare di criticarle. Ciò in quanto, se proprio nelle scienze sociali si vuol
trovare un «dato», questo è rappresentato dai comportamenti delle istituzioni, e non dal «dato normativo»; quest’ultimo è tutt’altro che irrilevante, ma va visto in funzione del comportamento, delle risorse
e delle possibilità di coloro cui si rivolge (altrimenti la legislazione si trasforma inevitabilmente in un
feticcio, e resta sempre al punto di partenza).
Un nuovo modo di concepire la pubblicistica tributaria
Per creare una teoria occorre parlarsi, ed occorre contestualizzare un gran numero di episodi della
pratica. La Fondazione propone un metodo di comunicazione «snello e di sostanza», in cui i concetti
generali vanno richiamati tra le righe, attraverso il modo in cui si tratta lo specifico argomento; le teorie non vanno esposte, ma vanno presupposte; dal modo in cui si tratta, ad esempio, un problema di
fatturazione, si deve vedere una adeguata cornice generale sul funzionamento dell’IVA. La selezione dei
concetti richiamati, parlando dell’argomento specifico, deve far intravedere una cornice generale; in
questo modo sarà possibile scrivere un maggior numero di articoli, più brevi e gradevoli, aumentando
la contestualizzazione di episodi della pratica, e affinando gli schemi teorici.
La teoria della capacità economica determinata giuridicamente
La tassazione individuale riguarda la determinazione della capacità economica di fronte ad organi
giuridici, che svolgono compiti istituzionali di controllo dell’operato dei contribuenti, o di soluzione
delle controversie che insorgono proprio sulla predetta capacità economica: a tal fine occorre coordinare i suddetti elementi economico-giuridici sopra indicati, amalgamando aspetti di diritto amministrativo, macroeconomia, tecnica aziendale e analisi economica degli eventi giuridici, come emerge dall’acronimo STUDE, cioè «Studi Tributari nell’Unità di Diritto ed Economia».
I concreti obiettivi della Fondazione
La Fondazione STUDE vuole:
– essere un primo punto di aggregazione tra chi si riconosce nell’analisi dei malesseri della moderna
fiscalità, come sopra sintetizzata: occorre infatti non disperdere le energie e innescare un circolo virtuoso, in cui si elaborano schemi di ragionamento (sui manuali, le monografie e in pochi grandi articoli)
e poi li si collaudano contestualizzando e inquadrando, in poche pagine, gli innumerevoli episodi della
vita reale;
– elaborare schemi teorici sulla tassazione individuale, in cui inserire gli episodi della pratica. Quest’ultima va commentata più spesso, traendo da ogni episodio quel poco di aspetti generali che esso
può fornire. Avendo alle spalle una cornice, queste contestualizzazioni possono essere al tempo stesso
più approfondite e più brevi, quindi più numerose e anche più durevoli, valide nel tempo, proprio
perché inquadrate concettualmente in una teoria della tassazione individuale;
– essere un luogo di incontro e di confronto di idee, e per questo l’inquadramento concettuale degli
episodi può essere proposto da più di una persona; le idee vanno fatte circolare tra più Autori, superando la tradizionale esposizione a compartimenti stagni, a favore dell’interattività da sempre ispiratrice
di Dialoghi. Cercando di far stare insieme chi ragiona sui contenuti, e di raccogliere in una sola sede
contributi accomunati dalla metodologia sopra descritta, altrimenti dispersi in una pubblicistica sterminata;
– proporre una pubblicistica (ed una convegnistica) con più consapevolezza e «anima», promuovendo iniziative che abbiano una regia sui contenuti, più che sull’esteriorità logistico-organizzativa, della
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quale restano poi solo le locandine e i biglietti di viaggio. La completezza e l’organicità vanno perseguite al di là del singolo intervento, ma nelle iniziative nel loro complesso, nella loro capacità di tenere
sotto controllo un tema nel tempo, nei suoi sviluppi, da un numero all’altro delle riviste, da un convegno all’altro. Il tutto con un po’ di sentimento, un po’ di anima, di «umanità tecnica», in mezzo alle
discipline che studiano la convivenza sociale;
– approfondire e coordinare i problemi strutturali della tassazione, senza pregiudiziali ideologiche,
non avendo preclusioni politico ideologiche tra le varie concezioni della società, tra concezioni più favorevoli allo «Stato», e quindi alla tassazione, oppure al mercato. Inoltre, tra «le ragioni del Fisco» e
chi è «contro le tasse» (le espressioni sono una citazione di due volumi, di Franco Gallo e Oscar Giannino, che speriamo di commentare presto su Dialoghi), esistono in concreto le innumerevoli sfumature
intermedie tipiche delle scienze sociali. Preso atto della spesa pubblica che ogni società ha bisogno di
darsi, o decide di darsi, essa va divisa in base a manifestazioni di capacità economica, mediando tra
precisione, semplicità, cautela fiscale, certezza dei rapporti giuridici, gettito, sviluppo, e tanti altri punti
di vista cui la Fondazione intende dedicarsi.
È un modo di contribuire alla giustizia tributaria, sia su Dialoghi, sia con altre iniziative con IPSOA,
che renderà presto possibile, com’era fino al 2007, un confronto su internet. Sarà un modo per raccogliere le adesioni al programma della Fondazione, chiedere un sostegno e creare occasioni di incontro.
Raffaello Lupi e Dario Stevanato
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Sommario
Gennaio-Febbraio 2009
Editoriale
Dialoghi Tributari e la Fondazione STUDE per una teoria della tassazione individuale
di Raffaello Lupi e Dario Stevanato .................................................................................................
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Aspetti strutturali
La determinazione dei tributi tra diritto e capacità economica individuale
di Guglielmo Fransoni, Raffaello Lupi .............................................................................................
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Federalismo fiscale, tra razionalizzazione delle spese e tributi locali
di Mario Damiani, Claudio Carpentieri ..........................................................................................
19
L’imposta sostitutiva sui valori di terreni e titoli in caso di successivi affrancamenti
di Luigi Bellini, Dario Stevanato ....................................................................................................
25
Accertamento
Contrasto all’elusione e incertezza del diritto
Forum di Andrea Manzitti, Ivan Vacca, Raffaello Lupi, Dario Stevanato .........................................
30
I principi generali del diritto amministrativo «salvano» l’accesso agli atti tributari
di Massimo Basilavecchia, Marco Di Siena, Raffaello Lupi ...............................................................
42
Il «principio» di antieconomicità e il controllo a valore normale tra soggetti residenti
alla prova dell’abuso di agevolazioni territoriali
Forum di Dario Stevanato, Mattia Varesano, Enrico Bressan, Raffaello Lupi ....................................
50
Riscossione
L’utilizzabilità dei poteri istruttori ai fini della riscossione
di Francesco Montanari, Raffaello Lupi ...........................................................................................
61
Rimborsi
Rimborsi dei crediti da dichiarazione e maggior danno da svalutazione monetaria
di Luigi Vassallo, Giuseppe Gargiulo ...............................................................................................
74
Dichiarazioni
La mancata rettifica «autoliquidata»
della dichiarazione non esclude l’istanza di rimborso
di Antonio Fiorilli, Raffaello Lupi ...................................................................................................
80
Redditi d’impresa
Distribuzioni di riserve ai soci come atti estranei all’impresa:
quando la realtà (giudiziale) supera ogni immaginazione
di Dario Stevanato, Alberto Trabucchi e Grazia Carbone ................................................................
84
La «pex» come regime generale di ogni atto di realizzo delle partecipazioni:
il caso dei conferimenti realizzativi
di Francesco Nannini, Dario Stevanato ...........................................................................................
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Sommario
Gennaio-Febbraio 2009
Deduzioni extracontabili ed affrancamento delle differenze di valori
in caso di affitto d’azienda
di Fabio Gallio e Federica Badioli, Enrico Bressan ...........................................................................
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Cessione d’azienda
Cessioni di azienda e presunzioni di avviamento
di Alessia Vignoli, Roberto Lunelli, Raffaello Lupi ............................................................................ 101
IVA
Versamento dell’IVA per cassa e correlazioni tra fornitori e clienti
di Dario Stevanato, Raffaello Lupi .................................................................................................. 110
Bimestrale di approfondimento e confronto sugli aspetti strutturali
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Raffaello Lupi, Dario Stevanato
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Aspetti
strutturali
La determinazione dei tributi
tra diritto e capacità economica
individuale
di Guglielmo Fransoni, Raffaello Lupi
In un recente testo Raffaello Lupi ha proposto come chiave di lettura dell’imposizione fiscale la
determinazione di capacità economica individuale, attraverso poteri autoritativi di Uffici pubblici,
che oggi sovraintendono, in una posizione di controllo, a quella che chiamiamo «tassazione analitico-aziendale», attivata in prevalenza dalle organizzazioni amministrative, pubbliche e private. In
questa chiave vanno ripresi i collegamenti tra diritto tributario, come materia giuridica, le altre
materie giuridiche e lo studio macroeconomico dei tributi. Sul punto interviene Fransoni, attivando un costruttivo confronto, destinato progressivamente a mettere dei punti fermi per quella
teoria della tassazione individuale, che «Dialoghi» vuole col tempo costruire, confidando in ulteriori interventi.
n Il diritto tributario come materia giuridica e i suoi rapporti con l’economia
Guglielmo Fransoni
Nel corso dei mai troppo frequenti colloqui
con Raffaello Lupi, abbiamo discusso di alcune
sue idee in materia di caratteristiche essenziali del
diritto tributario. Il comune e reciproco interesse
al confronto e al dialogo ha mosso il prof. Lupi a
invitarmi a scrivere le mie opinioni e, da parte
mia, ho subito accolto il suo invito. Ciò, ovviamente, non per una sterile dimostrazione di quale
tesi sia meglio argomentata, ma per alimentare un
dibattito su quei temi cosiddetti «di vertice» (ma
che, in realtà, sono il «cuore» della materia) che
spesso, fra noi tributaristi, sono colpevolmente
trascurati.
La tesi del prof. Lupi può essere ben sintetizzata dal seguente brano tratto da Evasione fiscale,
Paradiso e inferno, IPSOA, 2008, che egli ha avuto la cortesia di farmi leggere in anteprima.
«L’interpretazione delle regole tributarie in senso economico è sacrosanta, visto il fine indicato
in tutto questo libro, ma non può travalicare i limiti dell’interpretazione; trattandosi di regole anche giuridiche (sottolineatura nostra - N.d.A.),
pur con oggetto economico, non possono essere
rimesse in discussione solo perché nel caso di spe-
cie sarebbe possibile determinare la ricchezza in
modo economicamente più preciso.
Anche queste considerazioni confermano che
l’elemento economico della tassazione e quello
giuridico non si contrappongono, ma devono armonizzarsi in quella combinazione di cui parlavamo al paragrafo 9.5. Il diritto non deve trascurare, come purtroppo sembra spesso fare, che la tassazione, e la relativa legislazione, sono finalizzate
a manifestazioni di capacità economica. L’economia deve tener presente l’importanza delle previsioni giuridiche nei processi decisionali relativi alla capacità economica individuale: questo sia nelle
scelte se adempiere o evadere, sia nelle scelte tra i
diversi regimi giuridici applicabili. L’oggetto economico della tassazione costituisce la particolarità
(sottolineatura nostra - N.d.A.)di una materia sotto altri aspetti giuridica, sia per l’azione di pubbliche autorità, sia per l’analisi dei rapporti giuridici
in chiave economica».
Guglielmo Fransoni - Professore ordinario di Diritto tributario
presso l’Università di Foggia
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Aspetti
strutturali
Inizierei, anche se mi rendo conto che questa è
sempre una posizione troppo comoda, con l’esposizione delle ragioni del mio dissenso (peraltro,
come si vedrà, solo parziale) da tale impostazione.
In realtà, le ragioni della mia critica dipendono
tutte da un’istintiva avversione a esaltare i profili
di particolarità che sono - a mio avviso - proprio
gli elementi che rischiano di creare più forti barriere fra i giuristi tributaristi e gli altri giuristi.
D’altra parte, come ben sanno gli studiosi del diritto tributario, il dibattito sul «particolarismo»
del diritto tributario è risalente e sembrava una
conquista dei grandi maestri della seconda metà
del secolo scorso l’essere riusciti a superare ciò
che è risultato essere non già un profilo reale della materia, quanto piuttosto la conseguenza di un
limite degli studiosi più risalenti ad adattare schemi e concetti generali.
Dice il prof. Lupi che la «particolarità» dipenderebbe dall’oggetto economico, per cui nel diritto tributario convivrebbero fianco a fianco diritto
e economia.
Ma siamo sicuri che questa è una caratteristica
del diritto tributario? Il suo oggetto economico
consiste, mi par di capire, nel ruolo fondamentale
che, rispetto alla materia assumono la ricchezza
individuale, e la sua distribuzione, come indici
per graduare la partecipazione di ciascuno alle
spese collettive. Tuttavia, sarei dell’opinione che,
per un verso, non è del tutto vero che l’oggetto
degli altri diritti sia meno «economico», per l’altro
verso, mi sembra che non tutto nel diritto tributario si risolva nella misurazione della ricchezza
individuale.
L’oggetto economico del tributo
Incominciamo dal primo profilo e, in particolare, dall’inesistenza di una netta separazione rispetto alle altre materie giuridiche per ciò che attiene
all’oggetto. Il diritto civile si occupa della «proprietà», della sua consistenza come diritto (cioè
delle situazioni attive o passive che compongono
lo statuto del proprietario), dei suoi modi di acquisto, della sua tutela ecc. Si tratta, a ben vedere, di altrettante regole che assumono ad oggetto
la ricchezza individuale e la sua distribuzione. Ma
il discorso può essere moltiplicato all’infinito.
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
Nessun laburista penserebbe mai che la sua materia non ha un oggetto economico poiché essa ha
riguardo, anzi, al bene economico per eccellenza,
qual è il lavoro e, correlativamente, la ripartizione
del profitto dell’imprenditore fra i diversi fattori
della produzione (anche qui oggetto economico e
regole distributive). Per non parlare, poi, del diritto fallimentare e delle soluzioni della crisi d’impresa dove, ancora una volta, troviamo un oggetto economico - la ricchezza prodotta dall’impresa
- e la sua distribuzione fra i diversi creditori. È
comunque inutile moltiplicare gli esempi. Occorre piuttosto sottolineare un aspetto; ossia che, negli esempi fatti, dire che questo o quel ramo del
diritto hanno un oggetto economico non si risolve solo nella mera constatazione che, alla fine, si
tratta di prestazioni economiche. Vi è, invece,
qualcosa di più profondo, cioè che il diritto plasma gli assetti economici e la complessiva distribuzione della ricchezza e, a sua volta, ne è il riflesso. Il diritto, insomma, non è che l’altra faccia
dell’economia, perché i rapporti umani che devono essere disciplinati dal legislatore sono quasi
sempre rapporti economici e, al tempo stesso, i
rapporti economici si realizzano attraverso relazioni giuridiche. Ma in questa definizione - quella
del diritto come altra faccia dell’economia - l’accento va posto anche su «altra» oltre che su «economia».
In altri termini, anche l’economia non è che
un metodo di analisi di alcuni rapporti umani e
la differenza fra economia e diritto (tutto o quasi
il diritto) riguarda non l’oggetto dell’analisi, ma il
metodo di analisi.
La commistione fra gli uni e gli altri non dovrebbe mai, a mio avviso, essere ammessa.
Mi spiego. È certo che per la migliore comprensione della propria materia sia utilissimo, forse necessario comprendere anche i principi e le
esigenze proprie dell’altro approccio, ma sempre
come integrazione della propria cultura, non per
impiegare congiuntamente i metodi dell’uno e
dell’altra. Il restauratore e lo storico dell’arte hanno ad oggetto della propria attività la stessa materia (le opere d’arte) e si giovano certamente, e
molto, delle conoscenze reciproche, ma metodi e
tecniche restano comunque separati. D’altronde,
Aspetti
strutturali
per restare al settore delle relazioni umane, esse
formano oggetto di analisi da parte di altre discipline scientifiche: la sociologia, la storia, la psicologia, ecc. E tutte seguono metodi e principi propri. Il che è, poi, la ragion d’essere per l’esistenza
di un’autonoma disciplina. Infatti, in tanto si può
dire che una disciplina è autonoma da un’altra
che ha lo stesso oggetto, in quanto le due rispondano a logiche che, sia pur complementari, sono
improntate a principi e metodi diversi.
La misurazione della «capacità economica»
Il prof. Lupi mi obietterà, forse, che l’oggetto
economico del diritto tributario è particolare in
quanto il diritto tributario deve misurare la «capacità economica» che è concetto tipicamente economico (come dice la parola medesima).
Anche su questo punto, però, avrei delle personali riserve e, nell’esporle, vengo al secondo aspetto cui accennavo in precedenza; quello secondo
cui non tutto nel diritto tributario si risolve in
misurazione della ricchezza in senso «economico».
Questa affermazione, a mio avviso, è verificabile a diversi livelli.
A) A un primo livello, osserverei che, rispetto
alle imposte sul reddito, l’oggetto è sicuramente
economico se lo studia un economista, ma se lo
studia un giurista il reddito è la variazione che un
determinato patrimonio registra in un arco di
tempo predeterminato e poiché il patrimonio è
solo il complesso delle situazioni giuridiche attive
e passive (scambiabili sul mercato) riferibili a un
determinato soggetto, il reddito non è altro che
un incremento di situazioni giuridiche attive e/o
il decremento di situazioni giuridiche passive.
In altri termini, è perfettamente possibile studiare il reddito in termini esclusivamente giuridici
(anche se, come fa il restauratore con lo storico,
dovranno essere sempre tenute presenti le implicazioni economiche dei propri discorsi).
Non è certo possibile dimostrarlo in questa sede, ma sono assolutamente (e, credo, argomentatamente) convinto che anche nel sistema degli
IAS - nonostante il tanto decantato principio della prevalenza della sostanza sulla forma - tutto sia
riconducibile a regole giuridiche. Basterà per tutti
un esempio: è noto che il momento della compe-
tenza della cessione dei beni deve essere individuato in base al «trasferimento del rischio». Ma
cosa è il trasferimento del rischio se non la conseguenza di una regola (legale o negoziale) che stabilisce su quale parte ricadono le conseguenze
(anch’esse giuridicamente definite) della perdita
del bene?
B) Peraltro, un ulteriore profilo di distacco dell’oggetto dello studio giuridico delle imposte sul
reddito rispetto al relativo studio «economico» dipende dal fatto che, almeno nel nostro sistema, il
tributarista dovrebbe studiare, non il reddito, ma
il possesso del reddito. Fra reddito e tassazione si
inserisce un profilo che rende ancora più mediato
il rapporto fra la ricchezza studiata dall’economista e quella studiata dal cultore del diritto tributario.
C) Il rilievo precedente è ulteriormente accentuato nell’ipotesi in cui il tributo non abbia come
presupposto il reddito, ma la ricchezza colta in
forme ancora più mediate: il consumo, i trasferimenti, l’inquinamento, ecc. Sapere dove sta la ricchezza in senso economico in sede di applicazione
degli eco-tributi o dell’imposta di registro o anche
della stessa IVA, non è irrilevante, ma certamente
assume un valore orientativo, ai fini della soluzione dei problemi interpretativi, molto meno diretto.
D) Infine, esiste una parte, non indifferente,
del diritto tributario che è formato da regole procedimentali, discipline di rapporti obbligatori,
istituti processuali, ecc. Qui l’affinità (ma non
identità) con le altre discipline giuridiche - anche
per ciò che attiene all’oggetto - è una conquista
dei tributaristi che mi sembra non poter essere
rinnegata.
In altri termini, tutte le precedenti considerazioni mi inducono a riaffermare che è certamente
vero che il diritto tributario ha particolarità sue
proprie, ma queste gli derivano dal fatto di rispondere a principi giuridici propri e, in particolare, all’art. 53 della Costituzione (1). Tali parti(1) Qui occorre esser chiari. Vi è una parte dell’art. 53 che
esprime una regola pressoché immutabile nel tempo e nello spazio,
mentre un’altra parte dell’art. 53 contiene regole del tutto variabili
e contingenti. La parte variabile e contingente è duplice. Da una
parte vi è la regola secondo cui le spese pubbliche sono finanziate
(segue)
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Aspetti
strutturali
colarità non dipendono, invece, dalla necessità di
convivere con problemi e principi economici e di
doverli combinare con quelli giuridici. Il che, beninteso, non significa che le questioni economiche e i metodi degli economisti non debbano essere conosciuti. Anzi, la loro conoscenza è molto
importante, ma solo per integrare il complesso
delle conoscenze che consente di elaborare (anzi,
come dirò fra breve, inventare) la soluzione interpretativa migliore.
La scienza giuridica e l’opera del giurista
A questo punto, dopo aver circoscritto (ma certo non negato) il rapporto fra il diritto tributario
e l’economia, devo rispondere a un’altra domanda
postami dal prof. Lupi relativa, appunto, alla mia
visione della scienza giuridica.
La risposta a questa domanda io crederei di
averla trovata negli artt. 113 e 115 c.p.c.; o, meglio, nel significato ultimo che (forse anche arbitrariamente) attribuisco a queste norme.
La prima dice che il giudice (ma quello che vale per il giudice vale per tutti gli operatori del diritto) «deve seguire le norme del diritto», la seconda afferma che il giudice «deve porre a fondamento le prove».
Esiste, a mio avviso, un perfetto parallelismo
fra questi enunciati.
Essi dimostrano la consapevolezza del fatto che
chiunque deve stabilire «cosa è diritto», non applica la norma, né conosce il fatto, ma inventa la
regola che gli sembra opportuna e ricostruisce il
fatto secondo la propria coscienza. Questa circostanza - che sembra paradossale, ma non lo è come ben sa il prof. Lupi per averlo scritto molto
meglio e molto prima - ha un’implicazione importante ed è che l’ordinamento, pur consapevole
di ciò, impone e richiede che il giudizio di fatto e
il giudizio di diritto siano «oggettivati». Esiste
una prima fase, soggettiva e ineliminabile, della
«precomprensione» (del fatto) e della «predecisione» (della regola iuris del fatto concreto), ma deve
esistere - per esigenze di rango costituzionale - un
momento di oggettivazione.
L’oggettivazione si attua certamente nella motivazione, ma è chiaro che non è né può essere sufficiente il solo fatto che il giudice ci dica perché
12
Dialoghi Tributari n. 1/2009
ha raggiunto una certa soluzione. È invece imposto che, nel motivare, il giudice debba armonizzare e rendere congruente la propria decisione con
un «altro da sé»: per il giudizio di fatto, questo
termine di riferimento è la «prova» (che non è dimostrazione del fatto, ma criterio di misurazione
del grado di razionalità dell’intuizione giudiziale),
per il giudizio di diritto è la disposizione scritta
(che non è fonte della norma, ma criterio di misurazione secondo le regole della razionalità della
regola enunciata dal giudice) (2).
La decisione sarà approvata (cioè incontrerà un
ragionevole consenso) se il giudice riesce a spiegare la soluzione data alla questio facti e alla questio
iuris in modo da persuadere circa l’aderenza a
questi due «dati oggettivi» (nel senso di estranei
alla pura coscienza del giudice).
Prescindo, adesso, dal giudizio di fatto. Per
(continua nota 1)
con i tributi: questo non è stato (né è necessariamente sempre vero). Schumpeter diceva che fra il ’700 e l’800 si è realizzato il passaggio dal domain state (lo Stato che finanzia le spese pubbliche
con le risorse derivanti dallo sfruttamento dei beni demaniali) al
tax state (lo Stato che finanzia le spese pubbliche con i tributi) e,
prima del domain state c’era quello che potremmo definire, con
brutta espressione, il predator state (lo Stato che si finanzia con la
preda bellica). In realtà, tuttavia, si tratta di indicazioni tendenziali. Un certo numero di tributi non è quasi mai mancato in nessuna organizzazione sociale dotata di un minimo di complessità. Cosicché può considerarsi invece fissa e immutabile la regola, implicita nell’art. 53, secondo la quale, quando e nella misura in cui ancora la collettività finanzi le sue spese, in tutto o in parte, con i
tributi, occorre una regola, che ha sempre valore «costituzionale»,
per stabilire come l’onere tributario si ripartisce fra i membri della
collettività. Ed è anche fisso e invariabile che quella regola di «riparto» farà necessariamente riferimento alla «posizione» che i «contribuenti» assumono nella società. Infine, appartiene al profilo
contingente dell’art. 53 la regola che individua il criterio di riparto
nella capacità contributiva. Si tratta, a mio avviso, di una regola tipica delle società «egualitarie» rispetto alle quali la misura della differente «posizione» di ciascuno non può essere altro che la differente condizione economica, ma, ad esempio, in una società cetuale il riferimento alla condizione economica nella ripartizione dei
tributi assume un rilievo, forse non irrilevante, ma certo nemmeno
determinante come sapevano i francesi prima della rivoluzione (la
quale, ben inteso, non può essere ritenuta la dimostrazione dell’insufficienza del criterio, perché esso aveva resistito a lungo e indiscusso fino a quando nuove ideologie e nuovi rapporti economici
non ne determinarono l’obsolescenza a testimonianza, appunto,
del fatto che i criteri di riparto sono sempre necessari, ma sono variabili nel loro contenuto).
(2) Nei sistemi di common law la situazione non è molto diversa, cambia solo il parametro impiegato per l’oggettivazione che è il
precedente e non la legge.
Aspetti
strutturali
quanto attiene al giudizio di diritto la congruenza
con la norma non può essere il risultato della sola
retorica. Se cosı̀ fosse, non sarebbe raggiunto il
grado di «oggettivazione» minimo richiesto. Occorre, invece, che la congruenza sia dimostrata,
come dicevo prima, secondo le regole, ossia seguendo i percorsi argomentativi, utilizzando i concetti
e le nozioni, impiegando i canoni ermeneutici
che la dottrina giuridica ha nel tempo elaborato.
Le soluzioni interpretative non sono, come è
evidente, giuste o sbagliate, sono argomentate secondo le regole oppure no.
Ed è qui che entra in campo il giurista il quale
dovrebbe creare i concetti, gli istituti, le categorie,
ecc., cioè tutte quelle regole che servono, secondo
la definizione prima data, a giustificare la norma,
ossia a dimostrare che essa è «oggettivamente» nel senso anzidetto - coerente con il testo.
In tutto questo, non bisogna aver paura del fatto che alcune regole siano formali.
Da un primo punto di vista, il formalismo, entro certi limiti, fa parte delle regole del gioco che
impongono di assumere, come parametro di riferimento, un testo ossia, per definizione, una «forma» scritta, cosicché se due parole sono separate
da un punto, non si potrà far finta di niente.
Ma vi è un ulteriore profilo, ed è che, come ho
già detto ma conviene ripetere, è certo che il giurista non «conosce» la norma, ma la inventa. E
siccome questa invenzione deve essere condivisa,
un certo grado di formalismo contribuisce certamente a (anzi è essenziale per) facilitare i processi
di condivisione. L’esempio che chiarisce questo
punto è quello della poesia (e dell’arte in genere).
Perché il sentimento dell’artista sia comunicabile,
e divenga arte, è necessario che esso acquisti una
certa oggettività e, per far ciò, è necessario dargli
forma.
A questo punto dovrebbe essere chiaro cosa deve fare, secondo me, il giurista che si occupa di
diritto tributario.
Deve elaborare istituti, nozioni, concetti, categorie ecc. che, poi, dovranno essere impiegati da
tutti nel processo di «invenzione» delle regole del
caso concreto.
E, proprio in vista della necessità della generale
esigenza di condivisione, è giusto e necessario che
tali istituti, nozioni, concetti e categorie siano
omogenei e coerenti con gli istituti, nozioni, concetti e categorie degli altri settori delle scienze
giuridiche.
Osserverà il prof. Lupi che tuttavia il diritto si
trova nelle istituzioni, non nei libri o sulla Gazzetta Ufficiale.
Verissimo! e quello che ho appena detto, secondo me, non contraddice questo principio. Penso,
anzi, di aver detto qualcosa di ancor più radicale,
perché ho negato in assoluto che il diritto si trova, dicendo che il diritto (a tutti i livelli) si inventa.
Pertanto, ha certamente ragione il prof. Lupi
nel dire che una parte dell’opera del giurista consiste nel capire come il diritto si realizza attraverso
le istituzioni e all’interno di esse. Si tratta di una
conoscenza indispensabile e il giurista deve comprendere, razionalizzare e sistematizzare (nonché
comunicare) questa conoscenza. Tuttavia - a parte
il fatto che il comprendere, razionalizzare e sistematizzare si risolve già da sé nella elaborazione di
istituti, nozioni e concetti - appartiene ai compiti
del giurista anche (e, forse, soprattutto) andare oltre l’individuazione di cosa è il diritto (cioè come
esso vive nelle istituzioni) e cercare invece di fornire (affinandoli incessantemente) gli «strumenti
del mestiere» alle istituzioni medesime, ossia il
complesso di istituti, categorie, ecc. (e i relativi
modi e schemi di collegamento e combinazione)
che sono comunque indispensabili affinché esse
realizzino un diritto comunicabile e razionale.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Aspetti
strutturali
n La determinazione giuridica della capacità economica individuale ai fini tributari
Raffaello Lupi
Ringrazio Guglielmo Fransoni per riflessioni
che consentono a tutti e due, e spero anche ai lettori, di focalizzare meglio i rapporti tra studio economico e giuridico dei tributi, che peraltro torna
in passaggi di Evasione, paradiso e inferno (3) diversi da quello citato nell’articolo che precede. Sono pienamente d’accordo con Guglielmo Fransoni
a proposito dell’estraneità al diritto tributario dello
studio degli effetti dei tributi sull’economia, in
termini di riflessi sui consumi, gli investimenti, il
risparmio e di influenza su altri comportamenti
collettivi. Giustamente Guglielmo Fransoni sottolinea, nella sostanza, che gli studiosi del diritto tributario non hanno bisogno, per approfondire la
loro materia, di passare per la macroeconomia applicata ai tributi, ma tutt’al più hanno bisogno di
confrontarsi con essa. Un’altra ragione, aggiungo
io, è che il diritto tributario si occupa di capacità
economica individuale, cioè determinata con riferimento a singole persone fisiche o giuridiche.
Questa necessità non è un risultato contingente di
una determinata norma costituzionale, oggi l’art.
53 della Costituzione; quest’ultimo, infatti, ripercorre una caratteristica strutturale, di tutte le collettività, sulla contribuzione alle spese pubbliche
attraverso istituti che possano chiamarsi «tributari». Il contributo del singolo alla collettività, se di
un contributo c’è bisogno, si parametra infatti alle
sue possibilità, dapprima fisiche nelle società primordiali e via via economiche (4), man mano che
il consesso sociale diventa più raffinato.
Sta in questo l’oggetto economico del diritto
tributario, inteso come misurazione di capacità
economica individuale, che non ci rende affatto
succubi dei macroeconomisti, e che ci consente
di spiegare agli altri giuristi qual è il nostro compito nella società. È un oggetto economico che va
ben al di là dell’occuparsi di rapporti patrimoniali, come giustamente Guglielmo Fransoni rileva
che accade nel diritto civile, o in quello del lavoro
o in altri settori del diritto da lui citati sopra. È
verissimo che i debiti si pagano in denaro o in altre entità economicamente valutabili, e quindi in
questo senso anche il diritto civile avrebbe un oggetto economico. In materia tributaria si verifica
14
Dialoghi Tributari n. 1/2009
però qualcosa di diverso, con una rilevanza più
immediata della capacità economica; quest’ultima,
in altri settori del diritto, è una componente di
un mosaico molto più complesso diretto a ricercare la volontà delle parti, a individuare prima
l’accordo, a quantificare poi il danno, la responsabilità e poi il quantum del risarcimento (5). Un
debito commerciale non si paga solo perché esiste
capacità economica, ma perché si è stipulato un
(3) Il cui contenuto emerge meglio dal sottotitolo, come «teoria
della tassazione analitico aziendale e delle sue disfunzioni in Italia».
(4) Nell’ultima nota del lavoro che precede Guglielmo Fransoni
considera il riferimento delle imposte alla capacità economica come un elemento non strutturale, portando l’esempio delle tassazioni di tipo «cetuale», anteriori alla rivoluzione francese. A me sembra che l’appartenenza a caste, religioni, ecc., sia un elemento ulteriore, successivo alla rilevanza della sostanza economica, come penso di aver indicato tra l’altro in Societa`, diritto e tributi, Milano,
2005, pag. 121 ss. dove scrivevo che «Anche le imposte su individui in condizioni sociali di inferiorità non li colpivano come tali,
ma in quanto titolari di manifestazioni economicamente rilevanti,
come terreni o attività economiche; e che l’esenzione da tributi ad esempio per nobili e clero - pur in presenza di capacità economica testimoniava una posizione di vertice nella comunità». L’imposizione «cetuale», come la chiama Guglielmo Fransoni, rappresentava insomma un aggravamento o un alleggerimento rispetto a
quanto sarebbe stato pagato considerando solamente la capacità
economica, che resta sempre la condizione necessaria, anche quando non sufficiente, per l’imposizione fiscale. Insomma, nell’ ancien
regime i borghesi o i «non nobili» non pagavano imposte come tali, ma perché veniva loro riferita una qualche sostanza economica
(al limite quella minima rilevante ai fini del testatico); la condizione nobiliare, invece, impediva pagamenti di imposte, ancorché la
sostanza economica esistesse. Il lignaggio, insomma, interferiva
con la capacità economica ai fini della tassazione, ma non nel senso che un basso lignaggio potesse prendere il posto della sostanza
economica, per legittimare imposte dove essa mancava, mentre era
piuttosto l’alto lignaggio a rendere esente la capacità economica
dei nobili, del clero, ecc.; la parte davvero «contingente», nell’art.
53 e in altre disposizioni della Costituzione (qui convengo con
Guglielmo Fransoni), è quella secondo cui, qui ed ora, simili interferenze tra tassazione e condizione sociale sono vietate.
(5) Mi piacerebbe discutere con Guglielmo Fransoni, in una
prossima occasione, anche un’altra differenza tra diritto tributario
e altri settori giuridici relativi a rapporti che nascono spontaneamente dalla convivenza, come lo scambio, le nozze, le successioni,
la difesa o la sicurezza. La tassazione difficilmente viene invece
«dal basso», almeno per come oggi la intendiamo. È una valenza
organizzativa della riserva di legge, che va ben al di là dell’ordinamento democratico, su cui mi sono soffermato in Societa`, diritto e
tributi, cit., pag. 140 ss.
Aspetti
strutturali
contratto (consenso) o perché si è danneggiato
qualcuno (torto). Certo un debito si paga con i
soldi, ma non deriva dal fatto di avere soldi o altre risorse economiche, quanto dall’aver stipulato
un determinato contratto. Tanto è vero che il debito astrattamente va pagato anche se il debitore
non ha mai posseduto e mai possiederà le risorse
economiche per farvi fronte; quando Totò vende
la fontana di Trevi al turista americano nascono a
suo carico una serie di obbligazioni, anche se non
ha un centesimo. I tributi richiedono invece non
solo una capacità economica di riferimento, ma
una capacità economica «attuale», come tutta la
dottrina ci ricorda. Proseguo con esempi e metafore: gli alimenti si pagano in denaro, ma il diritto di famiglia non è diretto a determinare la capacità economica di qualcuno, quanto le responsabilità di coppia, i bisogni del coniuge, gli accordi
reciproci e i pregressi stili di vita, le necessità dei
figli e solo collateralmente le possibilità di pagare
gli alimenti, che pure somigliano alla tassazione
essendo per molti versi commisurati alle possibilità economiche di chi vi è tenuto. In sintesi, in diritto civile, penale e amministrativo si paga «usando risorse economiche», perché ci si è accordati,
perché si è danneggiato qualcuno o perché si deve
essere puniti; in diritto tributario si paga con risorse economiche con riferimento al possesso di
altre risorse economiche, e ovviamente ad una
legge che le sottopone a tassazione; ribadisco che
in diritto civile, penale e amministrativo, se i soldi non ci sono, materialmente non si paga, ma
l’obbligo di pagare nasce, perché ha altre origini,
che con la capacità economica non c’entrano nulla. Ai fini tributari, se la capacità economica manca, viene meno, salve eccezioni varie (6), la giustificazione non solo del materiale pagamento, ma
dello stesso debito. Insomma, in diritto civile, penale o amministrativo si paga «se ci sono i soldi»,
ma in diritto tributario si paga «perché ci sono
delle risorse economiche cui il tributo fa riferimento». E questa è una caratteristica strutturale,
indefettibile, di quei tributi che si chiamano «imposte», che non solo si pagano con strumenti economicamente valutabili, ma perché esistono risorse economicamente valutabili.
Detto questo, vorrei tranquillizzare Guglielmo
Fransoni, e tutti i sostenitori del «metodo giuridico» nello studio della tassazione, sul fatto che
non abbiamo certo bisogno di farci insegnare il
mestiere dagli economisti, non foss’altro perché ci
interessa la sostanza economica individuale, cui
hanno sempre fatto riferimento le imposte, e la
sua rilevabilità da parte di istituzioni giuridiche;
dalla previsione su questa rilevabilità in sede di
controllo dipende il grado di adempimento da
parte degli interessati, come rilevo al capitolo 7 di
Evasione, paradiso e inferno, cit., confutando grossolane concezioni moralistiche dell’evasione, fonte
di incomprensioni, lacerazioni sociali e paradossalmente maggiore evasione.
Però il mestiere dei tributaristi, anche se non
devono impararlo dagli economisti, è sempre
quello di determinare la capacità economica individuale in un particolare contesto giuridico, cioè
quello di una prestazione di diritto amministrativo, come ho definito il tributo al paragrafo 9.6 di
Evasione, paradiso e inferno, cit.
È un contesto di poteri amministrativi, che determinano il tributo o ne controllano «virtualmente» la determinazione; è quindi una determinazione di sostanza economica analoga a quella
consistente nella redazione dei bilanci civilistici,
citata anche da Fransoni come corretto esempio
di determinazione di capacità economica, collocata però nel contesto dei rapporti, eminentemente
privatistici, tra soci-società-creditori, ecc. Queste
diverse finalità nella misurazione della capacità
economica possono provocare sfasamenti strutturali su cui ci siamo soffermati, su Dialoghi, fino
allo sfinimento, da ultimo a proposito dei riflessi
tributari degli IAS (7).
Sembra quindi che gli studiosi di diritto tributario sappiano quali strade non seguire, come
quelle dell’economia generale, ma non sappiano
esattamente dove andare, e mi riferisco alla determinazione di sostanza economica individuale, ov(6) Mi riferisco ai tributi «paracommutativi», e ai vari istituti
collocati, secondo varie sfumature, nella zona grigia che gradualisticamente evolve dalle imposte ai corrispettivi.
(7) M. Damiani, R. Lupi, D. Stevanato, S. Dus, R. Acernese,
«Sostituzione dei principi contabili alle regole fiscali e possibile
reinterpretazione degli organi verificatori», in Dialoghi Tributari n.
5/2008, pag. 29.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
15
Aspetti
strutturali
viamente con strumenti giuridici per contemperare le esigenze di precisione, semplicità, certezza, rilevabilità, gettito, e le altre da cui dipende la «giustizia fiscale». Mettere al centro dello studio della
tassazione, come io propongo, la determinazione
della capacità economica individuale, i suoi punti
di forza e debolezza giuridica, è l’unica possibilità
di un diritto tributario che non voglia essere «legislazione fiscale», a caratura più professional-consulenziale che analitico-teorico-progettuale; è l’unico
modo per evitare di disperdersi sul dettaglio legislativo senza però intromettersi in valutazioni politico-economiche generali relative allo Stato, al
mercato, alla solidarietà, alla proprietà, ed altri settori della politica su cui ai tributaristi non è stata
riconosciuta alcuna investitura specifica (8).
Studiare la tassazione in chiave di differente determinabilità della sostanza economica consentirebbe ai tributaristi di porsi finalmente in un’ottica di «teoria pura», nel senso positivo di un termine (teoria) oggi purtroppo screditato. Consentirebbe altresı̀ di proporre strumenti di comprensione
alle istituzioni, al resto della società e allo stesso
legislatore, tutti inevitabilmente lasciati soli dall’appiattimento sulla legislazione e sulle sue imperfezioni. È vano chiedere al legislatore precisione,
organicità, coerenza, chiarezza, ecc., perché spesso
proprio l’indeterminatezza, l’ambiguità e una certa
dose di sana (dal suo punto di vista) ipocrisia gli
consentono di massimizzare le attese e le sperate
ricadute in termini di consenso; non solo comunicando i vari provvedimenti in chiave diversa a diversi settori dell’opinione pubblica, ma anche consentendone l’adattamento futuro a situazioni impreviste. Questa strutturale cautela legislativa si ritrova persino nell’espressione «capacità contributiva», perché parlare di capacità economica tout
court sarebbe stato forse troppo limitativo rispetto
agli spazi di manovra che lo stato voleva riservarsi,
soprattutto per quei tributi dove spesso la capacità
economica è evanescente, coprendo meglio la vasta zona grigia che dall’imposta giunge infine al
corrispettivo, passando per tasse, contributi vari,
tariffe, ed altri balzelli sulla cui natura ancora si
discute e si discuterà in futuro.
Le necessità di comunicazione, e il desiderio di
non legarsi troppo le mani, costituiscono potenti e
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
ineliminabili motivi di oscurità e contraddizione
della normativa; il legislatore, del resto, coglie in
modo isolato, secondo uno schema tipico delle
scienze sociali (Lupi, Evasione, cit., par. 9.2) gli
spunti di senso comune sulla determinazione della
capacità economica, ed ha bisogno di qualcuno
che glieli faccia trovare già coordinati, per intervenire con le sue scelte politiche. Proprio questo è
mancato in uno studio della tassazione che, mi
sembra, ha lasciato sole le istituzioni, salvo poi criticarle e al tempo stesso invocarle, in un curioso
paradosso. È un frutto avvelenato dell’identificazione del diritto con la legislazione, che spinge a chiedere al legislatore di produrre un’organicità che lui
stesso dovrebbe trovare in schemi di comprensione
predisposti dagli studiosi, che distinguessero quello
che egli può o non può fare, al di là di una pretesa
onnipotenza da operetta; si è arrivati invece al paradosso di critiche serrate al legislatore, seguite da
invocazioni al legislatore stesso, al quale si danno
indicazioni ancora molto generiche su come intervenire (è lo schema «legislatore pasticcione, pensaci
tu!», in cui prima si imputano al legislatore tutti i
difetti, e poi gli si chiede di risolverli senza elaborare per lui un quadro organico di riferimento).
I politici hanno invece bisogno di indicazioni sui
modi migliori per determinare la capacità economica individuale, in relazione alle informazioni disponibili. Magari i politici neppure se ne rendono
conto, ma le loro preoccupazioni, sia pure nel quadro delle esigenze mediatiche sopra indicate (9),
sono proprio contemperare al meglio precisione,
semplicità, certezza, cautela contro le evasioni, ed
altri profili per determinare nel modo più efficiente
la capacità economica individuale. Per farlo servono però schemi che tengano insieme tutti questi
aspetti, nella cui elaborazione, come rilevavo al paragrafo 9.9 di Evasione, cit., lo studio della tassazione individuale ha sostanzialmente fallito.
La giuridicità del diritto tributario
L’articolo che precede rivendica giustamente la
(8) R. Lupi, Evasione, cit., par. 9.3.
(9) Il legislatore tiene ovviamente presenti (cosa più che comprensibile) le sue esigenze di consenso, cioè la «vendibilità» dei
provvedimenti all’opinione pubblica.
Aspetti
strutturali
giuridicità della parte del diritto tributario formata da regole procedimentali, processuali, ecc. Non
ho alcun dubbio in proposito, dal momento che
io stesso affermo la giuridicità dello stesso diritto
sostanziale, diretto alla determinazione della capacità economica individuale. Quest’ultima, però,
influenza e pervade anche le regole procedurali,
perché la prova, l’istruttoria, le modalità di accertamento, risentono inevitabilmente della necessità
di dimostrare capacità economica individuale, di
dimostrare valori, in senso economico non assiologico. Ci sono poi altre regole puramente procedurali, dove la capacità economica rileva meno, ma
che guarda caso sono quelle in cui serve anche
meno una conoscenza delle logiche proprie del
diritto tributario, e si può maggiormente contare
su concetti generali del diritto amministrativo e
processuale. Tanto è vero che la necessità di un
sapere tributaristico sofisticato è sorta solo con la
tassazione analitico aziendale (10), man mano che
la capacità economica individuale veniva determinata con strumenti meno alla portata delle categorie concettuali ordinarie dell’uomo di legge.
Riconoscere di avere ad oggetto la suddetta capacità economica individuale significa anche far
capire ai cultori di altre materie giuridiche da che
punto di vista il settore tributaristico degli studi
giuridici guarda al diritto nel suo complesso. Guglielmo Fransoni fa benissimo ad esprimere le sue
perplessità verso la creazione di più forti barriere
fra i giuristi tributaristi e gli altri giuristi, ma queste barriere cadono nella misura in cui ciascuno
spiega agli altri da quale angolazione si occupa
della convivenza sociale. Io stesso dicevo sempre
agli studenti che la tassazione doveva essere studiata come «una finestra per guardare al diritto».
Nella nostra finestra, però, c’è anche la determinazione di capacità economica individuale. La diffidenza dei civilisti, dei giuscommercialisti, dei lavoristi, verso il diritto tributario, cadrà quando faremo loro capire da che versante e con quale intento ripercorriamo i loro stessi sentieri, cioè perché ci occupiamo di contratti, di fusioni e conferimenti, di retribuzione, ecc.; l’analisi dei rapporti
giuridici come manifestazioni di capacità economica è uno dei fili conduttori di «Evasione fiscale,
cit.» dove considero, ai paragrafi 9.4 ss. la tassa-
zione come una sintesi di elementi macroeconomici, poteri amministrativi, organizzazione aziendale e (appunto) analisi dei rapporti giuridici in
chiave economica. Il rispetto e la considerazione,
da parte dei non tributaristi, non giungeranno
perché ci mostriamo diligenti sui loro angoli di
visuale, come accade nella diffusa impostazione
degli scritti, strutturata sullo scolastico binomio
«inquadramento civilistico-riflessi fiscali». Di fronte a queste opere, gli altri giuristi magari si complimenteranno con i tributaristi, perché «hanno
studiato», ma continueranno a chiedersi a cosa
serva il diritto tributario, e quale ne sia l’elemento
unificante. Si potrebbe ricercare quest’ultimo nel
processo, secondo la visione panprocessualistica
connaturata al retroterra dei «maestri del secolo
scorso» (citati da Guglielmo Fransoni), dove due
controparti litigano e il giudice decide a chi dare
ragione. Si trascurerebbe però in questo modo la
matrice amministrativistica del diritto tributario,
sulla quale insisto dal 2000 e che tutti riconoscono (senza però adeguatamente svilupparla), dove
l’istituzione di riferimento è l’Amministrazione;
l’istituzione pubblica-giudice subentra per controllare, su ricorso del contribuente, asserite patologie comportamentali dell’istituzione pubblicaUfficio tributario. Il diritto processuale, in questo,
mi sembra molto meno «fondante» di quello amministrativo e dell’analisi dei rapporti giuridici in
chiave economica; non a caso la capacità economica individuale è trascurata dagli studiosi, non
inserita in modelli esplicativi organici, e riemerge
confusamente in una prassi e in una giurisprudenza che ne intuiscono alcuni aspetti, ma non
ne razionalizzano un numero sufficiente a creare
strumenti di comprensione.
Apprezzo che, nonostante i riferimenti al codice
di procedura civile, Guglielmo Fransoni condivida
una visione istituzionalistica del diritto, come del
resto la stragrande maggioranza degli studiosi che
abbiano fatto mente locale sull’argomento (11).
(10) R. Lupi, Evasione, cit., pag. 9.4 - 9.5.
(11) Neppure Kelsen contesta l’istituzionalismo, anche se assorbito dalla sua finalità di perseguire una teoria del diritto che fosse
«pura» rispetto alle commistioni assiologico- valoriali (cfr. R. Lupi,
Societa` diritto e tributi, Milano, 2005, par. 2.1).
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Aspetti
strutturali
Se si appiattisce il diritto sulla legislazione si arriva rapidamente a non comprendere più neppure
la legislazione, o meglio a comprenderla come
tutti coloro che ne leggono le parole su un pezzo
di carta, salvo magari dilungarsi in tortuosi equilibrismi esegetici sulla sua formulazione letterale,
inquinata spesso da consapevoli contraddizioni,
dovute alla suddetta esigenza politica di «massimizzare il consenso». La legge serve a condizionare («vincolare») il comportamento delle istituzioni, che però non sono riducibili a degli automi,
salvo che amino presentarsi strumentalmente come tali, senza in realtà esserlo affatto; il discorso
sarebbe lungo, ma potrebbe affermarsi che la legislazione non è «oggetto», bensı̀ «strumento», importante ma non totalizzante, del diritto. Anche
in materia di tassazione, la legge serve a orientare
il comportamento delle istituzioni, nel nostro caso preposte alla determinazione di capacità economica individuale. La legislazione è di certo onnipotente sul piano dei valori, se l’andamento dei
fatti è chiaro, non ci sono fraintendimenti e si
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
tratta di stabilire la meritevolezza reciproca degli
interessi. In questo caso, chi ha la legislazione dalla sua vince, ma la legislazione non è una bacchetta magica, né una sfera di cristallo, da dove
capire come sono andate le cose, e grazie alla quale far apparire miracolosamente sui computer dell’Anagrafe tributaria la capacità economica nascosta. Quest’ultima va trovata attraverso valutazioni,
stimando, e magari alla fine trovando un ragionevole accordo con i contribuenti; sono comportamenti amministrativi oggettivamente ostacolati
dalle teorie della vincolatezza, della legalità, della
indisponibilità del credito tributario, tutte collegate con la tassazione analitico ragionieristica e il
desiderio degli Uffici di avere sempre una «copertura legislativa». Il risultato è stata la perdita del
controllo sulla capacità economica nascosta, per
paura della responsabilità necessaria a stimarla,
l’insistenza dei controlli sui regimi giuridici di
quella dichiarata, con l’effetto paradiso/inferno inserito nel titolo del mio volume cortesemente esaminato dall’Autore che precede.
Aspetti
strutturali
Federalismo fiscale,
tra razionalizzazione delle spese
e tributi locali
di Mario Damiani, Claudio Carpentieri
Dopo le prime anticipazioni, commentate sul Forum pubblicato sul n. 4/2008 di «Dialoghi», il disegno di legge sul federalismo fiscale sembra riguardare sempre meno profili tributari, quanto
piuttosto la allocazione del gettito delle imposte statali, in relazione a vari parametri, come l’importanza delle diverse spese pubbliche e anche la capacità tributaria delle varie Regioni, per le
spese «non essenziali». Accanto a questi aspetti fiscali, più che strettamente tributari, si pongono
invece le imposte locali, che su una capacità economica fortemente legata al territorio, come
quella immobiliare, si presterebbero a una organica riforma in senso federalista.
n Quale posto per i tributi locali nel decreto sul federalismo?
Mario Damiani
Nel disegno di legge sul federalismo, già esaminato su Dialoghi e sul Corriere (1), restano un po’
in ombra i tributi locali; anche se gli enti locali
sono inevitabilmente marginalizzati dal circuito
della tassazione analitico aziendale (2) i loro tributi
possono avere una utile funzione complementare
rispetto a quelli erariali; ciò specialmente a proposito di capacità economica non facilmente visibile
da parte del circuito della fiscalità nazionale, delle
sue banche dati, dei suoi sistemi di incroci, e delle
altre modalità di rilevazione della ricchezza (3).
Una nuova imposta «unica» sugli immobili
Tra queste fonti di imposizione, quella correlata agli immobili è tra quelle che può ritenersi più
legata al territorio e che non può essere oggetto
di manovre delocalizzatrici da parte dei contribuenti. In relazione a tali considerazioni si è anche di recente parlato di una nuova imposta «unica» gravante sugli immobili, destinata a sostituirsi
a tutte le varie forme di tassazione comunque su
di essi aventi incidenza. E ciò tanto se si considera il loro valore patrimoniale, al quale si commisura l’attuale ICI, quanto se si tiene conto del
reddito da essi ritraibile, assoggettato all’IRPEF o
all’IRES, e quanto ancora se la base di riferimento è il trasferimento dei diritti reali o l’attribuzione di diritti personali sugli immobili, tassabile per
effetto dell’IVA, delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, dell’imposta sulle successioni e donazioni. Più problematiche appaiono le forme di
tassazione connesse ai servizi pubblici in modo
diretto o indiretto fruiti per effetto dell’uso degli
immobili (la tassa sull’occupazione degli spazi
pubblici, la TARSU o la nuova TIA).
Problemi di coordinamento
Discutere di questa ipotesi comporta vari proMario Damiani - Presidente Commissione fiscale dell’OIC Organismo Italiano di Contabilità
(1) R. Lupi, «Il federalismo fiscale come trasferimento del gettito nelle aree di produzione», in Dialoghi Tributari n. 4/2008,
nonché R. Lupi, «Fiscalità e tributi nel disegno di legge sul federalismo», in Corr. Trib. n. 38/2008, pag. 3081.
(2) Cfr. R. Lupi, Evasione fiscale, paradiso e inferno. Teoria della
tassazione analitico aziendale e delle sue disfunzioni in Italia, IPSOA, 2008, pag. 162.
(3) Sul rapporto complementare tra tributi erariali e tributi locali, in relazione alla diversa rilevabilità della capacità economica
vedi da ultimo R. Lupi, «Fiscalità e tributi nel disegno di legge»,
in Corr. Trib. n. 38/2008, pag. 3081.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
19
Aspetti
strutturali
blemi di coordinamento con l’attuale tassazione
erariale, a parte quello costituito dall’invarianza di
gettito che almeno in un primo periodo occorrerebbe garantire rispetto all’attuale assetto, in attesa di un successivo assestamento delle entrate.
Non è infatti semplice individuare una tipologia
impositiva che riporti ad unità le varie forme di
tassazione sugli immobili, oltretutto differenti nella funzione, strumentali in stretto senso, in quanto effettivamente utilizzati in un’attività produttiva, con funzioni patrimoniali, in quanto destinati
a produrre reddito mediante la locazione, oggetto
dell’attività di costruzione o di trading ed aventi
la destinazione a servizio diretto della proprietà
mediante l’uso proprio.
È difficile perciò pensare ad un unico presupposto impositivo per tutte le categorie di beni immobili e se anche risultasse possibile si dovrebbero comunque almeno diversificare le basi imponibili e le aliquote applicabili, tra il valore-reddito
ed il valore-patrimonio. Il primo applicabile per
tassare i redditi monetari o figurativi derivanti dagli immobili, verosimilmente escludendo quelli a
strumentalità diretta, ed il secondo per parametrare il prelievo sulle fattispecie legate al valore immobiliare e quindi su base patrimoniale da innovare rispetto all’attuale ICI.
Anche qui troviamo elementi analitico documentali, tracciabili nei rapporti giuridici relativi
agli immobili, come i canoni di locazione, e i valori di mercato. Per questi ultimi un vincolo è la
necessità di continuare a utilizzare procedure
automatiche, che evitino la complessità propria
della definizione dei valori correnti o normali,
possibili oggetto di contenzioso; tali valori dovrebbero continuare a desumersi dalle risultanze
del Catasto, i cui servizi, peraltro, potrebbero essere in toto affidati ai Comuni. Una vera innovazione nella potestà impositiva dovrebbe comportare l’attribuzione ai Comuni del potere di apportare variazioni in aumento o diminuzione ai valori di estrazione catastale, in relazione alla qualità e
quantità dei servizi pubblici di cui gli immobili
sono suscettibili di fruire, con possibilità di dividere il territorio comunale a seconda della tipologia ed intensità di tali servizi e dei relativi costi e
creando in tal modo aggregazioni (cluster) omoge-
20
Dialoghi Tributari n. 1/2009
nee. È indubbio che il valore di un immobile che
fruisce di servizi di trasporto efficienti e vicini o
che è prossimo a mercati, università, scuole, asilinido, tribunali, poste, impianti sportivi, ecc. non
può non scontare una maggiorazione di valore e
se del caso anche di aliquota, quale strumento
più flessibile nel tempo, rispetto ad altri immobili
siti in luoghi lontani da questi centri di erogazione di servizi pubblici.
Un altro vincolo è quello, comunitario, relativo
all’applicazione dell’IVA alle cessioni o prestazioni
di servizi relativi agli immobili. Essendo l’IVA
un’imposta armonizzata a livello comunitario non
è possibile eliminarla sulle operazioni che interessano gli immobili e perciò un’imposta unica, sostitutiva anche dell’IVA, non sembra per questa
ragione applicabile. Va aggiunto però che la vigente legislazione già contempla un ampio ambito
di operazioni di trasferimenti e locazioni immobiliari soggetti al regime di esenzione dall’IVA (4) e
quindi assoggettati ad imposta di registro ed a
quelle ipotecaria e catastale.
Risulta indubbiamente assai problematico sostituire queste imposte, cd. d’atto (non periodiche),
con un’imposta unica periodica (sul reddito o sul
patrimonio) qualora la sostituzione venga considerata con riferimento al singolo contribuente e
non alla platea complessiva dei contribuenti interessati alla proprietà, possesso o trasferimento degli immobili. Se infatti si considerasse il sistema
impositivo degli immobili nel suo insieme e si assumesse il gettito complessivo (IVA esclusa) in
base alla legislazione attuale si potrebbero eseguire
simulazioni per ridistribuirlo tra i proprietari degli
immobili, sulla base del reddito o del patrimonio
adottando le più adeguate aliquote di imposta sostitutiva per mantenere quel gettito. È vero che si
creerebbero discriminazioni tra coloro che effettuano trasferimenti e quelli che non lo fanno e
mantengono nel tempo durevolmente la proprietà
degli immobili, ma l’intero settore dell’edilizia potrebbe subire un’accelerazione ragguardevole delle
(4) Tali sono le locazioni di fabbricati indicate al n. 8 dell’art.
10 del D.P.R. n. 633/1972 e le cessioni di fabbricati diversi da
quelli strumentali, enunciate al n.8-bis, e di fabbricati strumentali
di cui al n.8-ter dello stesso articolo.
Aspetti
strutturali
transazioni e sarebbe cosı̀ incentivata la dinamica
immobiliare. Inoltre, nell’ottica federalista, si sposterebbe l’attenzione dei contribuenti sul buon
impiego del gettito comunale con riguardo soprattutto alla qualità ed efficienza dei servizi comunali che verranno prodotti con queste risorse.
Il coordinamento tra fiscalità erariale e fiscalità
locale potrebbe basarsi soprattutto sui differenti
elementi informativi disponibili per il Fisco. Ad
esempio, i redditi immobiliari erogati da società
od enti potrebbero rimanere nell’ambito IRPEF
erariale delle persone fisiche proprietarie, in quanto
la relativa individuazione poggia sulle segnalazioni
degli inquilini. I redditi immobiliari realizzati tra
persone fisiche potrebbero invece essere lasciati ai
Comuni, poiché in tal caso la visibilità fisica dell’occupazione è il principale elemento per individuare la capacità economica sottostante. Si potrebbe cioè ipotizzare per i beni affittati una imposta
sostitutiva alla fonte sui fitti, con i locatari respon-
sabili solidamente in caso di evasione. Questa imposta dovrebbe dar comunque modo di considerare le spese (ad es. di manutenzione) sostenute dal
proprietario sull’immobile oggetto di locazione.
Un’ulteriore capacità economica facilmente trasferibile ai Comuni è inoltre quella connessa ai
relativi atti giuridici di circolazione, rilevanti ai fini dell’imposta di registro. Restano poi tutte le
imposte sulle plusvalenze immobiliari, le valorizzazioni urbanistiche che sarebbero visibili dai Comuni passando attraverso i loro uffici tecnici.
Mi rendo conto che si tratta di esercizi dialettici che richiedono un pò di indulgenza e comportano confronti e concorso di idee per cercare di
coniugare un federalismo fiscale effettivo e di non
complicata attuazione con la salvaguardia della razionalità e coerenza del sistema tributario. Ma già
cominicare a parlare di capacità economica, e dei
molti aspetti sotto i quali essa può essere individuabile dai Comuni, è un buon inizio.
n Luci ed ombre sul «Fisco federale» in corso d’opera
Claudio Carpentieri
Il nuovo sistema fiscale nel «Fisco federale»:
più efficienza o più complicazioni?
I riflessi tributari del federalismo fiscale vanno
esaminati tenendo conto che la riforma è attuata
a Costituzione invariata, nella cornice del Titolo
V come modificato nel 2001. Pertanto, essa non
deve essere letta come previsione di autonomia
impositiva per ciascuna componente di un ipotetico Stato federale. Si tratta di una forma che
prende atto delle attuali responsabilità nella gestione della spesa pubblica (sanità, istruzione,
ecc.), per poi razionalizzare la struttura delle entrate, al fine di spingere i diversi attori della cosa
pubblica, quali lo Stato in senso stretto e le realtà
territoriali (Regioni, Province, Comuni), all’efficienza nella gestione della spesa. Andando diritto
al punto, l’obiettivo che si scorge è proprio quello
di spostare la responsabilità ed il peso politico
delle inefficienze a livello territoriale, cioè più vicino ai cittadini, affinché questi possano attuare
un più stringente controllo sull’operato degli amministratori. Da una prima analisi dei principi ge-
nerali atti al perseguimento di un siffatto obiettivo nella bozza di ddl (5) ci sono:
1. passaggio dal criterio della spesa storica al
criterio dei costi standard;
2. perequazione per garantire i livelli essenziali
delle prestazioni fondamentali delle Regioni e degli enti locali;
3. devoluzione di strumenti tributari a livello
locale;
4. principio di necessaria correlazione, nel senso
della riferibilità dei tributi ai servizi erogati dai
singoli enti territoriali;
5. trasparenza dei meccanismi di funzionamento dei tributi regionali e locali;
6. meccanismo del premio/sanzione in ragione
del perseguimento o meno dell’equilibrio economico finanziario.
Nell’ambito di applicazione dei principi sopra
Claudio Carpentieri - Responsabile Ufficio politiche fiscali CNA
(5) Si fa riferimento all’atto AS 1117, approvato dal Senato
della Repubblica il 22 gennaio 2009.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
21
Aspetti
strutturali
meglio sinteticamente ricordati, le singole competenze delle Regioni e degli enti locali, a riforma
attuata, saranno finanziate dai seguenti tributi:
– quote di tributi erariali (IRPEF, IRES,
IRAP, IVA, ACCISE, ecc.);
– addizionali a tributi erariali con facoltà di
modificare le aliquote, entro certi limiti, e introdurre esenzioni, detrazioni, deduzioni ovvero agevolazioni;
– tributi regionali propri;
– tributi provinciali stabiliti dallo Stato;
– tributi provinciali stabiliti dalle Regioni;
– tributi comunali previsti e disciplinati dallo
Stato;
– tributi comunali previsti e disciplinati dalle
Regioni;
– tributi provinciali di scopo;
– tributi comunali di scopo.
Appare quantomeno inconsueto che per i tributi provinciali e comunali, che deve stabilire lo
Stato, non venga indicato il presupposto impositivo nella legge di delega rinviandone la individuazione ai successivi decreti legislativi, sottraendo
quindi tale potestà al Parlamento. Si ritiene che il
presupposto dovrebbe invece essere individuato
nella legge di delega lasciando al Governo - con
decreti legislativi - la declinazione di detti tributi.
Secondo quanto previsto dalla versione attuale
del ddl AS1117, un soggetto, ovviamente a seconda dell’attività che svolge, di dove risiede e tenendo conto solamente dei tributi principali sopra elencati, potrebbe come minimo essere assoggettato a più di 13 tributi diversi. Per i tributi regionali propri, ovvero per quelli di competenza
delle Province o dei Comuni, i decreti legislativi
dovranno individuare la riferibilità del prelievo alla spesa cui il medesimo è destinato (correlazione)
e l’evidenza del collegamento ovvero, più in generale, del funzionamento del tributo a competenza
locale.
Una pluralità di tributi quale quella che emergerebbe dalla riforma proposta, anche se a somma
zero per l’ammontare da versare, fa temere un aumento di obbligazioni contabili per i contribuenti
ed in particolare per imprese (p.e: distinte dichiarazioni annuali per tipologia di tributo). A fronte
della previsione di principio della «semplificazione
22
Dialoghi Tributari n. 1/2009
del sistema tributario, riduzione degli adempimenti a carico dei contribuenti, efficienza nell’amministrazione dei tributi, coinvolgimento dei
diversi livelli istituzionali nell’attività di contrasto
all’evasione e all’elusione fiscale» (cfr. art. 2, lett.
q, dello schema di ddl), nella bozza di ddl esistono delle altre disposizioni che conducono, inevitabilmente, ad una proliferazione dei tributi e,
quindi, degli adempimenti richiesti ai contribuenti. In particolare, ci si riferisce alla facoltà non regolata di prevedere tributi propri della Regione,
con il solo vincolo di non disporre tributi su medesime basi imponibili assoggettate ad imposizione erariale; ciò si pone in contraddizione con il
principio sopra ricordato della semplificazione degli adempimenti. Come è possibile evitare nuovi
adempimenti o anche eliminare i precedenti se,
in primo luogo, la base imponibile che le Regioni
possono adottare deve essere diversa da quella oggetto dei tributi erariali? In questa logica potrebbero rinascere i tributi sui frigoriferi, sugli animali
domestici, ecc.
L’efficienza di sanità, istruzione e assistenza,
legata ai «costi standard»
in un tempo sostenibile.
Trasferimenti sotto mentite spoglie?
Nel nuovo sistema tributario è prevista la garanzia che i servizi essenziali devoluti agli enti territoriali, ci si riferisce alla sanità, istruzione e assistenza, saranno garantiti. Cosı̀ come sarà garantito
il funzionamento dei governi di Province, Comuni e Città metropolitane. Questi servizi, tuttavia,
saranno assicurati attraverso un misto di tributi a
competenza regionale e, per differenza, attraverso
il cd. fondo perequativo, solamente con riferimento alla spesa calcolata in base ai «costi standard», che dovranno essere previsti dagli stessi decreti delegati ad un livello uniforme su tutto il
territorio nazionale.
In particolare è previsto che i servizi essenziali
(sanità, istruzione e assistenza) a livello regionale,
da individuarsi dettagliatamente attraverso gli
stessi decreti legislativi, saranno finanziati:
– da tributi regionali da individuare attraverso
il principio di correlazione;
– dalla compartecipazione regionale all’IRPEF;
Aspetti
strutturali
– dalla compartecipazione all’IVA;
– dall’IRAP in via transitoria, fino cioè alla sua
soppressione.
Qualora le predette entrate non bastassero al finanziamento dei servizi essenziali, per la parte che
residua interverrà il «fondo perequativo», ma solamente per coprire la parte non finanziata, valutando le spese secondo i costi standard previsti.
Da questo punto di vista verranno aiutate solamente le Regioni comunque efficienti che, tuttavia, non riescono a finanziare i servizi essenziali
con le proprie risorse fiscali come sopra individuate.
Il «fondo perequativo» è alimentato dalle stesse
Regioni attraverso una quota della compartecipazione all’IVA (per le spese fondamentali) ed una
quota dell’addizionale regionale all’IRPEF (riferibile alla perequazione di equilibrio tra le diverse
Regioni - vedi paragrafo successivo).
Le aliquote dei tributi e delle compartecipazioni, atte al finanziamento dei servizi essenziali, saranno determinate in modo tale da consentire la
completa copertura delle spese, ovviamente valutate a costo standard, in almeno una Regione. In
altre parole, occorre che almeno in una Regione
siano generate le entrate fiscali atte a finanziare i
servizi essenziali valutati a costo standard. Beninteso, questo non vuol dire che la Regione di riferimento sia efficiente sotto il profilo della spesa,
con la semplice dimostrazione del pareggio del
fabbisogno di finanziamento (6).
È evidente che l’impalcatura costruita intorno
alle principali voci di spesa risulterà efficiente solamente a patto che i costi standard siano attuati
secondo criteri di efficienza. In proposito risulta
indicato solamente che la predisposizione dei costi
standard avvenga in un «periodo di tempo sostenibile» (art. 17, comma 1, lett. b, del ddl). È evidente che l’efficienza della spesa e la garanzia di
una ridotta pressione fiscale a livello locale è avallata solamente alla piena entrata in vigore dei costi standard. Se la riforma viene attuata senza che
siano ancora stati indicati i costi standard, il rischio è quello di creare le premesse per l’incremento della pressione fiscale, in quanto il meccanismo di copertura delle spese essenziali, incluso
il «fondo perequativo», nei fatti diventerebbe sola-
mente un modo diverso e più macchinoso di erogazione dei trasferimenti soppressi.
Perequazione delle risorse fiscali
per i servizi ritenuti non essenziali
Con riferimento ai servizi non essenziali, dei
quali, ovviamente, l’ente territoriale abbia competenza, si assiste ad una responsabilizzazione dei livelli di governo locale. Infatti, a riforma attuata,
anche per essi è previsto che i nuovi tributi devono e possono essere istituiti; tuttavia per essi deve
essere riconosciuta e resa trasparente la correlazione tra spesa sostenuta e tributo preteso. È previsto, inoltre, che tali servizi, ora finanziati principalmente dai trasferimenti, siano finanziati con
l’istituzione di un’addizionale IRPEF (da scorporare dall’IRPEF erariale), con aliquota di base atta
a consentire la sostituzione dei medesimi.
È comunque previsto che i risultati in termini
di entrate regionali siano corretti tramite un fondo
perequativo, al fine di avvicinare le Regioni con
diverse capacità fiscali per abitante. Se cioè il gettito dell’addizionale regionale all’IRPEF per abitante
di una Regione è inferiore alla media nazionale,
tale Regione verrà aiutata a ridurre il gap, attraverso l’utilizzo di parte del fondo perequativo, mentre le Regioni che si posizionano sopra tale limite
non avranno alcuna quota del fondo perequativo.
Si tratta di una disposizione volta a considerare le
differenze nella produzione del reddito per abitante e, quindi, delle entrate tributarie tra le varie Regioni d’Italia, al fine di spostare risorse fiscali dalle
Regioni più ricche a quelle più povere.
I rischi di incremento della pressione fiscale
sul settore delle imprese
Rispetto al rischio della mancata riduzione della
pressione fiscale, si apprezza l’introduzione nell’ultima versione del ddl della previsione secondo cui
«le maggiori risorse finanziarie rese disponibili a
seguito della riduzione delle spese determinino
(6) Da questo punto di vista è possibile, infatti, che la medesima Regione di riferimento abbia sforato con la spesa a «costi standard» e debba comunque coprire il surplus di spesa con altre risorse proprie.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
23
Aspetti
strutturali
una riduzione della pressione fiscale dei diversi livelli di governo» e che «vi sia la coerenza tra il
riordino e la riallocazione delle funzioni e la dotazione delle risorse umane e finanziarie, con il vincolo assoluto che al trasferimento delle funzioni
corrisponda un trasferimento del personale tale da
evitare ogni duplicazione di funzioni» (art. 21,
comma 2, dello schema di ddl).
A riforma attuata è garantito, pertanto, che la
pressione fiscale non aumenti, ma tale garanzia
deve essere intesa a livello globale di tutti i contribuenti. Il rischio è che tale garanzia non si realizzi
per il comparto delle imprese. È evidente che, dato lo scenario dei tributi adottabili (nella migliore
delle ipotesi ben 13), una eventuale inefficienza
dell’ente territoriale rispetto alla spesa per servizi
fondamentali, cioè una spesa che eccede i costi
standard, ovvero la volontà di prestare maggiori
servizi ai cittadini non rientranti nelle funzioni
fondamentali, imporrebbe di incrementare la
pressione fiscale.
24
Dialoghi Tributari n. 1/2009
Aumento della pressione fiscale che si ritiene,
con molta probabilità, sarà a carico delle imprese,
nei confronti delle quali la perdita di consenso
politico connessa a un incremento di imposizione
è sicuramente inferiore. Dal momento che, per
vincolo di legge, la possibilità di intervenire a livello locale è solamente su basi imponibili non
già assoggettate ad imposizione a livello erariale,
quello che resta è solamente la possibilità di agire
sulle imprese, magari incrementando la tassazione
dei beni strumentali utilizzati dalle stesse per la
produzione. Data, infatti, la pluralità dei tributi
locali, se pur sostitutivi di quote di tributi erariali,
il rischio è quello che il prelievo fiscale globale
nel lungo periodo possa spostarsi a sfavore delle
imprese. Un primo esempio di quello che si vuole
sostenere si è visto di recente con l’abolizione dell’ICI sulla prima casa. Infatti, attualmente il gettito dell’ICI residuo, a parte la quota minoritaria
riferita alle seconde case, è in gran parte a carico
degli immobili delle imprese.
Aspetti
strutturali
L’imposta sostitutiva
sui valori di terreni e titoli
in caso di successivi affrancamenti
di Luigi Bellini, Dario Stevanato
L’eventualità di successive rivalutazioni «a cascata», in occasione di proroghe o riaperture di tali
facoltà, pone delicati problemi con riguardo al riconoscimento dell’imposta volontaria già assolta
in occasione di precedenti rivalutazioni, che l’Agenzia delle entrate risolve riconoscendo il diritto
al rimborso dell’imposta già pagata, ma non una sua diretta compensazione con il nuovo «debito
da rivalutazione». Si tratta di una risposta non totalmente appagante ma comunque parzialmente
positiva, a fronte di un’imposta sostitutiva che, anziché operare in una logica differenziale, tassa
stocks patrimoniali e dunque anche valori parzialmente già tassati ai fini reddituali.
n Rideterminazione dei valori di riferimento di immobili
in caso di aumento di valore
Luigi Bellini
La legge 22 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008), con il comma 91 dell’art. 1, consente,
come già in precedenza, la rivalutazione dei terreni edificabili e con destinazione agricola agli effetti della determinazione della plusvalenza di cui all’art. 67, comma 1, lett. a) e b), del T.U.I.R.
La disposizione in commento, ai fini della determinazione delle plusvalenze di cui all’art. 67,
comma 1, lett. a) e b) succitato, consente di assumere, in luogo del costo di acquisto o del valore
dei terreni edificabili e di quelli agricoli, posseduti
alla data del 18 gennaio 2008, il valore ad essi attribuito a tale data mediante una perizia giurata
di stima, con il pagamento di un’imposta sostitutiva del 4% sull’intero valore.
La facoltà di rivalutare è stata ammessa con
provvedimenti precedenti ad iniziare dalla legge
28 dicembre 2001, n. 448, e successivamente dal
D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito dalla
legge 21 febbraio 2003, n. 27, dal D.L. 24 dicembre 2003, n. 355, convertito dalla legge 27
febbraio 2004, n. 47, e dal D.L. 30 settembre
2005, n. 203, convertito dalla legge 2 dicembre
2005, n. 248.
Il contribuente decide per la rideterminazione
del valore di acquisto dei terreni per programmare
la plusvalenza in previsione di un’eventuale futura
cessione dell’immobile e dall’altro il Fisco riscuote
subito un’imposta (anche se normalmente ridotta
nell’ammontare) che diversamente riscuoterebbe
solo in occasione di una futura effettiva cessione;
nell’operazione si realizza, pertanto, un incontro
di interesse tra quelli del contribuente, eventuale
risparmio di imposta, e quella del Fisco, realizzo
immediato di entrate di cassa.
Con le predette disposizioni la data di riferimento per la rivalutazione era determinata nel
possesso dei terreni edificabili ed agricoli rispettivamente al 18 gennaio 2002, al 18 gennaio 2003,
al 18 luglio 2003, e dal 18 giugno 2005.
Poiché alle successive date di riferimento il terreno già rivalutato poteva aver raggiunto nel frattempo un maggiore valore per modifica di strumenti urbanistici o per condizioni di mercato più
favorevoli, la stessa Amministrazione finanziaria
già con la circolare 9 maggio 2003, n. 27/E (1)
Luigi Bellini - Notaio in Bergamo
(1) In Banca Dati BIG, IPSOA.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
25
Aspetti
strutturali
al par. 1, ha riconosciuto che «il contribuente che
abbia proceduto a rideterminare il valore dei terreni alla data del 18 gennaio 2002, attraverso le
modalità indicate nell’art. 7 della legge n. 448/
2001, ove lo ritenga opportuno, potrà comunque
usufruire delle nuove disposizioni agevolative, ma
dovrà in tal caso determinare mediante una nuova perizia giurata di stima il valore dei terreni al
18 gennaio 2003, nonché procedere al versamento
dell’imposta sostitutiva su detto valore, nei termini e secondo le modalità indicate nell’art. 2 del
D.L. n. 282/2002».
Ma, continua la predetta circolare «In tale ipotesi, il soggetto interessato, potrà richiedere il
rimborso, ex art. 38 del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 602, dell’imposta sostitutiva versata per
la rideterminazione del valore al 18 gennaio 2002,
ai sensi dell’art. 7 della citata legge n. 448/2001».
Ciò è confermato testualmente dalle circolari 4
agosto 2004, n. 35/E e 13 marzo 2006, n. 10/
E (2).
Con le citate pronunce si esclude la compensazione tra l’imposta dovuta determinata utilizzando
l’ultima norma di rideterminazione e quella versata in occasione delle precedenti «rideterminazioni
di valore».
Se fosse ammessa la compensazione il contribuente verserebbe un’imposta corrispondente alla
differenza tra l’imposta determinata con l’ultima
rivalutazione e quella versata in occasione delle
precedenti rivalutazioni.
Con la «rivalutazione» in commento vi sono
molti contribuenti che, avendo utilizzato le precedenti rivalutazioni, vorrebbero «rideterminare il
valore al 18 gennaio 2008», ma si astengono dall’operazione, dovendo, secondo l’Amministrazione finanziaria, versare l’imposta determinata sull’intero valore, senza tener conto di quella già
versata.
Ad essi è riservata solo la via del rimborso, sulla
cui celerità gli stessi nutrono legittimi dubbi.
D’altra parte la procedura suggerita dall’Amministrazione finanziaria non sembra essere conforme alle disposizioni di legge.
Infatti, l’art. 163 del T.U.I.R. rubricato «Divieto della doppia imposizione» recita: «La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipen-
26
Dialoghi Tributari n. 1/2009
denza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi».
L’art. 8, comma 1, delle disposizioni in materia
di Statuto dei diritti del contribuente recita:
«L’obbligazione tributaria può essere estinta per
compensazione»; l’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio
1997, n. 241 prevede espressamente la «compensazione dei crediti».
Inoltre, l’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973, rubricato «Rimborso di versamenti diretti» prevede
istanza di rimborso «nel caso di errore materiale,
duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento».
Si oppone che non si verifica nessuna delle predette ipotesi poiché il primo versamento è legittimamente fatto in forza della precedente disposizione di rideterminazione di valore.
Quindi per il primo versamento non si può
parlare neanche di duplicazione che si verifica per
il secondo versamento se lo stesso si effettua per
intero; ma le disposizioni succitate sulla compensazione non lo richiederebbero.
Pertanto, non si comprende come l’Amministrazione finanziaria indichi tale procedura e non
quella naturale della compensazione.
Non appaiono neanche sussistere motivi di
operatività dal momento che la delega di pagamento F24 contiene distintamente il codice di
tributo, l’anno di riferimento (che per l’imposta
già versata è quello di riferimento della precedente rivalutazione) e l’importo a credito compensato.
Pertanto, poiché l’Amministrazione finanziaria
insiste nella sua presa di posizione con la richiesta
di versamento dell’intero importo determinato in
relazione all’ultima rivalutazione, si verifica una
evidente illegittima «duplicazione di imposta».
Inoltre, l’Agenzia delle entrate con la risoluzione 10 giugno 2008, n. 236/E (3) ha risposto ad
un interpello relativo alla rideterminazione del
valore dei terreni edificabili e con destinazione
agricola ai sensi dell’art. 7 della legge n. 448/
2001, e dell’art. 1, comma 91, della Finanziaria
2008.
(2) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(3) In Banca Dati BIG, IPSOA.
Aspetti
strutturali
Il contribuente ha rivalutato un terreno ai sensi
della legge n. 448/2001 ed intende rivalutare lo
stesso terreno in forza dell’ultima disposizione.
Chiede se potrà ottenere il rimborso di quanto
versato nel 2002, essendo trascorso il termine di
48 mesi per la presentazione dell’istanza previsto
dall’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973.
Il richiedente ritiene che poiché il titolo per la
restituzione è costituito dal nuovo versamento, ha
diritto di ottenere il rimborso; in via subordinata
ritiene di poter avvalersi della norma di cui all’art.
21, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n.
546.
L’Agenzia, dopo aver commentato le disposizioni, afferma che: «le norme successive alla legge
Finanziaria 2002, legge che ha introdotto l’agevolazione in oggetto, non hanno mai contemplato la possibilità di poter compensare le somme
versate a titolo di imposta sostitutiva qualora successivamente il contribuente abbia usufruito della
possibilità di rideterminare il valore del terreno
in epoche più recenti». E: «ha più volte precisato
che il contribuente, ove lo ritenga opportuno,
può usufruire delle successive disposizioni agevolative, procedendo al versamento integrale dell’imposta sostitutiva dovuta sul valore della nuova perizia e richiedere il rimborso, ai sensi dell’art. 38, del D.P.R. n. 602/1973, dell’imposta
precedentemente versata, ovviamente entro i termini dallo stesso previsti. Pertanto, qualora il
contribuente istante abbia rideterminato il valore
dei terreni in oggetto alla data del 18 gennaio
2002 ed intenda usufruire della nuova rideterminazione del valore dei terreni alla data del 18
gennaio 2008, non può chiedere il rimborso dell’imposta versata in quanto sono trascorsi 48 mesi dal termine di versamento dell’imposta, né
tanto meno può compensare le somme già pagate».
L’Agenzia afferma, inoltre, che non può invocarsi la norma generale sui rimborsi contenuta
nell’art. 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n.
546, perché il presupposto per la restituzione sarebbe rappresentato dalla data di entrata in vigore
della legge Finanziaria per il 2008, disposizione
che «non costituisce una proroga delle precedenti,
dal momento che il presupposto per poter usu-
fruire della nuova agevolazione, ossia il possesso
dei terreni alla data del 18 gennaio 2008, è diverso da quello inizialmente previsto».
In effetti, invece, le disposizioni successive alla
legge n. 448/2001 contengono semplicemente
riapertura dei termini per la rivalutazione dei valori di acquisto dei terreni, tanto è vero che la rubrica dell’art. 2 del D.L. n. 282/2002, convertito
dalla legge n. 27/2003 recita: «Riapertura dei termini in materia di rivalutazione di beni di impresa e di rideterminazione di valori di acquisto».
Sembra confermarlo anche la nota 23 giugno
2008, n. 904-38798/2008 della Direzione regionale della Lombardia - Ufficio Fiscalità generale
che afferma: «In seguito è stata più volte prevista
da parte del legislatore la possibilità di rideterminare il valore dei terreni modificando la data in
cui dovevano essere posseduti gli stessi e la scadenza per gli adempimenti prescritti. In particolare, ciò è avvenuto con l’art. 2 del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito con modificazioni
dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27, a sua volta
ripetutamente modificato in ordine alle suddette
scadenze».
Per quanto sopra detto in relazione al momento del sorgere del credito, che si ritiene che sia
quello del versamento effettuato a seguito della
seconda rivalutazione, non si comprende come
possa verificarsi la decadenza del diritto al rimborso.
È da auspicarsi che l’Agenzia delle entrate riconsideri il problema e giunga ad una legittima
soluzione favorevole al contribuente.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
27
Aspetti
strutturali
n L’imposta sostitutiva sull’affrancamento dei valori dei terreni
e delle partecipazioni: un’imposizione di stampo patrimoniale
nel sistema delle imposte sul reddito
Dario Stevanato
L’affrancamento dei valori dei terreni e delle
partecipazioni societarie risponde alle logiche delle
«imposte volontarie»; l’ossimoro che tale espressione sottende (le imposte sono prelievi coattivi
dovuti al verificarsi di presupposti previsti dalla
legge, e sono indipendenti dalla «volontà» del
contribuente) esprime assai bene l’idea di uno
scambio, contemplato e per certi versi incentivato
dallo stesso legislatore, tra il pagamento di un’imposta oggi e il risparmio di imposte domani. Evidentemente, la rivalutazione con pagamento dell’imposta sostitutiva di beni plusvalenti da parte
di persone fisiche non imprenditori viene effettuata con la prospettiva di risparmiare, nei futuri
atti di cessione, l’imposta ordinaria altrimenti dovuta sulle plusvalenze non affrancate (nelle imposte sostitutive «volontarie» pagate da imprese il
calcolo di convenienza tiene invece di solito conto
anche dei maggiori ammortamenti sui cespiti rivalutati). Può tuttavia succedere che il privato,
dopo aver effettuato l’affrancamento dei plusvalori, sia ancora in possesso del bene oggetto di rivalutazione al momento della proroga o della riproposizione della legge di rivalutazione, ed in tal caso si pone il problema di come coordinare il precedente «affrancamento a pagamento» con la nuova possibilità di affrancare anche quegli ulteriori
maggiori valori nel frattempo maturati.
Per esaminare le opzioni sul tappeto, è preliminarmente il caso di osservare che l’affrancamento
del valore dei terreni (come pure delle partecipazioni societarie) avviene appunto sull’intero «valore» patrimoniale del bene, e non sulla differenza
tra il valore di perizia e il costo fiscalmente riconosciuto del bene stesso, in una logica «reddituale» (come invece accadeva nella legge n. 448/
2001 per le coeve norme sull’affrancamento dei
maggiori valori di beni d’impresa). Il primo aspetto da enfatizzare è dunque il carattere per cosı̀ dire forfetario dell’affrancamento, che anziché avere
ad oggetto l’incremento di valore del bene (ovvero la plusvalenza latente), è invece incentrato sull’intero valore del bene, in un’ottica «patrimonia-
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
le» e non «reddituale». L’imposta sostitutiva versata per la rivalutazione dei terreni e delle partecipazioni insiste dunque su una base imponibile diversa rispetto a quella su cui si applicherebbe
l’imposta «ordinaria» sostituita. È dunque insita,
nel meccanismo di rivalutazione a pagamento in
discussione, l’eventualità che l’imposta sostitutiva
venga applicata su «valori» in parte già fiscalmente
riconosciuti. Lo schema dell’imposta volontaria è
in questo caso semplificatorio (se non grossolano),
in quanto non opera in una prospettiva «differenziale», e vanifica del tutto il costo fiscalmente riconosciuto del bene rivalutabile. Si tratta probabilmente di una contropartita negativa della particolare «appetibilità» dell’aliquota del prelievo sostitutivo e volontario, che però discrimina i possessori di terreni e partecipazioni in relazione all’entità del costo fiscale di acquisto del bene.
È infatti evidente che, a parità di valore di mercato, si otterrà il maggior vantaggio fiscale dalla
rivalutazione in presenza di beni con bassi valori
fiscalmente riconosciuti. Al contrario, in presenza
di un significativo valore fiscale di partenza, la rivalutazione diventerà via via meno conveniente fino a perdere ogni appeal, posto che l’imposta sostitutiva finirebbe ad un certo punto (non solo
per anticipare ma) per eccedere, nell’importo,
l’imposta ordinariamente dovuta sulla plusvalenza
latente. Si noti dunque che il meccanismo previsto dalla legge n. 448/2001 ha in sé l’effetto potenziale di «duplicare» il prelievo su una ricchezza
già tassata, assumendo che il dante causa del soggetto che effettua la rivalutazione abbia assolto le
imposte sulle plusvalenze nel precedente trasferimento. La capacità economica colpita dal prelievo
sostitutivo può dunque essere anche molto diversa da quella che sarebbe stata colpita dal tributo
sostituito, per il più o meno elevato contenuto di
«patrimonialità» del prelievo sostitutivo.
Queste considerazioni sembrano rilevanti anche
per inquadrare il problema sollevato nell’articolo
di Giovanni Bellini, che si occupa dell’eventualità
di una successiva operazione di rivalutazione a pa-
Aspetti
strutturali
gamento su beni già oggetto in precedenza di affrancamento. La tesi dell’Autore è che la posizione dell’Agenzia, che non ammette la diretta compensabilità dell’imposta già assolta, ma solo la sua
richiesta a rimborso nei termini di decadenza previsti dall’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973, sia distorsiva in quanto foriera di doppie imposizioni.
Il contribuente si troverebbe infatti a pagare l’imposta sostitutiva sul valore corrente del bene, senza poter scomputare direttamente l’imposta già
pagata su una parte di quello stesso valore, con il
rischio di non essere più in grado di presentare
istanza di rimborso o, nella migliore delle ipotesi,
di dover subire i pregiudizi finanziari connessi ai
lunghi tempi di erogazione dei rimborsi.
Queste considerazioni sono certamente sensate,
anche perché sfuggono in effetti le ragioni per cui
l’Agenzia, anziché ammettere l’operare della compensazione, indichi quale unica via percorribile
quella dell’istanza di rimborso ex art. 38 del
D.P.R. n. 602/1973, che si riferisce ai rimborsi
da indebito (mentre qui il rimborso non sembra
affatto la conseguenza di un indebito).
Va tuttavia considerato che l’Agenzia ha fornito
una risposta comunque positiva, in linea di principio, ad una possibilità che avrebbe anche potuto
essere negata del tutto. Se infatti si tengono presenti le logiche «patrimoniali» e non «reddituali»
con cui opera la rivalutazione a pagamento dei
terreni e delle partecipazioni, ci si avvede come la
eventualità di una «doppia imposizione» - in una
prospettiva reddituale e quindi «differenziale» - sia
comunque nel dna della norma agevolativa. Si
vuole dire che, se l’imposta volontaria che stiamo
esaminando insiste per definizione anche su quella parte del valore del bene corrispondente al suo
valore già fiscalmente riconosciuto, la stessa è
strutturalmente inidonea a scongiurare «doppie
imposizioni» dello stesso reddito (posto che al valore fiscalmente riconosciuto del bene da rivalutare abbia corrisposto nei precedenti passaggi il pagamento di imposte sulle plusvalenze). L’Agenzia
avrebbe dunque anche potuto affermare che, in
sede di successive opzioni per la rivalutazione a
pagamento di beni già oggetto di affrancamento,
non vi è ragione di «ammettere in deduzione»
l’imposta pagata sui valori già affrancati. La rispo-
sta dell’Amministrazione finanziaria è dunque tutto sommato meglio di niente, posto che non era
facile (né scontato) postulare l’operatività dei
principi di simmetria dell’imposizione e di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti a fronte
dell’innesto di un’imposizione sostitutiva di tipo
«patrimoniale» in un sistema di imposizione reddituale, che per sua natura opera su «differenze di
valori», e non su «valori stocks».
Probabilmente, la risposta (almeno in parte)
positiva fornita dall’Agenzia risente del fatto che
il rischio di una vanificazione del precedente valore fiscalmente riconosciuto, con nuovo pagamento di una sostitutiva su valori parzialmente già affrancati, è in questo caso conseguenza di un meccanismo tutto interno alla reiterata applicazione
della legge di rivalutazione. Il caso è dunque in
parte diverso rispetto alla impermeabilità delle logiche dell’affrancamento rispetto ai valori fiscalmente riconosciuti di provenienza esogena (cioè
acquisiti in sede di acquisto del bene, e non di
un precedente affrancamento). Senza contare che
tali valori fiscali di partenza potrebbero essere stati acquisiti senza il pagamento a monte di imposte sulle plusvalenze, per le note caratteristiche di
«frammentarietà» dei redditi diversi.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Accertamento
n Forum
Contrasto all’elusione
e incertezza del diritto
di Andrea Manzitti, Ivan Vacca, Raffaello Lupi, Dario Stevanato
Anche le discussioni sull’elusione dimostrano l’importanza di omologare il diritto tributario alla
metodologia di altri settori del diritto, ma con una sua propria vocazione, consistente nella determinazione di capacità economica individuale, con tutti i compromessi che essa comporta tra
precisione, semplicità, cautela fiscale, controllabilità, ecc. Se questa funzione della legislazione tributaria viene trascurata non è possibile individuare uno spirito della legge fiscale, e quindi un suo
«aggiramento», secondo la categoria abituale della «frode alla legge», conosciuta in tutti i settori
del diritto: senza questa bussola, si finisce per girare a vuoto, come quando ci si avventura direttamente nei labirinti delle ragioni economiche, rilevanti come «esimente», una volta individuata
l’elusione, ma non come criterio per individuarla. Altro equivoco è quello di confondere l’elusione con «comportamenti civilistici inutilmente tortuosi o contrari allo schema tipico», tutt’al più
invece un elemento rafforzativo di un «aggiramento dello spirito della legislazione fiscale», che
deve essere dimostrato in modo tutt’affatto diverso.
n «L’abuso del diritto»: la creazione «pretoria» di una norma antielusiva
Andrea Manzitti
Le iniziative di studio e di approfondimento
sul tema dell’elusione e dell’abuso del diritto si
moltiplicano, dimostrando una comprensibile preoccupazione degli operatori economici e dei giuristi sulle cause, le motivazioni e gli effetti di questa nouvelle vague applicativa.
Chi, come me, ha a cuore il corretto funzionamento dell’intera macchina tributaria e crede fermamente nel valore della lealtà fiscale, si trova in
imbarazzo a parlare di elusione, come se potesse
essere sospettato di volerla in qualche modo legittimare. Non è cosi, assolutamente, e desidero che
questo punto sia subito chiarito, perché le imprese
non hanno interesse a favorire l’elusione fiscale, né
tanto meno l’evasione, che comportano ingiusti arricchimenti per chi le pratica, vantaggi competitivi
ed incentivi distorti, gravi danni per la collettività.
Chiarito che evasione ed elusione vanno prevenute e represse, e che le imprese appoggiano con
convinzione, per interesse proprio, l’azione dei
poteri pubblici in questo settore, è anche necessa-
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
rio per le imprese conoscere, in anticipo sulle
proprie scelte, il quadro normativo in cui operano
ed opereranno in futuro. La tassazione «analitico
aziendale», basata sulle rigidità amministrative di
un numero relativamente piccolo di grandi organizzazioni di impresa (1), ha bisogno di stabilità
normativa e di certezza sull’applicazione delle leggi. Nel momento di programmazione, le imprese
devono potersi affidare sul quadro normativo che
conoscono, senza che - a distanza di anni dal
compimento di una scelta - si debbano confrontare con applicazioni del diritto e letture delle norme del tutto ignote all’epoca in cui hanno formato le decisioni imprenditoriali.
Andrea Manzitti - Responsabile del progetto Fisco di Confindustria
Dalla relazione al convegno Anti di Roma, 20 ottobre 2008.
(1) Su questa chiave di lettura della fiscalità moderna, R. Lupi,
Evasione fiscale, paradiso e inferno. Teoria della tassazione analitico
aziendale e delle sue disfunzioni in Italia, IPSOA, 2008, passim.
Accertamento
I contribuenti sono abituati al fatto che l’Amministrazione finanziaria proponga tesi volte alla
tutela della pretesa fiscale. Sarebbe certo auspicabile che le principali differenze siano composte e va
dato atto all’Amministrazione finanziaria di uno
sforzo per coordinare l’azione degli Uffici. Ma, in
caso di contestazione, le imprese hanno bisogno e
pieno diritto di confidare su una lettura - da parte
dei giudici - imparziale e rispettosa della legge.
Le recenti prese di posizione da parte della
Corte di cassazione hanno deluso queste aspettative. È stata affermata l’esistenza, in Italia, di un
principio sovraordinato alla legge ordinaria che
vieta l’abuso del diritto tributario e che si sostanzia nella illegittimità di ogni condotta motivata
principalmente dal vantaggio fiscale.
Tra tutte, va segnalata la sentenza 4 aprile 2008,
n. 8772 (2), che si propone di dare una definitiva
sistemazione concettuale sul tema. Una sentenza
che ha portato Giuseppe Zizzo, professore di diritto tributario - non certo un avversario preconcetto
del Fisco - a criticare la «discutibilissima tendenza»
«che ha progressivamente trasformato la comprensibile aspirazione di contrastare l’elusione in una
crociata, dove i mezzi sono disinvoltamente piegati
al fine senza attenzione alcuna alle condizioni e ai
limiti ravvisabili al loro esercizio». Altri studiosi
hanno espresso commenti di tenore analogo. Gli
interventi che seguiranno si concentreranno sugli
aspetti tecnici del problema. Questa mattina - nella sessione dedicata alla fase progettuale - dobbiamo invece occuparci del tema per i suoi aspetti di
policy. Per far questo, è utile ricordare alcune date
importanti nella vicenda che ci ha riuniti oggi.
Le principali date dello sviluppo
delle norme antielusive
Anni ’80: non esisteva in Italia alcuna norma,
generale o specifica, sull’elusione fiscale. La dottrina si interrogava sulla opportunità di introdurla.
Dottrina e giurisprudenza negavano che fatti ritenuti elusivi potessero essere contrastati facendo ricorso a categorie civilistiche quali la simulazione
o la nullità del contratto per contrasto con norme
imperative. L’Unione europea non aveva legiferato alcunché nel settore dell’imposizione diretta.
1990: viene approvata la prima norma antielusi-
va «a schema aperto» applicabile per determinate
operazioni (principalmente le fusioni) che colpiva
quelle poste in essere «fraudolentemente». La norma (art. 10 della 1egge n. 408/1990) è da tutti
salutata come una assoluta novità. Nello stesso anno, sono approvate due direttive europee che disciplinano taluni aspetti di fiscalità diretta dei
gruppi internazionali (i dividendi e le operazioni
straordinarie transfrontaliere). Una di esse assegna
agli Stati membri la facoltà di non concedere i benefici della direttiva per le operazioni elusive. Anche questo fatto viene salutato come una novità.
1997: è introdotta nel nostro ordinamento una
clausola generale antielusiva (il ben noto art. 37bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), che si
applica al settore delle imposte dirette con carattere di generalità, si sostituisce alla norma antielusiva del 1990 e, in un certo senso, realizza quanto
disposto dalla direttiva che ho appena citato. Si
tratta di una norma molto ben fatta che, nella
sua schematicità e completezza, ricorda la struttura di certe norme del codice civile. Nessuno, in
dottrina o in giurisprudenza, sospetta l’esistenza
di principi generali in materia di abuso del diritto
tributario. L’art. 37-bis è di supporto a questa pacifica tesi: che bisogno ci sarebbe stato dell’art.
37-bis se fosse già esistito un principio generale
che proibisce l’abuso del diritto tributario?
2005-2008: la Corte di cassazione pronuncia
una serie di sentenze nelle quali legittima pretese
dell’Amministrazione finanziaria su fattispecie
molto datate, anteriori all’introduzione delle suddette disposizioni antielusive, facendo leva su nozioni quali (a) la simulazione (b) la nullità del
contratto per carenza di causa e (c) un non meglio precisato divieto di abuso del diritto, di derivazione comunitaria, che si applicherebbe a tutta
la materia fiscale.
Colpisce il fatto che le vicende su cui è intervenuta la Cassazione si riferiscono a periodi d’imposta molto distanti nel tempo. Alcune si sono consumate addirittura prima dell’entrata in vigore
dell’art. 10 della legge n. 408/1990, la prima norma italiana sull’elusione. Che dire? Coloro che
hanno esaminato questi «arresti» hanno espresso
(2) In Banca Dati BIG, IPSOA.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
31
Accertamento
forti critiche. Ve ne ho citato uno soltanto. La discussione che seguirà ne darà conto, ma desidero
anticipare qualcosa.
La certezza del diritto
e la tutela dell’affidamento
In primo luogo, voglio sottolineare il grave vulnus che queste sentenze hanno inferto su beni
primari quali la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento.
Nessuno tra i contribuenti che hanno posto in
essere comportamenti oggetto delle sentenze citate
conosceva o poteva conoscere l’esistenza dei principi che sono stati utilizzati a loro danno dalle
sentenze di Cassazione. Lo abbiamo ricordato prima: sino alla recentissima svolta giurisprudenziale
tutto faceva ragionevolmente pensare che l’elusione fosse disciplinata soltanto dalle norme via via
emanate dal Parlamento.
È assai probabile che, ove quei comportamenti
fossero stati posti in essere in vigenza dell’art. 37bis, sarebbero stati censurabili sulla base di questa
norma. D’altronde, quella norma è stata varata
proprio per questi scopi. Ma questa considerazione c’entra poco con la nostra analisi, se non per
confermarne la correttezza.
Quei comportamenti saranno anche riprovevoli
o illegittimi sulla base di standard attuali, ma resta il fondamentale fatto che al tempo in cui sono
stati posti in essere nessuna norma ne stabiliva il
carattere elusivo. Sono stati quindi posti in essere
senza violare alcuna norma o principio e la loro
censura da parte della Cassazione è sbagliata.
L’immanenza del divieto di elusione
In secondo luogo, si scorge nell’evoluzione recente del pensiero della Suprema Corte uno sforzo
specificamente finalizzato all’ottenimento di un risultato: quello di affermare l’esistenza di un principio dell’ordinamento tributario italiano secondo
cui l’elusione sarebbe stata vietata da lungo tempo.
Fissato aprioristicamente un risultato, si é cercato di supportarlo mediante ricorso ad ogni possibile artificio argomentativo. Come normalmente fa
l’avvocato, ma non dovrebbe fare il giudice. I primi tentativi della Suprema Corte di superare gli
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
ostacoli sino ad allora ritenuti pacificamente insormontabili (quali l’assenza di una norma scritta, i
contrari precedenti giurisprudenziali, l’inesistenza
di una giurisprudenza della Corte di giustizia) hanno esplorato i temi della simulazione e del contratto in frode alla legge. Si è determinato un contrasto (anche su temi processuali delicatissimi, quali
la rilevabilità di ufficio di tali vizi e la delimitazione dell’oggetto del processo tributario) che ha portato alla rimessione di talune questioni fondamentali alle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
Non volendo insistere su tesi possibili oggetto
di confutazione definitiva ad opera delle Sezioni
Unite, i magistrati della sezione tributaria hanno
spinto altrove la loro indagine, ritenendo di dover
scorgere in alcune sentenze della Corte di giustizia (principalmente nella sentenza «Halifax») (3)
l’esistenza di un «immanente principio di diritto
comunitario» che vieta l’abuso del diritto tributario in genere e che assurgerebbe a «vero e proprio
canone interpretativo del sistema».
Per liberarsi dall’obiezione che il caso «Halifax»
riguardava I’IVA, cioè un tributo armonizzato e
che quindi i principi statuiti in quel caso non potevano estendersi automaticamente ai tributi nazionali la Corte di cassazione si è spinta ad affermare - con estrema disinvoltura - che il divieto
dell’abuso del diritto in campo tributario costituisce uno «dei principi e delle libertà fondamentali
contenuti nel Trattato CEE».
Mi chiedo se i Governi degli Stati Membri ne
siano mai stati consapevoli! Come ho detto, i commenti degli studiosi sinora pubblicati hanno severamente criticato la legittimità ed i fondamenti di
questa giurisprudenza. Va rilevato che questo fantomatico divieto dell’abuso in materia tributaria pone
sostanzialmente nel nulla e si sovrappone a tutte le
disposizioni - generali e speciali - via via introdotte
nell’ordinamento, prima tra tutte l’art. 37-bis.
Un divieto che - nella mente della Cassazione si applica a tutte le imposte, sin dagli anni ’90 e
che non prevede neppure le cautele applicative
previste dall’art. 37-bis (quali ad esempio l’obbli(3) Corte di giustizia UE, 21 febbraio 2006, causa C-255/02,
in GT - Riv. giur. trib. n. 5/2006, pag. 377, con commento di A.
Santi e in Banca Dati BIG, IPSOA.
Accertamento
go di motivazione specifica e la sospensione della
riscossione sino alla sentenza di primo grado).
Un divieto la cui violazione - diversamente da
quanto affermato specificamente dalla Corte di
giustizia europea nel caso «Halifax» - comporta
l’applicazione delle sanzioni, senza chiedersi se il
vantaggio tributario raggiunto dal contribuente risultava contrario all’obiettivo perseguito dalle norme tributarie.
A me pare che questa giurisprudenza sia determinata, non già ad interpretare il diritto vigente,
ma a creare nuove regole di diritto, in aperto
conflitto con la riserva di legge nel diritto tributario codificata nell’art. 23 della Costituzione.
È fortemente destabilizzante e foriero di intollerabili incertezze interpretative ed applicative, proprio perché questo «principio» non é codificato
da nessuna parte. D’altronde, in un convegno di
qualche mese fa sullo stesso tema, è stato affermato con sorprendente candore che «il principio di
legalità deve essere opportunamente manipolato».
È un’affermazione che trova esatto riscontro
nelle sentenze che ho citato, suscita profonda inquietudine e deve essere respinta con la massima
forza.
Al giudice spetta applicare le leggi, tutte le leggi, e giammai di «manipolarle». Questo compito
spetta al Parlamento, nel rispetto della Costituzione, dei trattati internazionali e - in campo fiscale
- dello Statuto del contribuente.
Se si dovesse dubitare di questo fondamentale
principio non si potrebbe pretendere dal contribuente l’adempimento leale e spontaneo agli obblighi tributari. Si allontanerebbe in modo forse
definitivo l’obiettivo di ristabilire un clima fiscale
sereno nel nostro Paese.
Mi auguro pertanto che la Suprema Corte rive-
da in chiave critica il suo orientamento, e giunga
in tempi brevi a soluzioni più misurate.
Da ultimo, vorrei svolgere una breve considerazione de iure condendo.
Se si leggono con attenzione (e non con spirito
partigiano) le sentenze della Corte di giustizia, ci
si accorge che l’abuso del diritto tributario da
questa delineato ricalca sostanzialmente la nozione
contenuta nell’art. 37-bis.
Sia questa disposizione, sia la Corte di giustizia
pongono l’accento sul vantaggio «indebito», cioè
quello colto aggirando le norme e frustrandone lo
scopo. L’art. 37-bis e la giurisprudenza della Corte di giustizia sono quindi capaci di recuperare la
differenza tra lecito risparmio fiscale ed elusione
vietata, del tutto ignorata nelle sentenze della
Cassazione, e di salvare il vantaggio tributario, ancorché indebito, se conseguito con «valide ragioni
economiche». Occorrerebbe quindi chiarire, casomai ribadendolo con appropriati interventi normativi, che le «valide ragioni economiche» sono
un passaggio successivo all’accertamento di un
vantaggio indebito.
Credo poi sia il caso di estendere l’applicabilità
dell’art. 37-bis a tutte le imposte, abolendo l’elencazione di cui al comma 3, ormai amplissima e
talvolta utilizzata come una presunzione di elusione per tutte le operazioni ivi indicate. A questo
punto si dovrebbe affidare agli studiosi, all’Amministrazione finanziaria e alla giurisprudenza il
compito di una applicazione della norma che sia
sapiente, misurata e rispettosa del testo e della
sua finalità. Cosi facendo, si potrebbe offrire alla
Suprema Corte un argomento in più per rivedere
la propria posizione. Un tentativo in questo senso
è stato fatto nella passata legislatura e spero che
sarà ripreso in quella attuale.
n Scelte strutturali «di sistema» ed elusione fiscale
Ivan Vacca
L’«elusione» riguarda le operazioni che non dissimulano il reddito, anzi rispettano anche formalmente i canoni legale normativi e, pur tuttavia,
realizzano effetti impositivi contrari alla ratio legis,
discordanti con le finalità del sistema o del sottosistema in cui si colloca l’istituto fiscale del quale
il contribuente invoca l’applicazione. Nell’ambito
dell’Amministrazione finanziaria e della giurisprudenza stanno però maturando interpretazioni che
Ivan Vacca - Condirettore generale Responsabile imposizione diretta,
Responsabile coordinamento imposizione indiretta - ASSONIME
Dialoghi Tributari n. 1/2009
33
Accertamento
sembrano consentire al Fisco di disapplicare ad
nutum le regole impositive scritte sulla base di un
giudizio caso per caso dell’esistenza o meno di valide ragioni economiche «extrafiscali»; di un giudizio, oltretutto, non definito o definibile in base
a regole precise e pertanto suscettibile di dar luogo di volta in volta ad interpretazioni soggettive e
disparate dell’organo amministrativo o dell’organo
giudicante.
Questo atteggiamento è tanto più preoccupante
di fronte alla varietà di istituti e di operazioni, sia
civilistiche sia tributarie che, pur perseguendo risultati economici a volte similari, sono sottoposte
a regimi fiscali a prima vista diversi, salvo recuperare una coerenza di fondo (4) se si considera la
posizione di tutte le parti interessate. Mi riferisco
ad esempio alle operazioni di fusione, scissione,
cessione e conferimento di azienda, dove si intrecciano regimi «realizzativi», con imposte sostitutive, e di neutralità (5). Mi riferisco al regime
di participation exemption e a tutti i confronti tra
cessione diretta dei cespiti e delle partecipazioni.
Tali regimi, nell’assetto globale del sistema fiscale, sono stati concepiti non come meramente temporanei o eccezionali, ma come strutturali alla natura giuridico-formale di tali operazioni; già da
questo si capisce l’irrazionalità, sotto un profilo sistematico, dell’idea secondo cui l’imposizione deve
tendenzialmente attuarsi secondo il modello impositivo più oneroso; tesi che porterebbe a ricondurre, là ove possibile, gli atti negoziali anzidetti agli
archetipi - per natura e per qualificazione - di
operazioni negoziali produttive di effetti similari,
ma sottoposte a regime impositivo meno vantaggioso. È vero tendenzialmente, anzi, il contrario,
perché quando un ordinamento mette a disposizione trattamenti fiscali alternativi, i contribuenti
si ritengono abilitati ad optare a buon diritto per
quelli che, caso per caso, risultano più rispondenti
alla loro pianificazione fiscale. Censurare questa
loro scelta solo perché fondata su motivi di convenienza fiscale appare in un certo senso una petizione di principio rispetto alla statuizione normativa e, comunque, un surrettizio superamento del
principio del legittimo affidamento sulle indicazioni poste dalla stessa norma. Le contestazioni antielusive non servono a contrastare i risultati voluti
34
Dialoghi Tributari n. 1/2009
dal legislatore, ma ad impedire il verificarsi di
quelli non voluti, contrari in qualche modo alla
ratio del sistema o dell’istituto fiscale invocato dal
contribuente. Ci vuole, insomma, qualcosa di più
rispetto alla scelta della soluzione più conveniente
perché possa ravvisarsi un fenomeno elusivo. La
clausola antielusiva deve servire a colpire quello
che è sfuggito al sistema delle norme scritte: deve
colpire gli effetti indesiderati in quanto contrari
più o meno palesemente alla ratio del sistema, alla
logica o alle logiche degli istituti impositivi cosı̀
come positivamente disciplinati, non ciò che il legislatore ha realmente e fondatamente perseguito.
In questo senso, la clausola antielusiva è una norma non scritta di chiusura del sistema, non uno
strumento per porre nel nulla le regole scritte. In
molte situazioni in cui l’elusione sussisteva, le posizioni assunte dall’Amministrazione finanziaria e
dalla giurisprudenza, hanno guardato al fenomeno
elusivo dal punto di vista, meno esatto ma più
immediato, dell’assenza di valide ragioni economiche. Il principale elemento di novità dell’art. 37bis fu chiarire il concetto di fraudolenza che nella
precedente norma aveva dato luogo a dubbi interpretativi, definendone meglio - per lo meno nelle
intenzioni del legislatore - i caratteri oggettivi:
non si tratta cioè, dell’impiego di artifizi o raggiri,
ma dell’aggiramento di obblighi e divieti, ottenendo in questo modo vantaggi che altrimenti sarebbero stati indebiti: l’esistenza in questo contesto
delle varie ragioni economiche sembra dunque posta dal legislatore non come diretto (ed unico) sintomo dell’elusione, ma al contrario come possibilità per il contribuente di superare la configurazione
elusiva della fattispecie. Ed in questo senso si
esprime chiaramente la relazione governativa al
(4) A parte regimi palesemente agevolativi con finalità extrafiscali.
(5) Cosı̀ ad esempio, per le operazioni di fusione, scissione e
conferimento di azienda, il regime di neutralità del trasferimento
dei cespiti aziendali si accompagna al principio di continuità dei
loro valori fiscali, sicché la pretesa del Fisco si conserva intatta e
potrà esercitarsi in occasione delle successive vicende reddituali di
tali cespiti presso la società beneficiaria. Anche nella participation
exemption, il sistema, senza dar luogo a salti d’imposta o a duplicazioni, viene a rimettere alle parti che pongono in essere queste
operazioni la scelta di chi tra di esse debba assumere la posizione
di contribuente sui plusvalori dei beni di primo grado.
Accertamento
provvedimento di legge che ha introdotto l’art.
37-bis in parola. L’elemento essenziale, ben prima
dell’analisi delle ragioni economiche dell’operazione, è l’effettivo aggiramento di obblighi e divieti,
di un’effettiva violazione della ratio del sistema fiscale o del sottosistema. Occorre, cioè, che risultino violati i principi fondamentali dell’ordinamento, quali il divieto di doppia deduzione dei costi,
il divieto di salto di imposizione, il commercio di
bare fiscali, il commercio, cioè, di perdite non realizzate nel gruppo, ma acquisite appositamente da
società inattive per trarne vantaggi dalla compensazione con i propri imponibili. Ma soprattutto
emerge da questa ricostruzione - e il punto è
esplicitamente sottolineato dalla relazione governativa all’art. 37-bis - che non possono essere considerate elusive le scelte fra regimi impositivi alternativi messi a disposizione dallo stesso ordinamento senza limiti o condizioni (6) e ciò anche quando le operazioni che beneficiano di tali regimi
producano risultati economici, in tutto o in parte,
equivalenti ad altre operazioni diversamente trattate. Ad esempio, è nella libertà dei contribuenti:
insediare un’attività economica all’estero tramite
stabili organizzazioni o tramite la costituzione di
subsidiaries con tutto ciò che ne consegue per ciò
che concerne il differente trattamento delle perdite
riportabili; ottenere un finanziamento o un capitale di apporto per attuare gli investimenti di impresa; scegliere di fruire o meno dell’applicazione di
imposte sostitutive; acquisire o spostare partecipazioni per rientrare nel range del consolidato fiscale;
scegliere di cedere l’attività d’impresa della società
partecipata trasferendo i relativi assets con effetti
impositivi o, viceversa, cedere le partecipazioni
fruenti di detassazione, e cosı̀ via (7). Nonostante
queste premesse, la prassi dell’Amministrazione,
soprattutto periferica e dell’abrogato Comitato per
le norme antielusive, ha spesso deviato da questa
linea. Forse l’art. 37-bis esprimeva concetti dal
contenuto semantico non chiaramente individuabile o comunque non radicato nella tradizione
giuridica, quale in effetti potrebbe risultare la nozione di «aggiramento di divieti o obblighi» normativi; forse ha influito la preoccupazione dell’Amministrazione di limitare l’efficacia fiscale di
operazioni sempre più complesse di cui non si ca-
piva appieno il contenuto. Sta di fatto che sotto il
profilo teorico si sono sviluppate tesi che hanno
attribuito poca valenza al problema dell’aggiramento della ratio del sistema fiscale e alla distinzione di questo profilo rispetto alla legittima scelta
del risparmio di imposte: mi riferisco a quelle tesi
che individuano il fenomeno elusivo nella semplice esistenza di operazioni definite come «insolite»
o «inutilmente complesse e articolate» rispetto agli
strumenti tipici a disposizione, in quella sorta di
«abuso delle forme giuridiche adoperate» (8).
Simili avalli dottrinali, per quanto privi di argomentazioni di supporto, hanno probabilmente alimentato la tendenza della prassi amministrativa a
depotenziare completamente il riferimento all’aggiramento di obblighi e divieti e ad attribuire esclusiva valenza alla esistenza o meno di motivazioni
economiche extratributarie. In altri termini il semplice fatto che un’operazione trattata in un certo
modo dal legislatore produca - da sola o in combinazione con altri - un risultato in tutto o in parte equivalente ad altra operazione avente differente
e più oneroso regime fiscale, abiliterebbe l’Amministrazione a sottoporre tale operazione al sindacato di elusività. Ci sarebbe dunque, una sorta di
modello di riferimento da assumere acriticamente
come modello principale, per il solo fatto di comportare conseguenze impositive più onerose, e rispetto al quale l’operazione alternativa meno onerosa fiscalmente dovrebbe essere sempre (e per
(6) In questo senso si veda anche la C.M. 19 dicembre 1997,
n. 320/E (in Banca Dati BIG, IPSOA) che, tra l’altro, richiama la
relazione nella parte in cui chiarisce che «non c’è aggiramento fintanto che il contribuente si limita a scegliere tra due alternative
che in modo strutturale e fisiologico l’ordinamento gli mette a disposizione».
(7) Vedasi, in questo senso, la lucida analisi di R. Lupi, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, IPSOA,
2001 e, da ultimo, le condivisibili considerazioni di D. Stevanato,
«Trasformazione in s.r.l. agricola ed elusione tributaria: è davvero
aggirato lo spirito della legge?», in Corr. Trib. n. 21/2008, pag.
1719.
(8) Cfr. P. Russo, «Brevi note in tema di disposizioni antielusive», in Rass. trib., 1999, pag. 72; F. Tesauro, Compendio di diritto
tributario, Torino, 2002, le cui definizioni del fenomeno elusivo
pongono l’accento sull’anomalia delle scelte negoziali rispetto a
quelle a disposizione per ottenere i medesimi effetti economici, lasciando in secondo piano la coerenza di tali scelte con quelle del
legislatore.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
35
Accertamento
questo solo fatto) sottoposta a giudizio di elusività.
Ad esempio, il regime di neutralità della fusione è
sindacabile per il solo fatto che l’operazione conduce ad una estinzione di una delle società che vi
partecipa in alternativa alla liquidazione della società medesima, che produrrebbe, invece, effetti
impositivi (9). Analogamente una scissione che
serva a distinguere un ramo industriale da un ramo immobiliare per cedere le partecipazioni del
primo ad acquirenti interessati e conservare le partecipazioni del secondo sarebbe tacciabile di elusività perché consentirebbe di realizzare il trasferimento del ramo industriale con la disciplina della
cessione delle partecipazioni che si presenta più favorevole rispetto alla cessione diretta degli assets
dell’azienda industriale (10): come dire che se fin
dall’origine il gruppo fosse stato composto da una
società che gestiva l’azienda industriale e una società che gestiva il ramo immobiliare, la cessione
delle partecipazioni del ramo industriale poteva legittimamente essere operata, mentre invece, tale
legittimazione non ci sarebbe se la società nella
fattispecie gestisce unitariamente tanto il ramo industriale quanto quello immobiliare e per operare
la cessione del primo venga fatta la scissione. E
ancora è stata tacciata di elusività una trasformazione di una società per azioni in una società a responsabilità limitata, perché nella fattispecie il regime impositivo dell’azienda agricola gestita nella
forma di s.p.a. era diverso, e, per certi versi, più
oneroso di quello previsto per la gestione dell’azienda agricola da parte di una s.r.l. Come dire
che, una volta eletta una forma societaria a cui il
legislatore attribuisce un determinato regime impositivo, non è più possibile scegliere una diversa
forma di gestione dell’azienda (pur se del tutto legittima sotto il profilo civilistico e pur se non vietata espressamente dal legislatore fiscale), solo perché a questa seconda forma il legislatore riconduce
l’applicazione di altro regime impositivo, e tale
forma non è stata scelta fin dall’origine (11). In
questo modo si disattende tra l’altro la chiara affermazione di principio dell’Alta Corte di giustizia
europea, secondo cui in nessun modo può essere
impedito al contribuente di scegliere, fra regimi
alternativi previsti dal legislatore, quello a lui più
favorevole.
36
Dialoghi Tributari n. 1/2009
La dimostrazione dell’esistenza di valide ragioni
può eventualmente aver rilievo, caso per caso, come elemento sintomatico della bontà dell’operazione, laddove ci fossero dubbi sulla sua aderenza
alla ratio legis, ma - ripeto - non è un punto focale per far scattare o meno la disciplina antielusiva. Ci si dilunga invece su questi aspetti, come
in un gioco di ruolo sull’attività imprenditoriale,
su quali siano queste valide ragioni economiche e
come vadano individuate; si è quindi sviluppata
una letteratura tanto ampia quanto fantasiosa. In
definitiva, anche esaminando la questione sotto
questa angolatura, appare chiaro che la tesi di ancorare l’accertamento dell’elusione - o dell’abuso
del diritto, che dir si voglia - all’esistenza di valide ragioni extrafiscali porta non solo a sconfessare il principio di legalità e di certezza del diritto
che connota intimamente il nostro ordinamento
giuridico e segnatamente il sistema tributario. La
reazione all’elusione non può trasformarsi in una
disapplicazione ad nutum delle regole impositive
scritte, sulla base di giudizi soggettivi affidati all’Amministrazione finanziaria o all’organo giudicante; ciò può compromettere il principio della
certezza del diritto e di democraticità dell’imposizione, per almeno due ordini di considerazioni:
innanzitutto, perché il nostro ordinamento fiscale
è costellato di regimi alternativi in ragione delle
diverse tipologie formali-giuridiche delle operazioni, sicché questa distinzione di trattamenti fiscali risponde ad una precisa scelta del legislatore
che verrebbe sistematicamente disattesa sulla base
di un ordine di considerazioni - il giudizio appunto sulle valide ragioni economiche - affidato
(9) Si veda, in questo senso, il parere del Comitato consultivo
per l’applicazione delle norme antielusive 21 settembre 2005, n.
27.
(10) Il Comitato si è espresso per l’elusività delle scissioni proporzionali del ramo immobiliare nei pareri 25 luglio 2006, n. 24
e 4 ottobre 2006, n. 27 e n. 28, pur avendone avallato la validità
in altre occasioni (cfr. parere 21 settembre 2005, n. 19 e 14 ottobre 2005, n. 40).
(11) Il riferimento è alla risoluzione dell’Agenzia delle entrate
28 aprile 2008, n. 177/E (in Corr. Trib. n. 21/2008, pag. 1719,
cfr. D. Stevanato), che ha ritenuto elusiva la trasformazione di
una s.p.a in s.r.l diretta ad accedere all’opzione per il regime di
tassazione catastale previsto dall’art. 1, comma 1093, della legge
Finanziaria 2007.
Accertamento
ex post al verificatore o all’organo giudicante, ciò
risolvendosi in una sorta di petizione di principio
e di superamento dell’affidamento sulle indicazioni della norma. Meglio sarebbe, dunque, ricondurre la individuazione dell’elusione o dell’abuso
del diritto alla distinzione fra le scelte che il con-
tribuente può lecitamente compiere perché rispondenti ad opzioni espressamente messe a disposizione dal legislatore e quelle che, invece,
non può compiere perché violano la ratio legis
dell’istituto e degli istituti di cui si invoca l’applicazione.
n Elusione fiscale e carenze teoriche
Raffaello Lupi
Anche l’elusione, come tanti aspetti della nostra
materia, conferma l’importanza di chiavi di lettura unificanti del diritto tributario, come materia
giuridica diretta a determinare manifestazioni di
capacità economica individuale (12). Una volta
individuata la funzione del diritto tributario, è facile capire le scelte legislative che, nella determinazione di capacità economica, contemperano
precisione, semplicità, cautela fiscale, controllabilità, effettività, ed altri aspetti ancora «neutri» rispetto al gettito (13). Se questa funzione della legislazione tributaria viene trascurata, si perde di
vista uno spirito della legislazione fiscale, in nome
del quale contrastare le scappatoie con cui i contribuenti cercano di profittare delle rigidità e delle
imperfezioni delle disposizioni normative. Solo se
si comprende la vocazione della normativa fiscale
è possibile stabilire di volta in volta se essa sia stata aggirata o meno, applicando la categoria abituale della «frode alla legge», conosciuta in tutti i
settori del diritto dai tempi del digesto. Contra legem facit qui id facit quod lex prohibet; in fraudem
vero qui, salvis verbis, legis sententiam eius circumvenit. Oltre mille anni fa troviamo già l’»aggiramento» di cui all’art. 37-bis, riferibile anche al diritto tributario, cosı̀ come a tutti gli altri settori
del diritto. In questo stesso numero di Dialoghi
l’amico Fransoni (14) esprime qualche timore che
l’oggetto economico del diritto tributario possa
estraniare il diritto tributario dalla comunità dei
giuristi, relegandolo forse in un limbo dove imperversano le professioni economiche. A me sembra vero il contrario, in quanto ogni diritto ha un
oggetto, da quello di famiglia a quello del lavoro,
e chi non ha chiare le idee su quale sia il proprio
oggetto è destinato a non essere accettato dalla
comunità dei giuristi. Semplicemente perché non
sa quale sia la sua funzione nella società, e non
c’è vento favorevole per le vele del marinaio che
non sa dove andare. Tutti i vari settori del diritto,
ciascuno con il proprio oggetto, si confronteranno
con le tematiche generali, come il ruolo del legislatore, quello del giudice, il giudizio di fatto, le
prove e, per farla breve, la frode alla legge, che è
un concetto tipicamente trasversale. A questo
punto, una volta individuati i sottosistemi di riferimento, è facilissimo capire se un aggiramento
esiste o meno; ad esempio, per le sentenze 23 dicembre 2008, n. 30055 e n. 30057 delle Sezioni
Unite della Corte di cassazione (15), era evidente
che il dividend washing manipolava strumenti diretti ad evitare la doppia tassazione «società-soci»,
distorcendoli al fine di evitare qualsiasi tassazione.
La determinazione della capacità economica consente di comprendere lo spirito della legge fiscale,
senza avventurarsi direttamente nei labirinti delle
ragioni economiche. Queste ultime, rispetto ai
delicati equilibri del coordinamento tra soggetti
diversi e periodi di imposta diversi (16), fanno
(12) Cfr. G. Fransoni e R. Lupi, «La determinazione dei tributi
tra diritto e capacità economica individuale», in questo stesso numero di Dialoghi.
(13) Salvo ovviamente intervenire surrettiziamente sugli aspetti
controversi della determinazione della capacità economica in funzione di gettito, ma sono casi di confine, anche se frequenti,
(14) Cfr. nota 12.
(15) Cfr. R. Lupi e D. Stevanato, «Tecniche interpretative e
pretesa immanenza di una norma generale antielusiva», in Corr.
Trib. n. 6/2009, pag. 403.
(16) Su queste difficili «simmetrie» della tassazione analitico
aziendale R. Lupi, Societa`, diritto e tributi, Milano, 2005, pag.
235 ss.; Id., Evasione fiscale, paradiso e inferno. Teoria della tassazione analitico aziendale e delle sue disfunzioni in Italia, IPSOA,
2008, par.2.12
Dialoghi Tributari n. 1/2009
37
Accertamento
l’effetto di un elefante in una cristalleria; dirigenti
d’azienda, consulenti, ispettori, funzionari e giudici sembrano giocare al «piccolo imprenditore»,
con illazioni di economicità, antieconomicità,
senza guardare al sistema fiscale. La multiforme
realtà aziendale, e i delicatissimi meccanismi di
tassazione, sono esaminati in modo improvvisato
e superficiale, in modo da poter dire tutto e il
contrario di tutto; tanto più che qualsiasi comportamento, se brevemente riassunto a singhiozzo
e in modo insinuante, può apparire «strano», e
quindi elusivo, oppure economicamente fondato,
anche se le modalità di realizzazione sono ispirate
solo da un vantaggio fiscale; ne derivano pregiudizi intollerabili per la certezza del diritto, che
non vuol dire formalismo, ma interlocutori affidabili, in grado di capire la complessità delle situazioni che vengono loro sottoposte. Comunque,
come vediamo su Dialoghi da qualche tempo, e
abbiamo visto commentando le sentenze n.
30055 e n. 30057 (17), la Suprema Corte ha
mostrato equilibrio nelle decisioni sostanziali; per
quanto riguarda le motivazioni, non spetta ai giudici, ma agli studiosi creare categorie di ragionamento. Mi chiedo quali referenti potessero trovare i giudici per rendersi conto che le valide ragioni economiche valgono come «esimente», una
volta individuata l’elusione, ma non come criterio
per individuarla. Mi chiedo cosa potessero trovare
i giudici in quel grande equivoco che è considerare l’elusione come «comportamenti civilistici inutilmente tortuosi o contrari allo schema tipico»;
questi ultimi, infatti, sono tutt’al più invece un
elemento rafforzativo di un «aggiramento dello
spirito della legislazione fiscale», che deve essere
dimostrato in modo tutt’affatto diverso. Altrimenti, se non si capisce la violazione dello spirito della legge, si finiscono per intentare veri e propri
«processi per fatti strani», che magari hanno spiegazioni tutt’affatto diverse, magari sono accaduti
per errore o per caso, e comunque non ledono lo
spirito della normativa fiscale.
La violazione dello spirito del sistema si desume in genere dall’intreccio dei regimi fiscali diversi, con molteplici collegamenti in una tassazione
analitico aziendale, in quanto soggetti rientranti
in un certo regime possono essere fornitori o
38
Dialoghi Tributari n. 1/2009
clienti di soggetti rientranti in regimi diversi. Ne
deriva, ad esempio, la trasmissione all’acquirente,
in regime fiscale più oneroso, di costi deducibili,
a fronte di ricavi che l’alienante ha tassato in regime fiscale più blando. In termini concettuali si
tratta di un arbitraggio, ed occorre capire se esso
sia previsto e voluto, in relazione ai vari sistemi
di determinazione della capacità economica, ovvero sia implicitamente disapprovato. Alcune volte
meccanismi normativi tendenti allo strutturale
coordinamento tra fasi diverse di una capacità
economica unitaria, come il coordinamento impositivo tra società e soci, vengono riletti in chiave elusiva; come se fosse elusivo, nel vecchio sistema del credito di imposta, distribuire i dividendi
e poi svalutare la partecipazione nella società erogante; erano frammenti di meccanismi unitari
strutturali, per cosı̀ dire «di sistema», capziosamente scomposti per presentarli in chiave di elusività. Lo stesso accade per la scelta di operare all’estero con stabili organizzazioni, criterio molto
utilizzato da quando le perdite di società estere,
con l’entrata in vigore della participation exemption sono divenute più macchinose da utilizzare.
Ci sono, nel sistema, regimi fiscali che hanno le
loro luci e le loro ombre, i loro vantaggi e i loro
inconvenienti, che idealmente si compensano e si
armonizzano. Ed è altrettanto fisiologico che i
contribuenti scelgano, tra regimi con vantaggi e
inconvenienti che in astratto si compensano,
quello in concreto più conveniente. Invece di
mettere le cose su questo piano, in molti casi i
contribuenti sono stati mal difesi cercando valide
ragioni economiche esteriori, quando esse non
c’erano, invece di puntare sulla legittimità sostanziale, oltre che formale, del loro operato. In questo modo proliferano rilievi la cui motivazione, in
soldoni, si basa sul possibile maggior onere fiscale, che il contribuente avrebbe sostenuto ove si
fosse comportato in modo diverso. Intanto si assiste sempre più spesso a contestazioni basate su
espressioni di mero stile; meri riferimenti legislativi, dottrinali e giurisprudenziali, asetticamente riportati e fusi con circostanze di fatto pacifiche, in
un insieme solo esteriormente provvisto di un
(17) Cfr. nota 14.
Accertamento
senso compiuto, e caratterizzato dalla mancata individuazione di un «vantaggio indebito», di un
aggiramento, di un espediente interpretativo grazie al quale il contribuente si sarebbe preso gioco
del sistema normativo. È proprio questo che
manca nei prolissi resoconti di fatti pacifici, insinuazioni, allusioni, ammiccamenti di imprecisata
stranezza economica nei comportamenti del contribuente. Si tratta di esposizioni, spesso scolastiche e didascaliche, di legislazione, riferimenti e al-
tri materiali, magari dottissimi. In mancanza però
di una indicazione sulla frode alla legge, l’aggiramento, la contraddizione rispetto ai principi del
sistema, restano esercitazioni astratte, infarcite di
riferimenti sterili, come tesi di laurea o tesine da
master universitario. È paradossale che l’enfasi
esteriore sulla legislazione, degradata a una specie
di moderno feticcio, abbia oscurato, invece di
chiarirlo, lo spirito della legge e la valenza sistematica delle sue singole disposizioni.
n L’elusione «maionese impazzita» di una fiscalità analitica vicina all’implosione
Dario Stevanato
Colpisce, a quasi vent’anni dall’introduzione di
una norma antielusiva semi-generale nel nostro
ordinamento, il disorientamento - e lo sgomento
degli operatori - che cresce attorno alla stessa. Si
tratta di un aspetto di un più generale atteggiamento di quasi «rigetto», da parte delle istituzioni
chiamate ad applicare il tributo (le Agenzie fiscali)
e a valutare «torti e ragioni» del contribuente a
seguito di una contestazione dell’Amministrazione
(i giudici tributari), per una fiscalità specialistica
oramai fuori controllo, frammentata in innumerevoli micro-sistemi, in cui mancano o comunque
non si vedono i principi e le regole di fondo (anche perché chi avrebbe il compito di evidenziarli
latita). In questa nebbia concettuale, per funzionari e giudici i costi deducibili diventano «agevolazioni» o «benefici» da guardare con sospetto, i
regimi di eliminazione della doppia tassazione sugli utili societari delle zone franche di «esenzione
fiscale», il pagamento di imposte sostitutive volontarie il segno della volontà di eludere le imposte future.
Si assiste a vicende paradossali e kafkiane, in
cui arrivano al vaglio della Cassazione controversie di cui sfugge il significato, dove nemmeno si
capisce quale fosse la contestazione degli Uffici fiscali, tra ammiccamenti a «indebiti vantaggi» di
cui avrebbe fruito il contribuente, vaghi riferimenti a «comportamenti antieconomici», contestazioni sull’inerenza di costi pacificamente d’impresa, totale disattenzione per le simmetrie del sistema nei rapporti interprivati, dove ad un costo
deducibile di un soggetto corrisponde, a parità di
condizioni, un ricavo deducibile per un diverso
soggetto.
Si pensi alla sentenza 21 gennaio 2009, n.
1465 (18) della Corte di cassazione. In tale occasione, impropriamente presentata dalla stampa
specializzata come una retromarcia in tema di elusione, la Cassazione era chiamata a giudicare dell’inerenza dei costi per ammortamenti sostenuti
da una corporate joint venture che, acquistati i
macchinari relativi ad una linea produttiva, li dava in comodato gratuito ad uno dei partners, che
ovviamente disponeva dell’organizzazione necessaria alla produzione e alla vendita del prodotto agli
stessi partners. Sul punto avremo modo di tornare
commentando la sentenza, ma fin d’ora non si
capisce assolutamente, nella ricostruzione della vicenda, in cosa consistesse il «vantaggio fiscale»
contestato: è chiaro infatti che la corporate joint
venture, se non avesse acquistato i macchinari e
sostenuto i relativi costi di ammortamento, avrebbe pagato un prezzo maggiore per l’acquisto dei
prodotti, e quindi si sarebbe trovata complessivamente con la stessa quantità di costi. Quanto all’impresa socia, cui era stata sub licenziata la produzione, a fronte dei maggiori ricavi vi sarebbero
stati maggiori costi per ammortamenti. Si tratta
comunque di un «gioco a somma zero», dove l’ipotesi che certi comportamenti (l’acquisto dei
macchinari, poi dati in comodato gratuito, da
parte della corporate joint venture) siano stati posti
(18) In Banca Dati BIG, IPSOA.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
39
Accertamento
in essere per misteriose ragioni di «aggiramento
delle norme tributarie» e per il conseguimento di
chissà quali benefici fiscali, è totalmente priva di
dimostrazione, prima di tutto perché il vantaggio
fiscale è meramente putativo (tanto che la stessa
Cassazione se ne è accorta).
Si tratta di tesi che ripugnano a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le logiche
analitico-contabili, e la cui probabilità di farla
franca in sede contenziosa è tuttavia piuttosto
elevata, vista la sommarietà del giudizio tributario
e l’estrazione dei giudici che, non per loro colpa,
sono spesso sforniti della necessaria preparazione
aziendale e contabile (prima ancora che tributaria
d’impresa). È chiaro che, generalizzando la tesi
dell’Amministrazione sull’indeducibilità degli ammortamenti, a qualsiasi società che decida di acquistare dei macchinari per darli in comodato
gratuito al fornitore (si pensi al caso classico degli
«stampi», che di solito vengono realizzati e poi
dati in comodato al soggetto che dovrà porre in
essere la produzione dei prodotti), deducendo
quote di ammortamento, potrebbe essere imputato di aver avuto dei «benefici fiscali» - considerando tali le quote di ammortamento dedotte che non vi sarebbero stati laddove i macchinari
fossero stati acquistati dal fornitore. Dimenticando cosı̀ come ciò si rifletterebbe sui costi di produzione del fornitore e sul conseguente ribaltamento degli stessi al cliente. L’aggravante, in
queste vicende, è che si tratta di rapporti tra imprese residenti, dove nemmeno si vede - ammesso che vi sia - a che cosa servirebbe l’ipotizzato
(ma indimostrato) spostamento di imponibili da
un soggetto all’altro.
Ad essere penalizzate in tutto questo sono le
grandi imprese burocratizzate, almeno quelle prive
di contropartite nell’ombra rispetto a ciò che è
sempre di più un vero «inferno del dichiarato»
(secondo la - purtroppo - azzeccata espressione di
Lupi). Le verifiche fiscali alle grandi imprese sono
oramai diventate un esercizio sofistico di interpretazioni delle norme a senso unico, una galleria di
affermazioni cavillose e paradossi, secondo gli interessi dell’Amministrazione finanziaria ad effettuare comunque dei rilievi interpretativi di carattere giuridico-formale, a contestare la competenza
40
Dialoghi Tributari n. 1/2009
di costi e ricavi, a negare l’inerenza di costi pacificamente d’impresa, a sindacare in genere qualsiasi
comportamento con la formula immaginifica e
suggestiva dell’antieconomicità. Si tratta di contestazioni che, paradossalmente, tanto più sono
confuse e meramente allusive, tanto più diventano insidiose e difficili da confutare. Perché farlo
significa demistificare i tanti aspetti simil-giuridici
e simil-tributari che vengono disseminati in modo
ammiccante nei pvc e negli avvisi di accertamento; e significa rendere comprensibili, a giudici tributari anch’essi disorientati, gli aspetti analiticoaziendali della moderna fiscalità d’impresa, estranei alla formazione - da giuristi-generalisti - della
maggior parte di essi. In questo marasma, può
succedere di tutto, come i recenti episodi (commentati anche su Dialoghi) in materia di indeducibilità di interessi passivi a fronte della distribuzione di riserve ai soci, di disconoscimento di
quote di ammortamento su beni strumentali dati
in comodato, di affermazioni di elusività a fronte
di comportamenti del tutto legittimi (si pensi agli
arbitraggi, contemplati dallo stesso legislatore, in
cui è del tutto misterioso ed avvolto da una nebulosa indistinta, prima ancora che l’aggiramento,
quale «vantaggio fiscale» venga contestato). Senza
contare dell’impatto che questo modo di concepire le verifiche e gli accertamenti avrà sulla fiscalità
dei bilanci IAS.
Forse dietro a tutto questo c’è una «vendetta»
dell’economia sul diritto, ed un segno del fallimento del «metodo giuridico» nel diritto tributario, che smarrendo il proprio oggetto ha smarrito
se stesso (per ricollegarmi all’articolo di Fransoni
e Lupi su questo numero). Come rilevava Lupi
sul Corriere, a proposito di antieconomicità, senza
una sistemazione concettuale dell’oggetto economico del diritto tributario, tornano fuori categorie
economiche naive, ispirate al «buon senso» dell’uomo della strada, estranee allo spirito dei complessi meccanismi di fiscalità specialistica; un
«economicismo» abborracciato e da autobus, serve
a giustificare a posteriori il sospetto che il contribuente abbia fatto il furbo. Sempre più spesso,
però, non si tratta affatto di contribuenti che
hanno «fatto i furbi», ai quali, qualunque cosa decidano di fare, verrà detto che avrebbero dovuto
Accertamento
fare diversamente, magari seguendo un percorso
asseritamente più lineare (pagando di più un fornitore anziché sostenere in proprio costi per ammortamenti, deliberare una liquidazione anziché
una fusione, una cessione di azienda anziché un
conferimento con cessione delle quote, ecc.). In
questo quadro, ad aumentare la confusione concorrono anche le distorte concezioni sull’elusione
tributaria, secondo cui la stessa consisterebbe in
un abuso delle forme giuridiche (come già notato
criticamente da Ivan Vacca e Lupi). Proprio questa visione dell’elusione tributaria, propugnata da
una consistente parte della dottrina tributaristica,
è il segno della mancata sedimentazione, tra gli
stessi cultori della materia, dei principi di fondo
dei singoli sottosistemi impositivi, delle loro delicate simmetrie, dei divieti di doppie deduzioni,
dell’importanza del principio di continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, delle logiche del riporto delle perdite, dei motivi strutturali sottostanti ai regimi di apparente «esenzione», e via dicendo. Putroppo, anziché acquisire consapevolezza di questi ed altri principi, che il contribuente è
sı̀ - stavolta - tenuto a non aggirare, si è preferito
spiegare pigramente l’elusione con il più comprensibile e tradizionale (ma del tutto non pertinente) «abuso delle forme giuridiche», il quale a
sua volta allude, in un processo circolare, ad un
comportamento economico «normale» e non deviante rispetto alla media. Si è cosı̀ attribuita
un’arma impropria agli Uffici finanziari, con il risultato di ritenere elusivo non già quel vantaggio
ottenuto strumentalizzando le regole e i principi
fiscali, bensı̀ qualsivoglia posizione di vantaggio anche del tutto in linea con il sistema fiscale - solo perché ottenuta seguendo percorsi negoziali ritenuti «anomali» sulla base di un giudizio sommario e di una tesi precostituita. Ogni situazione
fiscale grossolanamente qualificabile come «di
vantaggio» (la deduzione di un costo, il pagamento di un’imposta sostitutiva, il riporto di una perdita, ecc.) può in questo quadro diventare elusiva,
quando seguendo una strada più gradita agli interessi dell’Amministrazione non sarebbe venuta in
essere o quando la stessa si sarebbe manifestata in
altre forme (si pensi di nuovo ai costi per ammortamenti, che, seguendo un diverso assetto orga-
nizzativo-negoziale, sarebbero stati sostituiti da
maggiori costi di acquisto dei prodotti dal fornitore, lasciando invariato il reddito complessivamente imponibile).
Dialoghi Tributari n. 1/2009
41
Accertamento
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
I principi generali
del diritto amministrativo «salvano»
l’accesso agli atti tributari
di Massimo Basilavecchia, Marco Di Siena, Raffaello Lupi
Come preannunciato sul precedente numero 6/2008 di «Dialoghi», il Consiglio di Stato fornisce
una interpretazione costituzionalmente orientata dell’esclusione dei procedimenti tributari da
quelli per cui opera l’accesso agli atti, prevista dall’art. 24 della legge n. 241/1990. Il Consiglio di
Stato fornisce una interpretazione correttiva della esclusione suddetta, introdotta nel 2005, configurandola come la «legificazione» del precedente orientamento della giurisprudenza amministrativa, tendente a differire l’accesso a dopo l’ultimazione dell’istruttoria tributaria. Non viene neppure perseguita la valorizzazione di altre disposizioni tributarie (ad esempio lo Statuto del contribuente) cui l’art. 24 della legge n. 241/1990 potrebbe fare riferimento. La sentenza (già recepita
da TAR Lazio 31 ottobre 2008, n. 9516) fa leva piuttosto, sul piano esegetico, sulla clausola di
salvaguardia di cui all’art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990.
n Il Consiglio di Stato recupera l’accesso agli atti del procedimento tributario
Massimo Basilavecchia
Commentando la sentenza del TAR Lombardia
(Milano) (1) avevamo rilevato come, dopo alcune
caute aperture sull’accesso agli atti del procedimento tributario, il Collegio milanese avesse poi
fatto seguire una lettura estremamente rigida dell’esclusione posta dall’art. 24 della legge n. 241/
1990, in base alla quale il diritto di accesso non
si applica ai procedimenti tributari.
L’esito negativo per il ricorrente dell’istanza di
accesso e poi del giudizio di primo grado è stato
invece ribaltato con la sentenza del Consiglio di
Stato n. 5144 del 2008 (2) che appare condivisibile e persuasiva. Senza smentire le aperture che
comparivano nella sentenza di primo grado aperture che sostanzialmente consentono di ricollegare alla tutela degli interessi giuridici soggettivi
anche le istanze di accesso aventi ad oggetto momenti istruttori e finalizzate a verificare l’esercizio
dell’autotutela da parte della Pubblica amministrazione - il giudice amministrativo di appello ha
saputo adottare una chiave di lettura aperta, guidata dall’intento di leggere la causa di esclusione
in senso costituzionalmente orientato, in modo
42
Dialoghi Tributari n. 1/2009
cioè da consentire che, sia pure con cautele, il diritto di accesso non risulti assolutamente precluso
in materia tributaria.
L’approdo, auspicabile, è che l’esclusione non è
tale in senso assoluto, ma persegue una finalità
parziale, di momentanea prevalenza della riservatezza dell’azione della P.A., fino al momento in
cui l’accesso non risulta ulteriormente differibile.
E dunque l’inapplicabilità dell’accesso in materia
tributaria vuol dire che non è possibile far valere
il diritto in momenti in cui l’attività amministrativa sia ancora in corso - perché questo diventi possibile, dovrà essere introdotta una previsione apposita nella normativa procedimentale tributaria. Ma
Massimo Basilavecchia - Professore ordinario di Diritto tributario
presso l’Università di Teramo
(1) TAR Lombardia, Sez. IV, 2 aprile 2008, n. 795, in Corr.
Trib. n. 38/2008, pag. 3093, con commento di M. Basilavecchia,
«Impossibile l’accesso agli atti tributari», mentre in Dialoghi Tributari n. 6/2008 vedi le osservazioni di S. Carmini - E. Antivalle, A.
Vignoli - R. Lupi alla stessa sentenza.
(2) Per il testo della sentenza cfr. pag. 48.
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
resta fermo, e ciò spiega il carattere provvisorio
della paralisi del diritto, che a procedimento concluso, e nella concomitante ricorrenza di condizioni che rendono possibile la tutela di posizioni soggettive, l’accesso non può essere negato neanche
in materia tributaria, lo preveda o non lo preveda
espressamente la normativa di settore.
La strumentalità dell’accesso alla tutela dei diritti va pertanto riconosciuta anche in materia tributaria, e comporta la prevalenza della funzione
conoscitiva del cittadino, su ogni altra esigenza
pubblica: il diritto di accesso di applica cosı̀ anche
nei casi di esclusione, a condizione che esso sia
funzionale alla tutela di posizioni soggettive. Sotto
questo profilo la sentenza correttamente valorizza
il comma 7 dell’art. 24, secondo cui deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.
Mentre questo rapporto di strumentalità va inteso, secondo le concordi indicazioni provenienti
da entrambe le decisioni (sia quella del TAR, sia
Accertamento
quella del Consiglio di Stato), in senso ampio, e
quindi rinvenuto tutte le volte in cui l’interesse
alla conoscenza degli atti sia necessario alle valutazioni strategiche del destinatario dell’azione amministrativa, l’esigenza pubblica alla riservatezza
degli atti diviene di conseguenza un fattore di
possibile ritardo all’esercizio del diritto, piuttosto
che un elemento assolutamente preclusivo; la
conclusione del procedimento - con la conseguente, normale adozione dell’atto finale come tale destinato ad essere conoscibile - segna il momento
in cui le porte della casa dell’Amministrazione (di
ogni Amministrazione) devono essere aperte.
Oltre che costituzionalmente orientata, la felice
interpretazione del Consiglio di Stato sembra in
qualche modo coordinarsi anche all’orientamento
espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
nella sentenza «Ravon» (3) e nelle successive conformi; i problemi affrontati sono diversi nelle rispettive sedi, ma la logica che ispira il contemperamento di interessi tra azione pubblica, trasparenza e possibilità effettiva di tutela appare la stessa in entrambi i casi.
n L’accesso agli atti del procedimento tributario: da «droit octroyé»
a diritto fondamentale desumibile dall’assetto costituzionale
Marco Di Siena
Le carenze concettuali
della sentenza di primo grado
La sentenza in esame traccia, a giudizio di chi
scrive, una visione dell’accesso agli atti tributari
assai equilibrata in termini sostanziali e del tutto
coerente sotto il profilo sistematico. Nel proprio
approccio interpretativo (apparentemente) cartesiano, infatti, la pronunzia del TAR Lombardia
riformata dal Consiglio di Stato risultava carente
proprio di queste due qualità essenziali: l’equilibrio e la coerenza. Non era equilibrata nel proprio iter argomentativo (4) perché - pur dedicando in maniera palesemente adesiva molto spazio
alle tesi della parte ricorrente - concludeva draconianamente nel senso dell’impossibilità di legittimare il diritto di accesso agli atti del procedimento tributario, rinviando al cinico e baro legislatore
della legge 11 febbraio 2005, n. 15 il quale, modificando l’art. 24 della legge n. 241/1990, avreb-
be di fatto escluso ogni possibilità in tal senso (5). La sentenza di primo grado, tuttavia, non
era altresı̀ coerente in termini sistematici in quanto analizzava in vitro lo specifico istituto senza
correlarlo in alcun modo con il contesto giuridico
di riferimento; ne derivava una visione del tutto
Marco Di Siena - Avvocato in Roma
(3) Corte europea dei diritti dell’Uomo, Sent. 21 febbraio
2008, n. 18947/03, in GT - Riv. giur. trib. n. 9/2008, pag. 743,
con commento di A. Marcheselli, «Accessi, verifiche fiscali e giusto
processo: una importante sentenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo».
(4) Come, peraltro, sin da subito rilevato da M. Basilavecchia,
«Impossibile l’accesso agli atti tributari», in Corr. Trib. n. 38/
2008, pag. 3093 ss.
(5) È proprio quell’atteggiamento icasticamente rappresentato
con la formula Roma locuta - causa soluta cui fa riferimento R. Lupi, «Irresistibili tentazioni giurisprudenziali e carenze concettuali»,
in Dialoghi Tributari n. 6/2008, pag. 66.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
43
Accertamento
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
defunzionalizzata dell’accesso che nell’interpretazione proposta finiva per apparire più una graziosa concessione legislativa di stampo illuministico
(in qualche modo subordinata alla espressa volontà del legislatore) che un naturale strumento di
tutela dei diritti della parte privata nel contesto di
ogni procedimento amministrativo (ivi incluso
quello tributario) (6).
La pronunzia del Consiglio di Stato:
fra corretto inquadramento costituzionale
del diritto di accesso ed apparente disinteresse
per il microsistema legislativo tributario
Come già osservato nelle precedenti osservazioni
del Prof. Massimo Basilavecchia, la sentenza del
Consiglio di Stato interviene in maniera condivisibile e persuasiva sul ragionamento ermeneutico
asimmetrico del giudice di primo grado, ribaltando gli esiti della vicenda processuale ed ammettendo l’accesso ai documenti endoprocedimentali (nel
caso di specie il parere reso dalla competente Direzione regionale delle entrate in relazione ad un
procedimento di autotutela attivato da parte del
contribuente) una volta che il procedimento di riferimento si sia concluso (7). Si tratta di una soluzione saggia, che recupera l’impostazione propria
della giurisprudenza amministrativa anteriore alle
modifiche apportate dalla legge n. 15/2005 ed a
cui si deve l’elaborazione ermeneutica secondo cui
- una volta terminato il procedimento di riferimento (il che, nel caso di specie, era avvenuto
con l’emanazione del provvedimento impositivo) il diritto di accesso non può essere ulteriormente
differito di talché la parte pubblica deve rendere
disponibili tutti gli atti di riferimento (anche quelli di natura endoprocedimentale) a chi, avendone
interesse, ne faccia richiesta. D’altronde - ad un
esame attento - non è difficile rilevare come
un’interpretazione differente - quale quella affermata nella sentenza di primo grado - è veramente
del tutto ultronea. Se fosse stata vera l’impostazione argomentativa adottata dai giudici amministrativi milanesi, infatti, si sarebbe addivenuti alla paradossale conclusione in forza della quale gli atti
del procedimento tributario risulterebbero caratterizzati da una forma di secretazione sine die non
potendo mai formare oggetto di accesso (e, quin-
44
Dialoghi Tributari n. 1/2009
di, di conoscenza) da parte del contribuente interessato. È evidente, tuttavia, che una tale conseguenza è inammissibile in termini di buon senso
prima ancora che in un’ottica giuridica. Una riflessione banale lo dimostra in maniera incontrovertibile. Nell’ambito del procedimento penale il
Pubblico ministero ha il potere di svolgere la propria attività istruttoria imponendo ai relativi atti
un vincolo di segretezza in modo da non pregiudicare l’esito delle indagini (8). Una volta, tuttavia, che la fase delle indagini preliminari si sia
conclusa con l’esercizio dell’azione penale, siffatto
vincolo di segretezza viene meno ed il Pubblico
ministero deve rendere disponibili tutti i documenti investigativi di cui le parti private possono
cosı̀ prendere visione completa. In altri termini,
nel procedimento penale (che, intuitivamente, è il
procedimento contraddistinto da maggiori esigenze di riservatezza) il potere di accesso della parte
privata non è rimosso del tutto ma semplicemente
(6) E ciò pur con tutti gli atecnicismi con cui la nozione di
procedimento deve essere apprezzata in ambito tributario. Al riguardo - da ultimo - si rinvia alle considerazioni di L. Perrone, «Il
procedimento tributario e i relativi profili di discrezionalità», in atti del convegno (allo stato inediti) Lo sviluppo del diritto tributario
e il pensiero di Gian Antonio Micheli a venticinque anni dalla scomparsa, tenutosi presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università
La Sapienza in data 26 settembre 2008.
(7) In realtà, questo genere di interpretazione è tutt’altro che
nuova in ambito tributario trattandosi della linea interpretativa
che - in più occasioni - la giurisprudenza amministrativa aveva validato a fronte di casi disciplinati dalla legge n. 241/1990 nella
formulazione anteriore alle modifiche di cui alla legge n. 15/2005
(e pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 aprile 1998, n. 426).
Tale provvedimento, invece - nel modificare il testo dell’art. 24
della legge n. 241/1990 - aveva escluso il diritto di accesso nei
procedimenti tributari rinviando (con formula circolare) alla disciplina di settore la quale, tuttavia, non regola organicamente lo specifico istituto. Per un’analisi delle modifiche apportate dalla legge
n. 15/2005 all’istituto dell’accesso in materia tributaria cfr. L. Ferlazzo Natoli - F. Martines, «La L. n. 15/2005 nega l’accesso agli
atti del procedimento tributario. In claris non fit interpretatio?»,
in Rass. trib. n. 5/2005, pag. 1490 ss.; sulla medesima tematica si
rinvia anche al contributo di L. Salvini, «Accesso agli atti del procedimento tributario», in Dizionario di diritto pubblico (diretto da
S. Cassese), I, Milano, 2006, pag. 66 ss.; l’Autrice, infatti, evidenzia il carattere dubbio della formulazione introdotta dalla legge n.
15/2005 rilevando come la medesima - lungi dal rappresentare
una ricognizione dello stato della giurisprudenza formatasi in subiecta materia - potrebbe essere intesa come un radicale limite oggettivo al diritto di accesso del privato.
(8) Cfr. art. 329 c.p.p.
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
differito al momento in cui la fase delle indagini
preliminari (che costituisce un vero e proprio subprocedimento) si conclude. Se cosı̀ è, non è difficile comprendere come un’adesione da parte del
Consiglio di Stato alle tesi espresse dalla sentenza
del TAR Lombardia avrebbe avallato una conclusione del tutto irrazionale, per cui il procedimento
tributario sarebbe stato contraddistinto da un livello di segretezza incomparabilmente superiore a
quello del procedimento penale; e, infatti, laddove
in quest’ultimo il diritto di accesso è senz’altro
esercitabile seppure in maniera differita (9), nel
procedimento tributario il medesimo diritto non
avrebbe mai potuto essere esercitato con la conseguenza che l’istruttoria tributaria avrebbe finito
per risultare più segreta di quella penale. Un evidente non senso che il Consiglio di Stato si è dato
cura di correggere osservando (e non avrebbe potuto essere altrimenti) come, opinando in maniera
differente (ossia secondo l’impostazione ermeneutica desumibile dalla sentenza di primo grado), in
uno Stato di diritto (in palese antitesi alla sempre
più propagandata accezione partecipativa dell’attività di accertamento fiscale) un contribuente non
solo avrebbe potuto essere accertato senza formale
conoscenza dell’avvio di un’investigazione fiscale
nei propri confronti, ma addirittura, una volta ricevuta la notifica dell’avviso di accertamento, non
avrebbe mai potuto acquisire (se non nei limiti
della motivazione del provvedimento) cognizione
del «(...) perché della imposizione e della relativa
quantificazione».
«Silete fiscalisti in munere alieno» ...
ossia in ambito amministrativo
La pronunzia del Consiglio di Stato, tuttavia, si
caratterizza anche per un ulteriore profilo d’interesse. In sede di commento alla sentenza del TAR
Lombardia, infatti, la dottrina tributaria non aveva mancato di rilevare i plurimi profili in forza
dei quali tale decisione risultava del tutto inconferente rispetto alla disciplina tributaria di riferimento (10). Da una possibile incompatibilità con
il principio di piena conoscenza degli atti tributari
di cui all’art. 6 della legge 27 luglio 2000, n.
212, alla lesione dei criteri di collaborazione e
buona fede nella gestione del rapporto impositivo
Accertamento
stabiliti dall’art. 10 del medesimo provvedimento
impositivo, sino ad una (per taluni versi fin troppo) evidente violazione dell’art. 7 della citata legge n. 212/2000 laddove tale disposizione impone
all’Amministrazione finanziaria di allegare ai propri provvedimenti che rinviino per relationem ad
un atto ignoto al contribuente copia di siffatto atto (situazione che nella fattispecie concreta oggetto della pronunzia del TAR Lombardia non si era
in alcun modo verificata). Ai cultori del settore
tributario le incoerenze della sentenza di primo
grado rispetto alla disciplina e ai principi della
materia erano parse cosı̀ rilevanti sotto il profilo
qualitativo che - oggettivamente - l’iter argomentativo adottato dai giudici amministrativi ambrosiani finiva per apparire quasi del tutto extra ordinem. La sentenza di secondo grado - tuttavia sotto questo specifico profilo è abbastanza deludente. A dimostrazione del fatto che sovente le
considerazioni degli studiosi della materia fiscale
non riescono a transitare negli altri campi dell’ordinamento giuridico, il Consiglio di Stato - infatti
- non ha valorizzato in alcun modo i plurimi motivi d’illegittimità (di ordine specificamente fiscale) che pure caratterizzavano l’operato dell’Amministrazione finanziaria e che erano stati del tutto
pretermessi dal TAR Lombardia.
La specifica circostanza - purtroppo - pone capo
a due riflessioni (abbastanza amare). Nonostante
gli sforzi - anche di natura legislativa (11) - posti
in essere di recente, la giurisdizione amministrativa resta sostanzialmente impermeabile alla materia
tributaria. Sussiste una sorta di inespresso rifiuto
da parte giudici amministrativi (anche ove accol(9) Cfr. art. 433 c.p.p. secondo cui gli atti dell’istruttoria che
sono inclusi nel cosiddetto fascicolo del pubblico ministero di cui
all’art. 431 c.p.p. sono comunque resi disponibili ai difensori che
ne possono liberamente estrarre copia.
(10) In tal senso si rinvia alle considerazioni di M. Basilavecchia, op. loc. cit., pag. 3096 nonché all’intervento di E. Antivalle S. Carmini, «Il diritto di accesso agli atti in materia tributaria: limiti e tabù» ed a quello di A. Vignoli, «La mancata valorizzazione
alla normativa di settore: un’occasione persa» entrambi in Dialoghi
Tributari n. 6/2008, pag. 64.
(11) Si fa riferimento, con tutta evidenza, all’art. 7, comma 4,
della legge n. 212/2000 secondo cui «la natura tributaria dell’atto
non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa
quando ne ricorrano i presupposti».
Dialoghi Tributari n. 1/2009
45
Accertamento
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
gano, in concreto, le tesi di parte privata) ad affrontare la normativa tributaria (ed i conseguenti
profili d’illegittimità dell’attività provvedimentale
dell’Amministrazione finanziaria). È come se si
fosse in presenza di un difetto di comunicazione
che se, da un lato, non si riflette necessariamente
- come avveniva in passato - in radicali pronunzie
che dichiarano tout court il difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo con riguardo a controversie concernenti vicende fiscali, dall’altro, si sostanzia in una totale disattenzione alle tematiche
poste dalla legislazione tributaria; un assetto normativo che viene considerato alla stregua di un
quid esoterico nel cui ambito agirebbero - secondo
schemi concettuali sovente inintelligibili ai veri iurisperiti - i cosiddetti fiscalisti. In altri termini, traspare in maniera abbastanza evidente (anche) dalla
sentenza del Consiglio di Stato come la materia fiscale sia avvertita dal giudice amministrativo come
un corpus estraneo, che risponde a logiche del tutto autonome (se non autoreferenziali) di difficile
riconduzione ad unità o, comunque, difficilmente
collocabili a livello sistematico da parte di quanti
non siano avvezzi ai misteri del settore, una specie
di consorteria dove il diritto amministrativo si mescola con aspetti economicistico-aziendalistici e di
analisi economica dei rapporti giuridici (12).
Di qui nasce la seconda riflessione amara desumibile dalla pronunzia in commento. Se, pur
avendo ottenuto giustizia, il contribuente ricorrente non è riuscito a fare valorizzare alcuno dei molteplici profili d’illegittimità tipicamente fiscali ravvisabili nella fattispecie concreta dedotta in giudizio, ciò sta a significare - come spesso rammentato
dal Prof. Raffaello Lupi anche sulle pagine di questa Rivista, tra l’altro a proposito della vicenda in
commento sul precedente numero di Dialoghi che la materia tributaria non è ancora riuscita a
«farsi riconoscere», con idee forti e condivise, in
grado di condizionare le istituzioni, gli osservatori
della società in generale e i giudici in particolare.
Tutto ciò costituisce chiaramente un limite intrinseco alla stessa prospettiva di crescita istituzionale
della dottrina tributaria che, tuttavia, nella misura
in cui continua a privilegiare argomentazioni di
(micro) dettaglio, invasioni di campo politico-sociali, o tecnicismi un po’ esoterici, lontani dalla
normale sensibilità giuridica (13), finisce per
(auto) confinarsi in una specie di riserva indiana
contraddistinta da una vera e propria barriera di
cristallo tanto rispetto agli studiosi delle altre materie giuridiche quanto (non sempre, ma abbastanza spesso) da chi materialmente traccia le grandi
direttive della politica fiscale e della legislazione.
n Dall’amministrativo al tributario e ritorno
Raffaello Lupi
Massimo Basilavecchia ha già osservato che la
sentenza correttamente valorizza il comma 7 dell’art. 24 della legge n. 241/1990, secondo cui deve comunque, perciò anche in deroga ai divieti
del comma 1, essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici. Questa espressione finisce per riaprire le porte degli archivi dell’amministrazione finanziaria ad un diritto di accesso inopinatamente negato, in sede legislativa, per le ragioni più generali amaramente indicate da Marco
Di Siena al termine del suo intervento. Sul piano
giuridico formale vorrei solo completare un possibile iter argomentativo che probabilmente è alla
base dell’ottima sentenza del Consiglio di Stato,
46
Dialoghi Tributari n. 1/2009
ma che non è stato estrinsecato in motivazione.
(12) Su queste varie componenti della teoria della moderna tassazione analitico aziendale, cfr. R. Lupi, Evasione fiscale, paradiso e
inferno, IPSOA, 2008, che cerca appunto di scomporre questi elementi del diritto tributario, in modo da ridurre la diffidenza che
la materia suscita.
(13) Basti pensare in proposito al mantra del principio substance over form per i soggetti IAS/IFRS compliant alla luce delle modifiche apportate dalla Finanziaria 2008 in forza del quale, ormai,
ogni considerazione giuridica sembra subordinata a spesso indefinite esigenze di fare prevalere la sostanza (ma quale sostanza poi?)
sull’assetto giuridico determinato dalle parti. Sulle difficilmente
qualificabili conseguenze del principio substance over form in materia di reddito d’impresa si rinvia alle del tutto condivisibili considerazioni di I. Vacca, «Gli Ias/Ifrs e il principio della prevalenza
della sostanza sulla forma: effetti sul bilancio e sul principio di derivazione nella determinazione del reddito d’impresa», in Riv. dir.
trib., 2006, I, pag. 757 ss.
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
Orbene, il comma 1 dell’art. 24 esclude l’accesso
in materia tributaria non per la particolare segretezza necessaria nel settore, ma per il suo generico
particolarismo (la disposizione infatti afferma che
per i procedimenti tributari restano ferme le particolari norme che li regolano).
L’interprete, preso atto del rinvio contenuto
nell’art. 24, si trasferisce quindi nella legislazione
tributaria. Quest’ultima non contiene però, salve
vere e proprie acrobazie che correttamente la parte aveva svolto in primo grado per dovere difensivo (14), disposizioni idonee a regolamentare il diritto di accesso (15). Un ragionamento formalisticamente giuspositivistico (fino alla nausea ed oltre) avrebbe potuto basarsi sulla esclusione del diritto di accesso per i procedimenti tributari, sul
rinvio alle disposizioni di settore, sulla mancanza
di disposizioni di settore e quindi negare il diritto
di accesso. Si tratta evidentemente di una conclusione poco appagante, quasi sofistica e paradossale, giustamente rifiutata dal Consiglio di Stato;
quest’ultimo ha evidentemente ritenuto inaccettabile che si potesse opacizzare un intero settore
della Pubblica amministrazione, oltre tutto per
motivi fortuiti ed un cattivo coordinamento tra
materie affini, come diritto tributario e diritto
amministrativo. La soluzione, una volta chiaro
che la legislazione del «particolare settore tributario» non offriva sponde per affermare un diritto
di accesso, non poteva quindi che essere un ritorno all’amministrativo; subentra cioè la clausola di
salvaguardia (16) contenuta nel comma 7 dell’art.
24, pensata per eccezionali deroghe alle esclusioni
del diritto di accesso per motivi di merito; la disposizione diventa invece una utile «ciambella di
salvataggio» per la generalità dei procedimenti tributari, almeno quelli per i quali esiste la prospettiva di un contenzioso.
La soluzione, già ripresa dal TAR Lazio, 31 ottobre 2008, n. 9516 a proposito del concessionario della riscossione, conferma - in termini teorici
- una visione istituzionalistica del diritto quando
ci si accorge che la meccanica applicazione di disposizioni legislative avrebbe un effetto stridente
rispetto ai principi; si conferma cioè, sempre nei
termini di ricostruzione teorica cui è destinata
Dialoghi, che il diritto è studio di comportamenti
Accertamento
delle istituzioni, in funzione delle quali va analizzata la legislazione e non viceversa).La sentenza in
esame fa solo apparentemente eccezione alla consueta ritrosia della giurisdizione amministrativa a
entrare in questioni tributarie, che puntualmente
ritroveremo commentando la sentenza del Consiglio di Stato 5 dicembre 2008, n. 6045 (che nega
la tutela davanti al TAR per i vizi degli atti istruttori tributari) (17); nel nostro caso infatti i supremi giudici amministrativi non si avventurano in
meccanismi tributaristici peculiari, ma superano
una inspiegabile disposizione, priva di valenza sistematica, come il divieto di accesso suddetto,
che faceva eccezione a un principio generale del
diritto amministrativo, come il diritto di accesso;
il motivo era solo la generica sensazione di particolarismo trasmessa da un diritto tributario privo
di modelli teorici adeguati alla sua complessità;
proprio a seguito del particolarismo connesso alla
carenza di modelli teorici della tassazione individuale prende piede quell’»interesse fiscale» criticato da chi avrebbe dovuto creare questi modelli:
nel nostro caso i giudici del Consiglio di Stato,
hanno solo riavvicinato il diritto tributario, guardato nel suo complesso, al diritto amministrativo,
ferma restando la ritrosia ad avventurarsi al suo
interno, e i soliti dubbi sulla sua collocazione tra
gli altri settori delle discipline giuridiche, economiche e sociali.
(14) Dalla sentenza del TAR Lombardia n. 795 del 2008, cit.,
risultano infatti i tentativi di costruire un diritto di accesso attraverso disposizioni dello Statuto del contribuente dettate a tutt’altri
fini.
(15) Come del resto non se ne trovano di idonee a regolamentare altri principi base, come il diritto al contradditorio, nonostante rituali convegni di cui restano solo le locandine e gli avanzi delle colazioni, ma è il minimo che poteva capitare ad un settore che
ha fallito nel costruire le proprie visioni di insieme e la propria
collocazione, ma in compenso (e proprio per questo) ha acquisito
in modo rapidissimo le degenerazioni dell’accademia italiana, diventando (nonostante la buona volontà di tanti) un grande armamentario per la spartizione di cattedre, senza altro da comunicare
al resto della società. Il particolarismo del diritto tributario, cui si
deve l’esclusione tra l’altro del diritto di accesso, è tutto qui.
(16) Espressione usata dall’amico Massimo Basilavecchia, durante le conversazioni da cui nascono queste brevi note.
(17) In Corr. Trib. n. 7/2009, pag. 533, con commento di A.
Marcheselli e in Banca Dati BIG, IPSOA.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
47
Accertamento
Consiglio di Stato, 21 ottobre 2008, n. 5144
n La sentenza
Consiglio di Stato, Sez. IV, Sent. 21 ottobre 2008 (8 luglio 2008), n. 5144 - Pres. Vacirca - Est. Mollica
Avviso di accertamento - Istanza di autotutela - Annullamento parziale - Istanza di accesso agli atti - Diniego - Legittimita` Esclusione
L’inaccessibilità agli atti è temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi
esigenze di «segretezza» nella fase che segue la conclusione del procedimento con l’adozione del provvedimento definitivo di accertamento dell’imposta dovuta sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione
del tributo.
L’asserita inconfigurabilità di un obbligo a provvedere non preclude ex se l’azione intesa alla verifica della legittimità dell’eventuale diniego, non essendo ammissibile nell’ordinamento l’esercizio di un potere «ad libitum»: sussiste invero un interesse a tale verifica ed il titolare di tale interesse è legittimato ad acquisire, a procedimento concluso, la
conoscenza degli atti infraprocedimentali che incidono su tale interesse.
Ritenuto in fatto e considerato in diritto
1.- La società alfa s.p.a. impugna la sentenza del TAR con
la quale è stato rigettato il ricorso dalla medesima proposto
per l’annullamento del diniego di accesso agli atti formalizzato con provvedimento dell’Agenzia delle entrate di Milano in data 31 dicembre 2007.
(Omissis)
Resiste l’Agenzia delle entrate e prospetta, in particolare,
una interpretazione dell’art. 24 cit. in senso assolutamente
preclusivo alla accessibilità ai documenti di cui trattasi.
(Omissis)
La difesa dell’Amministrazione sostiene, in tale linea, che in
materia tributaria il legislatore ha voluto dettare una normativa più rigorosa e restrittiva di quella generale, stabilendo una
completa inaccessibilità agli atti, in qualunque momento, anche quando è ormai conclusa la sequenza procedimentale.
Ritiene il Collegio che, secondo una lettura della disposizione costituzionalmente orientata, la norma debba essere intesa nel senso che la inaccessibilità agli atti di cui trattasi sia
temporalmente limitata alla fase di pendenza del procedimento tributario, non rilevandosi esigenze di «segretezza»
nella fase che segue la conclusione del procedimento con
l’adozione del procedimento definitivo di accertamento dell’imposta dovuta sulla base degli elementi reddituali che
conducono alla quantificazione del tributo.
Diversamente opinando si perverrebbe alla singolare conclusione che, in uno Stato di diritto, il cittadino possa essere
inciso dalla imposizione tributaria - pur nella più lata accezione della «ragion fiscale» - senza neppure conoscere il perché della imposizione e della relativa quantificazione.
Nè possono rinvenirsi elementi interpretativi in altro senso
nella diversità testuale tra l’originario art. 24 - che stabiliva
che «non è comunque ammesso l’accesso agli atti preparatori nel corso della formazione dei provvedimenti di cui all’art. 13», tra i quali erano contemplati anche quelli tributari - e quello introdotto dalla sostituzione operata dall’art.
16 della legge n. 205/2000, già sopra riportato.
La ratio della modifica - che la difesa erariale individua nella volontà legislativa di estendere, rispetto al passato, la regola della inaccessibilità in campo tributario a tutti i documenti, anche quelli relativi a procedimenti già conclusi -
48
Dialoghi Tributari n. 1/2009
ben può essere rinvenuta, per converso, nella esigenza di armonizzazione lessicale tra i ridetti articoli.
Del resto, è lo stesso art. 24, al comma 2, con norme di
chiusura, a configurare la garanzia di accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria ai richiedenti
per curare o per difendere i propri interessi giuridici, col solo limite relativo ai documenti contenenti dati sensibili e
giudiziari: e non si vede come possa curare o difendere i
propri interessi giuridici nella materia che ne occupa il soggetto cui sia precluso l’accesso agli atti di cui trattasi.
3.- Va ancora osservato che il provvedimento impugnato in
prime cure (nota 31 dicembre 2007) denega l’accesso al
controverso parere emesso dalla Direzione regionale nel corso del procedimento tributario «in quanto manca il presupposto previsto dalla legge, costituito dall’interesse alla tutela
di situazioni giuridicamente rilevanti», avendo l’Ufficio «il
potere, ma non il dovere giuridico, di ritirare l’atto viziato»
e, correlativamente, «il contribuente non vanta alcun diritto
a che l’Ufficio eserciti un tale potere».
A fronte dell’insussistenza dell’obbligo dell’Amministrazione
di annullare il provvedimento a seguito della presentazione
dell’istanza di autotutela, non sarebbe riconosciuta al contribuente alcuna azione avverso l’eventuale diniego, per cui
la conoscenza degli atti interni al riesame risulterebbe ininfluente.
Sfugge all’Amministrazione che la asserita inconfigurabilità
di un obbligo a provvedere non preclude ex se l’azione intesa alla verifica della legittimità dell’eventuale diniego, non
essendo ammissibile nell’ordinamento l’esercizio di un potere «ad libitum»: sussiste invero un interesse a tale verifica ed
il titolare di tale interesse è legittimato ad acquisire, a procedimento concluso, la conoscenza degli atti infraprocedimentali che incidono su tale interesse.
4.- Per le esposte considerazioni, il ricorso deve essere accolto ... (omissis).
Il testo integrale della sentenza si può richiedere a
[email protected]
www.ipsoa.it/dialoghionline
Accertamento
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
n Forum
Il «principio» di antieconomicità
e il controllo a valore normale
tra soggetti residenti alla prova
dell’abuso di agevolazioni territoriali
di Dario Stevanato, Mattia Varesano, Enrico Bressan, Raffaello Lupi
La Cassazione, nel confermare l’assunto che un comportamento asseritamente antieconomico legittima una rettifica del reddito fiscale (tassando cosı̀ una capacità economica «normalizzata»), riscrive le regole del gioco estendendo il «controllo a valore normale» ai rapporti domestici. Si
trattava invece di transazioni finalizzate a canalizzare redditi su una parte correlata che aveva accesso ad una agevolazione territoriale: si trattava di una società di servizi cui era stata attribuita,
a seguito di una parcellizzazione delle mansioni, una «fase ausiliaria» di un’attività di lavoro autonomo prima gestita unitariamente, con tendenziale abuso dell’agevolazione.
n Un caso di abuso delle agevolazioni territoriali, risolto con le armi sbagliate
Dario Stevanato
Le sentenze della Cassazione n. 23635 e 23636
depositate il 15 settembre 2008, e già commentate da Mauro Beghin sul Corriere Tributario e da
Valerio Ficari su GT (1), si occupano, in realtà, di
un caso di ipotizzato abuso di un’agevolazione fiscale. Questo profilo rimane però sullo sfondo
della sentenza, tutta incentrata su quello che è un
vero e proprio leit motiv giurisprudenziale (anch’esso abusato), ovvero sulla «antieconomicità»
del comportamento dell’operatore economico come elemento in grado di giustificare la ripresa a
tassazione di costi asseritamente eccedenti i parametri di mercato. Nel caso di specie, si trattava
dei costi sostenuti da un notaio per pagare delle
prestazioni di servizi rese da una società il cui personale era costituito da ex dipendenti dello stesso
notaio, che aveva sede presso locali dello studio
notarile ed era partecipata per la quasi totalità dal
predetto professionista. La creazione di una tale
«società di mezzi» rispondeva, evidentemente, (anche) ad un obiettivo di mitizzazione del carico fi-
50
Dialoghi Tributari n. 1/2009
scale, giacché la società godeva delle agevolazioni
sul Mezzogiorno previste per le imposte sui redditi
(riduzione dell’aliquota o esenzione totale). Ai costi deducibili sostenuti dal notaio non corrispondevano infatti ricavi imponibili in misura piena in
capo alla società di mezzi, e veniva cosı̀ realizzato
il più classico degli arbitraggi fiscali.
È subito da notare che l’azione di accertamento
era stata rivolta al professionista, e non alla società beneficiaria dell’agevolazione; quest’ultima è rimasta quindi intonsa. La Cassazione affronta e risolve la questione sulla base di un controllo dei
corrispettivi a valore normale, come se si trattasse
di un rapporto tra imprese residenti e soggetti
non residenti. Forzando il dato testuale e la vo(1) M. Beghin, «Agevolazioni tributarie, componenti reddituali
fuori mercato ed evasione fiscale», in Corr. Trib. n. 3/2009, pag.
203; V. Ficari, «Normalizzazione, elusione ed interposizione: a
quando un’‘‘illuminata giurisprudenza’’?», in GT - Riv. giur. trib.
n. 1/2009, pag. 67; entrambe le sentenze sono anche in Banca
Dati BIG, IPSOA.
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
lontà legislativa sottostante alla normativa sul
transfer pricing, la Cassazione afferma di fatto
l’applicabilità del «controllo a valore normale» anche nei rapporti tra parti correlate residente, anzi
addirittura nella generalità dei rapporti (dunque
anche in quelli tra terzi indipendenti), non operando alcun distinguo.
Le note di commento degli Autori che ho sopra ricordato si occupano ampiamente delle forzature contenute nelle sentenze in esame, che vorrei
invece provare ad inquadrare da un diverso angolo visuale. Il punto nodale della vicenda, al di là
della ricostruzione che ne hanno fatto i giudici,
risiede infatti nella questione del possibile abuso
di normative di favore o in senso stretto agevolative (come quella sul Mezzogiorno). È fuori discussione la libertà per gli operatori economici di
strutturarsi secondo certi piuttosto che altri moduli organizzativi; nel caso di specie, il notaio aveva posto in essere una riorganizzazione della propria attività secondo uno schema abbastanza consueto, che prevede la esternalizzazione di beni
strumentali (si pensi tipicamente ad immobili ad
uso ufficio) e/o servizi, e la loro collocazione in
una apposita «società di mezzi». Nulla vieta ad un
notaio, o ad un altro professionista, un tale modulo organizzativo dell’attività; detto modulo era
però nella specie strumentale alla fruizione di
un’agevolazione, cui i redditi del notaio (in quanto di lavoro autonomo e non d’impresa) non
avrebbero avuto diritto. La creazione di una apposita società, con esternalizzazione di una parte
dei servizi (visure, battiture di testi, registrazioni
di atti, ecc.) connaturati allo svolgimento dell’attività notarile, canalizzava sulla società stessa una
quota dei profitti riconducibili in ultima istanza
allo svolgimento dell’attività notarile, «trasformando» parte dei redditi di lavoro autonomo (tassati
in misura piena) in «redditi di impresa» agevolati.
Si tratta di un comportamento a prima vista
contrario allo spirito dell’agevolazione, anche se
non molto diverso rispetto a quello di imprese
che decidono di stabilire nuove o anche preesistenti attività produttive in territori agevolati, ivi
costituendo apposite società. Quando l’agevolazione è concessa in funzione della mera «forma giuridica», cioè in relazione alla costituzione di un sog-
Accertamento
getto secondo determinate forme, esiste il rischio
che l’agevolazione territoriale venga sfruttata per
obiettivi che fuoriescono dalla sua ratio, individuabile, in termini ampi, nello sviluppo economicosociale di una certa zona depressa, mediante l’impianto sullo stesso di iniziative produttive. Si noti
peraltro che l’obiettivo delle agevolazioni territoriali può essere raggiunto anche indipendentemente dalla «novità», in assoluto, dell’iniziativa produttiva: il territorio cui è rivolta l’agevolazione trae
vantaggio anche qualora uno stabilimento preesistente venga smantellato e riattivato nelle zone
agevolate, poiché ciò comporterà una nuova occupazione nella zona depressa, l’attivazione di forniture nel cosiddetto «indotto», la richiesta di nuovi
servizi logistici, lo sviluppo di un’edilizia residenziale per le forze lavoro attirate sul territorio, ecc.
Nel caso del notaio, tuttavia, emerge un quadro
in cui l’agevolazione territoriale era tendenzialmente stata strumentalizzata, giacché un «pezzo»
della struttura dello studio notarile (cioè una parte dei dipendenti), già operante nel territorio oggetto dell’agevolazione, era stata semplicemente
ricollocata all’interno della «società di mezzi». Il
fatto che quest’ultima fosse partecipata dallo stesso notaio, ed operasse - credo - esclusivamente
nei confronti del suo studio notarile (aspetto su
cui tuttavia la sentenza annotata non si sofferma,
e che, nonostante la sua indubbia rilevanza, non
sembra aver mai formato oggetto di un contraddittorio), avendo addirittura sede nei suoi locali,
configura un caso piuttosto evidente - a mio avviso - di abuso dell’agevolazione territoriale. Nelle
attività di lavoro autonomo, ed ancor più nelle
professioni liberali, è infatti meno consueto e comunque più difficilmente concepibile e gestibile
una «parcellizzazione» delle diverse fasi elementari
dell’attività, con veicolazione delle stesse su apposite società. Diversamente che nel reddito di impresa, dove è del tutto fisiologica la creazione di
società cui affidare singole fasi del ciclo produttivo-distributivo (si pensi al caso classico della società commerciale che venda esclusivamente i beni prodotti da altra società del gruppo), nel lavoro
autonomo una analoga segmentazione del «processo produttivo» risulterebbe in molti casi una
superfetazione: si pensi ad esempio all’avvocato,
Dialoghi Tributari n. 1/2009
51
Accertamento
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
al dottore commercialista o al medico che costituisca una apposita società in cui collocare il personale di segreteria cui commissionare i relativi
servizi ausiliari allo svolgimento della professione.
In questi casi l’ausiliarietà e la totale subordinazione di simili servizi rispetto alla professione liberale potrebbe addirittura far dubitare della natura imprenditoriale della relativa attività. Vedo il
rischio, insomma, di un possibile abuso della forma societaria per veicolarvi l’esercizio di segmenti
dell’attività professionale privi di quel grado minimo di autonomia per poter essere considerati attività d’impresa, un po’ come succede con le attività ausiliarie ancillari e meramente preparatorie all’attività della casa-madre, che non assurgono al
rango di «stabile organizzazione». Se si vuole,
dunque, l’operazione di segmentazione dell’attività posta in essere dal notaio delle sentenze commentate, era sindacabile sotto il profilo dell’abuso
della forma societaria per veicolarvi attività non
qualificabili come imprenditoriali, in quanto mere
fasi ausiliarie e preparatorie della professione notarile. A conclusioni diverse si dovrebbe invece
giungere laddove la società di servizi operasse per
il mercato, non avendo cioè quale unico cliente
lo studio notarile; in tal caso si avrebbe infatti
una normale attività di pratiche amministrative,
la cui natura imprenditoriale non potrebbe essere
messa in discussione.
Mi pare vi fossero quindi gli estremi minimi
per contestare alla «società di mezzi» la spettanza
dell’esenzione IRPEG, senza che allo scopo vi fosse bisogno di invocare la norma antielusiva che
era, all’epoca dei fatti, presente nell’ordinamento
(che peraltro sarebbe a rigore inapplicabile, visto
il limite rappresentato dalle operazioni di cui al
terzo comma dell’attuale art. 37-bis del D.P.R. n.
600/1973). A questa conclusione si potrebbe
giungere alla luce delle sentenze delle Sezioni
Unite della Corte di cassazione, 23 dicembre
2008, nn. da 30055 a 30057 (2), che come ormai noto teorizzano l’immanenza nel sistema di
un principio antielusivo di carattere generale. Ma
anche senza aderire a questa impostazione, che
presta il fianco a numerose critiche (e su cui vedi,
a caldo, le considerazioni di R. Lupi e D. Stevanato in Corriere Tributario) (3), mi sembra co-
52
Dialoghi Tributari n. 1/2009
munque che, nell’interpretazione delle norme agevolative in senso stretto, sia possibile teorizzare
un maggior grado di adeguamento della formulazione testuale della fattispecie alla sua giustificazione di fondo: voglio dire che, rispetto a tutte le
altre, nelle norme agevolative la ratio legis assume
un ruolo-guida per l’interprete ancora maggiore.
Dunque, anche senza ipotizzare l’applicabilità della norma antielusiva (o del principio generale antielusivo immanente nell’art. 53 Cost., di cui parlano le Sezioni Unite della Cassazione), mi sembra che, nel caso del notaio, vi fossero i margini
per interpretare la norma sull’agevolazione territoriale in modo da escluderne l’applicabilità alle società «di comodo», prive di una loro reale autonomia, e costituite estrapolando forzatamente precedenti fasi ausiliarie di un’unitaria attività (di lavoro autonomo). Si tratterebbe cioè di interpretare
il riferimento alla costituzione di società nei territori agevolati in modo da escludere quelle società
- per dirla con la Corte di giustizia (4) - di «mero
artificio», o se si preferisce non esercenti una effettiva attività imprenditoriale, visto il loro carattere meramente preparatorio od ausiliario rispetto
ad un’altra attività (nella specie di lavoro autonomo).
Gli avvisi di accertamento non erano stati tuttavia rivolti alla «società di mezzi», cui a mio avviso avrebbe potuto essere contestata la spettanza
dell’agevolazione IRPEG, bensı̀ nei confronti dello studio notarile, che si è visto negare la deducibilità dei costi in quanto asseritamente sproporzionati rispetto ai parametri di mercato, ravvisati impropriamente - nel precedente costo delle retribuzioni per gli ex dipendenti. La rispondenza ai
parametri di mercato dei «servizi di segreteria» pa(2) In Banca Dati BIG, IPSOA. Cfr. R. Lupi e D. Stevanato,
«Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva», in Corr. Trib. n. 6/2009, pag. 403.
(3) R. Lupi e D. Stevanato, «Tecniche interpretative e pretesa
immanenza di una norma generale antielusiva», cit., loc. ult. cit.
(4) Corte di giustizia UE, 12 settembre 2006, causa C-196/04,
in Corr. Trib. n. 42/2006, pag. 3347, con commento di E. della
Valle e in GT - Riv. giur. trib. n. 1/2007, pag. 17, con commento
di T. Marino, «La Corte di giustizia censura l’applicazione della legislazione inglese sulle «CFC» per violazione della libertà di stabilimento».
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
gati dal notaio alla società di mezzi deve infatti
tener conto della avvenuta «riorganizzazione produttiva», cioè dell’esternalizzazione del servizio.
Sotto questo profilo la sentenza appare in effetti
criticabile, sia perché ha posto a raffronto termini
non omogenei (è ben diverso pagare un servizio
reso da un fornitore grazie alla sua organizzazione,
piuttosto che assumere dipendenti in proprio in
grado di fornire lo stesso servizio), sia perché, assunta la consapevolezza delle strumentalizzazioni
compiute dal notaio, la sentenza ha forzato eccessivamente la normativa in materia di imposta sul
reddito, elevando la cosiddetta «antieconomicità»
a parametro normativo di riferimento per la deducibilità dei costi e la tassazione dei proventi, riscrivendo le regole del gioco ed assumendo un
controllo a valore normale anche nei rapporti tra
soggetti residenti, ed addirittura indipendentemente da una correlazione tra gli stessi. Si tratta
di una riscrittura delle regole che non tiene minimamente conto delle scelte compiute dal legislatore, che, di fronte alla prospettiva di allargare i
principi del transfer pricing anche ai rapporti tra
imprese residenti, decise consapevolmente di non
farlo, accettando comunque il rischio di abusi ritenendolo evidentemente il male minore - rispetto ad una perdita del tasso di certezza del sistema, ed a distorsioni (plurime imposizioni dello
stesso reddito) di segno opposto.
Ricordo che nel progetto di Testo Unico delle
imposte sui redditi del 1988 il controllo dei corrispettivi a valore normale - già operante limitatamente ai rapporti tra imprese nazionali e imprese
estere - era stato in prima battuta esteso anche ai
rapporti tra imprese residenti. Ma a tal proposito,
nella relazione dell’On.le Usellini veniva osservato
che «la cennata estensione sembra del tutto inopportuna e penalizza fortemente i gruppi di imprese, nel cui ambito possono verificarsi realmente
operazioni, sia di scambio di beni che di prestazioni di servizi, il cui corrispettivo sia fissato in
misura non corrispondente al valore normale, in
virtù della peculiarità di collegamenti economici
di aziende che fanno parte di uno stesso gruppo
che possono portare a privilegiare, in concreto, il
valore aggiunto di una fase rispetto a quello che
si consegue in un’altra fase. Presumere da ciò
Accertamento
maggiori ricavi o maggiori costi in relazione alla
differenza dei corrispettivi pattuiti rispetto al valore normale delle operazioni, di cui resta comunque la difficoltà e la discrezionalità di determinazione, porterebbe in tali casi a far emergere a tassazione redditi inesistenti. ... Conclusivamente
l’uso indiscriminato del valore normale in luogo
di prezzi reali finisce con l’attribuzione agli Uffici
di un potere anomalo: gli Uffici infatti, non essendo in grado di poter valutare tutte le operazioni, finirebbero per puntare la loro attenzione solo
sulle situazioni da cui consegue la presunzione di
maggiori ricavi e, quindi, redditi imponibili, rispetto a quelle per le quali la presunzione comporterebbe la rilevazione di maggiori costi. E ciò
fa aumentare i rischi di distorsione del sistema
determinando situazione di doppia tassazione».
Quale che sia il valore interpretativo attribuibile
ai lavori parlamentari, mi pare difficile non considerare che la questione fu attentamente esaminata, e che la proposta di estendere il principio del
valore normale ai rapporti tra soggetti residenti fu
esplicitamente scartato. Il principio di diritto
enunciato dalla Cassazione appare quindi sbagliato nella sua assolutezza, e suscettibile di attribuire
surrettiziamente agli Uffici finanziari quel «potere
anomalo» di accertamento che il legislatore del
1988 intese scongiurare. La sentenza della Cassazione è poi criticabile anche perché, a ben vedere,
la stessa non è affatto in grado - nonostante le
apparenze - di recuperare comunque a tassazione
il risparmio di imposta corrispondente all’agevolazione fiscale territoriale (laddove ritenuta acquisita
abusivamente, secondo le osservazioni viste sopra). La Commissione tributaria regionale, nel
giudizio di rinvio, potrebbe infatti benissimo, nell’operare i necessari accertamenti di fatto alla luce
del principio di diritto indicato dalla Corte, ritenere - con una motivazione congrua ed analitica
e quindi esente da censure in nuovo ipotetico
giudizio di legittimità - che i prezzi pagati dal notaio per acquisire la disponibilità dei servizi esternalizzati erano in linea con i parametri di mercato, che sono ovviamente rappresentati non già dal
costo diretto dell’ex personale dipendente, bensı̀
dai corrispettivi mediamente praticati per prestazioni di servizi del genere, facilmente reperibili
Dialoghi Tributari n. 1/2009
53
Accertamento
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
sul mercato delle agenzie di pratiche amministrative, che pure si occupano di visure, registrazioni
di atti, certificazioni, ecc. Nell’esternalizzazione di
una parte dell’attività tipica dello studio notarile,
è evidente che alla «società di mezzi» sarà attribuibile, proprio in quella logica di mercato di cui
parla la Cassazione, una quota dei profitti in precedenza di spettanza dello studio notarile, se non
altro in relazione al rischio di impresa e alla remunerazione dell’organizzazione dei fattori produttivi. Le forzature compiute dalla Cassazione,
che ha avallato la tesi dell’Amministrazione finanziaria (basata sulla asserita indeducibilità di prezzi
per l’acquisizione di servizi, ritenuti «fuori mercato»), potrebbero dunque tradursi in una vittoria
di Pirro per gli interessi erariali.
n Un incidente giurisprudenziale generato dalla distorta configurazione
dell’intero procedimento
Mattia Varesano
Come sottolinea bene Dario Stevanato nell’intervento che precede la sensazione di insoddisfazione che suscita la sentenza in commento sta
proprio nel fatto di aver contrastato un evidente
caso di abuso di un’agevolazione territoriale, utilizzando tuttavia strumenti assolutamente inidonei
ed inappropriati per il fine perseguito.
La pronuncia della Cassazione, infatti, non censura direttamente il comportamento del contribuente, atto ad aggirare i limiti normativi per poter beneficiare dell’agevolazione fiscale, ma si incentra piuttosto sul profilo di antieconomicità del
comportamento tenuto dal professionista, quale
elemento in grado di giustificare la ripresa fiscale
di costi sostenuti a «valori fuori mercato», peraltro
elevandolo quasi a corollario del generale principio anti-elusivo (o «anti-abusivo»), che la stessa
Corte ha teorizzato essere immanente nell’ordinamento tributario e direttamente discendente dalle
norme costituzionali (5).
Che il comportamento tenuto dal notaio (o
meglio dalla società di servizi a questo riconducibile) fosse censurabile sotto il profilo dell’abuso
del diritto emerge in maniera piuttosto chiara dai
fatti di causa, quantomeno nella versione ritraibile
dalla descrizione riportata nella motivazione della
sentenza.
In relazione all’agevolazione territoriale, la ricollocazione in una «società di servizi» di una mera
«fase» (o parte) dell’attività precedentemente svolta direttamente dallo studio notarile non ha infatti comportato nessuna concreta modificazione
nelle modalità di svolgimento dell’attività economica, posto che, tra l’altro, l’attività veniva svolta
54
Dialoghi Tributari n. 1/2009
dalle medesime persone, prima dipendenti del notaio, ora dipendenti della società di servizi.
Quella di specie non era perciò un’effettiva
riorganizzazione dell’attività economica, ma piuttosto una sua riconfigurazione meramente formale: in questa situazione, quindi, non si riscontra
nessun interesse pubblico atto a giustificare l’agevolazione goduta dalla società di servizi, agevolazione che invece non sarebbe spettata qualora si
fosse mantenuta la precedente «configurazione».
Nella fattispecie in esame si riscontra perciò una
strumentalizzazione della forma societaria, atta solamente a permettere il verificarsi dei requisiti formali necessari per poter godere dell’agevolazione
fiscale: un siffatto comportamento rientra perciò,
secondo chi scrive, tra le ipotesi in cui si verifica
l’aggiramento dello «spirito» della norma agevolativa, che, come evidenzia Dario Stevanato, era
quello di incentivare lo sviluppo di attività economiche in un determinato territorio depresso, e
non certamente permettere la parziale esenzione
di una parte dei redditi prodotti da un notaio,
senza che lo stesso ponesse in essere un’attività
economica diversa da quella professionale già precedentemente svolta.
La conferma di quanto appena detto dovrebbe
essere invero ricercata anche in altri elementi, che
tuttavia non vengono evidenziati nella motivazione della sentenza: sarebbe infatti fondamentale acMattia Varesano - Dottore in Economia e Amministrazione delle
imprese
(5) Cass., SS.UU., 23 dicembre 2008, nn. da 30055 a 30057,
cfr. nota 2.
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
certare se la società di servizi svolgeva la propria
attività esclusivamente a beneficio dello stesso notaio, o se, invece, la società era rivolta anche al
mercato; oppure se i rapporti tra la società di servizi ed il notaio fossero dipendenti dalle esigenze
produttive di quest’ultimo (richiesta di servizi in
relazione alla mole di lavoro) o se, invece, il rapporto contrattuale si configurasse come somministrazione periodica di servizi, con il pagamento di
un «canone» periodico, più o meno fisso, e magari parametrato al costo del lavoro subordinato sostenuto dalla stessa società.
Queste informazioni, infatti, potrebbero almeno in parte smentire o, viceversa confermare,
quanto qui sostenuto.
Si noti che, nel caso di specie, non si riscontrano nemmeno altre valide ragioni economiche che
potessero giustificare la costituzione della società
di servizi da parte del notaio, elemento che, come
noto, avrebbe in limine potuto assurgere al ruolo
di esimente dell’elusione realizzata (6).
Ritornando al fulcro del problema, la fattispecie
oggetto della pronuncia qui commentata poteva
trovare immediata soluzione attraverso il disconoscimento della agevolazione territoriale in capo alla società di servizi per l’elusività (abusività) del
disegno negoziale posto in essere dal notaio.
Ma per pervenire a questa soluzione, di per sé
lineare, il processo avrebbe dovuto incardinarsi
nei confronti della società di servizi e non, come
invece avvenuto, nei confronti del notaio. È evidente perciò che la sentenza resa dai giudici della
Corte di cassazione sconta un errore a monte che
non poteva essere corretto in sede contenziosa: è
stato infatti in primis l’Ufficio finanziario ad errare nell’inquadramento della fattispecie e quindi
nell’individuare il soggetto passivo nei confronti
del quale emettere l’avviso di accertamento, incardinando in tal modo il processo nei confronti del
notaio e non della società di servizi, di fatto rimasta intonsa.
È quindi comprensibile (ancorché non giustificabile) il perché si sia addivenuti alla pronuncia
in esame: i giudici della Cassazione si sono infatti
persuasi della totale iniquità dell’agevolazione goduta dal notaio (soggetto a cui andava ricondotta
la società di servizi), ma si sono scontrati, d’altra
Accertamento
parte, con una distorta configurazione dell’intero
procedimento. Come spesso avviene nelle dinami(6) Ma, anche qualora ci fossero state valide ragioni economiche, non è detto che queste avrebbero legittimato il comportamento abusivo tenuto dal notaio. Ci si dovrebbe prima chiedere se le
valide ragioni economiche possono rivestire il ruolo di esimente
anche nel caso di aggiramento di una norma agevolativa. Infatti,
quando il comportamento elusivo, giustificato da ragioni economiche, comporta solamente la scelta (in violazione dello spirito della
legge fiscale) del meno oneroso tra diversi regimi impositivi, gli interessi pubblici che vengono coinvolti sono da una parte l’interesse
a favorire la «libera iniziativa economica», e, dall’altra, l’interesse
che ogni contribuente partecipi alla spese pubbliche in maniera
equa. Introducendo l’esimente delle valide ragioni economiche nella norma antielusiva generale, il Legislatore ha certamente manifestato il proprio favor nell’incentivare la libera iniziativa economica,
anche quando questa comporti una riduzione del carico fiscale altrimenti non spettante. Ma, nel contemperare in tal modo i due
diversi interessi in gioco, il legislatore si è basato sul fatto che l’imposizione subita dall’elusore sia comunque regolata da un regime
tributario sistematico, da esso voluto e disciplinato per la generalità dei contribuenti.
Quando invece ad essere elusa è una norma agevolativa, il contemperamento degli interessi in gioco non può prescindere dalla
peculiarità e asistematicità dell’agevolazione. Nel concedere un
«aiuto», il legislatore individua alcune categorie di soggetti, come
le sole aventi le caratteristiche adatte per poter conseguire un interesse comune della collettività: cosı̀, ad esempio, nelle agevolazioni
territoriali i soggetti agevolati sono solo quelli che svolgono una
certa attività in zone depresse, perché solo tali soggetti possono
mettere in moto un processo di crescita economica che coinvolga
l’intero indotto territoriale; nelle agevolazioni per l’imprenditoria
femminile, le imprese beneficiarie sono solo quelle costituite in
prevalenza da donne, perché solo in tal modo si aiuta la realizzazione di una sostanziale parità tra i sessi. Questi interessi pubblici
perseguiti mediante l’agevolazione si contrappongono all’interesse
erariale: nell’introdurre una norma agevolativa, quindi, il legislatore sceglie di favorire l’interesse particolare rispetto al generale interesse alla congrua contribuzione alle spese pubbliche da parte di
tutti i contribuenti. In questa prospettiva, l’introduzione delle valide ragioni economiche, quale esimente rispetto a possibili abusi
della norma agevolativa, comporterebbe l’introduzione di un ulteriore «peso» nella bilancia degli interessi in gioco: ammettere all’agevolazione un soggetto che non appartiene alla categoria dei beneficiari, solo in ragione del fatto che l’aggiramento della norma
agevolativa sia dipeso dal conseguimento di altre ragioni economiche diverse dall’ottenimento dell’agevolazione stessa, significherebbe per lo Stato rinunciare ad un certo ammontare di entrate pubbliche, destinate al perseguimento di un interesse particolare, che
tuttavia non potrà essere conseguito - proprio a causa della non
appartenenza del soggetto alla effettiva categoria dei soggetti beneficiari - in ragione di un maggior interesse a tutelare la libera iniziativa economica.
Un siffatto contemperamento dei diversi interessi pubblici in
gioco dipende dalle valutazioni del legislatore, e non può quindi
essere ritenuto a priori corretto o scorretto. Quello che qui preme
sottolineare è tuttavia la sostanziale diversità di un siffatto contemperamento con quello alla base dell’inserimento dell’esimente delle
valide ragioni economiche nella norma antielusiva generale cui al(segue)
Dialoghi Tributari n. 1/2009
55
Accertamento
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
che decisionali dei giudici (anche quelli apicali),
questi hanno ricercato una soluzione compensativa, che potesse comunque portare alla «punizione» del contribuente eccessivamente furbo. È in
questa ottica che deve quindi essere letta la sentenza in commento, ovverosia come un incidente
giurisprudenziale motivato dalle logiche che si è
cercato sopra di esporre, e non deve quindi essere
oggetto di generalizzazione.
L’eccessiva enfasi sulla pronuncia in esame e la
generalizzazione del principio di diritto in essa
enunciato avrebbero infatti effetti molto pericolosi, come ben evidenziano gli altri Autori che han-
no già commentato la presente sentenza. Infatti,
l’elevamento del principio dell’antieconomicità (di
matrice prettamente giurisprudenziale e non surrogato da espliciti disposizioni di legge atte ad avvalorarlo - se non nella specifica disciplina del
transfer pricing) quale corollario del generale principio dell’abuso di diritto darebbe un’ulteriore
colpo alla già flebile «certezza del diritto» nella
nostra materia, soprattutto se questo principio
fosse liberamente utilizzabile in un contesto, com’è quello della nostra fiscalità, privo di solide
fondamenta e condivise chiavi di lettura, come
spesso è stato sottolineato su Dialoghi.
n L’antieconomicità non significa sindacare le scelte imprenditoriali
Enrico Bressan
Sono d’accordo con gli Autori che mi precedono e ritengo che i giudici, trovandosi di fronte ad
una situazione patologica di arbitraggio fiscale,
abbiano deciso correttamente. Del resto, sembra
che il notaio abbia canalizzato i propri redditi in
una sua società, in quanto questa beneficiava delle agevolazioni fiscali territoriali. Su questi aspetti
la sentenza non si sofferma visto che l’accertamento ha riguardato il notaio, cioè colui che ha
usufruito delle prestazioni fornite dalla società
agevolata fiscalmente. In particolare, l’Ufficio disconosceva la deducibilità del costo sopportato
dal notaio, in quanto a suo dire sproporzionato
rispetto ai valori normali. Il riferimento non è però ai corrispettivi di mercato di un’impresa di servizi analoga, bensı̀ ai costi che il notaio sosteneva
a titolo di retribuzioni del personale dipendente,
prima che «esternalizzasse» l’attività presso la società di servizi di cui deteneva una quota di maggioranza. Dunque, la contestata deducibilità dei
costi verteva sul comportamento del notaio che
ha ritenuto opportuno affidare determinate attività ad una propria società di servizi. Comportamento che è stato ritenuto anche dai giudici «antieconomico» (contrario ai canoni dell’economia),
se confrontato con la situazione antecedente dove
le stesse attività erano svolte dal personale dipendente a costi nettamente inferiori. La prima impressione è che i giudici abbiano avallato una
prassi ricorrente dell’Amministrazione finanziaria
56
Dialoghi Tributari n. 1/2009
di sindacare le scelte imprenditoriali. Tuttavia, occorre osservare che i giudici si sono trovati di
fronte a una rettifica dei costi, non essendo in
contestazione l’agevolazione fiscale. È probabile
che i giudici abbiano colto l’arbitraggio fiscale e
«ritenutolo abusivo» hanno deciso per «giustizia
fiscale» di salvare un accertamento che nella sostanza era comunque fondato.
Resta il fatto che la sentenza per certi versi è
criticabile, soprattutto con riguardo ai riferimenti
all’antieconomicità. Questo concetto non va, infatti, confuso con la possibilità per il Fisco di sindacare le scelte dell’imprenditore. L’antieconomicità è sintomo di evasione, cioè casi di occultamento dei corrispettivi o di simulazione di costi (7).
Si pensi, ad esempio, alla compravendita di im(continua nota 6)
l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. Non è quindi detto, nel silenzio della legge, che la presenza di valide ragioni economiche
possa sempre legittimare l’aggiramento di una norma agevolativa:
ad esempio, l’utilizzo di un prestanome donna nella conduzione di
un’impresa individuale non permetterebbe verosimilmente il godimento di un’agevolazione sulla imprenditoria femminile, nemmeno se questo fosse dipeso esclusivamente da ragioni economiche,
come, per fare un esempio di scuola, la dimostrata maggior facilità
di negoziazione con alcuni clienti.
Enrico Bressan - Dottore commercialista in Venezia
(7) D. Stevanato, «L’antieconomicità dell’azione imprenditoriale nella giurisprudenza della Cassazione tra presunzioni di evasione
e interpretazioni in chiave antielusiva», in Dialoghi dir. trib.,
2003, pag. 370.
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
mobili ad un prezzo inferiore ai valori di mercato,
oppure all’impiego di capitali in investimenti che
risultano a conti fatti sproporzionati rispetto al volume d’affari dichiarato. Come rilevato correttamente dalla dottrina (8) l’antieconomicità non significa sindacato sulla gestione dell’impresa, bensı̀
permette all’Ufficio di accertare con il criterio analitico-induttivio maggiori ricavi sulla base di circostanze acquisite durante le attività di verifica.
Ora nel caso di specie non ci sono elementi
che possano far dubitare della sussistenza effettiva
dei costi sostenuti dal notaio, né tanto meno del
diritto del professionista di organizzare la propria
attività come crede, eppure secondo i giudici questo comportamento è sindacabile perché antieconomico. A tal proposito i giudici richiamano sentenze della Corte di cassazione, precisamente la n.
10802/2002 e la n. 1821/2001 (9).
A parere di chi scrive, l’accostamento alle predette decisioni è mal posto nel caso di specie, poiché le questioni affrontate riguardavano: in un caso la veridicità dei fatti e nell’altro la sproporzione
dei corrispettivi. Nella sentenza n. 1821/2001 la
Corte argomentò l’antieconomicità di un inspiegabile frazionamento dei trasporti di scatole di scarpe
per confermare la contestazione di alterazione dei
documenti di accompagnamento. Conseguentemente, la riscontrata anomalia del comportamento
economico ha fatto fondatamente presumere la falsità dei corrispettivi dichiarati. Del pari nella sentenza n. 10802/2002 non c’è alcun riferimento al-
Accertamento
la possibilità di sindacare le scelte imprenditoriali.
Nello specifico si trattava di noleggi di natanti dalla controllante alla controllata dove si contestava il
corrispettivo del noleggio, in quanto smaccatamente sproporzionato rispetto ai prezzi di mercato. Anche in questo caso c’era un arbitraggio fiscale tra
imponibilità ed esenzione. Infatti, per la controllante i ricavi da noleggio erano esenti da imposte,
mentre per le controllate i costi derivanti dal godimento dei mezzi erano pienamente deducibili dai
propri redditi imponibili. Va, peraltro, osservato
che la controllante aveva acquistato la proprietà
dei natanti proprio dalle proprie controllate, cioè
dagli stessi soggetti che con il contratto di noleggio
avevano in godimento i beni. Insomma, una operazione circolare che sapeva molto di elusione/abuso. Eppure in quella occasione i giudici non hanno
sindacato il comportamento del gruppo, ma si sono limitati a estendere la regola del transfer pricing
anche ai rapporti interni.
In conclusione, come peraltro è stato rilevato
dalla dottrina (10) di fronte a casi di elusione/
abuso, l’antieconomicità è insufficiente a motivare
una rettifica, poiché l’Amministrazione finanziaria
è obbligata a dimostrare l’aggiramento e quindi la
norma violata. In caso contrario, le contestazioni
sul regime del dichiarato fioccherebbero, posto
che a posteriori è gioco facile per il Fisco sindacare
le scelte del contribuente, che ovviamente sono
indirizzate al risparmio di costi tra cui ci sono anche le imposte.
n Un episodio da contestualizzare e una smentita delle interpretazioni «a contrario»
Raffaello Lupi
Mi sembra opportuno utilizzare anche questa
sentenza per calare nel concreto la metodologia
proposta nell’editoriale di questo numero di Dialoghi a proposito di una teoria della tassazione
individuale. La sentenza è la decisione di una
istituzione, di cui gli studiosi devono comprendere le motivazioni, contestualizzarle e solo dopo
eventualmente criticarle. Anche questa volta i
giudici, conformemente alla loro funzione, dovevano risolvere in modo equilibrato controversie,
non creare modelli concettuali; questa sentenza
esercita in modo ragionevole quella che in altre
sedi chiamavo «discrezionalità interpretativa»,
(8) R. Lupi, «L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità», in Corr. Trib. n. 4/2009, pag.
261.
(9) La prima in Banca Dati BIG, IPSOA (vedi anche P. Anello,
«La Cassazione interviene ancora sulla sindacabilità dei comportamenti economici», in Corr. Trib. n. 39/2002, pag. 3545); la seconda in GT - Riv. Giur. trib. n. 8/2001, pag. 1033, con commento di A. Panizzolo, «Il principio di insindacabilità delle scelte
imprenditoriali in diritto tributario: conferme e limiti».
(10) R. Lupi, «L’oggetto economico delle imposte», cit., loc.
cit., pag. 262.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
57
Accertamento
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
cioè ricerca di un equilibrio tra i vari argomenti
dell’interpretazione, sia letterali, sia sistematici (11). La sentenza in esame non è uno di quegli eventi che «fanno la storia del diritto», ma
uno dei moltissimi episodi di «pratica tributaria»,
in cui è stata chiusa, in modo secondo me ragionevole, una specifica controversia, da cui non dipende certo il futuro della fiscalità italiana. La
sentenza in rassegna non ha poi sancito un preciso principio di diritto, ma ha cassato per difetto
di motivazione una sentenza di Commissione tributaria regionale che si avventurava in argomenti
politico-sociali, come la libertà di iniziativa economica, del tutto estranei alla determinazione
giuridica di capacità economica ai fini tributari.
Inoltre la sentenza impugnata si basava in via
principale su un argomento procedurale costantemente disatteso dalla cassazione, come il preteso vizio dell’accertamento di appiattirsi sul processo verbale di constatazione; il merito della
questione, quindi, veniva affrontato non solo
maldestramente, ma anche come un enorme obiter dictum.
È inutile starci a scrivere tanto sopra, anche
nell’ottica indicata nell’editoriale, secondo cui gli
episodi della pratica vanno contestualizzati per
quello che valgono, e proprio per questo in numero molto più massiccio di quanto oggi si fa; è
sufficiente quindi cogliere quanto di permanente
c’è in un episodio effimero, in una sentenza come ce ne sono state tante in passato e ce ne saranno in futuro; questa sentenza, come rilevano
gli Autori che precedono, riafferma la possibilità
di sindacare i corrispettivi reali quando determinati in funzione di convenienza fiscale, anche al
di là dei rapporti con società controllate non residenti. La previsione esplicita di questa possibilità, per i rapporti con non residenti, potrebbe essere un argomento per escludere, nei casi diversi,
tali rettifiche. Quest’argomento a contrario (il
classico ubi voluit dixit) neppure risulta prospettato nel caso in esame, ma ad esso si potrebbe
obiettare che la legislazione va interpretata per
quello che dice, cioè per la possibilità di rettificare automaticamente in base al valore normale i
rapporti infragruppo tra soggetti residenti ed
esteri. Questo però non vuol dire che negli altri
58
Dialoghi Tributari n. 1/2009
casi il contribuente possa fare in tutto e per tutto
quello che gli pare, fosse pure comprare un chilo
di farina per un miliardo di euro. L’argomento a
contrario può avere una diversa solidità, a seconda dei casi, ma il giudice che qualche volta lo supera non fa politica, non si intromette in un
ruolo normativo (12) al posto del legislatore,
non introduce nuove convenzioni sulla determinazione giuridica della capacità economica. Come abbiamo messo in risalto su questo stesso numero di Dialoghi, discutendo di elusione, le convinzioni delle persone fisiche che hanno redatto
la legge (il cd. legislatore storico), non hanno valore formale, ma sono argomenti per la discrezionalità interpretativa, da valutare di caso in caso.
Per il transfer price viene istintivo dire che se c’è
la norma per i rapporti intercompany con l’estero,
allora all’interno implicitamente vale un principio opposto. È una argomentazione credibile, solida, ma non a prova di bomba nella determinazione della capacità economica. La mancata previsione di regole per i rapporti interni vuol dire
solo che il legislatore non se l’è sentita di estendere meccanicamente una determinazione al valore normale a situazioni «interne», in cui costi e
ricavi sostanzialmente si bilanciano. C’è però una
bella differenza tra l’esclusione di questi automatismi e l’affermazione che, meccanicamente,
qualsiasi manovra sui prezzi interni sia lecita
automaticamente. Il legislatore vincola per quello
che dice, condiziona quando parla, e non comanda per implicito, quando sta zitto. Come abbiamo rilevato con Stevanato, commentando sul
(11) R. Lupi, Societa`, diritto e tributi, Milano, 2005, pag. 86,
in cui ponevo in risalto che, per risolvere una medesima questione
interpretativa, rilevano spesso, e simultaneamente, una pluralità di
spunti interpretativi di segno diverso, sia letterali sia sistematici,
che l’interprete deve contemperare. L’espressione «discrezionalità
interpretativa» dà il senso di questa frequente, e strutturale, valutatività dell’interpretazione (uno degli aspetti pacifici della teoria generale del diritto, che è il caso di ricordare anche annotando questi episodi del diritto vivente).
(12) Come afferma invece V. Ficari, in «Disposizioni antielusive e «normalizzazioni» applicabili in caso di interposizione societaria», annotando questa stessa sentenza in GT - Riv. giur. trib. n.
1/2009, pag. 68, secondo cui la Corte di cassazione avrebbe deciso
«in modo quasi principesco», non nel senso di paragonare i giudici
a munifici Signori rinascimentali, ma di addebitare loro una invasione di campo nelle prerogative del legislatore.
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
Corriere le sentenze della Cassazione di fine dicembre sull’elusione, quando la norma tace non
Accertamento
comanda, e il suo silenzio è semplice argomento
di interpretazione (13).
n La sentenza
Cassazione, Sez. trib., Sent. 15 settembre 2008 (3 luglio 2008), n. 23636 e 23635 - Pres. Miani Canevari - Rel. Merone (stralcio)
(Omissis)
la parte ricorrente rileva che erroneamente la CTR afferma
che il comportamento manifestamente antieconomico del
contribuente lavoratore autonomo, non sarebbe suscettibile
di valutazione, ai fini dell’accertamento tributario, in ossequio al principio di libertà d’impresa, sancito dall’art. 41
Cost.
La censura appare fondata. La norma costituzionale citata
non reca disposizioni relative alle modalità di comportamento all’«interno» delle iniziative economiche. Si limita
soltanto a garantire la libertà della «iniziativa» economica
(comma 1), che non deve mai svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale (comma 2), ma anzi deve essere indirizzata e
coordinata a fini sociali (comma 3). Libertà di iniziativa
non significa che ciascuno può fare ciò che vuole. Limitazioni sono sempre consentite quando l’iniziativa stessa contrasti con la utilità ed i fini sociali, specialmente se le finalità sociali sono anche oggetto di apposita tutela costituzionale, come nella ipotesi che qui interessa della realizzazione
della integrità del gettito tributario e del rispetto della regola dell’obbligo della contribuzione fiscale in ragione della
capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.). Basta
questa osservazione per stabilire, in linea di principio, che
le iniziative economiche assunte al solo fine di eludere gli
obblighi fiscali, non possono godere di alcuna «copertura»
costituzionale e che, quindi, l’argomento della libertà della
iniziativa privata, utilizzato dalla Commissione tributaria regionale per «sterilizzare» la valenza probatoria del comportamento antieconomico tenuto dal contribuente, appare assolutamente fallace. Il contribuente (imprenditore o lavoratore
autonomo) è libero di organizzare e svolgere la propria attività in maniera antieconomica, ma se ne derivi una attenuazione dell’obbligo di contribuire alla spesa pubblica, egli è
tenuto a dare conto alla collettività di tale anomala scelta.
In questa prospettiva, i comportamenti che si pongono in
contrasto con le regole del buon senso e dell’id quod plerumque accidit uniti alla mancanza di una giustificazione razionale (che non sia quella di eludere il precetto tributario),
assurgono al ruolo di elementi indiziari gravi precisi e concordanti che legittimano il recupero a tassazione dei relativi
costi. È noto che il principio ha assunto valenza legale con
la introduzione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (Disposizioni antielusive), aggiunto dall’art. 7 del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358.
Nella specie, in punto di fatto è pacifico che l’«interposizione» della società ha comportato un irrazionale aumento del
costo dei servizi che prima venivano erogati dalle stesse persone fisiche direttamente incaricate dal notaio e poi passate
alle dipendenze della società.
In punto di diritto, a parte le considerazioni già svolte, i
giudici di appello hanno applicato una regula iuris che è in
contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la
quale «In tema di imposte sui redditi, in presenza di un
comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento ai sensi dell’art. 39, primo comma,
lett. d), D.P.R. n. 600/1973; ad un tale riguardo il giudice
di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che
l’antieconomicità del comportamento del contribuente non
sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie» (Cass. n. 10802/2002; conf. n. 1821/2001).
Rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nelle dichiarazioni fiscali «anche se non ricorrano irregolarità nella
tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici»,
con la possibilità che venga negata la «deducibilità di un
costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo
l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati»
(Cass. n. 9497/2008; conforme n. 13478/2001, n. 12813/
2000). Resta quindi superato anche il rilievo della Commissione tributaria regionale secondo il quale l’Ufficio erroneamente avrebbe fatto riferimento al parametro del «valore normale» delle prestazioni utilizzabile nella sola ipotesi
di transfer pricing esterno (ai sensi dell’art. 76, comma 5,
del citato T.U.I.R.). La giurisprudenza di questa Corte ha
chiarito che l’obbligo di fare riferimento al normale valore
di mercato, per la valutazione delle componenti reddituali
(ai sensi dell’art. 9 del citato T.U.I.R.), costituisce un prin-
(13) Ci sarebbero poi da compiere gli aggiustamenti correlativi
per evitare le doppie imposizioni (sui quali giustamente si soffermano M. Beghin, «Agevolazioni tributarie, componenti reddituali
fuori mercato ed evasione fiscale», in Corr. Trib. n. 3/2009, pag.
203 e V. Ficari, «Normalizzazione, elusione ed interposizione: a
quando un’«illuminata giurisprudenza»?», in GT - Riv. giur. trib.
n. 1/2009, pag. 67), ma non era questo il caso, essendo la società
costituita dal notaio totalmente esente da tributi sul reddito. Per
un caso anche più grave, in cui il problema della doppia imposizione è stato totalmente trascurato, pur in astratto ponendosi,
Cass., Sez. trib., 11 aprile 2008, n. 9497, in Dialoghi Tributari n.
6/2008, pag. 82, con nota di F. Crovato, D. Stevanato, R. Lupi.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
59
Accertamento
Cass., 15 settembre 2008, n. 23636 e n. 23635
cipio generale in materia di accertamento: «In tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio,
avente valore generale, stabilito dall’art. 9, D.P.R. n. 917/
1986, che non ha soltanto valore contabile, e che impone
quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di
mercato (art. 9, comma 3, cit.) per i corrispettivi, proventi,
spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente. Ne consegue che il Fisco non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato» (Cass. n. 10802/2002).
Infine, la motivazione della sentenza impugnata appare insufficiente, cosı̀ come denunciato dalla parte ricorrente, nella parte in cui la Commissione tributaria regionale afferma
che il prezzo pagato risultava eccessivo perché rapportato
soltanto ai costi senza tenere conto dell’utile che spettava alla società. L’affermazione, che implica il riconoscimento in
fatto della eccessività dei corrispettivi pagati, è doppiamente
censurabile. In primo luogo, perché l’anomalia del comportamento addebitato al contribuente è costituita dal fatto di
aver scelto di pagare un prezzo maggiore (corrisposto alla
società che pagava i suoi ex dipendenti) rispetto a quello
sopportato in precedenza affidando direttamente il servizio
a collaboratori diretti. Non importa se la società guadagnava poco o molto sui servizi forniti al notaio, quello che rileva è che quest’ultimo ha scelto una alternativa certamente
più onerosa (posto che il maggior esborso veniva poi compensato dalla ripartizione degli utili della società in regime
di agevolazione fiscale) che gli consentiva di abbattere il
reddito imponibile. Quindi, l’argomento della omessa valutazione degli utili societari è del tutto ininfluente ai fini della decisione.
In secondo luogo, la motivazione della Commissione tributaria regionale risulta anche lacunosa nella parte in cui si limita ad affermare che l’ufficio non ha tenuto conto dell’utile spettante alla società, ma non chiarisce se aggiungendo
al costo dei servizi l’utile societario il prezzo pagato rientrava nello standard del valore normale. In altri termini, ammesso che i prezzi praticati al notaio fossero eccessivi rispetto ai costi sostenuti dalla società, la Commissione tributaria regionale si sottrae all’onere di chiarire se aggiungendo ai costi l’utile societario i prezzi si allineavano a
quelli medi di mercato (fermo restando che comunque il
comportamento del contribuente restava anomalo, perché
pur pagando il prezzo di mercato, questo era maggiore di
quello sostenuto in precedenza con la utilizzazione diretta
di collaboratori).
3. (Omissis)
4. (Omissis)
In definitiva, il giudice del rinvio, preso atto della validità
dell’avviso di accertamento motivato per relationem e tenuto
conto della legittimità della deduzione dei costi ammontanti
a lire 30 milioni, erroneamente recuperati a tassazione dall’Ufficio, dovrà riformulare il giudizio di merito in relazione
al solo recupero dei prezzi «maggiorati» per lire 230 milio-
60
Dialoghi Tributari n. 1/2009
ni, tenendo conto dei principi di diritto sopra ricordati in
relazione al comportamento antieconomico tenuto dal contribuente e alle conseguenze sul piano della valutazione e
deducibilità dei costi dichiarati.
(Omissis)
Il testo integrale della sentenza si può richiedere a
[email protected]
www.ipsoa.it/dialoghionline
Riscossione
L’utilizzabilità dei poteri istruttori
ai fini della riscossione
di Francesco Montanari, Raffaello Lupi
Gli agenti della riscossione (Equitalia s.p.a.) possono ormai utilizzare direttamente i poteri istruttori degli Uffici, come l’accesso ai dati bancari o persino le ispezioni, per individuare beni da aggredire con l’esecuzione coattiva tributaria. Si pongono in proposito alcuni problemi di coordinamento tra poteri dettati per una attività conoscitiva, diretta alla determinazione dei tributi, e loro utilizzo per una attività diretta alla riscossione coattiva. Si tratta però solo di un punto di partenza per i veri problemi di individuare chi utilizza prestanome e altre strutture di «asset protection» per evitare l’esecuzione coattiva, e di chi svolge «ab initio» attività in danno del Fisco (frodi
carosello) senza apparire personalmente, ma avvalendosi di società o altri interposti.
n I poteri dell’agente della riscossione
per l’accesso ai dati economici e patrimoniali del contribuente
Francesco Montanari
Gli esattori delle imposte, nella loro lunga storia che ha condotto sino agli attuali «agenti della
riscossione», sono sempre stati provvisti di poteri
autoritativi. Questi ultimi si sono rafforzati nel
2006, con il cosiddetto decreto «Visco - Bersani» (1) che, come noto, ha attribuito agli agenti
della riscossione una serie di poteri di accesso ai
dati economici e patrimoniali dei contribuenti.
La peculiarità dell’attuale assetto normativo consiste nel fatto che tutti quei poteri d’indagine, accesso, ispezione e verifica, tipicamente attribuiti
all’Agenzia delle entrate ed alla Guardia di finanza
- e, come tali, funzionali alla determinazione del
tributo sono oggi estesi, pressoché integralmente,
ad un soggetto privo di alcuna funzione in tal
senso e, per di più, in una fase in cui l’accertamento del tributo non è più in discussione (2):
in altri termini, detti poteri vengono esercitati
dall’agente della riscossione, non nella fase della
formazione del titolo, ma in quella del pignoramento (che, come è noto, costituisce il primo atto necessario dell’espropriazione) (3).
La riscossione coattiva risulta, pertanto, connotata da profili amministrativistici ed autoritativi
ben più forti che in passato, ed appare come una
«prosecuzione naturale» dell’accertamento (4), a
danno della «parità delle armi» tra agenti della riFrancesco Montanari - Docente a contratto presso l’Università degli studi di Trento - Avvocato e Dottore commercialista in Bologna
(1) Art. 35, commi 25, 26 e 26-bis, del D.L. 4 luglio 2006, n.
223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n.
248.
(2) Si è, infatti, evidenziato che si sono avute «una serie di misure ... che, sostanzialmente, trasportano nel mondo della riscossione, fino al pignoramento, le metodologie e le problematiche
dell’accertamento tributario, con un’evoluzione normativa - ma direi culturale - particolarmente significativa. Si è avuta la trasformazione organizzativa e - a mio avviso - un fortissimo avvicinamento
all’Agenzia delle entrate, della funzione di riscossione, con un assetto che mi pare realizzi, in questo momento, forse solo una tappa intermedia di un processo d’integrazione ancora più intenso».
Testualmente M. Basilavecchia, «Nuovi assetti della riscossione e
tutela giurisdizionale», in AA. VV. (a cura di Magliaro), Il fattore
«R» - La centralita` della riscossione nelle manovre di finanza pubblica, Trento, 2007, pagg. 86-87.
(3) Come si è osservato in dottrina, infatti, «la riscossione coattiva è fase in cui ormai l’obbligazione tributaria è obbligazione in
senso stretto ed è obbligazione certa, liquida ed esigibile». In tal
senso L. del Federico, «L’efficacia della riscossione e le misure cautelari», in AA. VV. (a cura di Magliaro), op. loc. cit., pag. 41.
(4) M. Basilavecchia, «Soggetti passivi e riscossione coattiva», in
Corr. Trib. n. 43/2006, pag. 3393 nonché Parlato (M.C.), «Brevi
note sulla Riscossione S.p.a.», in Rass. Trib., 2006, pag. 1174 la
quale osserva che «sembra crearsi una commistione ancor più accentuata tra l’attività di accertamento e l’attività di riscossione».
Dialoghi Tributari n. 1/2009
61
Riscossione
scossione e contribuenti. I poteri autoritativi degli
agenti risultano anche dall’art. 72-bis del D.P.R.
29 settembre 1973, n. 602, in base al quale possono, nell’ipotesi di pignoramento presso terzi,
«ordinare» al debitor debitoris di adempiere alle
proprie obbligazioni direttamente nelle mani dell’agente della riscossione, senza una preventiva fase di natura giurisdizionale, come invece avviene
negli ordinari procedimenti di espropriazione
presso terzi (5).
In sostanza, se, da un lato, l’evidente «squilibrio», nella fase della riscossione coattiva, tra
agente della riscossione e contribuente appare giustificato da un preminente interesse fiscale, dall’altro, occorre domandarsi in che termini i suddetti
poteri, tradizionalmente esercitati nella fase dell’accertamento del tributo (6), siano compatibili
con quella dell’esecuzione forzata (7), individuandone i limiti applicativi, sia dal punto di vista
soggettivo, sia da quello oggettivo (8).
Accesso autoritativo ai dati economici
e patrimoniali del contribuente
Nel D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito,
con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n.
248, sembrano enuclearsi due «macrocategorie» di
indagine, a partire dalla interrogazione informatica delle «banche dati» a disposizione degli Uffici
(art. 35, commi 25 e 26), fino a poteri di accesso, ispezione e verifica in senso stretto (9) (art.
35, comma 25-bis). Tra le banche dati accessibili (10) in base al sopra citato art. 35, comma 25,
è anche esplicitamente indicata la cosiddetta «anagrafe dei conti» (11), mentre il successivo comma
26-bis prevede un ulteriore «vaglio» relativamente
ai soggetti che possono avere accesso ai dati in
questione: tale vaglio non deve essere compiuto
dall’agente della riscossione, ma dall’Agenzia delle
entrate la quale deve individuare «in modo selettivo i dipendenti degli agenti della riscossione che
possono utilizzare ed accedere ai dati» (12).
Non è indicato, invece, chi sia abilitato a svolgere i suddetti poteri istruttori in senso stretto
(comma 25-bis), poiché nella norma manca ogni
riferimento ai «dipendenti» dell’agente della riscossione, e si rinvia genericamente agli «agenti
della riscossione». Si pone, quindi, il dubbio se
62
Dialoghi Tributari n. 1/2009
occorrano «ufficiali della riscossione» (figura dota(5) Sulla quale cfr., in particolare, C. Glendi, «La «nuova»
espropriazione dei crediti del debitore verso terzi nell’esecuzione
forzata tributaria», in Corr. Trib. n. 3/2007, pag. 263; G. Puoti B. Cucchi, Diritto dell’esecuzione tributaria, Padova, 2007 nonché,
da ultimo, Piciocchi, «La nuova esecuzione forzata esattoriale», in
Riv. giust. trib., 2008, pag. 520.
(6) In questa sede, per evidenti ragioni di economicità di trattazione, non è possibile soffermarsi sul contenuto dei poteri di accesso, ispezione e verifica. Pertanto, si rinvia, senza alcuna pretesa di
completezza, a G. Vanz, L’attivita` conoscitiva dell’amministrazione
finanziaria, Torino, 2005, pag. 80 ss.; A. Viotto, I poteri d’indagine
dell’amministrazione finanziaria - Nel quadro dei diritti inviolabili di
liberta` sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, pag. 266 ss. e l’ampia bibliografia citata da tali Autori. Per un’interessante rassegna di
giurisprudenza vedi, per tutti, Cimino, «Il potere di accesso dell’amministrazione finanziaria presso il contribuente - Rassegna di
giurisprudenza», in Dir. prat. trib., 2008, II, pag. 391.
(7) Per ulteriori spunti cfr. anche C. Glendi, «Verso una nuova
esecuzione forzata tributaria», in Riv. giur. trib., 2006, pag. 465.
(8) È stato, in tal senso, posto in luce che il «ragionevole e giustificato rigore pro fisco deve essere necessariamente contemperato
assicurando adeguate forme di tutela del contribuente». Cosı̀ L.
del Federico, «L’efficacia della riscossione e le misure cautelari»,
cit., loc. cit., pag. 74.
(9) Per un’approfondita disamina di tali disposizioni vedi L.
Lovecchio, «Le novità del 2006 in materia di riscossione: dal decreto Bersani - Visco alla manovra d’autunno», in Boll. Trib.,
2007, pag. 615; D. Carnimeo, «I nuovi poteri degli agenti della
riscossione», in Boll. Trib., 2007, pag. 933.
(10) Da parte dei «dipendenti della Riscossione s.p.a. o delle
società dalla stessa partecipate». Per una approfondita ricostruzione
delle «caratteristiche» di tali soggetti vedi A. Befera, «Il sistema di
riscossione coattiva: riscossione S.p.a.», in AA. VV. (a cura di Magliaro), Il fattore «R» - La centralita` della riscossione nelle manovre
di finanza pubblica, cit., loc. cit., pag. 77; M.C. Parlato, «Brevi note sulla Riscossione S.p.a.», cit., loc. cit., 2006, pag. 1174; A. Parlato, «Gestione pubblica e privata nella riscossione dei tributi a
mezzo ruolo», in Rass. trib., 2007, pag. 1355.
(11) Cioè quella sezione «speciale» dell’Anagrafe tributaria che
contiene le notizie fornite da tutti quei soggetti (intermediari finanziari, Poste s.p.a., ecc.) che sono obbligati a rilevare i dati identificativi dei propri clienti nonché le operazioni finanziarie effettuate.
Sul punto, cfr. R. Loiero - G. Malinconico, «Le nuove norme in
tema di anagrafe tributaria. L’accesso degli agenti della riscossione e
l’anagrafe dei rapporti finanziari», in il fisco, 2007, pag. 316.
(12) Peraltro, il Direttore dell’Agenzia delle entrate, con proprio
provvedimento del 18 dicembre 2006, ha stabilito quali devono essere i requisiti per la selezione dei dipendenti ammessi a tale procedura di controllo riguardante l’Anagrafe dei conti. Sono stati, sostanzialmente, individuati due requisiti: che il dipendente presti servizio presso l’agente della riscossione da almeno due anni e che il
medesimo sia già abilitato ad accedere all’Anagrafe tributaria. Il medesimo provvedimento prevede condizioni «meno restrittive» per
quanto concerne l’individuazione dei dipendenti che hanno il potere di accedere alle banche dati diverse dall’Anagrafe dei conti (ai
sensi dell’art. 35, comma 26, del decreto Visco - Bersani).
Riscossione
ta di particolari qualifiche soggettive, disciplinata
dagli artt. 42 e seguenti del D.Lgs. 13 aprile
1999, n. 112) ovvero possano essere semplici dipendenti dell’agente della riscossione. Il dubbio
deriva dal fatto che, recentemente, è stata apportata una significativa modifica all’art. 72-bis del
D.P.R. n. 602/1973: in seguito all’entrata in vigore della legge 24 dicembre 2007, n. 244, infatti, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore
verso terzi può essere redatto anche da dipendenti
dell’agente della riscossione, non abilitati all’esercizio delle funzioni di ufficiale della riscossione.
È, cosı̀, ragionevole ritenere che anche i poteri di
accesso, ispezione e verifica possano essere esercitati dai dipendenti privi di tale qualifica, in quanto l’esercizio di detti poteri, come accennato in
precedenza, è proprio finalizzato all’individuazione di un eventuale debitor debitoris e, conseguentemente, alla effettuazione del pignoramento presso terzi: è, pertanto, privo di giustificazione - e,
peraltro, assolutamente «antieconomico» - che le
operazioni di ricerca dei beni debbano essere effettuate da taluni soggetti ma che, poi, l’atto di
pignoramento venga redatto da soggetti estranei a
tali operazioni.
Tale soluzione potrebbe destare, prima facie,
qualche perplessità, in quanto solamente gli ufficiali della riscossione sono dotati di talune prerogative - e tenuti all’adempimento di una serie di
obblighi - che dovrebbero garantire professionalità e trasparenza (13). A ben guardare, tuttavia,
tale problematica risulta superata dalla necessità
che tutti gli adempimenti imposti agli ufficiali
della riscossione, a garanzia della trasparenza dell’azione amministrativa e del diritto d’informazione del contribuente, siano riferiti anche ai dipendenti di Equitalia privi di tale qualifica; anch’essi sono, infatti, comunque, soggetti alle disposizioni che disciplinano gli accessi, le ispezioni
e le verifiche tributarie ed, in particolare, a quelle
contenute nello Statuto dei diritti del contribuente. In altri termini, appare ragionevole ritenere che i dipendenti degli agenti della riscossione siano tenuti all’adempimento dei medesimi
obblighi che incombono sui verificatori dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza
(vedi infra).
Presupposti oggettivi nella procedura esattiva
Una delle problematiche di maggior spessore,
nell’ambito della disciplina in questione, riguarda
l’individuazione della «fase» in cui i poteri d’indagine, accesso, ispezione e verifica possono essere
esercitati dall’agente della riscossione. Il comma
25, in particolare, limita il potere di accesso all’anagrafe dei conti «ai soli fini della riscossione mediante ruolo», mentre il successivo comma 25-bis
ha una portata assai più limitata: infatti, l’attribuzione dei poteri di accesso, ispezione e verifica è
funzionale all’acquisizione «di tutta la documentazione utile all’individuazione dell’importo dei crediti di cui i debitori morosi sono titolari nei confronti di soggetti terzi». In altri termini, l’esercizio
di tali poteri, a differenza di quelli di accesso all’anagrafe dei conti, è limitato alla ricerca di un
eventuale debitor debitoris e, conseguentemente, al
pignoramento presso terzi.
In altri termini se, da un lato, non sembrano
esservi dubbi che l’esercizio dei poteri di accesso,
ispezione e verifica sono esercitabili, in via esclusiva, nella fase della riscossione coattiva strictu sensu, dall’altro, la locuzione «ai soli fini della riscossione mediante ruolo», contenuta nel comma 25,
sembrerebbe legittimare le indagini presso l’anagrafe dei conti (e le altre «banche dati») in una fase procedimentale ben più ampia (14). D’altro
canto, il D.M. 16 novembre 2000 (15) all’art. 1
recita espressamente che «i concessionari del Servizio nazionale della riscossione possono esercitare
(13) In particolare, assume notevole rilevanza il fatto che l’Ufficiale della riscossione è tenuto ad annotare in ordine cronologico
tutti gli atti ed i processi verbali, numerandoli progressivamente,
in apposito registro, da tenersi con le forme e con le modalità stabilite per il registro cronologico dell’ufficiale giudiziario, soggetto,
quest’ultimo, come è noto, tipicamente delegato alla fase dell’esecuzione forzata disciplinata dal codice di procedura civile. In tal
senso, art. 44 del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112.
(14) Sulle diverse problematiche della riscossione vedi, da ultimi, M. Basilavecchia, «Il ruolo e la cartella di pagamento: profili
evolutivi della riscossione dei tributi», in Dir. prat. trib., 2007, I,
pag. 127; Id., «La riscossione dei tributi», in Rass. trib., 2008,
pag. 22; G. Carinci, «Il ruolo tra pluralità di atti ed unicità della
funzione», in Riv. dir. trib., 2008, I, pag. 243.
(15) Attuattivo del D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, recante disposizioni di riordino del Servizio nazionale della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla legge 28 settembre 1998, n.
337.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Riscossione
la facoltà di accesso al sistema informativo del
Ministero delle finanze relativamente ai debitori
iscritti a ruolo ... e con esclusivo riferimento alle
notizie indispensabili per lo svolgimento dell’attività di riscossione affidata in concessione ... in
qualunque momento successivo alla consegna del
ruolo». Ulteriore conferma in tal senso sembrerebbe ritraibile dal fatto che, mentre il comma
25-bis presuppone, espressamente, ai fini di tali
poteri «la morosità» del contribuente «nel pagamento di importi da riscuotere mediante ruolo»,
tale condizione non è indicata nel precedente
comma 25.
In sostanza, dal quadro normativo di riferimento, sembrerebbe emergere che l’accesso «telematico» ai dati economico-patrimoniali del contribuente possa avvenire ancor prima di notificare la
cartella di pagamento e a maggior ragione prima
di un eventuale inadempimento del destinatario.
Al di là del dato letterale delle suddette disposizioni, tale ricostruzione non convince pienamente: le norme in questione, infatti, dovrebbero essere interpretate nel senso che, sia il potere di accesso ai dati del contribuente, sia di quelli stricto
sensu istruttori, possono essere esercitati solamente
laddove siano decorsi i termini per l’impugnazione della cartella di pagamento in quanto, prima
di detta scadenza, non si è ancora venuto a perfezionare, definitivamente, il procedimento di formazione del titolo esecutivo che giustifica la riscossione coattiva (16). D’altro canto, l’accesso ai
dati «sensibili» del contribuente non troverebbe
alcuna giustificazione neppure in termini di misure cautelari - fermo ed ipoteca (17) - le quali, certamente, presuppongono la decorrenza del suddetto termine per l’impugnazione, ovvero per l’adempimento spontaneo da parte del contribuente.
Per quanto concerne, invece, i poteri di accesso, ispezione e verifica, gli stessi hanno un ambito
di applicazione ben più limitato.
A titolo esemplificativo, non dovrebbe essere
autorizzato l’esercizio dei poteri in questione nell’ipotesi in cui l’iscrizione a ruolo - e, conseguentemente, la cartella di pagamento - sia stata impugnata innanzi alla Commissione tributaria e quest’ultima abbia accolto l’eventuale istanza di so-
64
Dialoghi Tributari n. 1/2009
spensiva: ciò in quanto l’efficacia del titolo esecutivo rimane sospesa fino alla sentenza di merito
(sempre che, naturalmente, detti poteri non siano
stati esercitati prima del deposito dell’ordinanza
di accoglimento della sospensione dell’atto impugnato). È, altresı̀, conforme a tale impostazione
ritenere che l’esercizio dei poteri istruttori sia precluso nell’ipotesi in cui sia già decorso un anno
dalla notificazione della cartella di pagamento e
l’agente della riscossione sia rimasto inerte. Come
è noto, infatti, l’art. 50 del D.P.R. n. 602/1973,
rubricato «Termine per l’inizio della riscossione»,
dispone che «se l’espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l’espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica ... di un avviso che contiene
l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal
ruolo entro cinque giorni». Sembra, pertanto, ragionevole che gli accessi, le ispezioni e le verifiche, decorso un anno dalla notificazione della cartella di pagamento, senza che sia iniziata l’azione
esecutiva - e senza che in tale lasso di tempo siano già stati esercitati i poteri istruttori - siano subordinati all’invio dell’avviso di intimazione disciplinato dall’art. 50.
Occorre, in ultima analisi, verificare se possa
essere consentito l’esercizio dei poteri in questione
laddove il contribuente abbia presentato all’Agente della riscossione una formale istanza di rateizzazione delle somme iscritte a ruolo (18). Nel caso
di specie è opportuno distinguere le indagini sulla
«consistenza» patrimoniale del contribuente, effettuate mediante le «banche dati tributari», dall’esercizio dei poteri istruttori stricto sensu.
È, infatti, coerente ritenere che la circostanza
che il contribuente abbia chiesto di avvalersi del(16) Analogamente, con espresso riferimento al comma 25-bis,
L. Lovecchio, op. loc. cit., pag. 618.
(17) Sui quali cfr., da ultimo, l’approfondita ricostruzione di L.
del Federico, «Ipoteca e fermo nella riscossione: tra salvaguardia
dell’interesse fiscale e tutela del contribuente», in Giust. trib.,
2007, pag. 427 nonché R. Lupi - M. Giorgi, «Azioni cautelari del
concessionario della riscossione (fermo/ipoteca) e tutela del contribuente», in Dialoghi dir. trib. n. 12/2007, pag. 1493.
(18) Sul punto vedi M. Basilavecchia, «Agli agenti della riscossione la rateizzazione dei ruoli», in Corr. Trib. n. 16/2008, pag.
1259 nonché Id., «Modificata la riscossione per ridurre il ricorso
all’iscrizione a ruolo», ivi n. 3/2008, pag. 190.
Riscossione
la rateizzazione dei ruoli non impedisca all’agente
della riscossione di verificare la consistenza patrimoniale dello stesso: infatti se, da un lato, appare corretto che la presentazione di detta istanza
precluda l’avvio di nuove azioni esecutive (19),
dall’altro, è altrettanto vero che lo stesso agente
ben possa avvalersi delle misure cautelari nel caso
in cui vi siano fondati pericoli per la riscossione.
Tale assunto, peraltro, appare fortemente avvalorato dal fatto che se fino a pochi mesi addietro
la concessione della rateizzazione era subordinata
alla presentazione di idonee garanzie da parte del
debitore istante, in seguito ad una recente modifica normativa (20) tali garanzie non sono più
necessarie. È chiaro che se fosse inibito all’agente
della riscossione di verificare la sussistenza o meno di beni di proprietà del contribuente sarebbe,
conseguentemente, impossibile per lo stesso avvalersi degli strumenti cautelari, laddove l’istanza
di rateazione apparisse dettata da intenti meramente dilatori. Appare, al contrario, altrettanto
ragionevole sostenere che la richiesta di dilazione
precluda l’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e verifica: questi ultimi, infatti, non possono,
in alcun modo essere dettati da esigenze cautelari, ma esclusivamente «espropriative», nell’ipotesi
in cui non sia stato possibile per l’agente della riscossione individuare beni di proprietà del contribuente e quest’ultimo persista nella propria
morosità.
È evidente, inoltre, che, in questo caso, non
appare coerente con la ratio delle disposizioni l’esercizio di poteri che, comunque, devono presupporre la morosità del debitore: il fatto che quest’ultimo, infatti, dimostri la volontà di adempiere, seppur in via «frazionata», porta ad escludere
proprio la morosità (ed, a maggior ragione, tale
assunto deve valere se l’istanza di rateizzazione
viene presentata entro sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento). In conclusione, nell’ipotesi in cui il contribuente abbia proposto formale istanza di rateizzazione, le attività di
verifica di cui all’art. 35, comma 25-bis, sembrano presupporre l’esistenza di tre condizioni: la
piena efficacia di un titolo esecutivo che giustifichi l’esecuzione forzata sui beni del debitore; che
quest’ultimo non abbia manifestato la propria vo-
lontà di adempiere alle proprie obbligazioni; l’insussistenza, comunque, di beni di proprietà del
debitore sui quali l’agente della riscossione possa
agire in via cautelare. Solamente il verificarsi di
dette condizioni, infatti, giustifica l’esercizio dei
suddetti poteri, particolarmente invasivi, funzionali alla ricerca dei beni da pignorare e che riguardano anche soggetti terzi rispetto al debitore
moroso (21). In altre parole, l’esercizio dei poteri
di accesso, ispezione e verifica dovrebbe rappresentare l’extrema ratio nell’alveo delle facoltà di
indagine concesse all’agente della riscossione.
Garanzie del contribuente
nel corso delle attività istruttorie «esattive»
L’agente della riscossione ha la facoltà di esercitare, integralmente, i poteri istruttori attribuiti
all’Amministrazione finanziaria e alla Guardia di
finanza in materia di accertamento delle imposte
dirette e dell’IVA (22). Come è stato autorevolmente sottolineato, infatti, «abbiamo una tipologia parallela di accessi e verifiche, con finalità separate, destinata però ad essere regolata nei suoi
aspetti generali dalla normativa preesistente» (23).
(19) Come è stato, peraltro, indicato dalla stessa Equitalia nella
propria direttiva 27 marzo 2008, la quale ha indicato che la presentazione della istanza in questione preclude e sospende la prosecuzione delle procedure esecutive già avviate. In tal senso Direttiva
di gruppo n. DSR/NC/2008/012 (prot. n. 2070), reperibile al sito
internet www.equitaliapolis.it
(20) Art. 83, comma 23, lett. a), del D.L. 25 giugno 2008, n.
112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
(21) Sul punto vedi, in particolare, G. Scarlata - R. Lupi,
«Ispezioni, documenti relativi a terzi, tutela della riservatezza e legittimità della verifica», in Dialoghi dir. trib. n. 12/2005, pag.
1598.
(22) L’art. 35, comma 25-bis, del decreto Visco - Bersani, infatti, rinvia espressamente ai «poteri previsti dagli articoli 33 del
decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n.
600, e 52 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre
1972, n. 633» Come è stato evidenziato da autorevole dottrina,
infatti, «si conferma in modo eclatante la tendenza alla unitarietà
della funzione impositiva secondo una logica che, per esigenze di
efficienza e di buon funzionamento, sempre meno tollera l’adozione di schemi giuridici completamente diversi tra accertamento e
riscossione». Cosı̀ M. Basilavecchia, «Soggetti passivi e riscossione
coattiva», cit., loc. cit., pag. 3395.
(23) M. Basilavecchia, op. loc. cit., pag. 3394.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
65
Riscossione
Pertanto, se, sostanzialmente, i poteri degli
agenti della riscossione non subiscono particolari
limitazioni, rispetto a quelli concessi agli organi
dell’Amministrazione finanziaria, occorre sempre
tenere presente che detti poteri hanno l’esclusiva
funzione di reperire beni di terzi sui quali procedere coattivamente (24). Tanto premesso se, da
un lato, appare evidente che il concreto esercizio
dei poteri istruttori può trovare dei limiti in
considerazione delle finalità sottese alla normativa in questione, dall’altro, anche le garanzie del
contribuente devono essere «graduate» ed interpretate in ragione della particolare posizione soggettiva che lo stesso assume nella fase dell’esecuzione tributaria. Anche se l’agente della riscossione è un «creditore» particolarmente qualificato e,
«nel bilanciamento tra i vari interessi in gioco,
in questa fase è ragionevole tenere in adeguata
considerazione l’interesse del Fisco» (25), egli
deve tenere (proprio per questo) un comportamento «in linea» con i doveri della Pubblica amministrazione; si pone quindi il problema di forme di tutela di natura procedimentale, prima ancora che processuali, per i destinatari di tali attività.
Appaiono, in primo luogo, applicabili le garanzie fondamentali per il contribuente sottoposto a
verifiche tributarie (26) di cui all’art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del
contribuente) (27). Cosı̀, a titolo meramente
esemplificativo, all’inizio della verifica, il contribuente avrà diritto di essere informato delle ragioni che l’hanno giustificata e dell’oggetto che la riguarda nonché della facoltà di farsi assistere da
un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli
organi di giustizia tributaria. Analogamente, non
vi è ragione di escludere che, ai sensi dell’art. 12,
comma 3, su richiesta del contribuente, l’esame
dei documenti amministrativi e contabili possa essere effettuato nell’Ufficio dei verificatori o presso
il professionista che lo assiste o rappresenta e che,
come dispone il successivo comma 4, nei relativi
verbali debba essere dato conto delle osservazioni
formulate dal contribuente stesso. Ancora, anche
nel caso delle verifiche effettuate dai dipendenti
degli agenti della riscossione dovranno valere i limiti «temporali» di permanenza dei verificatori
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
presso i locali del contribuente (art. 12, comma
5) ed in caso in cui, quest’ultimo, ritenga violati i
propri diritti potrà rivolgersi al garante del contribuente (art. 12, comma 6).
In altri termini, non è riscontrabile alcuna preclusione a «trasporre», de plano, la suddetta disciplina normativa dalla fase degli ordinari controlli
a quella della riscossione coattiva, in quanto l’art.
12 ha la preminente funzione di garantire la trasparenza dell’azione amministrativa e, specularmente, di ottemperare all’obbligo informazione
del soggetto sottoposto ad indagini.
Sembra, invece, di difficile applicazione, in
questa fase, l’art. 12, comma 7, dello Statuto (28)
il quale se, da un lato, in linea puramente teorica,
potrebbe trovare piena «cittadinanza» anche con
riferimento alle verifiche effettuate dagli agenti
della riscossione, dall’altro si scontra con evidenti
(24) A titolo meramente esemplificativo, pur non essendovi
dubbi che gli agenti della riscossione possano avvalersi dello strumento delle indagini bancarie, allo stesso tempo, i poteri di indagine in tal senso debbono essere assai più limitati rispetto a quelli
concessi all’Agenzia delle entrate ed alla Guardia di finanza: infatti,
nella fase della riscossione coattiva l’unica finalità che deve «guidare» i verificatori è solamente quella di quantificare la consistenza
dei conti correnti bancari del debitore o l’esistenza di altre posizioni creditorie ma non, certamente, quella di analizzare i flussi finanziari «in entrata» ed «in uscita». In altri termini, deve ritenersi
preclusa, agli agenti della riscossione, un’analisi «dinamica» delle
movimentazioni bancarie, dovendosi limitare l’indagine alla «consistenza» patrimoniale del debitore.
(25) L. del Federico, «Ipoteca e fermo nella riscossione ...», cit.,
loc. cit., pag. 427.
(26) Tale affermazione, d’altro canto, trova esplicita conferma
nello stesso Statuto il quale, all’art. 17, dispone, espressamente,
che «le disposizioni della presente legge si applicano anche nei
confronti dei soggetti che rivestono la qualifica di concessionari e
di organi indiretti dell’amministrazione finanziaria, ivi compresi i
soggetti che esercitano l’attività di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di qualunque natura». Sul punto cfr., per tutti,
A. De Fazio, «Gli organi indiretti dell’amministrazione finanziaria
nell’interpretazione dello Statuto del contribuente», in Riv. dir.
trib., 2004, pag. 1037.
(27) In tal senso vedi, in particolare, M. Basilavecchia, «Soggetti passivi e riscossione coattiva», op. loc. cit., pag. 3394. Su tale
norma vedi, cfr. G. Marongiu, Lo statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008.
(28) Sul quale, oltre agli Autori precedentemente citati, cfr., da
ultimo, Renda, «L’art. 12, comma VII, dello Statuto del contribuente e l’auspicata cristallizzazione del principio del contraddittorio anticipato», in Giust. trib., 2007, pag. 237.
Riscossione
difficoltà di ordine applicativo ed, in particolare,
con le esigenze di celerità delle azioni esecutive (29).
Il problema di fondo consiste, infatti, nel fatto
che nella fase dell’espropriazione in senso stretto qual è quella in cui vengono esercitati i poteri
istruttori in questione - l’interesse del legislatore
non è quello di quantificare la pretesa impositiva,
ma di impedire atti di distrazione del patrimonio
a fronte di un titolo esecutivo ormai efficace.
L’atto con il quale tale obiettivo può essere realizzato è, evidentemente, l’atto di pignoramento il
quale, al di là delle evidenti peculiarità che lo caratterizzano in ambito tributario, rimane, comunque, il primo atto dell’esecuzione forzata.
La «concessione», al contribuente, di un termine di sessanta giorni per formulare le proprie osservazioni in merito al contenuto del processo
verbale di verifica potrebbe comportare gravi danni sul fronte della esecuzione: infatti, in tale lasso
di tempo il debitore sarebbe legittimato, liberamente, a disporre dei propri beni (nel caso di specie, dei propri crediti) i quali, in assenza del vincolo del pignoramento, restano nella piena disponibilità del medesimo. In altri termini, ritenere
che l’atto di pignoramento - alla stregua dell’avviso di accertamento - non possa essere compiuto
prima della scadenza di detto termine configgerebbe, in maniera evidente, proprio con la ratio
sottesa alla procedura di pignoramento presso terzi. Peraltro - e in conclusione - il suddetto art.
12, comma 7, contiene una vera e propria «clausola di salvaguardia» laddove dispone che i provvedimenti impositivi possono, comunque, essere
emessi prima della scadenza dei sessanta giorni
nei casi di «particolare e motivata urgenza»: nel
caso delle procedure espropriative, la «particolare
urgenza» è in re ipsa nel fatto che, in mancanza
dell’emissione dell’atto di pignoramento, il debitore, ormai moroso in maniera conclamata e che
non dimostra alcuna volontà di adempiere, potrebbe, in qualsiasi momento, sottrarre all’esecuzione il proprio patrimonio.
Regime delle autorizzazioni
L’esercizio dei poteri attribuiti all’agente della
riscossione presuppone, espressamente, l’autorizza-
zione del direttore generale. Il contenuto di detta
autorizzazione dovrebbe essere assai diverso a seconda che riguardi i poteri di cui al suddetto
comma 25, oppure quelli d’accesso, ispezione e
verifica in senso stretto.
Anagrafe dei conti e altre banche dati
È chiaro che nel caso in cui l’agente della riscossione sia intenzionato ad effettuare indagini
presso l’Anagrafe dei conti, o presso le altre banche dati, sembra sufficiente che l’autorizzazione
indichi l’avvenuta decorrenza del termine per
l’impugnazione della cartella di pagamento, in
quanto l’esercizio di tale potere è finalizzato alla
ricerca dei beni del contribuente sui quali soddisfarsi o sui quali agire in via cautelare. La possibilità di esperire un’indagine conoscitiva sulla consistenza patrimoniale del contribuente non dovrebbe necessitare di particolari cautele, posto che
quest’ultimo risulta definitivamente ed indiscutibilmente debitore nei confronti dell’Erario: ragion
per cui l’autorizzazione dovrebbe essere pressoché
«automatica», seppur necessitata da ragioni di trasparenza. In altri termini, la legittimità di verificare, da parte dell’agente della riscossione, la consistenza patrimoniale del debitore, è da ritenersi
sussistente in re ipsa, insita, cioè, nel conclamato
e perdurante inadempimento del contribuente e,
conseguentemente, nella esigenza, per l’agente
della riscossione, di preservare e soddisfare la pretesa erariale.
Poteri di accesso, ispezione e verifica
Discorso maggiormente complesso per quanto
concerne il contenuto delle autorizzazioni all’esercizio dei poteri di accesso, ispezione e verifica.
Occorre, certamente, considerare che se è vero
che il contenuto di dette autorizzazioni deve esse(29) L’art. 12 dispone espressamente che «nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il
rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni
da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare
entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori» e che «l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi
di particolare e motivata urgenza».
Dialoghi Tributari n. 1/2009
67
Riscossione
re analogo a quello previsto dall’art. 52 del
D.P.R. n. 633/1972 (al quale rinvia, de plano,
l’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973), la procedura
del comma 25-bis vista la fase in cui si «colloca»,
presenta peculiarità. Volendo trasporre nella fase
esattiva le disposizioni suddette (30), occorrerà
escludere la ricerca di elementi volti all’accertamento del tributo ma rileverà esclusivamente, come più volte menzionato, la procedura di pignoramento presso terzi. Sotto tale profilo, pertanto,
rivestiranno rilevanza essenziale lo «scopo» indicato nell’autorizzazione e la motivazione della medesima (31).
Si è da più parti osservato che occorre tenere
ben distinta la «finalità» dell’esercizio dei poteri
istruttori dalle ragioni, rectius, dalle motivazioni,
che hanno indotto l’organo procedente a richiedere l’autorizzazione ed il direttore a concederla.
Sotto il primo profilo, come si è evidenziato,
«nell’imporre all’Ufficio di dichiarare lo scopo
della propria attività» la legge ha «con ciò inteso
stabilire che deve essere esposto il fine particolare,
specifico, riferito alla fattispecie concreta» (32).
Nel caso dei poteri istruttori esercitati dall’agente della riscossione, è la stessa littera legis ad
indicare, chiaramente, lo scopo dell’attività ispettiva in quanto il più volte citato comma 25-bis
dispone, espressamente, che detta attività deve essere esercitata per l’acquisizione «di tutta la documentazione utile all’individuazione dell’importo
dei crediti di cui i debitori morosi sono titolari
nei confronti di soggetti terzi». È, pertanto, evidente che l’autorizzazione del direttore dovrà indicare, espressamente, tale finalità dei verificatori:
conseguentemente, l’ambito d’intervento di questi
ultimi sarà fortemente limitato e circoscritto in
un ambito assai più «angusto» rispetto alle ordinarie attività di accesso, ispezione e verifica ai fini
dell’accertamento.
Sotto il profilo della motivazione, inoltre, l’autorizzazione dovrà contenere le ragioni, di fatto e
di diritto, che hanno indotto l’agente della riscossione ad esercitare poteri particolarmente invasivi
quali l’effettuazione di accessi, ispezioni e verifiche, «destinati ad incidere su diritti e libertà fondamentali dell’individuo» (33).
Nel caso di specie, sembra rivestire un ruolo es-
68
Dialoghi Tributari n. 1/2009
senziale il principio di proporzionalità dell’azione
amministrativa, «da intendersi come necessaria
adeguatezza tra mezzi impiegati e fini perseguito»,
che costituisce «una delle fondamentali regole ...
cui deve attenersi l’Amministrazione finanziaria
nell’esercizio delle attività conoscitive tributarie» (34). In altri termini, l’autorizzazione del direttore generale, all’esercizio dei poteri istruttori,
potrà dirsi adeguatamente motivata solamente
nell’ipotesi in cui sia ravvisabile - ed espressamente indicata - una concreta e reale necessità di esercitare i medesimi: è chiaro, infatti, che l’autorizzazione dovrà indicare le ragioni che hanno indotto
l’agente della riscossione ad esercitare poteri particolarmente invasivi e che coinvolgono, peraltro,
soggetti terzi, laddove lo stesso agente dispone di
ulteriori strumenti certamente meno problematici
in termini di tutela del contribuente. A titolo meramente esemplificativo, sotto il profilo delle ragioni di fatto sarà sufficiente che nell’autorizzazione venga indicato che, dalle ricerche effettuate, il
contribuente non risulta proprietario di beni mobili e immobili o che questi ultimi sono insuffi(30) Come è noto, l’art. 52 dispone che i verificatori possono
accedere nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali,
agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta
utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni e che i soggetti che eseguono l’accesso
devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo
scopo, rilasciata dal capo dell’Ufficio da cui dipendono. Al tempo
stesso, l’art. 12 dello Statuto dei diritti del contribuente dispone,
da un lato, che «tutti gli accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali...sono effettuati
solo in presenza di circostanze di effettiva esigenza di indagine e
controllo sul luogo» e, dall’altro, che il contribuente deve essere reso edotto «delle ragioni giustificative dell’intervento e dell’oggetto
che le riguarda».
(31) Su tali problematiche ed, in particolare, sulla motivazione
dei medesimi vedi, per tutti, C. Califano, La motivazione degli atti
tributari - Studi preliminari, Bologna, 2008, pag. 204 ss.; G.
Vanz, L’attivita` conoscitiva dell’amministrazione finanziaria, Torino,
2005, pag. 80 ss.
(32) G. Vanz, L’attivita` conoscitiva, cit., pag. 95.
(33) G. Vanz, L’attivita` conoscitiva, cit., pag.. 101. Sul punto,
cfr. in particolare, A. Viotto, I poteri d’indagine dell’amministrazione finanziaria ..., cit.
(34) G. Vanz, op. loc. cit., pag. 98, il quale rinvia, espressamente, al pensiero di I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del
contribuente nelle imposte dirette e nell’IVA, Milano, 1993, pag.
245.
Riscossione
cienti al soddisfacimento della pretesa creditoria.
In altri termini è ragionevole ritenere che l’autorizzazione metta in evidenza che l’esercizio dei
poteri di accesso, ispezione e verifica costituiscono
l’extrema ratio per l’agente della riscossione. Sotto
il profilo delle ragioni «di diritto», non sembrano
porsi particolari problemi, nel senso che una volta
che l’autorizzazione indichi la sussistenza dei presupposti indicati dal più volte menzionato art.
35, comma 25-bis, la stessa dovrebbe considerarsi
adeguatamente motivata.
Conclusioni
Il passaggio da un agente della riscossione
«esattore», ad un agente che, sempre più, riveste
il ruolo di «verificatore», costituisce una svolta significativa dell’attuale sistema tributario. La tematica, peraltro, è ancora «inesplorata» e l’esperienza applicativa dei novellati istituti in via di
formazione. Certamente, i poteri - e, conseguentemente, gli strumenti - dei quali dispongono, attualmente, gli agenti della riscossione hanno l’indiscusso pregio di superare, in larga misura, il
problema dell’endemica «evasione da riscossione»
ma, al tempo stesso, l’esercizio degli stessi necessita di particolari cautele in termini di garanzia
del contribuente. Occorre, infatti, considerare
che, se, da un lato, taluni strumenti dell’esecuzione forzata tributaria hanno caratteristiche assai
prossime a quelle tipiche dei provvedimenti amministrativi (si pensi all’ordine di pagamento di
cui all’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973), dall’altro, a tutt’oggi, sono piuttosto «deboli» gli
strumenti di tutela offerti al contribuente in
un’eventuale fase giurisdizionale.
Infatti, la fase dell’esecuzione forzata tributaria
è di esclusiva cognizione del giudice ordinario al
quale il contribuente può rivolgersi, esclusivamente, in sede di opposizione all’esecuzione - in casi
limitatissimi - e di opposizione agli atti esecutivi.
In conclusione, a fronte di strumenti cosı̀ efficaci, in termini di risultati della riscossione, ma,
al tempo stesso, particolarmente invasivi, sarebbe,
forse, opportuno un profondo ripensamento degli
strumenti processuali offerti al debitore nella fase
della riscossione coattiva.
n Poteri esattivi forti con i deboli e deboli con i furbi?
Raffaello Lupi
L’intervento che precede offre molti spunti per
la costruzione di quella visione d’insieme della
tassazione cui è diretto Dialoghi, secondo il documento programmatico pubblicato in questo numero. Una considerazione riguarda l’evasione da
riscossione, su cui mi ero lungamente soffermato
in passato (35), e che andrebbe combattuta in
modo selettivo, personalizzato, con una attività di
intelligence, e anche di valutazione, nei termini
che vedremo. Le misure descritte da Montanari,
invece, sembrano per certi versi esagerate, e per
altri versi timide, poco consapevoli di vicende pure facilmente immaginabili. Il legislatore sembra
non rendersi conto della varietà di situazioni che,
anche sotto questo profilo, ha davanti. La legislazione sembra disciplinare in maniera standard,
proceduralizzata, innumerevoli situazioni diverse.
C’è l’impiegato proprietario della casa di abitazione, che non paga la TIA, c’è il commerciante che
dopo l’ispezione fiscale si rende nullatenente, c’è
chi vende, fattura e neppure dichiara, c’è chi si
becca fumose contestazioni sulla riqualificazione
giuridica del dichiarato e deve gestire complesse
riscossioni provvisorie, c’è chi dichiara e non versa, c’è chi utilizza prestanome, sia come intestatari
di beni sia come amministratori di società schermo. Le tematiche dell’asset protection, delle società
fiduciarie, dei prestanome e del trust sembrano
del tutto sconosciute al nostro ordinamento giuridico, come strumenti per vanificare i diritti del
creditore; è un altro inconveniente di impostare il
diritto come studio di legislazione e di guardare
la convivenza sociale attraverso lo specchio defor(35) Cfr. R. Lupi, «La riscossione esattoriale nella fiscalità di
massa, dalla riscossione rapida alla riscossione sicura», in Riv. dir.
trib. n. 8/1993, pag. 851 e, insieme ad altri Autori, «Riscossione
delle imposte, come utilizzare al meglio i concessionari», in Rass.
trib., 1994, pag. 1017.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
69
Riscossione
mante della legislazione e delle aspettative verso
di essa. Ci sono più cose in cielo e in terra ... che
sulla Gazzetta Ufficiale, le cui prescrizioni, anche
a proposito della riscossione esattoriale (36), risultano rigide per eccesso o per difetto. Ne risultano
regole rigorosissime verso la persona perbene, che
ha qualcosa da perdere o è imprevidente, mentre
la legislazione sulla riscossione è tutt’ora impotente di fronte alle furbizie, per le quali si ripropongono mutatis mutandis i temi del mio recente
Evasione fiscale, paradiso e inferno, pubblicato in
questi giorni da IPSOA; l’impiegato che non paga
la TIA, o una sanzione amministrativa per divieto
di sosta, sarà passato in una specie di tritacarne
dall’esattore, con ipoteche, ganasce fiscali e simili,
ma il previdente mascalzone riuscirà a non farsi
trovare, senza che l’estensione dei poteri descritta
da Montanari serva a molto. Questo non certo
per colpa delle istituzioni, che anzi nel nostro settore sono le più efficienti dell’intera Amministrazione pubblica italiana. È piuttosto per la mancanza di schemi concettuali, di categorie interpretative della tassazione analitico aziendale ragionieristico contabile, basata sulle grandi organizzazioni
aziendali, affidabili e proprio per questo anche comode da controllare, con le solite sterili riqualificazioni giuridico interpretative del dichiarato.
Adagiandosi su questa capacità economica, che risponde docilmente ai comandi legislativi ed è «facile» e piacevole da controllare, si perde il controllo di quello che occorrerebbe cercare; se tutto
funziona per legge nella gestione della capacità
economica dichiarata, ci si illude che possa essere
lo stesso nella ricerca di quella che viene nascosta.
Al paragrafo 8.5 di Evasione fiscale, paradiso e inferno, cit., ho mostrato perché non è cosı̀; e perché chi può mentire e nascondersi riesce a fare
letteralmente «carne di porco»; questo attraverso
comportamenti che non si possono contrastare
per legge, la quale è onnipotente solo quando
qualcuno le dà retta; per chi può nascondersi e
mentire e servono invece istituzioni che sappiano
valutare e mettersi in gioco, anche quando si tratta di riscossione. Ma da noi il naturale desiderio
delle istituzioni di vivere tranquillamente, di avere
sempre una copertura legislativa, di darsi una procedura ripetitiva è assecondato dall’enfasi dottri-
70
Dialoghi Tributari n. 1/2009
nale sulla legalità, la vincolatezza, l’indisponibilità
del credito tributario, ecc. (37). Queste preoccupazioni, insieme alla necessità di gestire milioni di
pratiche, rendono la riscossione tanto meno «seria» proprio in quanto «più seriale», spersonalizzata, burocratizzata, rigida, ecc.
È una delle ragioni per cui, se si può mentire,
si ha un po’ di immaginazione e faccia tosta, l’Italia potrebbe sembrare un paradiso fiscale migliore delle Bahamas, anche sotto il profilo della
riscossione. Anche se l’esattore farà le ricerche descritte da Montanari, difficilmente troverà qualcosa se il privato è stato previdente, usando società,
prestanome e altri strumenti di asset protection.
Montanari ci ricorda che la capacità economica
non va solo determinata, per calcolare i tributi,
ma va anche aggredita quando si tratta di riscuoterli. Sotto questo profilo, il sistema esattivo dovrebbe essere non solo esaminato partendo dalla
legislazione, come fa Montanari, ma dalle vicende
della convivenza sociale, come cerchiamo di fare
su Dialoghi. In proposito occorre quindi chiedersi
se l’assetto normativo, ma soprattutto comportamentale, delle istituzioni sia adeguato rispetto ai
mezzi utilizzabili dal privato per «schermare» il
proprio patrimonio. Purtroppo, per le ragioni indicate sopra, temo che la risposta sia negativa, in
termini di scarsa flessibilità, eccessiva rigidità verso chi ha qualcosa da perdere alla luce del sole, e
sostanziale impotenza verso chi nasconde elementi
patrimoniali nell’ombra.
La posizione ordinaria del creditore «privato» è
un calvario (38) ed è da chiedersi in quale misura
l’esattore, con i propri poteri pubblicistici, ha mo(36) Io personalmente continuo a usare l’espressione esattore,
storicamente caratterizzata, evocativa e precisa, invece delle generiche formule «concessionario» e poi «agente», che impongono di
aggiungere «della riscossione», in modo da evitare confusioni con i
rivenditori di automobili, la pubblica sicurezza o persino James
Bond, in un inedito «Agente 007 missione pignoramento presso
terzi».
(37) Ci sarebbe da riflettere sul perché la legalità sembri quasi
una ossessione nei contesti in cui l’abuso è all’ordine del giorno.
Forse perché non ci si vuole far accusare di abusi quando non li si
commettono, e si tende a «coprirsi».
(38) Magistralmente descritto da un divertente volumetto di
Marco Mastracci, Articolo quinto, chi ha i (vostri) soldi in mano ha
vinto, Roma, 2005.
Riscossione
do di sottrarvisi. Certo, il sistema descritto da
Montanari funziona quando il debitore ha conti
bancari «visibili» ed è creditore di soggetti diligenti, che intendono liberarsi validamente del proprio debito, pagando nelle mani dell’esattore. Ma
cosa accade quando il debitore del debitore è un
prestanome, incaricato proprio di intestarsi elementi patrimoniali del debitore in modo da proteggerli dall’azione esecutiva? Leggendo l’articolo
di Montanari ci si fa l’idea di un legislatore che
ha semplicemente trasferito di peso sulla riscossione, senza porsi tanti problemi, i poteri investigativi diretti alla determinazione della capacità economica, nell’ordinaria istruttoria tributaria; ma i
problemi non si risolvono in modo giacobino, a
colpi di decreti-legge, e la stessa legislazione è
inutile se chi la redige non trova quegli schemi di
analisi di cui, anche in questo settore, la tassazione è sempre stata carente in Italia (39). Alcune
questioni interpretative di questo «trasferimento
sulla riscossione» di poteri di indagine previsti per
l’accertamento sono correttamente risolte da
Montanari; ad esempio è corretto escludere la disposizione dell’art. 12 dello Statuto, in materia di
scritti difensivi, non pertinente nel caso in esame
in quanto diretta ad una migliore determinazione
del tributo, mentre qui si tratta della sua riscossione.
Il ruolo degli esattori nella determinazione
della capacità economica
I problemi veri però sono altri, ed è normale
che il legislatore non se ne accorga se qualcuno
non glieli fa notare in modo organico, incisivo e
«più umano» di quanto facciano le varie pubblicistiche tributarie, a partire da quella accademica fino ad arrivare ai prontuari di legislazione che si
spacciano per «pratici». I nuovi poteri istruttori
consentiranno probabilmente agli Uffici di individuare beni intestati al contribuente (40), ma è
esasperante la lentezza con cui si è giunti a questo
risultato, dopo decenni in cui le esattorie hanno
vivacchiato, e il loro ruolo si svuotava man mano
che prendeva piede la tassazione analitico-aziendale e l’autoliquidazione del tributo.
Il ruolo degli esattori nella determinazione della
capacità economica andrebbe approfondito con
una indagine storico-giuridica vera, che collochi
nel passato concetti senza tempo della convivenza
sociale, astraendo da come essi si presentano oggi.
Si può immaginare che in un tempo remoto la
funzione esattiva e determinativa dei tributi coincidessero in capo agli esattori, e che poi, nello stato di diritto, la funzione determinativa assorbisse
molte energie dei pubblici poteri, con la necessità
di affidare a terzi quella esattiva. Ai giorni nostri,
man mano che la tassazione si esternalizzava, sostanzialmente in capo a grandi strutture aziendali,
il ruolo degli esattori si svuotava, almeno nell’applicazione fisiologica dei tributi dichiarati; corrispondentemente, i conti economici delle imprese
esattoriali segnavano profondo rosso, fino all’acquisizione da parte del sistema pubblico con
Equitalia s.p.a.
Queste vicende degli esattori sono un altro
aspetto del mancato coordinamento teorico tra
questa fiscalità dell’emerso, basata sulle segnalazioni dei grandi enti, e tante altre forme nascoste o
truffaldine di circolazione della capacità economica. Se ci fossero state analisi degne di questo nome, avrebbero rilevato fin da subito che di esattori, nella fiscalità dell’emerso, non c’era alcun bisogno, mentre siamo invece andati avanti per decenni cercando di mantenere in vita le aziende
esattoriali dirottando su di esse i versamenti in
autoliquidazione, che avrebbero potuto essere effettuati tranquillamente in banca, come poi giustamente è successo. Un ruolo fondamentale, invece, degli esattori avrebbe dovuto dirigersi alla ricerca della ricchezza nascosta, non per applicarvi
dei tributi, ma per riscuotere i tributi già accertati
dagli Uffici.
Viste dall’angolo visuale della riscossione, sono
le stesse disfunzioni che costituiscono una chiave
di lettura del mio Evasione fiscale, paradiso e inferno, cit.: anche nella riscossione è mancato il coor(39) Non sarà certo il legislatore a predisporre strumenti di
comprensione adeguati alla realtà, se gli studiosi vi si sottraggono
in massa. Anzi, lo stesso legislatore è il primo ad avere bisogno di
questi strumenti di comprensione, e se non li trova si spiegano
molte disfunzioni legislative.
(40) È quasi comico che ci siano voluti decenni per arrivare a
questo risultato, con gli Uffici provvisti dei poteri d’indagine, ma
non abilitati a usarli per la riscossione, e gli esattori senza poteri.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
71
Riscossione
dinamento tra le procedure seriali, riguardanti
moltissimi contribuenti, solvibili, debitori di importi modesti, e un numero minore di soggetti
che decidono di «entrare in clandestinità», direttamente o attraverso soggetti interposti. Si pensi alle società, intestate a prestanome, che aprono e
chiudono senza pagare i debiti fiscali e contributivi, oppure a quelle che riescono a mettersi in liquidazione prima dell’accertamento, o a quelle
dove inopinatamente «spariscono i soldi» e il Fisco resta a bocca asciutta, senza saper chi ringraziare; su questi veri profili fiscali della liquidazione, sul piano della tutela dei debiti fiscali non accertati, vorremmo incidentalmente tornare su
Dialoghi.
In tutti questi casi non troviamo certo i beni
del debitore intestati a nome del medesimo, ma
occorre valutare, decidere su chi indirizzare indagini con natura, anche qui, marcatamente presuntiva e ipotetica, secondo schemi analoghi, anche
se riferiti alla riscossione, a quelli da me descritti
per l’accertamento al paragrafo 8.5 di Evasione,
paradiso e inferno, cit. Si tratta di riuscire a dimostrare chi sono gli «imprenditori occulti», che manovrano le marionette interposte agli occhi del Fisco, oppure chi sono i prestanome, o le società,
che garantiscono il patrimonio di chi è sicuramente debitore del Fisco. Qui non si tratta di
«sapere dove sono» beni sicuramente del debitore,
ma di sapere chi è il vero titolare di beni di cui
egli dispone. Si tratta di sapere in che modo possono vivere alla grande soggetti apparentemente
nullatenenti, secondo quanto ironicamente racconta il già citato spiritoso volumetto di Mastracci. I poteri istruttori servirebbero quindi ad avere
informazioni, ed è particolarmente importante,
qui, l’applicazione di sanzioni, quantomeno per
omessa o infedele risposta ai relativi questionari,
che (mi auguro) possano essere spediti da Equitalia nell’esercizio dei poteri descritti da Montanari;
ma forse le sanzioni per omessa risposta ai questionari di Equitalia sono ancora insufficienti rispetto a quella che è una vera e propria attività di
favoreggiamento di debitori fiscali insolventi.
Quando non ci sono di mezzo i «grandi enti erogatori» o soggetti con qualcosa da perdere, il Fisco deve riequilibrare la propria inferiorità cono-
72
Dialoghi Tributari n. 1/2009
scitiva esercitando poteri amministrativistico-investigativi, magari richiedendo informazioni e potendo infliggere sanzioni in caso di risposta omessa o reticente. È tutto un mondo dove il Fisco ha
perso il controllo del territorio e sul quale sono
prima di tutto gli studiosi a dover fare mente locale, partendo dalla sostanza della convivenza sociale nel settore, piuttosto che descrivendo la normativa.
Il sistema dei compensi alle esattorie
Giusto qualche suggerimento, prima di concludere, nel chiedersi se il sistema dei compensi alle
esattorie ancora oggi sia migliorabile per incentivare, da parte loro, attività di indagine come
quelle sopra indicate. La determinazione degli aggi esattoriali, su cui dovremo tornare su Dialoghi
a fronte del recentissimo ed esoso aumento, sembra ancora troppo rigida, troppo gravosa per chi
comunque paga, e poco incentivante per gli esattori che intendessero svolgere attività di intelligence. Elementari considerazioni di efficienza indurrebbero infatti, in presenza di inadempimento del
debitore, a premiare l’attività esattiva di Equitalia,
che dovrebbe diventare un incubo per chi si nasconde anziché essere l’incubo per chi comunque
paga, ed è oltretutto gravato da aggi pesantissimi.
Al limite, ma il punto sarebbe meritevole di ulteriori approfondimenti, è meglio che l’esattore
prenda tutto quello che riesce a riscuotere da chi
altrimenti non avrebbe pagato, a fronte di un minore aggio a carico di debitori diligenti e solvibili.
È un altro modo per contrastare una situazione
che, anche sul versante della riscossione, sembra
un paradiso per chi può nascondersi, e un inferno
per chi è invece esposto ad una azione esecutiva
inesorabile (per chi ci casca), ma incapace di individuare i furbi.
Rimborsi
Rimborsi dei crediti da dichiarazione
e maggior danno
da svalutazione monetaria
di Luigi Vassallo, Giuseppe Gargiulo
Si rafforza la tendenza giurisprudenziale a riconoscere la giurisdizione tributaria sul maggior danno da inflazione a fronte dei crediti di imposta tardivamente rimborsati. Tuttavia, trattandosi di
crediti di valuta, il maggior danno riguarda la parte del credito stesso che non è salvaguardata dagli appositi interessi a favore del contribuente. Destano perplessità tuttavia i criteri empirici e un
po’ approssimativi per il calcolo «equitativo» di tale maggior danno da inflazione, di cui esisterebbero elementi di calcolo più accurati. Ma forse è uno dei tanti riflessi della sommarietà del rito
tributario.
n Risarcimento del «danno ulteriore» da tardivo rimborso di imposte
Luigi Vassallo
Una ulteriore tematica inerente alla giurisdizione, accanto a quelle già esaminate su Dialoghi
Tributari n. 6/2008 per cd. «responsabilità aggravata» ex art. 96 c.p.c., per «lite temeraria» (1) riguarda il maggior danno per tardivo rimborso di
crediti di imposta dichiarati; si tratta qui di un
comportamento «omissivo», nella forma inerte del
«silenzio-diniego», di fronte a un credito d’imposta ritualmente richiesto dal contribuente nella dichiarazione; la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, Sez. XXVIII, 21
dicembre 2007, n. 65/28/07 (2), contiene spunti
interessanti non solo e non tanto sulla giurisdizione (tributaria anziché civile), quanto sulla quantificazione del danno ed i rapporti con gli interessi
spettanti ex lege al contribuente.
Premessa la sussistenza dell’obbligo risarcitorio
in argomento anche quando la tardività dipende
dalle carenze strutturali del sistema burocratico
dell’Amministrazione finanziaria (3), la sentenza
accoglie l’appello contro quella di primo grado,
che aveva inopinatamente dichiarato cessata la
materia del contendere sulla base del solo riconoscimento del diritto al rimborso da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Il contribuente ricorreva in appello per una
74
Dialoghi Tributari n. 1/2009
condanna al rimborso del credito «riconosciuto»
dall’Agenzia, ma non rimborsato, nonché gli interessi anatocistici e il maggior danno. L’Agenzia
delle entrate ribadiva la correttezza della sentenza
di primo grado per cessata materia del contendere, visto il riconoscimento del credito della società, la disposizione espressa che nega gli interessi
anatocistici (4) e la carenza di giurisdizione del
giudice tributario sul risarcimento del maggior
danno.
La Commissione tributaria regionale si dichia-
Luigi Vassallo - Avvocato cassazionista e Giudice Tributario d’Appello presso la Commissione tributaria regionale della Lombardia e
Presidente dell’Associazione Magistrati Tributari della Lombardia
(1) Accanto a quelle già esaminate su Dialoghi Tributari n. 6/
2008, pag.70 ss. (cfr. anche S. Betti, «Giurisdizione sul risarcimento danni per responsabilità aggravata dell’Amministrazione finanziaria», Relazione di intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario tributario, 15 febbraio 2008, Genova).
(2) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(3) Cfr. Cass., Sez. I civ., 4 novembre 1992, n. 11968.
(4) Art. 37, comma 50, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, secondo cui «gli interessi previsti per il rimborso di tributi non producono in nessun caso interessi ai sensi dell’articolo 1283 del codice civile».
Rimborsi
rava provvista di giurisdizione sugli interessi anatocistici di cui all’art. 1283 c.c. e sul maggior
danno da «rivalutazione monetaria» ex art. 1224
c.c.; ciò richiamando la Corte di cassazione che
ha «sistematicamente affermato il principio, oramai consolidato, che appartiene alla giurisdizione
esclusiva delle Commissioni tributarie, non solo
la cognizione dell’obbligazione principale e di
quella concernente la corresponsione degli interessi, anche anatocistici, ma altresı̀ la cognizione della domanda diretta ad ottenere il risarcimento del
danno da svalutazione monetaria sulla somma indebitamente versata per imposte e trattenuta;
l’art. 35, comma 50, del D.L. 4 luglio 2006, n.
223, secondo cui gli interessi previsti per il rimborso dei tributi non producono in nessun caso
interessi ai sensi dell’art. 1283 c.c., è stato ritenuto operante solo per il periodo successivo alla sua
entrata in vigore (cfr. Cass. 23 ottobre 2006, n.
24992) (5). Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo nelle obbligazioni
pecuniarie è, ancor prima di ogni altra considerazione, finalizzato alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, ed a tale obbligazione ex art.
1224 c.c. (proprio perché avente natura di debito
di valuta e non di valore) non può certo negarsi,
ai fini della giurisdizione, la caratteristica intrinseca «dell’accessorietà» rispetto al diritto al rimborso
del credito d’imposta.
È interessante il riconoscimento della somma
di euro 10.000,00 quale risarcimento del danno
ulteriore, da svalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 1224 c.c., e quale «... misura minima determinata in ben circoscritti limiti della ragionevolezza ...». Il maggior danno da rivalutazione monetaria ex art. 1224 c.c. ... è riconosciuto nei limiti in cui il depauperamento del creditore è
concretamente percettibile».
Nella motivazione si rileva che gli interessi sui
crediti di imposta vengono tassati per competenza, ed iscritti quali crediti man mano che maturano, e non per cassa al momento della loro percezione, per cui in termini di valore reale l’ammontare degli interessi tardivamente corrisposti si riduce fino a risultare inferiore all’imposta anticipata.
La sentenza stigmatizza l’illegittima rendita a
favore dell’A.F. e a danno della società, derivante
dalla svalutazione monetaria, rendita tanto più
consistente quanto più lungo è il tempo che intercorre tra l’anticipato pagamento delle imposte
ed il successivo pagamento degli interessi.
Appare pienamente condivisibile la cumulabilità, a favore del contribuente, degli interessi legali
e del maggior danno, finalizzati a una più equa e
congrua rideterminazione del credito d’imposta; il
maggior danno da svalutazione monetaria ex art.
1224 c.c. serve infatti a salvaguardare la perdita
di valore del credito per la parte non compensata
dagli interessi; questo coordinamento tra interessi
e svalutazione, per un debito «di valuta», emerge
dal criterio adottato per la quantificazione di tale
«maggior danno», la cui determinazione è effettuata con evidente ricorso al criterio dell’«equità».
Il giudice insomma presume che, visti gli importi
del credito, un danno ulteriore da inflazione, rispetto agli interessi, ammonti prudenzialmente a
diecimila euro.
Quanto a decorrenza, a norma dell’art. 1224
c.c., gli interessi moratori ed il risarcimento del
maggior danno (che cosı̀ realizzano la rivalutazione complessiva del credito a seguito della riduzione del potere d’acquisto della moneta) saranno
dovuti dall’Amministrazione quando in mora,
cioè quando è in colpevole ritardo. L’art. 1224
c.c., fondatamente richiamato dalla Commissione
tributaria regionale della Lombardia, stabilisce che
il debitore in mora è obbligato a corrispondere gli
interessi ed a risarcire il maggior danno che il creditore dimostri di aver subito, con ciò consentendo la cumulabilità tra la rivalutazione del credito
relativo al capitale, ed il pagamento degli interessi.
Per distinguere i debiti di valuta dai debiti di
valore, secondo la giurisprudenza, è necessario
guardare non tanto all’oggetto della prestazione
che si sarebbe concretata al momento dell’inadempimento, ma all’oggetto originario della prestazione che, nelle obbligazioni di valore, consiste
in una cosa diversa dal danaro, mentre nelle ob-
(5) Altrimenti si sarebbe avuta una portata retroattiva della norma del 2006, giustamente esclusa da Cass., 23 ottobre 2006, n.
24992, in Banca Dati BIG, IPSOA.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
75
Rimborsi
bligazioni di valuta è proprio una somma di danaro.
Il debito per il risarcimento del danno, conseguente alla mora, di un’obbligazione sin dall’origine pecuniaria, ex art. 1224 c.c., ha natura di
debito di valuta e il maggior danno, rispetto a
quello compensato con gli interessi, deve essere
determinato; a questo scopo la sentenza ha dunque ritenuto doveroso tener conto, indipendentemente dalla esaustività della prova offerta, della
svalutazione monetaria sopravvenuta sino alla data
della liquidazione, quantificando e liquidando
«equitativamente» tale danno.
Cosı̀ operando, i giudici di appello lombardi,
qualcuno direbbe «coraggiosamente», hanno fatto
riferimento a quel filone giurisprudenziale più datato, a prima vista superato, ma più pertinente al
caso concreto, favorevole all’intervento anche
d’ufficio del giudice stesso, mediante l’adozione
di un criterio equitativo per la determinazione del
danno; quest’ultimo è stato quantificato in modo
realistico e prudente, in ragione del lungo tempo
trascorso dalla presentazione della dichiarazione;
indipendentemente da qualsiasi ulteriore prova da
parte del danneggiato, è stata ritenuta assorbente
la notoria svalutazione monetaria (per tale orientamento giurisprudenziale si veda, per tutte, Cass.
n. 5337/1983).
n Maggior danno ex art. 1224 c.c., principio di allegazione
e criteri di determinazione
Giuseppe Gargiulo
Come rilevato da Luigi Vassallo, il ritardato
rimborso di un credito di imposta, da parte dell’Amministrazione finanziaria, può ben causare al
contribuente un maggior danno da «svalutazione
monetaria» (eccedente quello risarcito dalla corresponsione degli interessi moratori previsti dalla
legge tributaria) e la giurisdizione spetta alla medesima Commissione tributaria investita della
controversia principale (relativa alla richiesta di
rimborso del tributo indebitamente assolto). I
suddetti principi si inseriscono in un filone giurisprudenziale ormai consolidato della Corte di cassazione (6), secondo cui le Commissioni tributarie sono competenti a pronunciarsi non solo sulla
controversia «principale», relativa al rimborso, ma
anche sulla eventuale domanda «conseguente» ed
«accessoria» diretta ad ottenere il risarcimento del
maggior danno da svalutazione monetaria (7).
Il danno da svalutazione monetaria rappresenta
il confine estremo della giurisdizione tributaria in
materia di risarcimento, dopo di che scatta la giurisdizione ordinaria per responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., proposta dal contri-
Giuseppe Gargiulo - Dottore commercialista in Roma
(6) In tal senso si vedano, ex pluribus, Cass., SS.UU., 10 otto-
76
Dialoghi Tributari n. 1/2009
bre 1994, n. 8277; Id., 21 dicembre 1996, n. 11483, in Banca
Dati BIG, IPSOA; Id., 20 maggio 1999, n. 789, ivi; Id., 21 marzo 2002, n. 14274, in GT - Riv. giur. trib. n. 1/2003, pag. 55,
con commento di M. Bruzzone, «Il giudice tributario decide su
interessi e rivalutazione» e in Banca Dati BIG, IPSOA. Tale soluzione è stata avallata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione
sull’assunto, a giudizio di chi scrive condivisibile (anche alla luce
dell’emergente principio ordinamentale di «concentrazione della
giurisdizione»), che la domanda di risarcimento del danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, secondo comma, c.c. - pur configurandosi come una domanda autonoma, in quanto relativa all’accertamento di una forma di danno che genera un’obbligazione
autonoma collegata alla mora del debitore - rappresenta, comunque, una conseguenza della violazione di una norma tributaria da
parte del Fisco; da qui, pertanto, la possibilità di qualificare la
controversia relativa all’obbligazione risarcitoria come una controversia «accessoria» rispetto alla controversia tributaria principale e,
in quanto tale, devoluta alla competenza giurisdizionale delle
Commissioni tributarie. Invero, il risarcimento del maggior danno
da svalutazione monetaria, al pari degli interessi moratori, ha ad
oggetto l’accertamento di «diritti patrimoniali consequenziali alla
pronuncia di illegittimità dell’atto amministrativo».
(7) Si veda in senso conforme, in dottrina, anche F. Batistoni
Ferrara, «La giurisdizione del giudice tributario», in Dir. prat.
trib., 1997, I, pag. 253 ss.; A. Giovannini, «Processo tributario e
risarcimento del danno. (Sulla «pienezza» ed «esclusività» della giurisdizione speciale)», in Riv. dir. fin. sc. fin., LVIII, 2, I, pag. 200
ss; G. Boletto, «Responsabilità per danni dell’amministrazione finanziaria», in Riv. dir. trib., 2003, pag. 65 ss. Ritengono invece
che si debba optare per una interpretazione restrittiva, secondo cui
dovrebbero essere intese come accessorie ai sensi dell’art. 2 del
D.Lgs n. 546/1992, le sole controversie relative alle spese di notifica, agli aggi dovuti all’esattore ed agli interessi moratori L. del
Federico, «La giurisdizione», in Il processo tributario, a cura di F.
Tesauro, Torino, 1998, pag. 54 ss. G. Bellagamba, Il nuovo contenzioso tributario, Torino,1993.
Rimborsi
buente per i danni da questi ingiustamente subiti
in conseguenza di comportamenti illegittimi dell’Amministrazione finanziaria (incluso un eventuale ritardato rimborso di un credito d’imposta) (8). Tale orientamento è pacifico nella giurisprudenza di legittimità ed è stato recentemente
ribadito, con argomentazioni assai limpide e convincenti, a parere di chi scrive, anche da parte
delle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella
sentenza 4 gennaio 2007, n. 15 (9), dove si è
precisato che non sussiste la giurisdizione speciale
del giudice tributario ove la posizione fatta valere
in giudizio consiste nella lesione patrimoniale subita dal contribuente in conseguenza dell’illecito
comportamento della Pubblica amministrazione
rispetto a un rapporto tributario ormai del tutto
esaurito; in questo caso infatti, il rapporto tributario opera solo come sfondo della vicenda e non
presenta più alcuna «connessione determinante rispetto alla richiesta di risarcimento danni» (10).
Ci sono tuttavia, a giudizio di chi scrive, due
aspetti in relazione ai quali la sentenza riassunta
da Luigi Vassallo desta alcune perplessità, a cominciare dall’accoglimento di una domanda generica di risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria, anche in assenza di una specifica allegazione da parte del ricorrente. Infatti, come precisato anche dalla Corte di cassazione, nella recente sentenza 31 luglio 2007, n. 16871
espressa a Sezioni Unite (11), «in siffatta situazione, la domanda di rivalutazione monetaria del
credito tributario proposta con il ricorso originario deve essere dichiarata inammissibile», atteso
che «l’onere di allegazione costituisce presupposto
tanto dell’onere della prova, quanto, e prima, della stessa ammissibilità della domanda di risarcimento del danno ex art. 1224, comma 2, del codice civile» (12).
Nel caso in esame emergeva piuttosto chiaramente, a giudizio di chi scrive, che il ricorrente
non solo non aveva fornito, nel ricorso originario,
alcuna prova del maggior danno da svalutazione
monetaria (circostanza che potrebbe essere, tuttavia, superata d’ufficio dal giudice adito, ricorrendo a presunzioni e fatti notori) (13) ma non aveva neanche allegato l’esistenza di tale circostanza
nel caso concreto. Se la suddetta lettura degli atti
(8) È pacifico, infatti, che l’attività della Pubblica amministrazione anche in campo tributario deve essere svolta non solo nei limiti posti dalle specifiche leggi che regolano l’attività della stessa,
ma anche nel rispetto del generale neminem laedere. In tal senso,
si vedano in giurisprudenza, ex pluribus, Cass., SS.UU., 4 gennaio
2007, n. 15, Cass., 21 febbraio 2007, n. 4055; Id., 16 aprile
2007, n. 8958; Id., 27 gennaio 2003, n. 1191; Id., 29 aprile
1999, n. 722; Id., 21 febbraio 2007, n. 4055; Cass., SS.UU., 16
aprile 2007, n. 8958; Corte d’appello di Trieste, 5 novembre
1999, n. 687, in Riv. dir. trib., 2001, pag. 237 ss., con commento
di E. Manzon - A. Modolo, «La tutela giudiziale del contribuente
avverso le illegalità istruttorie ed i comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria nell’attività impositiva. Considerazioni
sulla giurisdizione in materia tributaria», cit., loc. ult. cit.; Tribunale ordinario di Venezia, Sez. III, 19 marzo 2007, n. 4055, in GT
- Riv. giur. trib. n. 7/2007, pag. 585, con commento di S. Buttus,
«Le domande risarcitorie del contribuente non possono ricomprendersi tra gli «altri accessori» oggetto della giurisdizione tributaria».
(9) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(10) La Corte ha precisato, in particolare, che la giurisdizione
si determina sulla base della domanda e che, pertanto, ai fini del
suo riparto tra giudice ordinario e giudice speciale, ciò che rileva è
il cd. «petitum sostanziale», da identificare non solo in funzione
della concreta statuizione che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio ed individuata dal
giudice stesso con riguardo alla sostanziale protezione accordata in
astratto a quest’ultima dal diritto positivo. Rappresentando la giurisdizione speciale tributaria una deroga alla giurisdizione ordinaria, ciò comporta che una controversia è attribuita al giudice tributario solo in quanto rientri in una delle fattispecie tassativamente
indicate nell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992; «al di fuori di queste
ipotesi tassative di deroga della giurisdizione ordinaria non vi è
spazio per una giurisdizione della Commissione tributaria su una
controversia relativa al risarcimento dei danni causati dalla Pubblica amministrazione in uno dei rami della sua attività, con la conseguenza che anche se questo settore è il tributario non viene meno la giurisdizione ordinaria, tranne che la controversia non possa
sussumersi in una della fattispecie tipizzate attributive della giurisdizione esclusiva delle Commissioni tributarie». Viene, inoltre,
precisato dalla Corte che, nel caso di responsabilità ex art. 2043
c.c., a differenza di quanto accade per il maggior danno da svalutazione monetaria ex art. 1224, secondo comma, la previsione di
«ogni altro accessorio», contenuta nell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/
1992, di per sé non è in grado di radicare la giurisdizione del giudice tributario per controversie sul risarcimento danni per comportamento illecito dell’Amministrazione finanziaria, in quanto la relativa azione non risulta «connessa» ad alcuna delle controversie
tributarie indicate nel citato art. 2, ma piuttosto collegata alla condotta, dolosa o colposa, dell’Amministrazione finanziaria.
(11) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(12) Sulla operatività del cd. principio di allegazione anche nell’ambito del processo tributario la dottrina è unanimemente concorde. Si veda per tutti C. Glendi - C. Consolo, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2008, sub art. 7, pag.
66 ss.
(13) Si veda sul punto la recente sentenza Cass., SS.UU., 16
luglio 2008, n. 19499, la quale, nel comporre il contrasto di giurisprudenza insorto in seno alla medesima Corte in ordine alla suffi(segue)
Dialoghi Tributari n. 1/2009
77
Rimborsi
processuali dovesse essere corretta, la sentenza in
esame dovrebbe considerasi suscettibile di gravame, per violazione dell’art. 18, comma 2, del
D.Lgs. n. 546/1992 (14); violazione che, ai sensi
dell’art. 22, comma 2, del medesimo decreto, «è
rilevabile d’ufficio in ogni grado e stato del giudizio» (15). Infatti, l’ammissibilità della domanda
di risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria, proposta con il ricorso originario,
va riconosciuta, in ossequio al principio di allegazione, solo nei limiti in cui il creditore abbia almeno allegato, nei motivi del ricorso, l’esistenza
dei fatti che giustificano la suddetta domanda (16).
Altre perplessità riguardano la determinazione
del suddetto danno da svalutazione monetaria.
Rinviando per eventuali approfondimenti alle riflessioni civilistiche (17), correttamente l’articolo
precedente ritiene che il cd. danno da svalutazione monetaria riguardi la perdita della possibilità,
per il creditore, di sottrarsi all’inflazione, spendendo o investendo la somma in impieghi aventi
una rimuneratività almeno pari o superiore al tasso di inflazione. Il danno da svalutazione monetaria sussiste, quindi, solo nella misura in cui il
tasso degli interessi moratori spettanti sui crediti
tributari (nella speciale misura prevista dalla legge
tributaria) è inferiore al tasso di inflazione registrato nella mora debendi. Meramente di contorno appaiono, quindi, le affermazioni della Commissione tributaria regionale sulla imponibilità
per competenza degli interessi di mora spettanti
sui crediti tributari ed il ricorso a criteri equitativi per la determinazione del danno. In questo caso, infatti, non sembrano sussistere gli elementi
(continua nota 13)
cienza della qualità di imprenditore del creditore ai fini della presumibilità di impieghi antinflattivi della somma non tempestivamente versata dal debitore, dopo aver ripercorso la storia dell’evoluzione della giurisprudenza in ordine alla prova del danno da svalutazione monetaria nelle obbligazioni pecuniarie, ha affermato (riformando, almeno in parte, quanto affermato nella precedente
sentenza del 31 luglio 2007, n. 16871, in Banca Dati BIG, IPSOA) i seguenti principi di diritto:
«– nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all’art.
1224, secondo comma, c.c. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratorı̂ non convenzionali che siano comunque do-
78
Dialoghi Tributari n. 1/2009
vuti) è, in via generale, riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento - dovendo ritenersi
superata l’esigenza di inquadrare, a tale fine, il creditore in una
delle categorie a suo tempo individuate - nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del
rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non
superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del primo comma dell’art. 1284 c.c.;
– è fatta salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subı̀to un maggior danno o che lo ha subı̀to in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo
uso che avrebbe fatto della somma dovuta, se gli fosse stata tempestivamente versata;
– il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza è tenuto ad offrire la prova del
danno effettivamente subı̀to, quand’anche sia un imprenditore,
mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e
ciò sia che faccia riferimento al tasso dell’interesse corrisposto per
il ricorso al credito bancario, sia che invochi come parametro l’utilità marginale netta dei proprı̂ investimenti;
– in entrambi i casi, la prova potrà dirsi raggiunta per l’imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell’impresa ed all’entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso
o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell’inadempimento ovvero che l’adempimento
tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del
debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell’impresa».
(14) È noto, infatti, che i motivi del ricorso (a cui sono riconducibili le allegazioni di fatto che il contribuente deve svolgere a
sostegno della propria domanda) devono comunque ritenersi inesistenti, con conseguente inammissibilità del ricorso, quando si sostanziano nella semplice affermazione di illegittimità del comportamento dell’Ufficio, occorrendo che siano esplicate le ragioni, in
fatto e in diritto, sulle quali si fonda il giudizio di illegittimità, per
consentire, alla controparte e al giudice, l’esatta conoscenza dei
termini della controversia (in tal senso, ad es., Comm. trib. centr.,
18 luglio 1994, n. 2358; nonché in dottrina T. Baglione - S.
Menchini - M. Miccinesi, Il processo tributario, Milano, 2004,
pag. 219).
(15) Deve ritenersi, infatti, che la rilevabilità d’ufficio dell’inammissibilità del ricorso disposta dall’art. 22, comma 2, del
D.Lgs. n. 546/1992, sebbene si riferisca, letteralmente, alla sola irregolare costituzione in giudizio del ricorrente, è in realtà applicabile a tutte le ipotesi di inammissibilità del ricorso, che determino
una decadenza incidente su diritti indisponibili (cfr. Cass., 12
maggio 1992, n. 5260, nonché T. Baglione - S. Menchini - M.
Miccinesi, op. cit., pag. 224-225).
(16) In tal senso si veda anche la recente sentenza della Corte
di cassazione, SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19499, cit. la quale nel confrontarsi con la precedente decisone 31 luglio 2007, n.
16871, cit. - ha ribadito che «ove il creditore abbia solo domandato la «rivalutazione monetaria e gli interessi», ma non ha neppure
prospettato di aver subı̀to, in concreto, un maggior danno da svalutazione monetaria, la domanda relativa a tale danno deve ritenersi inammissibile in relazione all’art. 1224, secondo comma, c.c.».
(17) Si veda in dottrina ex pluribus F. Galgano, Trattato di diritto civile, Vol. II, Padova, 2008, pag. 84 ss.; in giurisprudenza la
magistrale e già citata sentenza di Cass., SS.UU., 16 luglio 2008,
n. 19499, cit.
Rimborsi
per una determinazione meramente equitativa del
suddetto danno ex art. 1226 c.c. Sussistevano, al
contrario, tutti gli elementi per una determinazione puntuale dello stesso, considerando lo
spread eventualmente esistente tra il tasso di in-
flazione ed il tasso di interesse spettante, per legge, sul ritardato pagamento dei crediti tributari,
onde accertare l’effettiva esistenza, nel caso concreto, del lamentato maggior danno da svalutazione monetaria.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
79
Dichiarazioni
Ris. 2 dicembre 2008, n. 459/E
La mancata rettifica «autoliquidata»
della dichiarazione non esclude
l’istanza di rimborso
di Antonio Fiorilli, Raffaello Lupi
Seguiamo la vicenda della rettifica «in meglio» della dichiarazione da parte del contribuente, mediante nuove dichiarazioni o istanze di rimborso. Va infatti segnalata la risoluzione con cui si ammette l’istanza di rimborso ex art. 38 del D.P.R. n. 602/1973, in alternativa alla rettifica «autoliquidata» della dichiarazione. Resta da vedere di quali rimedi il contribuente disponga per le dichiarazioni dove a rigore non si può chiedere il rimborso di un versamento, in quanto chiuse in
perdita o con un credito minore di quello altrimenti spettante.
n Apprezzabile precisazione, ma resta il problema delle dichiarazioni a credito
o in perdita
Antonio Fiorilli
Su Dialoghi n. 1/2008 avevamo espresso, con
altri Autori, le nostre perplessità sulla risoluzione
dell’Agenzia delle entrate 14 febbraio 2007, n.
24/E (1) dalla quale sembrava di comprendere
che, una volta decorso il termine per la rettifica
di cui al comma 8-bis dell’art. 2, D.P.R. n. 322/
1998 non fosse più possibile presentare l’istanza
di rimborso ex art. 38 del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 602.
Le stesse perplessità manifestate su Dialoghi
erano evidentemente sorte anche ad altre autorevoli istituzioni giuridiche; la risoluzione n. 459/E
del 2008 (2) origina infatti da una richiesta di
chiarimenti avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato, e motivata dalla preoccupazione di una
possibile proliferazione di controversie, basate,
presumibilmente, sulle eccezioni di inammissibilità dei ricorsi sui rimborsi chiesti oltre il termine
di cui al citato comma 8-bis. L’Avvocatura evidenzia, in particolare, l’incongruenza tra una posizione interpretativa che tenta di limitare, o forse
semplicemente di scoraggiare, la presentazione di
un’istanza di rimborso ed una precisa volontà legislativa - espressa nel tempo con le modifiche
dell’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973 - di colmare
la posizione di squilibrio tra Amministrazione e
80
Dialoghi Tributari n. 1/2009
contribuente, prolungando il termine di presentazione dell’istanza di rimborso, e avvicinandolo a
quello fissato per l’attività di accertamento. Prendendo spunto dai più recenti orientamenti giurisprudenziali, viene sottolineata, altresı̀, l’esigenza
di coniugare l’osservanza dei principi statutari di
affidamento e di tutela della buona fede, per sostenere l’emendabilità della dichiarazione a favore
del contribuente, e la tendenziale irretrattabilità
della dichiarazione sancita dai giudici, per salvaguardare la certezza dei dati e delle informazioni
comunicati mediante le stesse dichiarazioni.
Su queste basi viene chiarita la possibilità del
contribuente di recuperare l’imposta versata in ecAntonio Fiorilli - Dottorando in Diritto tributario presso l’Università di Roma «Tor Vergata» e Ricercatore presso la Fondazione
Telos, Centro Studi dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Roma.
(1) A. Fiorilli, S. Trocini, G. Fransoni, «Quale coordinamento
tra rettifica «migliorativa» della dichiarazione ed istanza di rimborso?», in Dialoghi trib. n. 1/2008, pag. 153. La risoluzione n. 24/
E/2007 è in Banca Dati BIG, IPSOA; cfr. F. Bianchi, «Interrogativi sui rapporti «dichiarazione rettificativa/rimborso» in una recente risoluzione dell’Agenzia delle entrate», in Dialoghi dir. trib. n.
1/2007, pag. 23.
(2) Per il testo della risoluzione cfr. pag. 83.
Ris. 2 dicembre 2008, n. 459/E
cesso mediante l’istanza di rimborso, entro il termine fissato dall’art. 38, D.P.R. n. 602/1973.
Ma è altresı̀ rilevante sottolineare che in questo
modo si restituisce piena validità ad una procedura che evita al contribuente i rischi delle sanzioni,
soprattutto nei casi di incertezza interpretativa, e
che ratifica un modello comportamentale improntato ai principi di correttezza e di trasparenza, oltre a consentire un processo tendente a modulare
il prelievo sulla effettiva capacità economica sottostante.
La stessa risoluzione, però, esclude la possibilità
di utilizzare la dichiarazione integrativa per correggere in minus la dichiarazione oltre il termine
«breve» fissato dal comma 8-bis. Sullo sfondo resta, forse, il timore che tale meccanismo di correzione possa essere artatamente utilizzato per creare posizioni creditorie fittizie. In realtà, le insidie
di un utilizzo distorto delle dichiarazioni sono
congenite in un sistema basato sui dati comunicati dal contribuente, anche se va precisato che la
presentazione di una dichiarazione integrativa in
melius mal si presta, peraltro, a perseguire scopi
illeciti. La comune esperienza suggerisce che un
contribuente che vuole occultare materia imponibile al Fisco non ha interesse a modificare la dichiarazione originaria, a motivo del prolungamento del termine di accertamento ex art. 43, D.P.R.
n. 600/1973, decorrente dalla successiva dichiarazione integrativa.
Chiariti i tempi per presentare una dichiarazione integrativa in melius ed un’istanza di rimborso,
si pone il problema di coloro che intendono correggere una dichiarazione chiusa «a credito» o «in
perdita». In buona sostanza, esiste un rimedio per
emendare la dichiarazione dei contribuenti che
non erano tenuti ad effettuare versamenti, e per i
quali pertanto non è, almeno letteralmente, applicabile l’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973?
La risposta dell’Agenzia sembra essere negativa.
A tale posizione si può obiettare che i commi 8
ed 8-bis dell’art. 2 del D.P.R. n. 322/1998 ammettono, norma alla mano, la possibilità di correggere qualsivoglia errore tramite una dichiarazione integrativa entro i termini di accertamento
di cui all’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973. In realtà, l’impossibilità di individuare una sanzione
Dichiarazioni
esplicita per le dichiarazioni integrative «tardive»
ex comma 8 sembrerebbe deporre a favore della
tesi sostenuta dall’Agenzia, a meno che non si voglia applicare la sanzione residuale di cui all’art.
8, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
Occorre notare, tuttavia, che si intravedono
scenari più articolati rispetto all’istanza di rimborso. Basti pensare che la correzione di una perdita
(riportabile) ridonda necessariamente sui periodi
d’imposta successivi, mentre un credito d’importo
superiore quello liquidato, già chiesto a rimborso
mediante la dichiarazione originaria, potrebbe seguire pacificamente le sorti dell’importo in corso
di restituzione. Occorre notare, per inciso, che tali fattispecie possono manifestarsi anche quando
sia stata accolta un’istanza di rimborso, qualora le
somme restituite risultino ampiamente inferiori
rispetto all’imposta corrispondente all’imponibile
rettificato.
Ciò non toglie che l’obiettivo di un pieno bilanciamento dei rapporti tra Amministrazione e
contribuenti deve includere, in linea di principio,
anche coloro che non hanno effettuato versamenti
in quanto hanno presentato una dichiarazione a
credito o in perdita. In tale situazione, può tornare utile la soluzione di emendare «a catena» le dichiarazioni fino al periodo in cui il contribuente
può presentare un’istanza di rimborso (3). In tale
ottica, occorre pensare, dunque, come gestire la
sovrapposizione di dati derivante dalla combinazione della dichiarazione originaria e di quella integrativa, come convalidare l’efficacia delle rettifiche - anche in contraddittorio, come accade per le
istanze di rimborso - come ponderare gli effetti su
quanto dichiarato negli esercizi successivi, compatibilmente con i termini di decadenza dell’accertamento fissati per ciascun periodo d’imposta. E soprattutto si devono rinnovare gli istituti processuali per tutelare appieno quelle fattispecie nelle quali
è presente un interesse pretensivo del contribuente
a che l’Amministrazione riconosca e tenga memoria delle correzioni effettuate dal privato a proprio
favore. È sicuramente una questione più comples(3) T. Sciarra, «La dialettica tra giurisprudenza e normativa in
tema di ritrattabilità della dichiarazione tributaria», in Rass. trib.,
n. 1/2004, pag. 150.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
81
Dichiarazioni
Ris. 2 dicembre 2008, n. 459/E
sa rispetto alla rimborsabilità di un importo indebitamente versato, questione che non trova il benché minimo supporto nella normativa vigente.
Resta fermo, però, che fino a quando non sarà
attribuita piena efficacia alle emendabilità in minus della dichiarazione entro i termini fissati dall’accertamento, vi sarà un indebito vantaggio del-
l’ente impositore che si manifesterà concretamente ogni volta che qualsiasi contribuente sarà tenuto a pagare consapevolmente un importo superiore a quanto dovuto, per effetto dell’impossibilità
di utilizzare in diminuzione il maggior credito o
la maggiore perdita non tempestivamente dichiarati.
n Ripensamenti e problemi aperti
Raffaello Lupi
La risoluzione in commento non parla di «rettifica» delle precedenti interpretazioni dell’Agenzia,
ma di «approfondimento della questione», anche
sulla scorta delle perplessità espresse dall’Avvocatura di Stato. Non si parla insomma esplicitamente di un «ripensamento», rispetto agli orientamenti che seguivamo ormai da Dialoghi n. 1/
2007 (4), passando per Dialoghi n. 1/2008 (5).
Tuttavia il comportamento in concreto seguito
dalle Direzioni regionali delle entrate testimonia
che le perplessità manifestate su Dialoghi, e anche
dall’Avvocatura, coglievano la reale portata dell’orientamento dell’Agenzia. Quest’ultima chiedeva
infatti di ritenere inammissibili le istanze di rimborso presentate ex art. 38 del D.P.R. n. 602/
1973, poiché avrebbe dovuto essere esperita la
rettifica autoliquidata delle dichiarazioni. Non mi
dilungo sulle argomentazioni delle risoluzioni in
esame, in quanto superate, ma appare chiaro che
i passaggi delle sentenze della Cassazione da esse
citati erano degli obiter dicta estrapolati dal contesto, ed espressioni rafforzative di decisioni favorevoli al contribuente.
I casi in cui la dichiarazione chiude a credito o
in perdita non mi sembrano affrontati dalla risoluzione in commento, che non contiene, per tali
casi, espliciti dinieghi di rettifica. Direi che il problema della dichiarazione a credito o in perdita,
senza quindi alcun versamento di cui chiedere il
rimborso, resta nei termini precedenti alla risoluzione del 2007, che aveva avviato la vicenda in
esame.
Il quadro normativo in materia di rimborsi e di
dichiarazioni a credito è quantomeno inadeguato
alla varietà di situazioni tipiche di una tassazione
analitico aziendale, in cui ormai la dichiarazione
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
«a credito» è la prassi, e gli errori, o i comportamenti prudenziali, possono comportare non un
maggior debito, ma un «minor credito». Antonio
Fiorilli formula ipotesi interessanti, ma che andrebbero approfondite, esaminando anche l’azione
generale di rimborso prevista dal decreto sul contenzioso tributario. Sarebbe iniquo ammettere o
meno la rettifica della dichiarazione, con una
istanza tendente ad aprire un procedimento amministrativo prima di tutto di riesame, e poi di
rimborso, in relazione a un elemento casuale come il suo risultato finanziario. Vedremo però di
riparlarne in un prossimo numero.
(4) Cfr. F. Bianchi, commento alla risoluzione 14 febbraio
2007, n. 24/E, op. loc. ult. cit.
(5) A. Fiorilli - S. Trocini - G. Fransoni, «Quale coordinamento tra rettifica «migliorativa» della dichiarazione ed istanza di rimborso?», cit., loc. ult. cit.
Ris. 2 dicembre 2008, n. 459/E
Dichiarazioni
n La risoluzione
Agenzia delle entrate - Direzione centrale normativa e contenzioso, risoluzione 2 dicembre 2008, n. 459/E (stralcio)
Risoluzione 14 febbraio 2007, n. 24/E - Dichiarazione integrativa a favore del contribuente oltre i termini di cui all’art. 2,
comma 8-bis, D.P.R. n. 322/1998 - Inammissibilita` - Istanza di rimborso ex art. 38, D.P.R. n. 602/1973 - Ammissibilita`
L’Avvocatura Generale dello Stato ha chiesto alla scrivente
di chiarire la posizione interpretativa espressa con la risoluzione del 14 febbraio 2007, n. 24/E, in merito all’emendabilità della dichiarazione a favore del contribuente tramite
la presentazione di una dichiarazione integrativa ai sensi
dell’art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. 22 luglio 1998, n.
322, ovvero con la presentazione di un’istanza di rimborso
ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
Con la predetta risoluzione l’Agenzia delle entrate ha riaffermato il principio, già enunciato con la circolare 25 gennaio 2002, n. 6/E, secondo cui decorso il termine previsto
dall’art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322 del 1998, introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. e), del D.P.R. 7 dicembre
2001, n. 435, ossia il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo a quello per
il quale è stato commesso l’errore, non è più possibile presentare dichiarazioni integrative con esito favorevole per il
contribuente.
Nel medesimo documento di prassi, inoltre, l’Amministrazione ha rilevato che il principio di emendabilità della dichiarazione a favore del contribuente, mediante presentazione di istanza di rimborso nei termini previsti dall’art. 38
del D.P.R. n. 602/1973, è riferito alla disciplina vigente
prima delle modifiche apportate al D.P.R. n. 322/1998 dal
citato D.P.R. n. 435/2001.
(Omissis)
In breve, l’Avvocatura dubita che l’introduzione di un termine di decadenza ristretto risponda alle enunciate finalità
di razionalizzazione e semplificazione.
Per ovviare alle esposte perplessità interpretative ed evitare
la possibile proliferazione dei giudizi l’Avvocatura ha chiesto
alla scrivente di approfondire la questione.
(Omissis)
Dovendo coniugare i due citati filoni interpretativi si giunge alla conclusione che al contribuente non è consentito
presentare una dichiarazione correttiva con esito a sé favorevole oltre il termine previsto dall’art. 2, comma 8-bis, del
D.P.R. n. 322/1998, ma lo stesso può, invece, recuperare
l’eventuale imposta versata in eccesso, attraverso un’istanza
di rimborso presentata ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n.
602/1973.
(Omissis) ... per i crediti derivanti dall’attività di liquidazione delle dichiarazioni il rimborso deve essere effettuato
d’ufficio, mentre il rimborso di cui al precedente art. 38
del citato D.P.R. n. 602/1973, presuppone un’apposita
istanza, da presentare entro un preciso termine previsto a
pena di decadenza, e richiede che sia il contribuente a dar
prova delle circostanze che legittimano la ripetizione di
quanto versato in eccesso (in tal senso si è espressa la Cassazione, Sez. trib., Sent. 20 dicembre 2002, n. 18163).
(Omissis)
In conclusione, ad integrazione dei chiarimenti già forniti,
laddove non sia possibile (cfr. risoluzione 30 gennaio 2008,
n. 25/E) ovvero non sia più possibile per decorrenza dei
termini (risoluzione n. 24/E del 2007) utilizzare la modalità
di cui all’art. 2, comma 8-bis, del D.P.R. n. 322/1998, il
contribuente può recuperare l’eventuale imposta versata in
eccesso mediante istanza di rimborso ai sensi dell’articolo
38 del D.P.R. n. 602/1973, da presentare entro quarantotto mesi decorrenti dal pagamento eseguito in assenza del
presupposti o dal pagamento del saldo.
Il testo integrale della risoluzione si può richiedere a
[email protected]
www.ipsoa.it/dialoghionline
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Redditi
d’impresa
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
Distribuzioni di riserve ai soci
come atti estranei all’impresa:
quando la realtà (giudiziale)
supera ogni immaginazione
di Dario Stevanato, Alberto Trabucchi e Grazia Carbone
Aumentano gli infortuni giurisprudenziali connessi all’inadeguatezza degli schemi teorici per la determinazione della capacità economica ai fini tributari: dopo aver affermato la mancanza di un
collegamento con l’attività imprenditoriale della distribuzione di riserve patrimoniali ai soci, si nega la deduzione degli interessi passivi su finanziamenti contratti per acquisire liquidità poi utilizzata per la distribuzione. Si tratta di una concezione erronea dell’inerenza, semplicemente estranea
al tema del livello di capitalizzazione dell’impresa. La decisione se accumulare gli utili o distribuirli
ai soci, come pure quella riguardante il livello dei conferimenti, non possono essere traguardate
sotto il profilo dell’inerenza e del «vantaggio» per la società: altrimenti ogni deflusso di risorse
dalla società ai soci andrebbe giudicato come operazione «non inerente», in quanto idoneo ad
incrementare il livello degli interessi passivi o a privare la società di potenziali impieghi fruttiferi.
n Distribuzione di riserve ai soci con somme prese a prestito
e inerenza degli interessi passivi
Dario Stevanato
Lo stralcio della sentenza n. 187 della Commissione tributaria provinciale di Udine (1) che pubblichiamo si riferisce al tema dell’inerenza degli
interessi passivi su finanziamenti accesi dall’impresa, già oggetto di precedenti interventi su Dialoghi (2). La peculiarità della decisione annotata risiede nel fatto che i giudici hanno confermato la
tesi dell’Amministrazione in ordine alla indeducibilità di interessi corrisposti su prestiti finalizzati a
dare esecuzione ad una delibera di restituzione
della «riserva sovrapprezzo» (3) ai soci. È utile riportare il passaggio clou della sentenza: secondo i
giudici udinesi gli interessi passivi - relativi alla
quota di finanziamento destinata alla restituzione
ai soci del sovrapprezzo - sarebbero indeducibili
sotto il profilo della inerenza, «mancando ogni
collegamento con l’attività di impresa. È infatti
da rilevare che alla base dell’indebitamento contratto non vi sono ragionevoli motivi di conve-
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
nienza economica o patrimoniale per la società
.... Una parte del finanziamento è infatti andata a
beneficio dei soci, id est a finalità estranee all’attività di impresa, mentre dall’operazione la società
ha tratto un ingiustificato aggravio di oneri».
Quest’argomentazione ricalca a grandi linee
quella effettuata da una precedente sentenza commentata su questa Rivista (4), in materia di inde-
(1) Per il testo della sentenza cfr. pag. 90.
(2) Da ultimo di D. Stevanato, «Finanziamenti all’impresa e impieghi «non inerenti»: spunti su interessi passivi e giudizio di inerenza», e R. Lupi, «Per gli interessi passivi, una correlazione «patrimoniale» anziché reddituale», in Dialoghi Tributari n. 6/2008, pag. 19.
(3) La riserva sovrapprezzo è una riserva di capitale, che nel caso in questione si era formata per effetto di un conferimento di
azienda.
(4) Comm. trib. reg. Toscana, 25 ottobre 2005, n. 73, in Dialoghi dir. trib. n. 4/2006, pag. 523 ss., con commenti di G.B. Palumbo e A. Vignoli.
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
ducibilità di interessi passivi su finanziamenti
contratti per pagare dividendi. In entrambi i casi,
infatti, una scelta concernente la struttura patrimoniale dell’impresa e la composizione interna
del «passivo e netto» dello stato patrimoniale viene sindacata nelle sue conseguenze fiscali con argomenti davvero fragilissimi e frutto di suggestioni, che pretendono di ravvisare un interesse «societario», ovvero un vantaggio economico per
l’impresa, in scelte che attengono invece per definizione alla sfera degli azionisti e al loro profilo
d’investimento. Se peraltro la conclusione dei giudici fosse vera, la distribuzione ai soci di utili, come pure la restituzione di conferimenti, sarebbero
sempre eventi estranei all’esercizio d’impresa, con
tutte le conseguenze del caso in tema di indeducibilità degli oneri finanziari.
I giudici non si avvedono in specie che, seguendo la loro tesi, bisognerebbe per coerenza
sempre rendere indeducibile una quota degli interessi passivi, o tassare un certo ammontare di interessi attivi figurativi, a fronte di una qualsivoglia
diminuzione del capitale netto conseguente alla
distribuzione ai soci delle riserve di utili o di capitale accumulate presso la società. E ciò del tutto
indipendentemente dall’accensione di un apposito
prestito «finalizzato» alla ripartizione delle riserve.
La distribuzione tra i soci delle riserve comporta infatti un’uscita di cassa, ovvero una diminuzione di liquidità, che avrebbe invece potuto essere utilizzata per ridurre l’indebitamento esistente
(evitando cosı̀ il sostenimento di interessi passivi),
o essere impiegata in alternativi impieghi fruttiferi (5). La riduzione patrimoniale per far fronte ad
una delibera di distribuzione è sempre, per sua
natura, un evento che indebolisce la struttura finanziaria della società ed è dunque, sempre dal
punto di vista della società, un evento «antieconomico». È chiaro, tuttavia, che la distribuzione ai
soci delle riserve non può essere apprezzata utilizzando il parametro della «convenienza economica
o patrimoniale della società». Sarebbe assurdo utilizzare le categorie dell’«antieconomicità» o della
«convenienza economica» per inquadrare correttamente un fenomeno che si inserisce nella fisiologia degli atti di impresa, e negli utilizzi degli attivi
societari consentiti ed espressamente previsti dalla
Redditi
d’impresa
legge, in quanto insiti nella nozione stessa del
contratto di società e nel necessario dualismo società-soci. Sotto questo profilo non ha senso ipotizzare un contrasto di interessi tra società e soci,
e vedere i secondi come soggetti che si «appropriano» e «traggono vantaggio» di risorse altrui:
non ha alcun senso connotare negativamente la
distribuzione di riserve, come un atto a esclusivo
beneficio dei soci con pregiudizio per la società.
Per il semplice motivo che, a valle della produzione dell’utile, la società è un mero ente esponenziale degli interessi dei soci, che sono liberi e collettivamente «padroni» delle risorse investite nel
patrimonio dell’ente partecipato.
Abbiamo già in altra sede rilevato (6) che il requisito di inerenza, con riguardo agli interessi
passivi ed ai finanziamenti (erogati da terzi o dagli
stessi soci) che i primi remunerano, va in realtà
riferito all’impiego fatto con le somme prese a
prestito: l’inerenza va dunque apprezzata alla luce
della composizione dell’attivo patrimoniale, o comunque delle ragioni dell’impiego della liquidità
dell’impresa per effettuare spese correnti. È evidente, ad esempio, che l’acquisto con risorse societarie di una villa destinata ad essere utilizzata a
fini privati dal socio, oppure il sostenimento sempre con la liquidità della società - di spese di
mantenimento di persone fisiche (soci, amministratori, loro familiari, ecc.), dovrebbe coerentemente dar luogo all’indeducibilità di una quota di
interessi passivi, parametrati ad un certo ammontare di finanziamenti non inerenti. Lo stesso andrebbe affermato in relazione ad un ipotetico finanziamento infruttifero ai soci persone fisiche.
Tutti questi «impieghi» della liquidità societaria
sarebbero, effettivamente, non inerenti ed estranei
all’attività di impresa.
Il fenomeno dell’investimento patrimoniale destinato al soddisfacimento di un interesse estraneo
all’impresa è tuttavia un concetto che, semplice(5) Lo stesso si verificherebbe naturalmente in caso di distribuzione di un dividendo in natura: assegnando ai soci i propri cespiti, la società si priverebbe del loro apporto alla produzione dell’utile, ed in ogni caso rinuncerebbe alla possibilità di realizzare i beni
sul mercato, convertendoli in liquidità con cui ridurre l’esposizione
debitoria o incrementare gli impieghi fruttiferi.
(6) D. Stevanato, «Finanziamenti all’impresa», cit., loc. ult. cit.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Redditi
d’impresa
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
mente, non può essere utilizzato in relazione alla
ripartizione delle riserve, di utili o di capitale, tra
i soci. Il ragionamento dei giudici, secondo cui la
somma presa a prestito e destinata alla restituzione di una riserva di patrimonio andrebbe a beneficio dei soci, cioè verrebbe impiegata per finalità
estranee all’attività di impresa, trascura completamente di considerare l’essenza del fenomeno societario, che è pur sempre esercizio di un’attività
economica in comune allo scopo di dividerne gli
utili (art. 2247 c.c.), in cui l’ammontare dei conferimenti e più in generale il livello di patrimonializzazione della società (anche attraverso la ritenzione di una quota degli utili) attiene per definizione a logiche di investimento dei soci, e non
dell’ente da essi partecipato.
Una volta rispettati i requisiti minimi di capitale
sociale, l’accantonamento a riserva legale di una
quota degli utili d’esercizio, ed altri eventuali parametri attinenti alla patrimonializzazione dell’impresa e posti in funzione della tutela dei terzi, i
cosiddetti «flussi finanziari di ritorno», ovvero le
decisioni in merito alla ripartizione tra i soci degli
utili e/o del capitale in eccesso, non possono essere
guardati con le lenti della convenienza economicopatrimoniale per la società e per l’impresa. È a dir
poco ingenuo guardare a queste decisioni come a
scelte di investimento della società, e valutarle per
il loro «collegamento con l’attività di impresa». Si
tratta infatti di decisioni che vanno sottratte a
questo metro di giudizio. Pretendere un «collegamento con l’attività di impresa» sarebbe del resto,
in tale contesto, totalmente privo di senso, trattandosi di scelte insindacabili assunte dai soci in relazione al loro diritto di veder remunerato l’investimento azionario, ed a mantenere un livello più o
meno elevato di capitale investito nell’impresa.
Detto in altri termini, la distribuzione dei dividendi appartiene alle scelte che si pongono «a valle» della produzione dell’utile, e riguarda il momento della sua erogazione ai legittimi destinatari
dei frutti dell’investimento. L’inerenza degli interessi passivi all’attività d’impresa non può dunque
certo essere chiamata in causa in relazione alle
modifiche della struttura finanziaria dell’impresa
che si collegano ad atti di erogazione del reddito
o di restituzione dei conferimenti ai soci, che per
definizione hanno sempre un riflesso sul patrimonio dell’impresa, e dunque alterano la posizione
finanziaria netta. Si tratta tuttavia di atti che per
un verso sono comunque «atti di impresa», e non
certo atti destinati a fini estranei alla stessa, e per
altro verso si collocano, dal punto di vista logicotemporale, in un momento successivo alla produzione del reddito, e sono perciò insensibili alle logiche che presiedono alla sua formazione.
n Ma la società (o, a questo punto, il socio) ha la libertà di determinare
il proprio livello di patrimonializzazione?
Alberto Trabucchi e Grazia Carbone
Il ragionamento di Dario Stevanato è veramente convincente. Qualora non si ammettesse la deducibilità delle spese sostenute per restituire somme agli azionisti, si giungerebbe, infatti, a conclusioni paradossali: qualunque impiego di risorse finanziarie messo in atto per restituire ai soci il capitale o i frutti del loro investimento darebbe luogo a interessi passivi «non inerenti» (o, addirittura, a interessi figurativi attivi connessi ai mancati
introiti che avrebbero potuto manifestarsi in capo
alla società qualora non si fosse provveduto a distribuire le somme ai soci).
In effetti, addentrandosi nel solco delle argomentazioni dei giudici, potrebbe addirittura giun-
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
gersi all’identificazione di un principio generale
secondo cui ogni decisione aziendale che contempli una qualsivoglia restituzione di somme e/o beni ai soci - anche se di loro legittima spettanza comporta l’indeducibilità dei relativi costi (non
solo, quindi, degli eventuali interessi passivi, ma
anche dei costi per le relative delibere assembleari,
consulenze, ecc.) ovvero, ancora peggio, l’accertamento di un maggiore reddito imponibile in capo
alla società; reddito che, infatti, sarebbe emerso
Alberto Trabucchi - Dottore commercialista, Studio SCGT Roma
Grazia Carbone - Dottore commercialista, Studio SCGT Roma
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
laddove la società, per usare le parole dei giudici,
non avesse «destinato a finalità estranee all’impresa» le proprie disponibilità liquide e/o i propri beni.
Non solo, ma seguendo tale impostazione, dovrebbero addirittura ritenersi passibili di accertamento le società che ab origine non sono state
mai patrimonializzate «a sufficienza» e che, dunque, finanziano i propri investimenti con debito.
Che senso avrebbe, infatti, rendere indeducibili
gli interessi passivi delle società patrimonializzate
che restituiscono riserve di capitale ai propri soci
e riconoscere, invece, la piena deducibilità degli
interessi sostenuti da quelle che non sono mai
state congruamente patrimonializzate?
Oltre che per le motivazioni illustrate, peraltro,
le conclusioni dei giudici appaiono assolutamente
in contrasto con i principi generali e le regole di
determinazione del reddito d’impresa.
In primo luogo, il socio che riduce la dotazione
patrimoniale della propria società (o che, in ipotesi, procede alla liquidazione della stessa) risponde
ad un proprio interesse non solo personale (ad
es., decide di mutare le proprie strategie di investimento ovvero è troppo anziano o demotivato
per continuare la gestione della società) ma anche
economico: le risorse che riceve, infatti, rimarranno nel sistema e, in base ad altre regole dell’ordinamento tributario, produrranno comunque redditi imponibili in capo allo stesso (egli, per esempio, potrebbe acquistare degli immobili o delle
azioni ovvero potrebbe più semplicemente depositare dette risorse in banca con conseguente ottenimento di interessi attivi, tassati al 27%).
Ci sembra, dunque, che tale problematica potrebbe essere risolta agevolmente anche inquadrandola nell’ambito delle note «simmetrie fiscali»
tanto care a Raffaello Lupi (7).
Del resto, chi si è curato, nel caso analizzato
dai giudici, di indagare se i soci che hanno ottenuto indietro il sovrapprezzo hanno poi effettivamente reinvestito le somme in un’altra società da
loro partecipata, riducendone l’esposizione debitoria (e, conseguentemente, gli interessi passivi) (8)?
Con ciò non vogliamo dire che ai fini della legittimità «fiscale» delle restituzioni/attribuzioni di
risorse ai soci si rende necessaria la verifica della
Redditi
d’impresa
destinazione delle somme ricevute dai soci, ma
soltanto dimostrare che, in un sistema maturo,
non dovrebbe mai precludersi la libera scelta di
investimento ai soggetti passivi; ove, peraltro, ci
fosse il dubbio che alcuni investimenti possano
dar luogo a trattamenti fiscali privilegiati ed ingiustificati, sarebbe esclusivo onere del legislatore
porre in essere adeguati provvedimenti.
In secondo luogo, se l’impresa restituisce qualcosa ai propri soci (dividendi, riserve o capitale),
è chiaro che impoverisce la propria struttura patrimoniale e finanziaria, ma questo non può dar
luogo a fenomeni di indeducibilità dei costi ovvero di tassazione di proventi figurativi presso la società stessa. Altrimenti, dovrebbe giungersi a ritenere elusiva la scelta dei soci di sciogliere la società, di smettere, cioè, di fare gli imprenditori: anche questa scelta risponde ad un interesse dei soci
e non della società? E quali sarebbero le valide ragioni economiche - viste nella prospettiva della
società - sottostanti alla rinuncia (attuata dai soci)
a produrre reddito?
Queste domande sono ovviamente provocatorie, ma offrono uno spunto per un’ulteriore chiave di lettura della questione.
(7) È appena il caso di segnalare, sott’altro profilo, che nella logica delle simmetrie fiscali, l’operazione di leverage di una società
appare del tutto fisiologica se inquadrata a livello sistematico: a
fronte di interessi passivi deducibili per la società finanziaria, ci sarà un soggetto - tipicamente, una banca - che porterà a tassazione
i relativi interessi attivi. Ovviamente, in presenza di esenzioni o
particolari regimi di favore del finanziatore il discorso potrebbe
cambiare, ma all’uopo ci sono specifiche disposizioni antielusive; si
pensi, ad esempio, al caso del finanziatore residente in un «paradiso fiscale» (per il quale si renderebbero applicabili le disposizioni
dell’art. 110, commi 10 ss., del T.U.I.R., limitative a certe condizioni, della deducibilità dei costi) ovvero al caso del socio persona
fisica che immette di nuovo le somme ricevute nella società attraverso l’interposizione di un intermediario bancario (nel qual caso,
infatti, all’imposizione cedolare dei proventi percepiti dalla persona
fisica verrebbe ad aggiungersi il prelievo del 20% di cui all’art. 7
del D.L. 20 giugno 1996, n. 323, convertito, con modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1996, n. 425).
(8) In altri termini, se fosse vera la costruzione interpretativa
dei giudici, non vorremmo essere nei panni di quei soci che volendo investire di più in un settore rispetto ad un altro, abbiano spostato risorse finanziarie da una delle loro società partecipate ad
un’altra; la conseguenza, infatti, sarebbe che a fronte della tassazione dei maggiori redditi prodotti da quest’ultima, la prima società
potrebbe venire accertata per i minori redditi conseguiti in relazione alla contrazione della propria dotazione finanziaria.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Redditi
d’impresa
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
In tal senso, vale ricordare come il nostro sistema tributario sia improntato sul principio di onnicomprensività del reddito d’impresa, in base al
quale tutti i proventi e i costi riconducibili all’impresa, o comunque relativi ai beni della stessa,
concorrono a formarne il reddito; se poi si decide
di distogliere alcuni di questi beni dall’attività
aziendale, come avviene nelle attribuzioni ai soci
ovvero nelle vere e proprie destinazioni a finalità
estranee, è prevista un’apposita norma di chiusura
che dispone la tassazione sulla base del valore
normale di detti beni.
Da ciò si evince che il legislatore si è preoccupato di evitare che l’immissione di beni nel circuito aziendale dia luogo unicamente a costi deducibili e non anche a proventi tassabili in capo
all’impresa, individuando quale ultima occasione
di imposizione di detti proventi il momento dell’attribuzione dei beni in parola ai soci; imposizione che, in questa ipotesi, avviene sulla base del
valore normale dei beni accumulatosi sino al momento della loro «estromissione».
Avendo dotato il sistema di questa generale
clausola di salvaguardia - talmente generale da
trovare applicazione anche nei casi di liquidazione
di società - è evidente che il momento di determinazione dell’uscita dei beni dal patrimonio
aziendale non può che rimanere una scelta esclusiva ed insindacabile del contribuente. In altri termini, il legislatore tributario ha previsto quale
unica tutela all’assegnazione o restituzione di risorse aziendali ai soci la tassazione del loro valore
nell’esercizio in cui tali beni «escono» dalla disponibilità della società per entrare in quella dei soci,
mentre, coerentemente, non ha posto alcuna limitazione con riferimento al momento in cui detti
beni vengono restituiti ai soci.
Analoga soluzione vale necessariamente anche
nell’ipotesi di attribuzione ai soci di poste del patrimonio netto mediante distribuzione di somme
di denaro. L’unica differenza, invero, è che per
tali attribuzioni il problema della loro valorizzazione in base al valore normale non si è mai posto trattandosi di partite monetarie e non «in natura».
In definitiva, quindi, la società nasce e muore
per scelte dei soci. Del pari, la società incrementa
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
o riduce i «mezzi propri» (come li chiamano gli
aziendalisti, ma in realtà sono «mezzi» dei soci)
per scelte che sono di esclusiva pertinenza dei soci. Ergo, cosı̀ come non si può in linea di principio rintracciare alcuna forma di elusione nello
scioglimento di una società, del pari non dovrebbe generare problemi la scelta dei soci di patrimonializzare o meno la propria società.
Infine, da un punto di vista più strettamente
tecnico, il tema della deducibilità degli interessi
passivi connessi ad un finanziamento contratto
per la restituzione di somme ai soci suscita altre
considerazioni.
È evidente come sarebbe del tutto arbitrario
stabilire una correlazione biunivoca tra una data
«fonte» ed uno specifico «impiego» presenti in un
bilancio societario. Una volta che le risorse provenienti da una fonte vengono impiegate dall’impresa, infatti, il legame tra provenienza ed impiego delle stesse si «dissolve» all’interno dell’universo aziendale e non è più possibile stabilire delle
relazioni tra le specifiche grandezze.
È proprio sulla base di questa semplice considerazione, ci sembra, che le norme di limitazione alla deduzione degli interessi passivi che si sono
succedute nel tempo hanno sempre trovato applicazione, nel nostro ordinamento tributario, sulla
base di misurazioni «di massa» e non «specifiche»
delle poste in gioco; misurazioni che talvolta sono
state ancorate alla massa di tutti componenti positivi e di quelli esenti da imposizione e talaltra
alla massa delle fonti di finanziamento (capitale
proprio e di debito). Si pensi al pro-rata di deducibilità degli interessi passivi disciplinato dal previgente art. 96 del T.U.I.R. che confrontava (e
confronta tuttora per le imprese IRPEF) la massa
dei ricavi complessivi con i soli ricavi non esenti
per determinare la quota di interessi passivi deducibile; ovvero al pro-rata patrimoniale di cui al
previgente art. 97 del T.U.I.R. che non consentiva la deduzione degli interessi sulla base della
quota del valore contabile delle partecipazioni che
si presumeva (attraverso meccanismi forfetari e
«per masse») acquisita con debito; ovvero, ancora,
alla thin capitalization, che pur volendo colpire
uno specifico fenomeno - lo sfruttamento fiscale
da parte dei soci della sottocapitalizzazione delle
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
imprese - si basava su un criterio «forfetario» (il
confronto tra la massa dei finanziamenti erogati
dai soci e dalle loro parti correlate e il patrimonio
netto) per rilevare la quota di interessi indeducibili.
Si tratta di un’impostazione che, peraltro, come
sottolineeremo a breve, trova conferma anche nell’attuale assetto normativo in tema di interessi
passivi, cosı̀ come risulta modificato dalle disposizioni della legge Finanziaria per il 2008. L’attuale
art. 96 del T.U.I.R., infatti, subordina la deducibilità di tali poste alla circostanza che gli interessi
passivi (al netto di quelli attivi) imputati al conto
economico non eccedano il 30% del reddito operativo lordo («ROL») della società, confermando,
quindi, che nel sistema tributario la limitazione
alla deduzione degli interessi passivi è del tutto
forfetaria e completamente slegata dalla finalità
che ha indotto all’accensione degli specifici finanziamenti.
Sott’altro profilo, anzi, proprio l’esistenza di
queste disposizioni che riguardano il particolare
caso degli interessi passivi dimostra come il sistema fiscale italiano si sia da sempre premunito,
con specifici mezzi, contro l’evenienza che a fronte di tali oneri maturassero ricavi non imponibili:
è chiaro, dunque, che al di fuori di queste fattispecie specifiche e tassativamente previste dalla
legge (oggi, il menzionato art. 96 del T.U.I.R.)
non appare possibile configurare ulteriori ipotesi
di indeducibilità degli oneri finanziari (9).
In altri termini, da un punto di vista fiscale,
non esiste e non è mai esistito alcun vincolo di
carattere patrimoniale con riferimento alla composizione del capitale proprio e di terzi (10); al limite, esistevano particolari regimi che premiavano
le imprese più capitalizzate, ma non certo che imponessero al contribuente una determinata struttura di composizione del passivo patrimoniale. A
tal riguardo, vale ricordare come la disciplina in
materia di thin capitalization, che pure prevedeva
l’esistenza di un certo livello di patrimonializzazione minimo, trovava applicazione soltanto in relazione ai finanziamenti erogati o garantiti da soci
«qualificati» o da loro parti correlate e non certo
all’intera struttura debitoria del contribuente. Anche in tempi più remoti si ricorderà come la nor-
Redditi
d’impresa
mativa in materia di dual income tax non conteneva alcuna previsione che potesse essere qualificata come «interferenza sui rapporti tra capitale
proprio e di debito», ma piuttosto si limitava a riservare trattamenti differenti alle diverse ipotesi di
finanziamento di una società, concedendo uno
sconto sull’aliquota di imposta (e quindi un beneficio) alle società maggiormente capitalizzate.
Tutto quanto sopra è a maggior ragione vero
nell’attuale sistema normativo. Mediante l’art. 96,
infatti, il legislatore ha parificato il trattamento
degli interessi passivi, eliminando la distinzione
degli stessi in base al soggetto finanziatore verso
cui maturano ed introducendo, al contempo, un
nuovo limite di natura puramente contabile/reddituale (il 30% del reddito operativo lordo «ROL» - annuo), sulla base del quale «calmierare»
la deducibilità annuale di tali interessi. In sostanza, la deduzione degli interessi passivi è sempre
ammessa se e nei limiti in cui l’importo degli
stessi rilevato nel periodo di imposta trova «copertura» nel 30% del ROL annuale; l’obiettivo di
«calmierare» nel corso della vita dell’impresa la
deduzione degli interessi passivi, poi, è stato raggiunto attraverso la previsione della «riportabilità
in avanti» - senza alcun limite di tempo - delle
eventuali eccedenze che si formano di anno in
anno a titolo di interessi passivi esuberanti il limite o di ROL inutilizzato (11).
(9) Salvo, ovviamente, i casi del tutto peculiari (di vera e propria destinazione a finalità estranea all’impresa delle risorse aziendali) segnalati da D. Stevanato in precedenza, nonché da R. Lupi
in altri interventi (R. Lupi, «Limiti alla deduzione degli interessi
passivi e concetto generale di inerenza», in Corr. Trib. n. 10/
2008, pag. 771 ss.).
(10) Quanto agli aspetti civilistici, può ricordarsi che la normativa societaria si limita ad imporre delle quantità minime di capitale proprio di cui ciascuna società deve essere dotata a seconda della
propria qualificazione giuridica o tipologia di attività (peraltro, con
la riforma apportata con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, cosiddetta «riforma Vietti», il legislatore civilistico ha ulteriormente «allargato le maglie» sulla composizione del passivo societario, consentendo per le società a responsabilità limitata la possibilità di sostituire il versamento dovuto per la costituzione con una polizza
di assicurazione o di una fideiussione bancaria); in ogni caso, si
tratta di limiti fissati in misura assoluta, mentre, per la generalità
delle imprese industriali, nessun vincolo viene posto in termini relativi di rapporto tra capitale proprio e capitale di credito.
(11) È bene tuttavia precisare, per completezza, come la possibilità di riporto agli esercizi successivi delle quote di ROL non uti(segue)
Dialoghi Tributari n. 1/2009
89
Redditi
d’impresa
CTP Udine, 6 marzo 2008, n. 187
Il sistema tributario, insomma - soprattutto oggi che è venuta meno la normativa in materia di
thin capitalization - non guarda con sfavore all’indebitamento in sé, ma si limita a prevedere una
limitazione «a valle» degli interessi annualmente
deducibili in relazione al ROL prodotto dall’impresa.
In conclusione, quindi, se in conseguenza di
elementi reali e di fatto (12) la limitazione speci-
fica alla deduzione degli interessi passivi prevista
dall’art. 96 del T.U.I.R. viene pienamente rispettata dall’impresa, nessuna contestazione potrebbe
essere mossa all’impresa stessa (nemmeno utilizzando la normativa antielusiva generale di cui all’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n.
600) circa il livello di indebitamento contratto e
il conseguente grado di patrimonializzazione di
volta in volta scelto dai propri soci.
n La sentenza
Comm. trib. prov. di Udine, Sez. V, Sent. 6 marzo 2008 (23 ottobre 2007), n. 187 - Pres. Panella - Rel. Ferrante
(stralcio)
(Omissis)
c) inerenza degli interessi passivi sul finanziamento per la distribuzione della riserva
Deduce la parte
L’art. 63, comma 1, del T.U.I.R. preclude la possibilità di
dimostrare che gli interessi debbano afferire a finanziamenti
contratti per la produzione di determinati e specifici ricavi.
Insomma, si sostiene che la deducibilità degli interessi passivi non soggiace all’ordinario sindacato di inerenza.
post, conferma. La RF2, in effetti, ha chiuso in perdita il
2003 (-1.218.155), il 2004 (-13.189.100), il 2005 (377.555). Imprescindibile ai fini della deducibilità degli interessi passivi resta comunque il collegamento con l’attività
di impresa.
Si ritiene equo compensare le spese, considerata la reciproca
soccombenza.
P.Q.M.
La Commissione accoglie in parte il ricorso nei limiti di cui
in motivazione. Spese compensate.
Controdeduce l’Ufficio
Il finanziamento era strettamente funzionale alla distribuzione della riserva creatasi per effetto del conferimento di
azienda e quindi rientrava nel disegno elusivo complessivo.
In ogni caso gli oneri dovevano essere posti a carico dei soci. Il loro disconoscimento è quindi legittimo.
Il testo integrale della sentenza si può richiedere a
[email protected]
www.ipsoa.it/dialoghionline
Osserva la Commissione
La tesi della parte ricorrente è infondata. Gli interessi passivi pagati dalla RF2 in relazione alla quota del finanziamento destinata alla ripartizione tra i soci del sovrapprezzo sono
da ritenere indeducibili anche sotto il profilo della non inerenza, mancando ogni collegamento con l’attività di impresa. È infatti da rilevare che alla base dell’indebitamento
contratto non vi sono ragionevoli motivi di convenienza
economica o patrimoniale per la società. La RF2 ha utilizzato solo in parte la somma ricevuta per rafforzare la propria struttura finanziaria. Una parte del finanziamento è infatti andata a beneficio dei soci, id est a finalità estranee all’attività di impresa, mentre dall’operazione la RF2 ha tratto
un ingiustificato aggravio di oneri. È presumibile, nel caso
in esame, che i soci abbiano voluto la restituzione della riserva da sovrapprezzo in previsione di future perdite che, a
loro volta, avrebbero potuto far scendere il livello della riserva obbligatoria e bloccare la disponibilità della riserva da
sovrapprezzo. I timori, del resto paiono aver trovato, ex-
90
Dialoghi Tributari n. 1/2009
(continua nota 11)
lizzate è ammessa solo a partire dal terzo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007.
(12) Altra questione, infatti, potrebbe essere quella concernente
l’attuazione di artifizi finalizzati ad elevare tale risultato operativo
lordo (ROL) e quindi la soglia di deducibilità degli interessi, ma
qui si entra nel patologico.
Ris. 22 febbraio 2008, n. 60/E
Redditi
d’impresa
La «pex» come regime generale
di ogni atto di realizzo
delle partecipazioni:
il caso dei conferimenti realizzativi
di Francesco Nannini, Dario Stevanato
Il coordinamento tra redditi delle società e dei soci, in cui si inserisce la «pex», riguarda manifestazioni di capacità economica, ed è indifferente rispetto ai regimi giuridici con cui essa viene
«realizzata». I regimi di esenzione previsti per la cessione delle partecipazioni restano quindi fermi in tutti gli altri casi di «realizzo», compreso il conferimento in società. Considerato che l’esenzione si pone a valle dei criteri di determinazione della plusvalenza, vanno prima applicate le
regole generali di calcolo delle differenze da conferimento, previste dall’art. 175 del T.U.I.R., e
quindi le disposizioni sulla pex, ovviamente sussistendone gli altri requisiti.
n L’applicabilità dell’art. 175 del T.U.I.R. alle partecipazioni pex
Francesco Nannini
Il regime da conferimento concordato ex art.
175, comma 1, del T.U.I.R. opera «ai fini della
applicazione delle disposizioni di cui all’articolo
86, fatti salvi i casi di esenzione di cui all’articolo
87». Di conseguenza, l’interprete potrebbe alternativamente concludere che il regime de quo:
a) sia applicabile indipendentemente dalla natura e tipologia delle partecipazioni conferite, e,
quindi, anche nel caso in cui le partecipazioni siano suscettibili di godere del regime di esenzione
ex art. 87 del T.U.I.R. In tale prima ipotesi ermeneutica, infatti, l’art. 175, comma 1, dovrebbe
essere coordinato con l’art. 87 e, per l’effetto, ferma la natura contabile del valore fiscalmente rilevante ai fini della determinazione della plusvalenza fiscale, quest’ultima sarebbe esente al 95% ed
imponibile nella misura del 5% (1);
b) sia applicabile esclusivamente nell’ipotesi in
cui le partecipazioni conferite non siano suscettibili di godere del regime di participation exemption. Secondo questa seconda chiave di lettura, viceversa, l’art. 175 del T.U.I.R. consentirebbe di
derivare dai dati di iscrizione contabile il plusva-
lore fiscalmente rilevante solo se quest’ultimo sia
integralmente imponibile; conseguentemente, la
natura pex delle partecipazioni conferite escluderebbe, tout court, la possibilità di godere del regime derogatorio ex art. 175 del T.U.I.R. (2) deterFrancesco Nannini - Avvocato e Dottore commercialista in Firenze
(1) A. Turchi, «Conferimenti di partecipazioni dotate dei requisiti per l’esenzione», in AA.VV., Imposta sul reddito delle societa`
(IRES), Bologna, 2007, pag. 779, «ciò significa che, quando il
conferimento di partecipazioni rilevanti avviene in costanza di valori contabili, l’art. 87 non può operare perché non esiste plusvalenza imponibile; quando invece esso determina l’iscrizione di
maggiori valori relativamente alle partecipazioni conferite, a quelle
ricevute o ad entrambe, la plusvalenza si calcola ai sensi dell’art.
175, 1 co., ma può beneficiare del regime introdotto dall’art. 87,
ed essere dunque tassata solo in parte (fermo restando naturalmente che, in difetto dei requisiti richiesti dall’art. 87, l’intera plusvalenza determinata in base all’art. 175, comma 1, risulta assoggettabile a prelievo)».
(2) C. Garbarino, «Conferimento di partecipazioni di controllo
e di collegamento, Regime volontario a valori storici ex art. 175
t.u.i.r.», in Manuale di Tassazione Internazionale, IPSOA, 2005,
pag. 1291, «la scelta di fare salvo l’art. 87 è ben comprensibile in
quanto viene istituito un collegamento tra conferimento di partecipazioni e participation exemption, collegamento che evidentemente
(segue)
Dialoghi Tributari n. 1/2009
91
Redditi
d’impresa
Ris. 22 febbraio 2008, n. 60/E
minando il ritorno al criterio del valore normale
di cui all’art. 9, comma 2.
La prima interpretazione appare conforme alla
stessa lettera degli artt. 86 e 87 del T.U.I.R. Il
rapporto tra l’art. 86 e l’art. 87 non è di esclusione, bensı̀ di coordinamento; più semplicemente
l’art. 87 si limita ad esentare una parte rilevante
della plusvalenza determinata ai sensi dell’art. 86.
Se per assurdo le partecipazioni pex non fossero
conferibili in neutralità fiscale d’imposta ai sensi
dell’art. 175, comma 1, si arriverebbe al paradosso secondo cui, mentre sarebbe possibile conferire
in neutralità partecipazioni non pex ottenendo in
cambio partecipazioni della stessa natura, il medesimo scambio tra partecipazioni pex comporterebbe l’inevitabile tassazione, in capo al conferente,
del 5% del plusvalore ottenuto per differenza tra
valore normale delle partecipazioni conferite all’atto dell’apporto e valore di carico fiscale delle
stesse. In sintesi, si privilegerebbe la circolazione
di quelle partecipazioni in grado di consentire,
data la loro rilevanza fiscale, arbitraggi fiscali ad
hoc a scapito della circolazione delle partecipazioni
dotate, viceversa, di una rilevanza fiscale modesta
(che il legislatore ha ridotto, a partire dal 18 gennaio 2008, dal 16% al 5%). Un’interpretazione
di tal tipo sarebbe, al massimo, ammissibile solo
in presenza di un regime di esenzione piena e
non limitata all’attuale 95%. Al ricorrere della
completa esenzione si potrebbe infatti anche legittimamente concludere, come è stato fatto da una
parte della dottrina (3), che il regime di conferimento concordato sia destinato esclusivamente alle ipotesi in cui le partecipazioni conferite siano
non pex; per quelle, pex, del resto, la non emersione di plusvalori imponibili sarebbe l’effetto,
non di un regime di neutralità contabile - fiscale,
ma del regime di esenzione piena dei plusvalori
da cessione di partecipazioni frutto dell’assimilazione dell’atto di conferimento ad una cessione a
titolo oneroso ai sensi del comma 5 dell’art. 9 del
T.U.I.R.
La lettura interpretativa offerta dalla risoluzione
n. 60/E del 2008 (4) ha quindi sgombrato il
campo da ogni possibile dubbio chiarendo che
nel caso in cui le partecipazioni conferite siano
partecipazioni pex:
92
Dialoghi Tributari n. 1/2009
– il valore di realizzo fiscale continua ad essere
costituito dal valore risultante dalle scritture contabili;
– il plusvalore fiscale risultante dalla differenza
tra valore di realizzo e valore di carico fiscale
sconta ordinariamente l’imposta in ragione della
natura delle partecipazioni oggetto di conferimento e, quindi, data la natura pex, limitatamente al
5% della stessa.
L’inciso «ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 86, fatti salvi i casi di
esenzione di cui all’articolo 87...» non deve dunque essere interpretato come esclusione del regime di conferimento concordato in presenza di
partecipazioni pex quanto, viceversa, nel senso
che, ferma la determinazione del plusvalore secondo i criteri dell’art. 175, il plusvalore de quo
sconterà l’imposta ordinariamente e, quindi, beneficerà del regime di esenzione al 95% con conseguente imposizione sul restante 5%. Nel caso
di conferimento di partecipazioni non pex, viceversa, il plusvalore de quo sarà soggetto ad imposizione piena ai sensi dell’art. 86 del T.U.I.R.
Quanto al secondo quesito proposto, ossia alle
conseguenze dell’assenza del requisito di anzianità
nelle partecipazioni conferite ed alla possibilità di
godere o meno del regime di conferimento contabile ex art. 175, comma 1, l’Amministrazione,
aderendo alla tesi del contribuente, ha ulteriormente ampliato i confini letterali della norma.
La lettera della legge, mediante l’inciso «se le
partecipazioni ricevute non sono anch’esse prive
dei requisiti predetti, senza considerare quello di
(continua nota 2)
non era necessario nel previgente art. 3, comma 1, del D.Lgs. n.
358/1997. Per tali conferimenti che rispondano ai requisiti di cui
all’art. 87 quindi emergono solo plusvalenze esenti in capo al soggetto che conferisce le partecipazioni aventi i requisiti di cui all’art.
87; in tali casi l’esenzione ex art. 87 opera per il conferente indipendentemente dal tipo di partecipazione che riceve in cambio, ed
inoltre non rileva per il soggetto conferente la valorizzazione delle
partecipazioni effettuata dalla società acquirente. È evidente che in
tale specifica ipotesi il conferimento è equiparato ai fini fiscali alla
cessione a titolo oneroso».
(3) C. Garbarino, «Conferimento di partecipazioni di controllo
e di collegamento, Regime volontario a valori storici ex art. 175
t.u.i.r.», in Manuale di Tassazione Internazionale, IPSOA, 2005,
pag. 1291.
(4) Per il testo della risoluzione cfr. pag. 95.
Ris. 22 febbraio 2008, n. 60/E
cui alla lettera a) del comma 1 del medesimo articolo 87», stabilisce espressamente l’irrilevanza del
requisito di anzianità al fine della qualificazione
della natura pex delle partecipazioni emesse dalla
conferitaria. La suddetta precisazione consente di
salvaguardare lo spirito della clausola antielusione
di cui al successivo comma 2 dell’art. 175 del
T.U.I.R. volta ad evitare scambi di partecipazioni
non suscettibili di godere del regime di esenzione
in contropartita di partecipazioni esenti o, più
precisamente, suscettibili, decorso il periodo minimo di possesso, di godere del regime di esenzione
parziale. In sostanza, la partecipazione data in
cambio dalla conferitaria in presenza dei tre requisiti di residenza, commercialità ed iscrizione
tra le immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso è presuntivamente considerata pex; se cosı̀ non fosse,
del resto, posto che il conferimento comporta, fisiologicamente, lo scambio di partecipazioni di
nuova emissione con partecipazioni già esistenti,
non sarebbero mai integrati i presupposti per
l’applicazione della clausola antiabuso, e, per l’effetto, sarebbe possibile scambiare in neutralità
contabile-fiscale d’imposta partecipazioni prive del
requisito di commercialità, ossia irrimediabilmen-
Redditi
d’impresa
te non pex, con partecipazioni cedibili, decorso il
requisito di possesso di cui alla lett. a) dell’art. 87
del T.U.I.R., in parziale esenzione d’imposta.
Ebbene, fino ad oggi, esisteva il dubbio interpretativo se l’assenza del requisito di anzianità,
espressamente previsto per le partecipazioni ricevute in cambio, potesse o meno essere esteso anche alle partecipazioni conferite. Il dubbio è stato
eliminato dalla risoluzione che, confermando l’interpretazione estensiva, consente, ai soli fini dell’applicazione del comma 1 dell’art. 175, di ritenere anche le partecipazioni conferite, se dotate
dei requisiti indefettibili di cui alle lett. b), c), d)
dell’art. 87 del T.U.I.R., partecipazioni pex. Tale
interpretazione ha l’effetto di rendere non operativo il comma 2 dell’art. 175 del T.U.I.R. in tutti
i casi in cui il conferimento non sia animato dall’intento di rinviare sine die l’imposizione su partecipazioni che non potranno mai godere del regime di esenzione (per carenza del requisito di
commercialità ovvero di residenza in un Paese
non black list), ma semplicemente dalla volontà
di scambiare, mediante conferimento, partecipazioni che, decorso il termine di iscrizione in bilancio, saranno entrambe monetizzabili in parziale
esenzione d’imposta.
n Conferimenti di partecipazioni pex e regole di calcolo della plusvalenza
Dario Stevanato
La risoluzione commentata si riferisce ad un caso di conferimento di partecipazioni, effettuato in
applicazione dell’art. 175 del T.U.I.R., norma
che considera rilevante, quale corrispettivo del
conferimento da prendere a base del calcolo della
plusvalenza, il valore di iscrizione nella contabilità
della conferitaria.
Il dubbio dell’istante, probabilmente originato
dalle criptiche elucubrazioni di una certa dottrina
riportata nell’articolo di Francesco Nannini, si riferiva alla formulazione del citato art. 175, comma 1. Questa disposizione, dopo aver dettato un
peculiare criterio di calcolo della plusvalenza su
conferimento di partecipazioni, precisa che sono
«fatti salvi i casi di esenzione»: si è allora chiesto
all’Agenzia di confermare che detto inciso non
esclude l’applicabilità del particolare criterio con-
tabile di determinazione del valore delle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento, in
luogo di quello del valore normale di cui all’art. 9
del T.U.I.R.
L’Agenzia, come era prevedibile, ha confermato
l’applicabilità del comma 1 dell’art. 175 del
T.U.I.R. anche ai conferimenti di partecipazioni
pex, ai fini del calcolo della plusvalenza da assoggettare parzialmente all’imposizione.
In effetti, il regime di parziale esenzione (e,
specularmente, di parziale imponibilità) della plusvalenza previsto dall’art. 87 del T.U.I.R. opera
dopo che una plusvalenza è stata realizzata. E per
stabilire se un realizzo ha avuto luogo, occorre fare riferimento alle regole contenute nel testo unico. Nel caso di conferimento di partecipazioni di
controllo e collegamento, è noto che l’art. 175,
Dialoghi Tributari n. 1/2009
93
Redditi
d’impresa
Ris. 22 febbraio 2008, n. 60/E
comma 1, prevede che il conferimento venga valorizzato sulla base dei valori iscritti in contabilità
dalla conferitaria (o, se più elevati, ai valori contabili attribuiti dal conferente alle partecipazioni ricevute a seguito del conferimento). Insomma, il
regime di parziale concorso alla formazione del
reddito ha per oggetto una plusvalenza che viene
previamente quantificata secondo le regole generalmente applicabili. Non si vede in effetti uno
straccio di motivo per cui le cose dovrebbero andare diversamente, e l’interpello presentato sul
punto dal contribuente è l’indice del disorientamento che affligge gli operatori, che una parte
della dottrina purtroppo contribuisce ad alimentare.
Il secondo quesito si riferiva invece alla sorte di
una partecipazione conferita in assenza dei requisiti per la parziale esenzione, ma solo perché priva
dell’anzianità di possesso (art. 87, comma 1, lett.
a). L’istante aveva chiesto se, in tal caso, si sarebbe dovuto applicare il primo oppure il comma 2
dell’art. 175.
Quest’ultimo stabilisce che il peculiare criterio
di calcolo della plusvalenza affidato alle scritturazioni contabili lascia il posto al criterio del «valore
normale» (art. 9) qualora le partecipazioni conferite siano prive dei requisiti per l’esenzione, e le
partecipazioni ricevute non siano anche’esse prive
di tali requisiti, senza considerare quello relativo
al possesso minimo.
In pratica la norma, che ha una chiara finalità
antielusiva, vuole evitare che il conferimento di
partecipazioni sia effettuato per «trasformare»,
senza colpo ferire, titoli privi dei requisiti per l’esenzione in partecipazioni di secondo grado in
possesso di tali requisiti. Si pensi ad esempio al
conferimento di una partecipazione iscritta nell’attivo circolante, ed alla allocazione della partecipazione ricevuta tra le immobilizzazioni finanziarie.
In tali fattispecie, il comma 2 dell’art. 175 preclude l’accesso al regime «controllato» di realizzo
della plusvalenza, rimesso alle scelte contabili dei
soggetti coinvolti nell’operazione (e con cui è possibile effettuare un conferimento in sostanziale
neutralità d’imposta), e sancisce il realizzo della
plusvalenza a valore normale.
94
Dialoghi Tributari n. 1/2009
Tuttavia, nel caso rappresentato le partecipazioni conferite erano sı̀ prive dei requisiti per l’esenzione, ma esclusivamente in ragione del periodo
minimo di possesso, che non risultava ancora
soddisfatto al momento del conferimento. In tale
circostanza, ad un esame superficiale della questione potrebbe sorgere il dubbio se sia effettivamente applicabile il comma 2 dell’art. 175, il
quale sembra testualmente sterilizzare il requisito
del periodo di possesso, ai fini della qualifica
«pex» o «non pex» dei titoli, solo in relazione alle
partecipazioni ricevute a seguito del conferimento.
Se però si riflette attentamente, ci si avvede che
l’applicazione della citata norma antielusiva ad
una tale fattispecie, di conferimento di una partecipazione dotata dei requisiti di cui all’art. 87, ad
eccezione di quello di cui all’art. 87, lett. a) (detenzione per almeno 12 mesi), sarebbe priva di
senso. La risoluzione in commento, sia pure in
modo del tutto immotivato, ha dunque correttamente accolto la tesi della società istante.
Se infatti la partecipazione posseduta ha tutti i
requisiti per l’esenzione, ma non ha ancora maturato il periodo di possesso, non c’è alcun bisogno
di effettuare un conferimento per accedere ad un
regime altrimenti non spettante: è infatti sufficiente aspettare il decorso del periodo minimo di
detenzione dei titoli. Del resto il conferimento
non ha alcun effetto «acceleratorio» sulla maturazione del periodo minimo di possesso, posto che
le partecipazioni ricevute in cambio, di nuova
emissione, non hanno alcuna anzianità. È dunque
del tutto logico interpretare il comma 2 dell’art.
175, indipendentemente dalla sua equivoca formulazione testuale, in modo da evitare la sua applicazione al conferimento di titoli in possesso dei
tre requisiti di iscrizione in bilancio tra le immobilizzazioni, di commercialità della partecipata, e
di sua residenza in un paese a fiscalità non privilegiata, ma non di quello di anzianità.
Altrimenti, si avrebbe un vero e proprio paradosso: il conferimento di una partecipazione dotata dei suddetti requisiti pex (lett. b, c e d dell’art.
87), ma non ancora di un’anzianità sufficiente,
verrebbe ingiustificatamente penalizzato - con realizzo a valore normale di una plusvalenza intera-
Ris. 22 febbraio 2008, n. 60/E
mente tassata - a fronte della mera sostituzione
dei titoli conferiti (che avrebbero potuto, con un
po’ di pazienza, accedere all’esenzione) con altri
Redditi
d’impresa
titoli aventi le stesse caratteristiche e pari opportunità di accedere al regime di parziale esenzione
della plusvalenza.
n La risoluzione
Agenzia delle entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso, risoluzione 22 febbraio 2008, n. 60/E (stralcio)
Con istanza presentata, in data 9 ottobre 2007, la società
in oggetto indicata ha chiesto chiarimenti in ordine alla
corretta applicazione dell’art. 175 del T.U.I.R.
Fatto
La società BETA s.p.a. e la società ALFA s.p.a., entrambe
quotate alla Borsa Valori di ..., hanno dato esecuzione ad
un articolato progetto di riorganizzazione.
Nell’ambito di tale progetto ALFA ha conferito in BETA
s.p.a. le proprie partecipazioni di controllo e collegamento
detenute rispettivamente nella «società GAMMA s.p.a.», pari al 99,874% del capitale sociale (e corrispondenti a numero 158.200.000 azioni) e nella DELTA Ltd, pari al 20%
del capitale sociale (e corrispondenti a numero 200 azioni).
(Omissis)
Con riferimento alla sussistenza dei requisiti di cui all’art.
87 per l’applicazione del regime pex, l’istante ha chiarito
che:
– la partecipazione (di controllo) detenuta nella GAMMA
si qualifica interamente per l’esenzione, essendo soddisfatti i
requisiti di cui alle lett. a), b) e d) dell’art. 87 del D.P.R.
n. 917/1986;
– la partecipazione (di collegamento) detenuta nella DELTA si qualifica per l’esenzione di cui all’art. 87 del
T.U.I.R., limitatamente a numero 167 azioni. Le restanti
33 azioni, infatti, non hanno ancora maturato, all’atto del
conferimento, il requisito di cui alla lett. a) del predetto
art. 87.
Tanto premesso, la società istante ha sottoposto alla scrivente i seguenti dubbi interpretativi:
1. l’inciso normativo «fatti salvi i casi di esenzione» di cui
all’art. 175, comma 1, del T.U.I.R., debba essere interpretato nel senso che, laddove le partecipazioni conferite siano
in possesso dei requisiti pex, il valore da attribuire ad esse ai
fini fiscali sia o meno quello previsto dal medesimo comma
1 dell’art. 175 e non piuttosto il «valore normale» sancito
dall’art. 9 del T.U.I.R.;
2. all’operazione di conferimento di partecipazioni, cosı̀ come prospettata, si renda applicabile esclusivamente la disposizione di cui all’art. 175, comma 1, del T.U.I.R. ovvero se
possa rendersi applicabile - limitatamente a quelle partecipazioni che non presentano i cd. requisiti pex in quanto carenti del requisito di cui all’art. 87, comma 1, lett. a) - la
disposizione di cui al comma 2 del medesimo art. 175 del
T.U.I.R.
Soluzione interpretativa prospettata dal contribuente
Con riferimento al primo dubbio interpretativo, la ALFA
ritiene che l’inciso normativo «fatti salvi i casi di esenzione
di cui all’articolo 87» - presente nel comma 1 dell’art. 175
del T.U.I.R. - non è idoneo in alcun modo ad escludere
l’applicabilità del regime di quantificazione del valore delle
partecipazioni di cui all’art. 175 del medesimo. In buona
sostanza, l’utilizzo della espressione in commento comporterebbe che:
– ai fini della quantificazione del corrispettivo dell’operazione di conferimento, rileva l’art. 175, comma 1, del
T.U.I.R.;
– ai fini della tassazione, occorre avere riguardo all’art. 87
del T.U.I.R.
Con riferimento, invece, al secondo dubbio interpretativo,
l’istante ritiene che all’operazione di conferimento descritta
sia applicabile esclusivamente il comma 1 dell’art. 175 del
T.U.I.R. Pertanto, il corrispettivo da tenere in considerazione, ai fini fiscali (valore di realizzo), è rappresentato dal valore di iscrizione della partecipazione BETA, ricevuta in
contropartita del conferimento nelle scritture contabili della
ALFA, coincidente con quello individuato dalla perizia ai
sensi dell’art. 2343 c.c. ed attribuito alle partecipazioni conferite nelle scritture contabili della BETA.
Parere dell’Agenzia delle entrate
L’art. 175 del T.U.I.R. - nella versione antecedente alle
modifiche normative apportate dall’art. 1, comma 46, della
legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge Finanziaria 2008) prevedeva una particolare disciplina fiscale relativa all’operazione di conferimento di azienda o di conferimento di partecipazioni di controllo o di collegamento.
(Omissis)
Più specificatamente, il comma 1 dell’art. 175 stabilisce che
il «valore di realizzo» deve corrispondere al maggiore tra i
seguenti:
– valore attribuito (dalla conferente) alle partecipazioni ricevute in cambio dell’oggetto conferito ed iscritto nella
contabilità del soggetto conferente;
– valore attribuito all’azienda o alle partecipazioni conferite
ed iscritto nella contabilità del soggetto conferitario.
Una volta determinato il valore di realizzo, quindi, il soggetto conferente potrà determinare la relativa plusvalenza
quale differenza tra l’ultimo costo fiscalmente riconosciuto
(dell’azienda o della partecipazione di controllo o di collega-
Dialoghi Tributari n. 1/2009
95
Redditi
d’impresa
Ris. 22 febbraio 2008, n. 60/E
mento oggetto di conferimento) ed il valore di realizzo medesimo.
Tale plusvalenza, infine, dovrà essere assoggettata a tassazione ordinaria - da parte del soggetto conferente - ai sensi
dell’art. 86 ovvero, per quanto riguarda le partecipazioni ai
sensi del successivo art. 87 del T.U.I.R., sussistendone le
condizioni.
Il citato comma 2 dell’art. 175 del T.U.I.R., inoltre, stabilisce che il regime di cui all’art. 175, comma 1, non potrà
trovare applicazione nella particolare circostanza in cui le
partecipazioni oggetto di conferimento non possiedano i requisiti di cui all’art. 87 del T.U.I.R. (senza considerare il
requisito di cui alla lett. a), comma 1, del medesimo art.
87) ed a condizione che le partecipazioni ricevute in cambio non siano anch’esse prive dei requisiti di cui all’art. 87
del T.U.I.R. (senza considerare il requisito di cui alla lett.
a), comma 1, del medesimo art. 87).
In altri termini, il regime di cui al comma 1 dell’art. 175
non potrà trovare applicazione allorquando si verificano
contestualmente le seguenti condizioni:
a) le partecipazioni conferite sono prive, all’atto del conferimento, di uno dei requisiti stabiliti dalle lettere b), c) e d)
del comma 1 dell’art. 87 del T.U.I.R.;
b) le partecipazioni ricevute in cambio possiedono i requisiti stabiliti dalle lettere b), c) e d) del comma 1 dell’art. 87
del T.U.I.R.
In tale circostanza, quindi, la disposizione in esame stabilisce che il soggetto conferente dovrà assoggettare a tassazione
- ai sensi dell’art. 9, comma 5, del T.U.I.R. - la relativa
96
Dialoghi Tributari n. 1/2009
plusvalenza, la quale sarà determinata in base al valore normale, cosı̀ come definito dall’art. 9, comma 4, del T.U.I.R.
Nell’operazione di conferimento prospettata la società istante afferma che:
– la partecipazione (di controllo) detenuta nella GAMMA
si qualifica interamente per l’esenzione, essendo soddisfatti
tutti i requisiti di cui all’art. 87 del T.U.I.R.;
– la partecipazione (di collegamento) detenuta nella DELTA, si qualifica per l’esenzione di cui all’art. 87 del
T.U.I.R., limitatamente a numero 167 azioni. Le restanti
33 azioni, infatti, non hanno ancora maturato, all’atto del
conferimento, il requisito di cui alla lett. a) del predetto
art. 87;
– la partecipazione nella società BETA, ricevuta in cambio
dalla società conferente ALFA, è dotata di tutti i requisiti
di cui all’art. 87 del T.U.I.R., ad eccezione del requisito di
cui alla lett. a) del comma 1 dell’art. 87 del T.U.I.R.
Per le suesposte considerazioni, la scrivente - condividendo
la soluzione interpretativa prospettata dal contribuente - ritiene che nella fattispecie prospettata non trovi applicazione
la disposizione di cui al comma 2 dell’art. 175 del
T.U.I.R., ma piuttosto il regime di cui al comma 1 del medesimo art. 175 del T.U.I.R.
Pertanto, la plusvalenza che la società ALFA dovrà assoggettare a tassazione - nel periodo d’imposta in cui ha effetto
l’operazione di conferimento - potrà essere determinata facendo riferimento al valore di realizzo, cosı̀ come stabilito
dal citato comma 1 dell’art. 175 del T.U.I.R.
(Omissis)
Redditi
d’impresa
Deduzioni extracontabili
ed affrancamento delle differenze
di valori in caso di affitto d’azienda
di Fabio Gallio e Federica Badioli, Enrico Bressan
Nell’affitto di azienda si può verificare l’interruzione del precedente ciclo di ammortamento, con
sua continuazione presso l’affittuario. Potrebbero dunque esservi dei disallineamenti tra valori civili e valori fiscali dei beni, determinati da deduzioni extracontabili effettuate dal proprietario, suscettibili di «allineamento» mediante il pagamento dell’imposta sostitutiva. Gli interventi che seguono fanno il punto sulle diverse soluzioni ipotizzabili in merito al soggetto titolato ad effettuare l’affrancamento delle differenze pregresse.
n A chi spetta l’affrancamento del disallineamento?
Fabio Gallio e Federica Badioli
In seguito all’entrata in vigore della legge 24
dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008), vi è la
possibilità di affrancare, con il pagamento di
un’imposta sostitutiva, le maggiori deduzioni extracontabili effettuate tramite la compilazione del
prospetto EC, riallineando i valori fiscali a quelli
civilistici.
Nel presente articolo, dopo avere stabilito che
le deduzioni extracontabili relative alle quote di
ammortamento potevano essere effettuate, durante
il contratto di affitto d’azienda, dal soggetto deputato fiscalmente ad ammortizzare i beni, ci si sofferma sulla problematica di come affrancare le eccedenze dedotte extracontabilmente dall’affittante
prima di concedere in affitto il complesso aziendale, evidenziando due soluzioni di pari dignità.
La legge Finanziaria per il 2008 ha eliminato la
possibilità di effettuare deduzioni extracontabili
tramite la compilazione del prospetto EC e la
possibilità di riallineare i valori fiscali a quelli civilistici pagando una imposta sostitutiva sull’importo delle maggiori deduzioni effettuate in passato.
Nel caso del contratto di affitto di ramo d’azienda, ci si pone il dubbio se tale affrancamento
possa essere effettuato ed, in caso di risposta positiva, quale sia il soggetto in grado di effettuare tale riallineamento.
Con il contratto di affitto d’azienda l’affittuario
assume poteri-doveri contrattuali che lo pongono
nella posizione di gestore dell’azienda nell’interesse e nelle veci del proprietario e, quindi, nell’assunzione di analogo dominio sui singoli cespiti
per mantenere l’efficienza produttiva della stessa,
quale universitas.
È importante evidenziare che la volontà delle
parti, ricostruita in base a tutti gli elementi contrattuali, determina i poteri-doveri gestori trasferiti in misura piena tra cedente ed affittuario; pertanto, nel caso in cui all’affittuario sia trasferito il
potere-dovere di decidere anche la cessione o la
sostituzione dei cespiti nell’interesse più generale
della conservazione dell’integrità del patrimonio
aziendale nel suo insieme e, conseguentemente, il
rischio del deterioramento tecnico-fisico dei cespiti stessi, a tale soggetto spetta lo stanziamento
dell’ammortamento.
Infatti, l’art. 102, comma 8, del T.U.I.R. individua nel conduttore (usufruttuario o affittuario)
l’imprenditore abilitato a dedurre gli ammortamenti relativi ai cespiti dell’azienda condotta in
Fabio Gallio - Avvocato e dottore commercialista in Padova
Federica Badioli - Dottore commercialista in Bologna
Dialoghi Tributari n. 1/2009
97
Redditi
d’impresa
affitto o in usufrutto, e questo nel presupposto
che lo stanziamento delle quote di ammortamento nelle scritture contabili del conduttore sia una
diretta conseguenza della natura e degli effetti civilistici del contratto ai sensi dell’art. 2561 c.c.,
che prevede l’obbligo in capo all’affittuario di
mantenere l’efficienza produttiva dell’azienda.
Tale ammortamento, però, secondo l’Agenzia
delle entrate nella circolare 26 luglio 2000, n.
148/E (1) ha come contropartita un fondo anomalo, non tanto legato all’effettivo deperimento e
logorio dei beni stessi, quanto all’accantonamento
necessario per reintegrare l’eventuale perdita di
valore subita dai beni aziendali durante il periodo
d’affitto, in conseguenza del loro deperimento e
consumo. La determinazione in base ai coefficienti di ammortamento assume quindi un carattere
meramente parametrico.
Tale interpretazione è stata recentemente confermata anche dalla risoluzione dell’Agenzia delle
entrate 6 ottobre 2008, n. 375/E (1).
In particolare, è stato sostenuto che «nel contratto di affitto di azienda gli ammortamenti che
l’affittuario deduce dal reddito d’impresa sono effettuati, dal punto di vista contabile, mediante
l’imputazione a conto economico di appositi «accantonamenti» al fondo di ripristino dei beni di
terzi condotti in affitto. Tale ultima posta non
ha, evidentemente, natura di fondo rettificativo di
valori patrimoniali iscritti nel bilancio (nel caso
specifico nei conti d’ordine), ma rappresenta un
vero e proprio autofinanziamento effettuato dall’affittuario per reintegrare a vantaggio del locatore (ai sensi dell’art. 2561 c.c.) la perdita di valore
subita dai beni durante il periodo di affitto in
conseguenza del loro deperimento e consumo».
A tale tesi si potrebbe obiettare che gli ammortamenti di cui trattasi avrebbero comunque una
natura rettificativa di valori patrimoniali, in quanto andrebbero a ridurre il residuo costo ammortizzabile dei beni ritornati al concedente al termine del contratto. In tale caso, la fattispecie in esame non potrebbe essere considerata un fondo di
accantonamento creato a fronte di oneri futuri, in
quanto, in caso contrario, il legislatore avrebbe
fatto riferimento alla normativa sui fondi deducibili.
98
Dialoghi Tributari n. 1/2009
Si segnala, inoltre, la tesi sostenuta dall’Assonime nella circolare n. 34 del 2000, in cui viene
sostenuto che i beni dell’azienda vanno iscritti nel
patrimonio della società conduttrice, in quanto vi
sarebbe l’assunzione da parte di quest’ultimo soggetto di un dominio analogo a quello del proprietario sui singoli cespiti.
Fatte queste premesse ed al fine di verificare se
sia possibile il riallineamento dei valori fiscali a
quelli contabili dei beni d’azienda concessa in affitto, è necessario in primis stabilire se fosse consentita la deduzione extracontabile tramite la
compilazione del prospetto EC.
La risposta al quesito è in ogni caso positiva sia
considerando gli «ammortamenti» come «accantonamenti» ad un fondo, sia qualificandoli come
veri e propri «ammortamenti»: la rilevanza fiscale
extracontabile era confermata dall’art. 109, comma 4, lett. b), del T.U.I.R.(ovviamente nella versione precedente le modifiche arrecate dalla Finanziaria 2008).
Infatti, il secondo periodo della lett. b) in oggetto citava esplicitamente gli ammortamenti e gli
accantonamenti.
Alternativamente, si sarebbe potuto procedere
alla deduzione extracontabile senza, però, compilare il suddetto quadro della dichiarazione, invocando l’applicazione del primo periodo della lett.
b) dell’articolo in esame, il quale stabilisce che sono deducibili i componenti negativi di reddito
che, pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili per legge.
In questo caso, la disposizione di legge sarebbe
stata rappresentata dall’art. 102, comma 8, del
T.U.I.R.
Tale impostazione, però, non sembrerebbe essere corretta, in quanto la fattispecie normativa citata presuppone la non imputabilità al conto economico tout court, mentre, nel caso in esame, si
tratterebbe di non imputabilità al conto economico dell’esercizio.
Inoltre, la mancata compilazione del prospetto
EC avrebbe comportato l’assenza del vincolo di
sospensione d’imposta del patrimonio netto per
un importo corrispondente alle deduzioni exrta(1) In Banca Dati BIG, IPSOA.
Redditi
d’impresa
contabili effettuate (al netto dell’imposizione differita), con tutte le conseguenze del caso, qualora
l’impostazione seguita non fosse considerata corretta dagli organi accertatori.
A questo punto, occorre individuare quale sia il
soggetto deputato ad effettuare l’affrancamento.
In merito, si ricorda che l’Agenzia delle entrate,
a commento di altre leggi di rivalutazione che
permettevano la possibilità di riconoscere un
maggiore valore fiscale, ha stabilito che l’agevolazione poteva essere usufruita dall’affittuario (o dal
concedente nel caso in cui l’ammortamento fosse
da quest’ultimo dedotto), a prescindere dalla relativa rappresentazione contabile.
Si legga, ad esempio, la circolare 13 giugno
2006, n. 18/E (2), a commento dell’art. 1, commi da 469 a 476, della legge 23 dicembre 2005,
n. 266, (Finanziaria 2006), laddove viene specificato che: «nell’ipotesi di affitto o usufrutto di
azienda, ove non sia stata contrattualmente prevista la deroga alle disposizioni dell’art. 2561 del
codice civile concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili, gli ammortamenti vengono calcolati e dedotti dall’affittuario o usufruttuario, il quale potrà pertanto effettuare la rivalutazione».
Ciò porta alla conclusione che l’affrancamento
del disallineamento possa essere effettuato dal
soggetto (concedente o affittuario) che ha effettuato l’ammortamento (l’accantonamento) del bene (al fondo) e, quindi, ha usufruito delle deduzioni extracontabili.
Non cosı̀ chiara, invece, è tale conclusione, nel
caso in cui i beni concessi in affitto abbiano avuto, in capo al concedente, un disallineamento da
Quadro EC nei periodi d’imposta antecedenti
l’efficacia del contratto di affitto d’azienda.
In merito, si possono configurare due soluzioni,
entrambe con un loro fondamento logico-giuridico.
Secondo una prima ipotesi ricostruttiva, l’affittuario, subentrando nel processo di ammortamento già in corso presso il concedente, doveva proseguire la deduzione extracontabile dei maggiori
ammortamenti fiscali rispetto ai civili, ma anche
doveva subire, in forza del principio di continuità
del processo di ammortamento fiscale, l’eventuale
«reversal» dell’eccedenza pregressa dedotta dal
concedente.
Appare dunque logico che l’affittuario possa affrancare anche il disallineamento posto in essere
dal concedente prima dell’affitto del ramo d’azienda.
Secondo la seconda ipotesi, invece, l’eccedenza
pregressa degli ammortamenti dedotti extracontabilmente mediante il Quadro EC doveva rimanere, per cosı̀ dire, «congelata» in capo al concedente, mentre l’affittuario avrebbe potuto dedurre extracontabilmente ulteriori eccedenze di ammortamenti fiscali rispetto a quelli civilistici imputati a
conto economico, ma senza che ciò potesse in alcun modo modificare l’eccedenza pregressa del
concedente, neppure per l’effetto reversal.
Tale soluzione comporta che il concedente e
l’affittuario possano affrancare i relativi disallineamenti da loro stessi generati.
n L’eliminazione degli ammortamenti extrabilancio nell’affitto d’azienda
tra concedente e conduttore
Enrico Bressan
Gli Autori che mi precedono sostengono ragionevolmente che il quadro EC poteva essere compilato anche dall’affittuario dell’azienda, per cui
quest’ultimo sarebbe legittimato ad affrancare le
differenze tra valori civilistici e fiscali evidenziate
nel predetto quadro della dichiarazione dei redditi. A tal proposito, come già accennato dagli
Autori, parte della dottrina e l’Amministrazione
finanziaria (3) ritengono che il fondo ammorta-
mento, costituito dall’affittuario come contropar-
Enrico Bressan - Dottore commercialista in Venezia e Udine
(2) In Banca Dati BIG, IPSOA.
(3) Direzione regionale dell’Emilia Romagna, nota 7 ottobre
1996, n. 42049, in Banca Dati BIG, IPSOA e risoluzione 5 aprile
2002, n. 909/16127. Tesi confermata dall’Agenzia delle entrate
nella circolare 26 luglio 2000, n. 148/E, in Banca Dati BIG, IPSOA.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
99
Redditi
d’impresa
tita delle quote di ammortamento, sia un fondo
anomalo, improprio, in quanto non ha natura
rettificativa di valori patrimoniali iscritti nell’attivo del bilancio. Altra parte della dottrina (4), invece, ritiene che le rettifiche ai beni strumentali
effettuate dal conduttore durante l’affitto siano
comunque degli ammortamenti causati dal deperimento-obsolescenza dei beni e che questi non
vadano confusi con gli oneri che l’affittuario sosterrà per le eventuali differenze inventariali intervenute tra l’inizio e la fine del contratto da misurarsi in base a valori correnti.
Sebbene non vi sia uniformità di vedute sulla
natura giuridica-contabile degli ammortamenti riconosciuti fiscalmente, si tratta pur sempre di valori fiscali che sono determinati sulla base di norme autonome, rispetto alle valutazioni civilistiche,
caratterizzate da precisione e rigidità allo scopo di
evitare contenziosi tra contribuente e Fisco. Infatti, la classificazione tra gli accantonamenti, anziché tra gli ammortamenti, avrebbe comunque
comportato un limite massimo di deducibilità, al
pari degli accantonamenti per fondi oneri. Conseguentemente il contribuente sarebbe stato pur
sempre libero di rimanere all’interno del limite
senza dover giustificare la congruità del criterio,
utilizzando se del caso la deduzione extracontabile.
Dunque, sotto la vigenza delle precedenti norme il conduttore poteva ragionevolmente utilizzare le deduzioni extracontabili per spesare costi di
natura solo fiscale, senza condizionare il bilancio
da valutazioni di natura fiscale. La possibilità di
dedurre extracontabilmente le quote di ammortamento calcolate su beni strumentali presi in affitto legittima l’affrancamento delle divergenze di
valore mediante il pagamento dell’imposta sostitutiva.
Si ritiene invece che non possano sussistere situazioni in cui l’affrancamento possa essere esercitato sia dal dante causa che dall’avente causa, ipotesi riscontrabile, ad esempio, quando le deduzioni extracontabili erano state effettuate prima del
contratto di affitto dal concedente. In tal caso, infatti, analogamente a quanto previsto per i conferimenti di azienda, il mantenimento delle deduzioni extracontabili effettuate dal concedente do-
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
vrebbe essere condizione alla costituzione del vincolo sulle riserve di patrimonio netto presenti o
future da parte del conduttore. In sostanza non si
vedono soluzioni diverse, come quella di dissociare soggettivamente il vincolo sulle riserve dalle deduzioni extracontabili. Ciò comporterebbe una
ingiustificata interruzione del riassorbimento naturale delle divergenze tra valori civili e fiscali generato sia dal processo di ammortamento dei beni
che da operazioni di scambio o in generale realizzative sugli stessi.
In conclusione, ad avviso di chi scrive, l’affrancamento delle differenze risultanti dal quadro EC
potrà essere effettuato solamente dal conduttore,
poiché con la concessione in affitto dell’azienda le
deduzioni extracontabili precedentemente effettuate dal locatore si trasferiscono al conduttore a
patto che costituisca un vincolo sulle proprie riserve di patrimonio presenti o future. In caso
contrario le deduzioni extracontabili verrebbero
riprese a tassazione in capo al concedente con liberazione delle rispettive riserve e l’affittuario riceverebbe beni senza alcuna divergenza di valori.
(4) D. Stevanato, «Affitto d’azienda e ammortamenti: note a
margine di una recente risoluzione», in Rass. Trib. n. 2/1997, pag.
403.
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
Cessione
d’azienda
Cessioni di azienda
e presunzioni di avviamento
di Alessia Vignoli, Roberto Lunelli, Raffaello Lupi
I molteplici rapporti giuridici che ruotano attorno a un cantiere edile consentono di ritenerlo
un’azienda, che in caso di cessione darà luogo a un plusvalore. L’esposizione generica del medesimo nell’atto di cessione di azienda, senza riferimenti agli immobili, ha portato l’Ufficio fiscale a
considerare tale importo, in capo al compratore, come un avviamento disconoscendone la rilevazione come maggior valore degli immobili, nonostante l’organizzazione dei fattori produttivi
fosse destinata a dissolversi una volta realizzati questi ultimi, ai quali avrebbe dovuto essere riferito quindi tutto il valore dell’azienda.
n L’insostenibile trasformazione in avviamento aziendale
delle quote di corrispettivo non imputate agli immobili
Alessia Vignoli
Dal «plusvalore» all’avviamento:
una soluzione che non convince
L’ennesima riqualificazione operata da un Ufficio fiscale ed avallata nella sentenza n. 29 del
2008 della Commissione tributaria provinciale di
Padova (1), si presta ad alcune brevi considerazioni sui presupposti e sui limiti per utilizzare ai fini
delle imposte dirette i valori dichiarati per l’imposta di registro.
Nel caso di specie l’Ufficio fiscale, basandosi su
quanto dichiarato nell’atto di vendita, riqualifica
come avviamento una parte del prezzo di acquisto
dell’azienda che il compratore aveva imputato agli
immobili.
Tale somma era stata genericamente denominata, nell’atto di cessione, come «plusvalore», e per
comprendere quest’espressione appare opportuno
ripercorrere brevemente i tratti essenziali della
questione, per vedere se la parte avesse in qualche
modo qualificato come avviamento ai fini del registro una quota del corrispettivo, ovvero avesse
solo redatto l’atto di cessione di azienda identificando i beni in base al loro valore contabile, e
chiamando genericamente (e grossolanamente)
plusvalore l’eccedenza.
Stando alla ricostruzione dei fatti fornita dalla
sentenza in commento, la spiegazione è proprio il
collegamento delle parti ai valori contabili dei beni ceduti, e l’utilizzo dell’espressione «plusvalore»
per identificare il maggior valore, rispetto ai dati
contabili, di un complesso immobiliare in corso
di edificazione.
La società acquirente, all’atto dell’acquisto, oltre
ad inserire nel proprio bilancio tutti quei beni
che tradizionalmente caratterizzano una società
che si occupa della costruzione e commercializzazione di immobili, ossia terreni edificabili, relative
concessioni edilizie ed in genere vari rapporti economico-giuridici attivi e passivi (quali contratti di
appalto, preliminari di vendita con i terzi acquirenti e finanziamenti bancari), doveva fare i conti
con tale fantomatico «plusvalore». Visto che l’azienda acquistata era sostanzialmente un cantiere
edile, l’importo del «plusvalore» non poteva che
essere computato tra le rimanenze finali dell’anno
in cui era stato effettuato l’acquisto, per poi essere
riportato come valore per le rimanenze iniziali
dell’esercizio successivo (2).
Alessia Vignoli - Ricercatrice presso l’Università di Roma «Tor
Vergata»
(1) Per il testo della sentenza cfr. pag. 108.
(2) La società contribuente, a conferma della legittimità della
quantificazione effettuata, dovrebbe aver prodotto una perizia che,
(segue)
Dialoghi Tributari n. 1/2009
101
Cessione
d’azienda
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
Il contenuto dell’atto di vendita
A questo punto due sono gli interrogativi che
sorgono con riferimento alla vicenda, il primo
concernente cosa potrebbe essere scritto nell’atto
di vendita per poter avallare la tesi dell’Ufficio,
anche in considerazione del fatto che, sotto il
profilo probatorio, l’Ufficio fiscale non ha prodotto elementi che dimostrassero in positivo la presenza di un avviamento (3), né la sentenza fa riferimento ad altre argomentazioni.
Tuttavia, stando all’esposizione del fatto, nell’atto di vendita si menzionava solo l’oggetto della
cessione, rappresentato da un terreno edificabile,
opere in corso e il suddetto plusvalore (4). Certo
è indubbio che si tratta di una voce generica e
per questo vista con sospetto dall’Ufficio fiscale,
ma se solo si considerano attentamente e con un
minimo di ragionevolezza le caratteristiche del caso di specie sarà agevole concludere per l’impossibilità di configurare un avviamento e la necessità
di riferire il «plusvalore» all’immobile.
Nella comune esperienza dell’attività edilizia,
infatti, per la realizzazione di complessi immobiliari vengono costituite ad hoc delle società, le
quali cessano la propria operatività con la conclusione dell’iniziativa edificatoria a fronte della quale sono state costituite. Ipotizzando che le cose
stiano cosı̀ (e ciò non può escludersi in considerazione del silenzio della sentenza sul punto) non è
verosimile la ricostruzione dell’Ufficio fiscale; tanto più che, essendo l’alienante una società di recente costituzione (che presumibilmente ha dato
in appalto a ditte terze la realizzazione concreta
dei lavori di costruzione), un avviamento era ancora meno credibile. Soprattutto se l’avviamento,
come gli stessi giudici sottolineano, sta ad individuare l’«attitudine dell’azienda a produrre utili in
misura superiore a quella ordinaria».
L’azienda più volte richiamata dai giudici sembra non consistere in altro che in un cantiere edile, cioè un insieme di beni immobili e di altri beni di valore assolutamente trascurabile rispetto ad
essi diretti alla realizzazione di una iniziativa immobiliare specifica, con un proprio ciclo vitale
destinato ad esaurirsi al completamento dell’iniziativa stessa; in tale contesto non è assolutamente
configurabile l’accostamento tra il plusvalore indi-
102
Dialoghi Tributari n. 1/2009
cato in atto, espressione generica relativa a tutti i
beni aziendali, e un concetto di avviamento che
avrebbe necessitato di un minimo di stabilità e
l’utilizzazione di segni distintivi verso i possibili
acquirenti, cui i giudici non fanno mai riferimento.
L’utilizzabilità ai fini delle imposte dirette
dei valori definitivamente accertati
nell’imposta di registro per combattere
un occultamento di corrispettivo
L’altro interrogativo è, invece, legato a come
sia stata possibile l’utilizzazione ai fini delle imposte dirette di un valore (il più volte citato plusvalore) dichiarato ai fini dell’imposta di registro.
Della questione della utilizzabilità per una imposta di valori dichiarati ai fini di una imposta diversa ha avuto più volte modo di occuparsi la
Corte di cassazione (5) giungendo alla formulazione del principio secondo cui: una divergenza
tra il prezzo dichiarato in atti e il valore dell’azienda, come accertato ai fini dell’imposta di registro, permette all’Amministrazione finanziaria di
attivare la «presunzione di corrispondenza del
prezzo incassato con il valore di mercato accertato
in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro».
(continua nota 2)
però, i giudici considerano irrilevante con la motivazione, assolutamente discutibile, secondo cui «trattandosi di mero atto di parte»
deve «considerarsi privo di rilevanza ai fini contabili».
(3) A tale proposito nel testo della sentenza si legge che «l’Ufficio, alla luce di quanto dichiarato nell’atto di vendita, contestava il
predetto inserimento e riqualificava il plusvalore quale avviamento,
da inserire tra le attività patrimoniali ed ammortizzare nei tempi
di legge».
(4) Deve presumersi che detto plusvalore, generando una plusvalenza in capo all’alienante, sia stato regolarmente tassato, non
essendovi nella sentenza argomentazioni che inducano a concludere il contrario.
(5) Tra cui segnaliamo Cass., Sez. trib., 18 luglio 2008, n.
19830, in in Corr. Trib. n. 35/2008, pag. 2849, con commento
in chiave critica di M. Beghin e in Banca Dati BIG, IPSOA;
Cass., Sez. trib., 28 ottobre 2005, n. 21055, in Banca Dati BIG,
IPSOA; Id., 22 marzo 2002, n. 4117, in banca dati Fisconline,
con nota di G. Sepio e in Corr. Trib. n. 26/2002, pag. 2357, con
commento di A. Renda e G. Stancati e postilla di R. Lupi; Id., 18
giugno 2007, n. 12899, in Banca Dati BIG, IPSOA; Id., 21 febbraio 2007, n. 4057, in Corr. Trib. n. 22/2007, pagg. 1803 ss.,
con nota di L. Giaretta.
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
Non possiamo avere la certezza che i giudici
della Commissione tributaria provinciale di Padova si siano ispirati a tali decisioni, dal momento
che non le richiamano espressamente, tuttavia, se
quello sopra citato fosse stato, seppur tra le righe,
il principio ispiratore della pronuncia in questione
non potremmo che concludere come i giudici di
merito abbiano impropriamente applicato al caso
di specie quanto affermato dai giudici della Corte
di cassazione.
È infatti sufficiente leggere le sentenze in questione per rendersi conto di come in esse i Giudici della Suprema Corte sanciscano la rilevanza, ai
fini delle imposte dirette, del maggior valore definitivamente accertato per l’imposta di registro
esclusivamente nelle ipotesi in cui l’Ufficio fiscale
cerchi di dimostrare un occultamento di corrispettivo, fenomeno come è noto particolarmente
diffuso nel settore immobiliare.
Tali considerazioni non possono, però, considerarsi, applicabili quando, come nel caso di specie,
si discute di come ripartire un corrispettivo dichiarato e, dunque, palese, tra vari cespiti aziendali.
Se non c’è mai stata, come è inconfutabile nel
Cessione
d’azienda
caso di specie, alcuna contestazione sul corrispettivo pattuito all’atto della cessione di azienda,
non ha senso applicare un principio affermato
dalla giurisprudenza della Corte di cassazione per
presumere l’esistenza di un corrispettivo dissimulato che poi è stato incassato in nero. Tale conclusione appare il frutto di un equivoco o comunque della mancata considerazione delle caratteristiche dell’azienda alienata che come detto in
precedenza non consisteva in altro che in un cantiere edile, in cui la componente immobiliare risulta totalizzante.
In tale contesto l’espressione «plusvalore» è ben
lontana dal rappresentare un sia pure ipotetico avviamento, ma indica semplicemente la parte di
prezzo che eccede i valori contabili, e che, sebbene non differenziata dalla contribuente tra le singole componenti reddituali, non può che riferirsi
ai singoli immobili. Invece di presumere un inverosimile avviamento ai fini delle imposte sui redditi, l’Ufficio avrebbe quindi dovuto, nella sua attività di interpretazione dell’atto, imputare agli
immobili la voce «avviamento», e determinare di
conseguenza il tributo di registro.
n Cessione di cantiere edile considerato «azienda» dalle parti,
evidenziazione di un «plusvalore» e sua qualificazione come avviamento
Roberto Lunelli
È sempre rischioso commentare il contenuto di
una (qualsiasi) sentenza senza conoscere, in dettaglio, la situazione di fatto, ma la sentenza n. 29
del 2008 della Commissione tributaria provinciale
di Padova richiama l’attenzione su un fatto che,
in teoria, dovrebbe essere «scontato» ma che, in
pratica, non viene sempre riscontrato.
Mi riferisco alla constatazione che un rapporto
come quello tributario, sempre delicato e spesso
complesso, si presta, in molti casi, ad essere risolto
- «meglio» che in via giudiziaria - in via amministrativa, attraverso un confronto e un contraddittorio fra le parti; sempreché le stesse diano attuazione
alla disposizione dell’art. 10, comma 1, della legge
27 luglio 2000, n. 212 sullo Statuto dei diritti del
contribuente, per cui «i rapporti tra contribuente e
amministrazione finanziaria sono improntati al
principio della collaborazione e della buona fede».
Riflessioni preliminari
sul cantiere edile come «azienda»
Non costituiva «materia del contendere» - e,
quindi (giustamente), non è stata considerata,
nella sentenza - una questione che «sta a monte»
della intera vicenda e che consiste nella qualifica
(giuridica) di un cantiere edile come «ramo
aziendale» (o addirittura «azienda») piuttosto che
come «bene immobile» o «compendio immobiliare».
Si verifica la prima fattispecie («ramo aziendale») quando il cantiere comprende non solo beni
(materiali e immateriali), ma anche rapporti commerciali, lavoristici, finanziari, ecc. (peraltro organizzati) o - forse - anche quando lo stesso esauri-
Roberto Lunelli - Dottore commercialista e tributarista in Udine
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Cessione
d’azienda
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
sce tutti i beni che fanno capo all’imprenditore
per l’esercizio della sua attività (avendo riguardo
all’art. 2555 c.c.); non sussiste invece una azienda quando il cantiere è costituito da un fabbricato (o da un complesso edilizio) in corso di costruzione, pur dotato delle necessarie autorizzazioni e licenze amministrative e alienato insieme
con qualche attrezzatura (magari utilizzata per la
costruzione); in quest’ultimo caso, mancando la
«organizzazione» dei beni (e rapporti) che deve
caratterizzare l’azienda, sembra più appropriato
parlare di «beni» (immobili o mobili) autonomi.
Ne deriva che - qualora il «maggior valore» rispetto ai valori «di libro» sia dovuto non al
«complesso organizzato», ma, ad es., all’incremento di valore di un bene immobile (o di un
compendio immobiliare) in costruzione, quel
«plusvalore» non può essere qualificato come «avviamento», ma va ad implementare il valore del
bene specifico.
Ne derivano conseguenze sul trattamento tributario delle due diverse fattispecie:
– ai fini delle imposte sui redditi, dato che nel
primo caso (azienda o ramo aziendale), il plusvalore concorre in via «autonoma» (rispetto agli altri
beni) alla determinazione dell’imponibile; nel secondo (bene singolo, ancorché articolato), esso
viene «incorporato», di volta in volta, in un «bene-merce» (che produce ricavi) o in un bene strumentale o d’investimento (che produce plus-/minus-valenze);
– ai fini delle imposte sui trasferimenti, dato
che nel primo caso la cessione (del complesso
aziendale) va assoggettata a imposta di registro
proporzionale (a carico dell’acquirente); nel secondo la cessione (del compendio immobiliare) va assoggettata ad IVA (con addebito del cedente per
rivalsa e detrazione del cessionario).
La cessione (o, meglio, l’acquisto)
di una azienda costituita da un cantiere edile
Dando per scontato che, nel caso esaminato
dalla Commissione patavina, si tratti di un
«complesso di beni organizzato» (e, quindi, di
un’azienda o, quanto meno, di un ramo aziendale) e senza ripetere quanto già rilevato - dalla
dott.ssa Vignoli - nel contributo precedente, a
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
me pare che i due protagonisti della vertenza (il
contribuente, da un lato; l’Ufficio accertatore,
dall’altro) abbiano agito, nel caso in esame, senza tenere in debito conto il predetto art. 10 dello «Statuto dei diritti del contribuente»: perché,
se lo avessero fatto, probabilmente neanche sarebbe sorta la controversia che è stata sottoposta
ai giudici e che ha portato alla sentenza qui considerata.
Il contribuente, in sede di registrazione dell’atto
d’acquisto, non ha utilizzato una terminologia
che consentisse all’Ufficio dell’Agenzia delle entrate di «capire», in dettaglio, quali fossero i componenti dell’»azienda» ceduta: il «plusvalore» dichiarato è espressione non solo atecnica e impropria,
ma erronea, se lo stesso voleva indicare il «maggior valore» del cespite immobiliare acquisito (nel
contesto dell’azienda acquistata) rispetto a quello
desumibile da altre fonti (ad es. dall’ultimo
S.A.L. - Stato Avanzamento Lavori del cedente): i
due valori non potevano essere indicati separatamente, ma unitariamente.
Il contribuente avrebbe dovuto presentare,
dunque, una dichiarazione - ai fini dell’imposta
di registro - più precisa e «qualitativamente» rispettosa della legge: perché se è vero che la modulistica non prevede una diversa collocazione dei
beni (immobili) soggetti a tassazione con aliquota
maggiorata, è anche vero che il «principio di collaborazione» impone alle parti lealtà di comportamento e, quindi, comunicazioni «chiare», dirette
a far sı̀ che la controparte sia messa in grado di
procedere secondo diritto: nel caso specifico,
avrebbe dovuto consentire all’Ufficio di sottoporre l’atto ad una «giusta tassazione» della (intera)
componente immobiliare.
Il contribuente, invece, ha cercato (probabilmente) di far passare quel «plusvalore» come
«scollegato» dalla componente immobiliare, per
godere di una imposta di registro minore rispetto
a quella dovuta; salvo, poi, considerare, in sede di
redazione del bilancio d’esercizio (e della successiva dichiarazione dei redditi), quello stesso «plusvalore» «di pertinenza» dell’immobile (o del compendio immobiliare) in corso di costruzione e,
quindi, una componente delle «rimanenze finali»
(nell’esercizio in chiusura) e delle «esistenze inizia-
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
li» (nell’esercizio successivo, al momento della
«riapertura dei conti») (6).
In altre parole, una qualificazione di quel plusvalore - da parte del contribuente - c’è stata, ma
è stata portata a conoscenza dell’Ufficio non in
sede di dichiarazione ai fini dell’imposta di registro, bensı̀ (solo e indirettamente) in sede di dichiarazione dei redditi, dato che quel «plusvalore»
si è materializzato, nello stato patrimoniale del bilancio d’esercizio, non in un «avviamento», ma in
un incremento delle rimanenze/esistenze dei «beni-merce»; voce che - ovviamente - ha interessato
anche il conto economico; al quale, prima, era
stato imputato - nel contesto dell’acquisto dell’azienda - il costo d’acquisto dell’immobile che, nel
caso specifico, doveva essere classificato come «bene-merce».
L’Ufficio dell’Agenzia delle entrate, in sede di
controllo della dichiarazione del contribuente per
l’imposta di registro, non ha ritenuto di dover
indagare per conoscere la natura del «plusvalore»
che il contribuente aveva dichiarato: lo ha - devo
ritenere - assoggettato all’imposta di registro con
l’aliquota ordinaria, considerandolo - nell’ambito
dell’acquisto dell’azienda - un valore di «avviamento»: perché il contribuente non lo aveva «collegato» alla parte immobiliare, ma lo aveva indicato come «voce a sé», con un valore «suo proprio».
Se l’Ufficio avesse proceduto ad un approfondimento - come avrebbe potuto (e, forse, dovuto)
fare, in attuazione del «principio di collaborazione» - chiedendo, al contribuente, a cosa fosse dovuto quel «plusvalore», avrebbe appurato che il
contribuente aveva dichiarato distintamente due
«valori» (degli immobili in costruzione) che, invece, dovevano essere considerati unitariamente:
avrebbe, pertanto, preteso la maggiore imposta di
registro dovuta (non al diverso imponibile, ma alla diversa aliquota dei beni immobili rientranti
nell’azienda compravenduta); la vicenda si sarebbe
chiusa lı̀, con il pagamento, da parte del contribuente, di quanto effettivamente «dovuto» per il
«trasferimento» del cantiere-azienda.
Non è dato sapere se questa «qualificazione»
(più che «riqualificazione») del plusvalore sia stata
operata dall’Ufficio accertatore perché esso figura-
Cessione
d’azienda
va (ed era stato valorizzato) autonomamente fra
gli elementi dell’azienda acquistata (in sede di denuncia del contribuente ai fini dell’imposta di registro); o se, viceversa, fosse intesa a «punire» il
contribuente per il suo comportamento non solo
ambiguo ma (forse) diretto a corrispondere una
imposta di registro non maggiorata su una componente immobiliare dell’azienda acquistata: resta
il fatto che l’Ufficio, senza chiedere spiegazioni di
sorta e senza considerare il comportamento tenuto dal contribuente ai fini delle imposte sui redditi, ha proceduto a qualificare quel plusvalore - ai
fini IRPEG (2003) - come «avviamento» (7).
Neanche l’Ufficio ha rispettato, dunque, l’art.
10 dello Statuto dei diritti del contribuente, dato
che, prima di emettere un avviso di accertamento,
avrebbe «dovuto» chiarire la natura di quel «plusvalore»: attraverso un questionario, un contraddittorio, un confronto con il contribuente ... Invece ha operato «a tavolino», assegnando a tale
(incerta e impropria) espressione quella di «maggior valore» del complesso aziendale (compravenduto): senza indagare sul comportamento che il
contribuente aveva adottato ai fini delle imposte
sui redditi.
La Commissione tributaria non ha «fatto giustizia» perché, a sua volta, non si è data carico di
«accertare i fatti»; per di più svalutando (aprioristicamente) una perizia che, forse, avrebbe potuto
«chiarire» quello che non era affatto chiaro: a cagione, da un lato, di una espressione poco ortodossa utilizzata dal contribuente in sede di atto
registrato, dall’altro, di un accertamento piuttosto
(6) Tra l’altro, non di entità identica, come avviene normalmente, ma - come aveva preteso l’Ufficio e ha confermato la
Commissione tributaria - di entità diversa, per via di un «condono» utilizzato in modo «incompleto», cioè senza valersi dell’istituto
della «regolarizzazione contabile» che si accompagnava alla definizione dei diversi periodi di imposta.
(7) In questo caso, quel (discutibile) orientamento della Corte
di cassazione che, in molte circostanze, valorizza le dichiarazioni o
le definizioni ai fini delle imposte di registro dell’avviamento per
«determinare un maggior imponibile» IRPEF/IRPEG-IRES (aspetto quantitativo) - finendo per confondere il concetto di «prezzo»
con quello di «valore» dell’’azienda - è stato adottato addirittura
per assegnare una qualificazione («conforme» alle apparenze, ma
difforme da quella fatta valere dal contribuente in sede di dichiarazione dei redditi) a una voce «incerta» come il «plusvalore» dichiarato dal contribuente ai fini dell’imposta di registro.
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Cessione
d’azienda
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«sbrigativo» dell’Ufficio ai fini delle imposte sui
redditi.
Ha accolto l’impostazione dell’Ufficio, che aveva qualificato quel «plusvalore» (non meglio identificato) come «avviamento», senza, però, ricercare
la verità e senza tenere conto del fatto che, se anche un «cantiere edile» può qualificarsi «ramo
aziendale», difficilmente «possiede» quelle caratteristiche che la stessa Commissione aveva indicato
per qualificare l’avviamento (cioè la capacità di assicurare una redditività superiore a quella che
avrebbero gli stessi beni non organizzati).
È probabile che i giudici abbiano collegato il
«plusvalore» dichiarato dal contribuente - cosı̀ come ha fatto l’Ufficio - al «ramo aziendale» (e non
al «compendio immobiliare»), ritenendo che se
quest’ultimo avesse «totalizzato», «integrato»,
«esaurito» l’oggetto del trasferimento, allora non
di cessione (e acquisto) di azienda (o di ramo
aziendale) si sarebbe trattato, ma di cessione (e
acquisto) di immobili (o di compendio immobiliare); per cui ne sarebbe derivata - questa volta sı̀
- una «riqualificazione» dello stesso contratto di
cessione, con effetti anche ai fini dell’alternativa
IVA/registro, che, viceversa, non era in discussione. E siccome questa valutazione non rientrava
nel petitum (dato che le parti - sul punto - erano
d’accordo: si trattava di un «complesso aziendale»
e non di un «compendio immobiliare»), la Commissione ha optato per la soluzione che riteneva in base alla documentazione in suo possesso - più
«ragionevole». Collegare quel «plusvalore» al compendio immobiliare in corso di costruzione avrebbe, in effetti, potuto mettere in dubbio lo stesso
«oggetto» della (intervenuta) cessione: e dato che
- in sede di tassazione sul trasferimento - si era
applicata l’imposta di registro proporzionale (sulla
- non controversa - compravendita dell’azienda) e
quel «plusvalore» era stato dichiarato separatamente (rispetto agli altri beni del complesso
aziendale e, in particolare, all’immobile), allora alla stessa stregua - doveva essere considerato anche ai fini delle imposte sui redditi: un valore
(autonomo) dell’azienda e, quindi, un «avviamento» e non già un «valore immobiliare», come invece pretendeva, ai fini delle imposte sui redditi,
il contribuente (che in quei termini aveva provve-
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duto alle registrazioni contabili e alla redazione
del Bilancio).
Conclusioni
Si parla molto di collaborazione fra le parti del
rapporto tributario, si evoca volentieri l’art. 10
della legge n. 212/2000 sullo Statuto dei diritti
del contribuente, ma in concreto capita spesso di
dover constatare situazioni come quella in esame:
una dichiarazione imprecisa, che mette in difficoltà l’Ufficio destinatario (forse con la finalità di
un modesto «risparmio di imposta» ai fini dell’imposta di registro); un accertamento superficiale, che rinuncia ad indagare sul comportamento - tenuto ad altri effetti - del contribuente e,
comunque, sul contenuto di un atto sottoposto
ad imposta di registro; un giudizio tributario
che, a sua volta, non approfondisce i fatti sottoposti al suo esame, limitandosi a optare per la soluzione «apparentemente» più logica, ma in realtà
più sbrigativa: in presenza, peraltro, di un comportamento ambiguo che il contribuente aveva
tenuto ai fini dell’imposta di registro e non anche delle imposte sui redditi, in relazione alle
quali non sembra che la condotta del contribuente si presti a critiche (ed era con riferimento
a quest’ultimo settore che era richiesta la decisione dei giudici).
Questa vicenda - come altre, oggetto di defatiganti contenziosi - si sarebbe prestata ad essere
(facilmente) risolta fra le parti, dato che - se al
contribuente fosse stato richiesto di fornire spiegazioni sulla qualificazione del «plusvalore» dichiarato ai fini dell’imposta di registro - non
avrebbe potuto contraddire la qualificazione che
lui stesso gli aveva assegnato ai fini delle imposte
sui redditi. Senza scomodare la «giustizia tributaria», si sarebbe raggiunto un risultato conforme
non solo alla legge, ma anche ai principi costituzionali: bastava che le parti in causa si fossero ricordate dell’esistenza di un «principio di collaborazione fra contribuente e Amministrazione finanziaria» per evitare gli oneri (e i rischi) del contenzioso e applicare le imposte dovute in relazione a
una operazione che, a questo punto, potrebbe
portare a tassazione «per difetto» ai fini dell’imposta di registro e ad imposizione «per eccesso» ai fi-
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
ni delle imposte sui redditi ... Senza contare le
sanzioni, che potrebbero non colpire il comportamento - in ipotesi scorretto - tenuto dal contribuente al momento della registrazione dell’atto ai
fini dell’imposta di registro (perché non «accertato» dall’Ufficio) e colpire il comportamento corretto tenuto (dallo stesso) in sede contabile, di redazione del Bilancio e, soprattutto - per quanto
Cessione
d’azienda
qui interessa - di dichiarazione dei redditi: perché
«accertato» non conforme a quello adottato (dallo
stesso contribuente) in sede di dichiarazione per
l’imposta di registro (anche se era con riferimento
a quest’ultima imposta - e alla relativa denuncia che il contribuente aveva sbagliato ...). È proprio
vero che i figli possono essere chiamati a pagare
per le colpe dei padri.
n Mancanza di indicazioni obbligatorie ai fini dell’imposta di registro
ed aziende senza avviamento
Raffaello Lupi
Aggiungo solo che non mi pare esser prevista,
ai fini dell’imposta di registro sulle cessioni di
azienda, una modulistica che imponga al contribuente di inquadrare i corrispettivi contrattuali
secondo le diverse aliquote previste per i beni
che compongono l’azienda. Ne discende che,
con ogni probabilità, il contribuente si è limitato
ad esporre all’Ufficio del registro un atto di cessione di azienda, senza precisa imputazione del
corrispettivo agli immobili ovvero ad altri beni,
con l’equivoca indicazione di «plusvalore», già
commentata dagli Autori che mi precedono.
Mancava quindi una quadratura tra l’atto di cessione di azienda e le classificazioni rilevanti ai fini del registro; gli atti sono però documenti civilistici, che servono a formalizzare gli accordi delle parti, non ad applicare le imposte. Non mi
pare quindi che le parti possano essere indirettamente sanzionate per aver utilizzato nell’atto di
cessione una terminologia non appropriata rispetto ad un adempimento di diritto amministrativo, com’è la determinazione del tributo di
registro. Un riflesso della neutralità fiscale rispetto alle forme giuridiche è che la redazione di un
atto in maniera un po’ ingenua non dovrebbe alterare la corretta determinazione della capacità
economica, portando all’»invenzione» di un avviamento di cui mancavano assolutamente i presupposti.
L’espressione «plusvalore», probabilmente, serviva solo a esprimere la differenza tra il prezzo
pattuito e i valori contabili degli elementi dell’azienda ceduta, desunti dalla contabilità aziendale.
È un’espressione sicuramente impropria, ma que-
sta ingenuità terminologica non sembra sufficiente per accertare ai fini delle imposte dirette un avviamento di cui non sussistevano altri indizi, spostando dalle rimanenze immobiliari all’avviamento
una corrispondente quota del corrispettivo. Anche
il riferimento all’identità della compagine societaria delle società coinvolte appare non pertinente
rispetto alla materia del contendere, ma genericamente testimonia un atteggiamento di diffidenza
e sospetto da parte di una sentenza quantomeno
sbrigativa.
La configurazione del cantiere come azienda
Veniamo ora alla configurazione del cantiere
come azienda. Non mi sembra in proposito da
escludere la configurabilità di una azienda diretta
all’esecuzione di un unico bene complesso, il cui
valore domina su quello dell’avviamento. L’edilizia, con i suoi pochi prodotti di rilevante valore
unitario, spesso mette alla prova i nostri stereotipi
sulle categorie concettuali dell’impresa, e mi riferisco ad esempio alla valutazione delle rimanenze
a costi specifici, trattandosi di beni chiaramente
individuati e di grande valore. Come conferma
anche Lunelli, l’organizzazione dei fattori produttivi per realizzare un complesso immobiliare può
essere una azienda, almeno quando si opera per il
mercato (se Tizio assolda per un due anni elettricisti, carpentieri, piastrellisti, idraulici e falegnami
per erigere la sua Magione, non diventa imprenditore). Se però erige un centro commerciale, con
appartamenti, negozi e autorimesse, destinati alla
rivendita, invece diventa imprenditore. E questo
Dialoghi Tributari n. 1/2009
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Cessione
d’azienda
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
anche se nulla assicura che l’organizzazione a tale
scopo messa in piedi sopravviverà all’ultimazione
delle opere. La ripetitività, a tempo indeterminato, dell’attività svolta potrebbe non essere un requisito indispensabile per avere una cessione d’azienda; se viene cioè considerata come azienda un
piccolo bar con una sola dipendente, non si vede
perché non potrebbe esserlo un cantiere con centinaia di operai, anche se in prospettiva il primo
ha una continuità che per il secondo non sussiste.
Potrebbero quindi concepirsi aziende senza avviamento, non nel senso di possedere un avviamento
negativo, ma di essere legate alla realizzazione di
un unico bene complesso, e quindi con una prospettiva limitata nel tempo. A quest’ultimo è il
caso di riferire tutto il valore di quella che resta
pur sempre un’azienda, nonostante la sua durata
limitata nel tempo.
n La sentenza
Comm. trib. prov. di Padova, Sez. VIII, Sent. 26 maggio 2008 (18 marzo 2008), n. 29 - Pres. Pezzangora - Rel. Rado (stralcio)
Svolgimento del processo
(Omissis)
L’avviso, emesso a seguito di verifica fiscale con conseguente redazione in data 13 luglio 2006 di processo verbale di
constatazione, accertava i seguenti rilievi:
1) (omissis)
2) errata annotazione della variazione delle rimanenze dell’esercizio per E. 1.209.042,00.
In data 21 novembre 2002 A. s.r.l. acquistava dalla B.
s.r.1. (posseduta al 100%) l’azienda esercente attività di costruzione e commercializzazione di immobili.
Oggetto della cessione, come dichiarato ai fini dell’imposta
di registro, erano le seguenti attività: terreno edificabile con
valore di E 2.272.410,00; opere in corso con valore di E
2.981.209,00; plusvalore per E 1.750.000,00. Tale plusvalore veniva imputato a rimanenze finali 2002-rimanenze
iniziali anno 2003.
L’Ufficio, alla luce di quanto dichiarato nell’atto di vendita,
contestava il predetto inserimento e riqualificava il plusvalore quale avviamento, da inserire tra le attività dello stato patrimoniale ed ammortizzare nei tempi di legge.
Parte ricorrente anzitutto contesta (omissis) la ripresa risulterebbe illegittima perché surrettizia rettifica di avvenimenti
realizzatisi nell’anno d’imposta 2002 e inoltre violerebbe i
principi di continuità dei valori di bilancio e dei valori contabili, con duplicazione d’imposta, e autonomia nelle scelte
gestionali d’impresa e nelle scelte attinenti alla formazione
del bilancio d’esercizio.
La qualificazione del plusvalore come «avviamento» inoltre
risulterebbe erronea (2.6) mentre risulterebbe corretto il
comportamento tenuto dalla ricorrente alla luce dei Principi
Contabili Internazionali e nazionali, in base ai quali le regole contabili di riferimento imporrebbero al cessionario di disattendere i valori contabili del cedente e di iscrivere le attività al loro valore attuale di mercato.
Il plusvalore riconosciuto in sede di acquisto infatti, in
quanto afferente al valore dei beni-merce, correttamente sarebbe stato imputato quali rimanenze.
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Dialoghi Tributari n. 1/2009
(Omissis)
Gli Uffici, ritualmente costituiti con nota depositata in data
29 novembre 2007, ribadivano punto per punto la legittimità del provvedimento impugnato, chiedendone l’integrale
conferma.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato solo per parte.
Occorre anzitutto premettere che la sociétà A. s.r.l. per il
periodo d’imposta considerato appartiene interamente ai coniugi ..., che possiedono ciascuno la quota del 50%.
In data 2 agosto 2002 la società immobiliare B. s.r.l. viene
interamente acquistata da A. s.r.l.; il 21 novembre 2002 1a
società immobiliare B. s.r.l. cede l’azienda (terreno, erigendo ‘‘fabbricato’’, oneri e diritti) alla società A. s.r.l.
In data 24 dicembre 2002 la società A. cede ai sig. ... coniugi la totalità delle quote della immobiliare N. s.r.l.
(Omissis)
Quanto alla contestazione relativa alla errata annotazione
della variazione alle rimanenze dell’esercizio (punto sub 2)
si osserva che le parti nel cedere ed acquisire i terreni e le
opere, nell’ambito della propria autonomia negoziale, hanno
scelto di porre in essere non già un atto di compravendita
di beni ma hanno utilizzato lo strumento della cessione d’azienda.
La volontà delle parti, cosı̀ come estrinsecata nel negozio
posto in essere, considerato anche che l’A. s.r.l. esercita «attività di costruzione e commercializzazione di immobili», va
individuata nella cessione del «complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa,» con ciò
comportando che la cessione contestuale dei beni e dell’attività va valutata nella sua globalità, essendo il valore ceduto
comprensivo del valore degli immobili e dell’attività dell’esercizio ceduto.
E del resto, congruamente con le finalità perseguite, l’atto
di cessione di azienda in data 21 novembre 2002, indicava
ai fini del registro la cessione delle singole attività valutate
CTP Padova, 26 maggio 2008, n. 29
quanto ai terreni per la somma di E 2.272.410, opere in
corso E. 2.981.209, plusvalore E. 1.750.000.
Tale plusvalore va ravvisato nel maggior valore che il complesso dei beni acquisisce, rispetto ai singoli beni che lo
compongono, ovvero nella capacità dell’azienda a produrre
profitti, ovvero utili, in quanto entità organizzata nel sistema aziendale, e che come tali non possono essere inclusi
nei «costi diretti».
Ciò comporta che la stessa A. s.r.l., che esercita attività di
commercializzazione di immobili (si ricorda proprietaria al
100% della cedente immobiliare B. s.r.l.), non può ora, per
altri fini, attribuire il plusvalore, dalla stessa dichiarato ai fini dell’imposta di registro, ai singoli beni. Irrilevante sul
punto appare la perizia prodotta, trattandosi di mero atto
di parte, privo peraltro di alcuna rilevanza ai fini contabili
ora in discussione.
E in modo pienamente legittimo l’Ufficio, accertato che il
plusvalore risultava inserito tra le rimanenze iniziali dell’anno 2003, imputato ai beni materiali quali rimanenza di magazzino, provvedeva a riqualificare il valore quale avviamento, inserendolo tra le immobilizzazioni immateriali, quali at-
Cessione
d’azienda
tività dello Stato patrimoniale, ammortizzandolo nei tempi
di legge.
Di nessun pregio sono le argomentazioni di parte che sı̀ richiamano all’autonomia delle scelte gestionali d’impresa, alla luce di quanto dispongono gli artt. 59 ss. del T.U.l.R. e
la normativa civilistica in tema, cosı̀ come non possono applicarsi gli invocati principi IFRS né richiamare la correttezza del comportamento del cessionario, alla luce dei principi
contabili internazionali e nazionali, nel disattendere i valori
contabili del cedente, atteso che nella fattispecie le società
cedente e cessionaria risultano costituite dalla medesima
compagine sociale.
La ripresa appare legittima e conseguentemente va confermata sul punto.
Il testo integrale della sentenza si può richiedere a
[email protected]
www.ipsoa.it/dialoghionline
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IVA
Versamento dell’IVA per cassa
e correlazioni tra fornitori e clienti
di Dario Stevanato, Raffaello Lupi
Con il facoltativo regime del versamento dell’IVA non più all’emissione della fattura, ma soltanto
all’incasso del corrispettivo, il legislatore ha voluto evitare i pregiudizi derivanti dall’obbligo di anticipare all’Erario un’IVA non ancora riscossa dal cliente. Si tratta di un margine di scelta importante, che conferma peraltro le simmetrie della fiscalità analitico-aziendale: all’esigibilità differita si
accompagna infatti un analogo differimento del diritto alla detrazione per il cliente. Ne potrebbero dunque derivare, per determinate imprese, delle penalizzazioni, ferma restando l’indifferenza
del nuovo regime per l’Erario.
n Un provvedimento (quasi) a costo zero, grazie ai riflessi sul cliente
Dario Stevanato
L’art. 7 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185,
convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, ha infine introdotto la possibilità,
che era stata ventilata da qualche tempo, di corrispondere l’IVA soltanto al momento dell’incasso
del corrispettivo, e non sulla base di fatture emesse, ma non ancora pagate dal cliente. Si tratta di
un regime che, inizialmente, avrebbe dovuto avere
carattere transitorio e sperimentale, ma in seguito
alle modifiche apportate dalla Camera assumerà
valenza strutturale (ferma restando la sua subordinazione ad una preventiva autorizzazione comunitaria, come prevede il comma 2 del citato art. 7).
La disposizione appare intesa a superare il noto
inconveniente secondo cui l’emissione della fattura può costringere ad anticipare il versamento all’Erario rispetto al momento di riscossione dell’IVA dal cliente. La nuova esigibilità per cassa ricalca dunque le regole già previste per la fatturazione nei confronti degli enti pubblici, che vengono estese anche ai rapporti tra privati, purché il
cessionario o il committente agisca nell’esercizio
di imprese, arti o professioni.
Il regime in questione prevede dunque la cosiddetta «esigibilità differita» al momento di incasso
del corrispettivo. In pratica, in deroga al principio
secondo cui l’imposta diviene esigibile (cioè dovuta all’Erario) al momento di effettuazione dell’o-
110
Dialoghi Tributari n. 1/2009
perazione, a cui si collega l’obbligo di emettere la
fattura, il regime di «pagamento dell’IVA al momento dell’effettiva riscossione del corrispettivo»
consente al cedente o prestatore di postergare la
«esigibilità» e dunque il versamento dell’IVA all’Erario al momento in cui incasserà dal cliente i
corrispettivi indicati in fattura.
Ci sarà ovviamente tempo di esaminare più approfonditamente le problematiche che questo
nuovo assetto comporta. A caldo si possono tuttavia effettuare le seguenti considerazioni.
Lo slittamento in avanti
dell’obbligo di versamento per il cedente
e, corrispondentemente, del diritto
alla detrazione per il cessionario
Anzitutto, lo slittamento in avanti, dal momento della fatturazione a quello dell’incasso del corrispettivo, dell’obbligo di versare l’imposta, non
comporta alcuna sovvenzione alle imprese da parte dell’Erario, né temporanee rinunce al gettito.
Avendo infatti collegato il nuovo meccanismo al
momento di esigibilità dell’imposta, lo stesso va
ad incidere anche sul soggetto (cessionario o committente) titolato alla detrazione. Considerato che
il diritto alla detrazione sorge nel momento in cui
l’imposta diviene esigibile (art. 19 del D.P.R. 26
ottobre 1972, n. 633), è evidente che il cessiona-
IVA
rio o committente subirà uno slittamento in
avanti del diritto alla detrazione, uguale e contrario al differimento, di cui si avvantaggia il cedente
o prestatore, dell’obbligo di versare l’imposta.
Per l’Erario, dunque, il regime in esame non
comporta alcuna anticipazione finanziaria al sistema delle imprese, e sarebbe dunque improprio
presentare il provvedimento come una sorta di
«sgravio fiscale». Il nuovo sistema di pagamento
dell’IVA al momento della riscossione del corrispettivo è invece in un certo senso un elemento
di flessibilità nei rapporti interprivatistici, giacché
si consente alle parti del rapporto di regolare le
partite debitorie e creditorie, ai fini IVA, non più
su basi meramente cartolari, ma avendo a riferimento il momento del pagamento dei corrispettivi contrattuali.
nuovo metodo di esigibilità su basi finanziarie è
affidato ad una dicitura che dovrà essere apposta
sulle singole fatture, senza alcun vincolo per l’impresa ad adottare uno dei due metodi per la generalità delle fatture emesse. Certo, è evidente che
la compresenza di due diverse metodologie di fatturazione, e di due diversi criteri di esigibilità dell’imposta, richiederà maggiore attenzione al momento delle liquidazioni periodiche, in quanto le
registrazioni contabili delle fatture dovranno essere riconciliate, per quelle ad esigibilità differita,
con i dati degli incassi dei corrispettivi contrattuali. Si tratta tuttavia delle stesse problematiche già
ora riferibili alle operazioni intercorse con enti
pubblici.
La facoltatitività del nuovo regime
Il regime introdotto dalla norma citata ha dunque l’effetto di eliminare un fattore di svantaggio
per le imprese che hanno come controparti contrattuali cattivi pagatori, mentre le imprese ritardatarie nei pagamenti non potranno più «sovvenzionarsi» a spese dei fornitori portando immediatamente in detrazione l’IVA addebitata in fattura,
ma non pagata. Ne trarranno maggiori vantaggi
le imprese con una più bassa incidenza dell’IVA
sugli acquisti, e quelle con un saldo sfavorevole
tra il tempo medio di pagamento dei debiti e
quello di incasso dei crediti. Le imprese con un
significativo ammontare di IVA sugli acquisti, ed
un ammontare di IVA a debito sostanzialmente
in linea con quello dell’IVA a credito, dovrebbero
invece ritrovarsi nella stessa situazione in cui si
trovavano in passato, considerato che alla posticipazione dell’obbligo di versare l’imposta si accompagnerà la postergazione del diritto alla detrazione
(sull’assunto che anche i fornitori dell’impresa optino per l’esigibilità differita dell’imposta).
Il secondo aspetto da sottolineare attiene alla
facoltatività del regime, la cui scelta è interamente
rimessa alle decisioni dell’emittente la fattura. In
base a quanto prevede l’art. 7 del D.L. n. 185/
2008, infatti, le operazioni soggette al nuovo regime si riconosceranno per il fatto che la fattura recherà l’annotazione che si tratta di operazione ad
esigibilità differita, con l’indicazione della norma
di riferimento. In mancanza di annotazione, si
applicheranno pertanto le vecchie regole, e l’esigibilità verrà a coincidere con il momento di effettuazione dell’operazione ed emissione della fattura. In questo scenario, il cliente subirà le scelte
del fornitore, e in caso di opzione per il differimento dell’esigibilità (esigibilità «per cassa») vi sarà uno «stimolo» in più ad un pagamento tempestivo dei corrispettivi, visto che ciò consentirà al
cliente di operare la detrazione IVA.
Mi pare altresı̀ il caso di notare che l’opzione
per l’esigibilità differita, con riferimento ad una o
più operazioni, non farà entrare l’impresa in una
sorta di nuovo «regime» omnicomprensivo, alternativo a quello tradizionale e con carattere unificante: l’impresa potrà cioè scegliere di optare per
l’esigibilità differita nei confronti di alcuni clienti
e non di altri, per tutte o solo per alcune operazioni. Come detto, infatti, lo switch tra il metodo
tradizionale di esigibilità su basi cartolari ed il
I diversi effetti sulle imprese
L’indifferenza per il settore
del lavoro autonomo
Un’altra considerazione riguarda poi la sostanziale indifferenza per il nuovo regime del settore
del lavoro autonomo e in certa misura delle imprese che prestano servizi. A prescindere dall’innovazione normativa, infatti, il momento di effet-
Dialoghi Tributari n. 1/2009
111
IVA
tuazione dell’operazione, per le prestazioni di servizi, già coincide con il pagamento del corrispettivo; dunque, il prestatore potrebbe attendere ad
emettere la fattura, e per quantificare alla propria
controparte l’ammontare dovuto limitarsi a compilare una fattura pro-forma o un altro documento non rilevante ai fini IVA, come usano fare
molti professionisti.
Le imprese che vendono merci al dettaglio
a consumatori finali
I soggetti che potrebbero invece essere svantaggiati dalle nuove disposizioni sull’esigibilità dell’IVA per cassa sono le imprese che vendono merci
al dettaglio a consumatori finali. Abbiamo visto
infatti che l’esigibilità per cassa richiede che il cessionario o committente abbia la qualifica di imprenditore o professionista: le vendite a privati
consumatori finali, con emissione di fattura al
momento di consegna della merce, non possono
dunque accedere al regime di postergazione del
versamento dell’IVA al momento del pagamento
della stessa da parte del cliente. Queste imprese
potrebbero dunque trovarsi tra l’incudine e il
martello, subendo la temporanea indetraibilità
dell’imposta assolta sugli acquisti (laddove i produttori o i distributori dei beni oggetto dell’attività optino per l’esigibilità differita), e dovendo però al tempo stesso anticipare il versamento dell’imposta addebitata in fattura ai propri clienti,
consumatori finali, che su beni durevoli di un
certo valore non sempre pagano l’intera fornitura
alla consegna della merce. Si pensi, ad esempio,
al settore della vendita di mobili o di altri oggetti
di arredamento per la casa (tappeti, lampade,
ecc.), e ad altri settori merceologici connotati da
una elevata componente di servizio da parte del
venditore, in cui la concessione di dilazioni di pagamento è uno dei tanti elementi utilizzati per la
fidelizzazione della clientela. I soggetti operanti in
questi settori potrebbero dunque risultare delle
vittime collaterali del nuovo regime di esigibilità
differita dell’imposta.
Le possibili collusioni tra fornitore e cliente
Mi pare infine il caso di interrogarsi su possibili
112
Dialoghi Tributari n. 1/2009
collusioni tra fornitore e cliente, in ordine all’indicazione del regime di esigibilità differita, che
potrebbe comparire nella copia della fattura che
resta in possesso del fornitore, e «sparire» invece
in quella inviata al cliente. Una frode di questo
tipo, credo inedita nel sistema e che non riesco al
momento ad inquadrare dal punto di vista sanzionatorio, consentirebbe al cliente di portare subito
in detrazione l’imposta, ed al fornitore di rinviarne invece il versamento all’Erario. Tale rinvio
non sarebbe comunque sine die, posto che il legislatore ha introdotto, credo per ragioni di cautela
e probabilmente anche replicando una disposizione già in essere per le cessioni di beni (che si considerano comunque effettuate dopo un anno dalla
consegna, indipendentemente dal passaggio della
proprietà), una clausola secondo cui l’imposta diviene comunque esigibile dopo il decorso di un
anno dall’effettuazione dell’operazione, indipendentemente dal pagamento del corrispettivo.
Questa disposizione suscita tuttavia altri interrogativi. Fuori infatti dei possibili casi di frode
che si possono immaginare, nelle situazioni in cui
il mancato pagamento non sottende alcun accordo collusivo tra cliente e fornitore, ma semplicemente la difficoltà finanziaria del cliente, il limite
dell’anno rischia di risultare assai penalizzante. Se
infatti il cliente non ha pagato dopo un anno, il
credito può dirsi sotto tutti i profili «in sofferenza», ed a quel punto il fornitore, oltre a rischiare
seriamente di rimetterci il corrispettivo, si troverebbe anche a dover versare all’Erario un’imposta
mai riscossa. Insomma, è proprio quando il pagamento del cliente non arriva dopo molto tempo
dalla fornitura che più mi sembra sussistere l’esigenza di differire l’esigibilità dell’imposta. In queste situazioni, dunque, il limite dell’anno rischia
di vanificare, almeno nei casi di incaglio dei crediti, gli obiettivi che il legislatore si prefissava.
Ed a tale proposito non mi sembra sufficiente
la deroga introdotta, secondo cui «il limite temporale (di un anno) non si applica nel caso in cui
il cessionario o il committente, prima del decorso
del termine annuale, sia stato assoggettato a procedure concorsuali o esecutive». Le prime, come
noto, sono ormai riservate ai debitori, diciamo
cosı̀, «di una certa dimensione» (visti i limiti di-
IVA
mensionali sotto i quali il fallimento è escluso);
quanto alle seconde, si costringerebbe il creditore
ad intentarle anche nel caso in cui si preveda la
loro infruttuosità, con ulteriore aggravio di spese.
Si assisterebbe quindi a procedure esecutive effettuate soltanto per procurarsi il titolo per conti-
nuare a differire l’esigibilità dell’imposta. Senza
contare che il creditore potrebbe, anche all’approssimarsi della scadenza del periodo annuale,
sperare ancora in un pagamento spontaneo, che
proprio l’avvio della procedura esecutiva potrebbe
per certi versi, paradossalmente, pregiudicare.
n IVA per cassa e intrecci fornitore-cliente
Raffaello Lupi
Nell’IVA per cassa, la tassazione analitico aziendale mostra il suo aspetto aziendalistico-documentale, di simmetrie ragionieristiche e di analisi economica dei rapporti giuridici, con finalità tributarie; restano invece relativamente in disparte i poteri amministrativi e i concetti macroeconomici,
dove l’IVA per cassa nulla aggiunge al riferimento
generale del tributo ai consumi. Anche l’IVA per
cassa è un altro di quei regimi in cui le posizioni
dei soggetti coinvolti si condizionano a vicenda,
secondo le note correlazioni ispiratrici della tassazione analitico aziendale (1).
Sono molti i riflessi della nuova procedura sull’amministrazione aziendale; l’IVA per cassa va segnalata prima di tutto per la possibilità di fare
«fior da fiore», regolandosi caso per caso se applicare o no il nuovo regime, in relazione ai particolari rappporti con il cliente e alla sua solvibilità.
La procedura consente anche di sostituire la farraginosa procedura del «preavviso di fattura».
Quest’ultimo era universalmente utilizzato per evitare l’anticipazione di IVA non riscossa, nonostante - con argomenti nebulosi - se ne fosse affermata
l’equivalenza rispetto alla fattura (2), connettendovi implicitamente ma chiaramente l’obbligo di
computare l’IVA. Senza ripetere considerazioni già
svolte (3) mi sembra che - con la procedura in
esame - sia possibile sostituire radicalmente l’emissione dei «preavvisi di fattura», che richiedeva l’emissione di due documenti, costituiti dal preavviso prima e dalla fattura al momento dell’incasso.
La simmetria, e la relativa irrilevanza, ai fini del
gettito, della disposizione in esame deriva dall’indetraibilità dell’IVA sugli acquisti fino al momento del pagamento. Per questo la procedura in esame è applicabile solo sulle fatture emesse verso
chi agisce nell’esercizio di imprese o professioni.
Questa disposizione, ispirata da evidenti motivi di
gettito «finanziario», serve a mantenere l’anticipato versamento allo Stato di IVA non riscossa per
tutte le vendite ai consumatori finali. Quindi tutta l’IVA corrispondente a scontrini fiscali, ricevute o annotazioni dei corrispettivi, va versata a prescindere dal suo incasso. Ma come fa il fornitore
a sapere se il soggetto che gli chiede la fattura è
un consumatore finale o agisce nell’esercizio di
impresa? Un indizio determinante è l’indicazione
in fattura di una partita IVA, accanto al nome
del cliente. Secondo un importante filo conduttore, frequentemente espresso su Dialoghi e ribadito
in un altro volume (4), il fornitore deve attenersi
alle indicazioni fornitegli dal cliente, in quanto
non può trasformarsi certo in un investigatore per
controllarne la veridicità. Se quindi il cliente richiede l’emissione di una fattura, e fornisce una
partita IVA, implicitamente dichiara di agire nell’esercizio di imprese e quindi il fornitore sarà
abilitato ad apporre la fatidica frase «fattura ad
esigibilità differita». Anche se la prestazione riguarda la sfera personale del cliente, egli potrà
fornire comunque la propria partita IVA al forni(1) R. Lupi, Evasione fiscale, paradiso e inferno. Teoria della tassazione analitico aziendale e delle sue disfunzioni in Italia, IPSOA,
2008, par.2.12.
(2) M. Logozzo, L’obbligo di fatturazione nell’IVA, Milano,
2004, in cui la fattura, documento commerciale inter partes, viene
equiparata alla dichiarazione fiscale nella categoria concettuale della
dichiarazione di scienza, con sovrapposizioni tra documenti commerciali usati ai fini fiscali (fatture) e adempimenti di diritto amministrativo (dichiarazioni) che testimoniano quanta strada debba
ancora fare una teoria della tassazione analitico-aziendale.
(3) R. Lupi, «IVA per cassa e «simmetire fiscali»: superati i
preavvisi di fattura», in Corr. Trib. n. 1/2009, pag. 39.
(4) R. Lupi, Evasione fiscale paradiso e inferno, cit., pag. 187.
Dialoghi Tributari n. 1/2009
113
IVA
tore, che potrà emettere una fattura ad esigibilità
differita. Potrebbe essere in questo modo paralizzato il versamento anche di importi consistenti di
IVA, che magari il cliente ha già materialmente
versato, ma che il fornitore ha incassato in modo
occulto. Forse l’esigibilità dell’IVA dopo un anno
dall’operazione è dettata proprio dal desiderio di
ostacolare simili operazioni, tendenti a differire a
tempo indeterminato il versamento dell’IVA e dove magari manca l’interesse del cliente ad effettuare la detrazione, in quanto limitata dal pro rata in
presenza di operazioni esenti. La cautela dell’esigi-
bilità dopo un anno potrebbe però non essere
sufficiente. Anche se dopo un anno l’IVA diventa
esigibile, c’è sempre successivamente un ulteriore
anno per stornare la fattura affermando il mancato pagamento da parte di un cliente che, comunque, non ha interesse alla detrazione, in quanto
non imprenditore, e resterebbe indifferente all’emissione di una nota di accredito per stornare la
fattura. Ma questa è un’altra storia, riguardante la
fisiologia dell’inadempimento del cliente e del recupero dell’IVA su cui, con Stevanato, ci siamo
ripromessi di tornare.
«Dialoghi» con le Riviste IPSOA
CORRIERE TRIBUTARIO
R. Lupi, «IVA per cassa e «simmetrie fiscali»: superati i preavvisi di fattura?», in Corr. Trib. n. 1/2009, pag. 39
P. Maspes, « IVA per cassa tra autorizzazioni comunitarie e problemi applicativi», in Corr. Trib. n. 8/2009, pag. 611
T. Lamedica, «IVA per cassa», in Corr. Trib. n. 8/2009, pag. 645
L’IVA
F. Ricca, «Ampliati i casi di esigibilità differita», in L’IVA n. 1/2009, pag. 7
PRATICA FISCALE E PROFESSIONALE
M. Pellegrini, «Esigibilità dell’IVA all’incasso», in Pratica Fiscale e Professionale n. 4/2009, pag. 13
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