Appunti di viaggio Agosto 2015

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Appunti di viaggio Agosto 2015
Questo è il mio personale
diario del viaggio
organizzato da
AssoPacePalestina dal 21
al 28 agosto 2015 a cui
ho partecipato. E' stata
un'esperienza
incredibile. Preziosa per
le persone che ho avuto
la fortuna di conoscere.
Devastante per la full
immersion che ho fatto
nell'ingiustizia e
nell'apartheid.
Indimenticabile per i
luoghi, le persone, le
situazioni. Nonostante sia
durato solo 8 giorni, vale
una vita ed è stato
sufficiente a farmi
lasciare un pezzo di
cuore al di là di
quell'odioso, opprimente,
obbrobrioso, inumano e
soprattutto illegale muro
che oltraggia e ferisce
non soltanto la Palestina
ed il suo popolo ma tutta
l'umanità.
Appunti di viaggio
Palestina 21/28 agosto 2015
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21 agosto - LA PARTENZA
Eccomi qua, finalmente la fatidica data è arrivata. Ci troviamo al
terminal1 con gli altri romani: Giada, Gaetano, Emilia e Rita. Sono
molto emozionata e felice ma anche un po’ in ansia per tutte le
raccomandazioni ricevute che comunque mi fanno temere una
qualche complicazione che mi impedisca di partire. Al controllo dei
passaporti l’emozione, la sprovvedutezza o forse solo l’eterna
confusione di idee ed informazioni che si accapigliano nella mia
testa, fanno sì che mi esibisca nella mia prima esilarante gaffe: ci
sono diverse file, ognuna contrassegnata da grandi cartelli
luminosi, solo passaporti europei, solo passaporti non europei,
foreign passport ecc. ecc.
Il mio passaporto è nuovo di zecca. So che dovrebbe essere
elettronico, perché così mi hanno detto ma non ne sono molto
certa e quindi stringendolo bene in vista, mi avvicino ad uno
qualsiasi degli sportelli ed al poliziotto preposto al controllo, con
fare titubante e confondendo la parola europeo con la parola
elettronico, esordisco: Mi scusi, io non ho proprio idea se il mio
passaporto sia europeo o meno. Il poliziotto mi guarda a sua volta
titubante. Probabilmente si sta chiedendo se ci faccio o ci sono.
Poi, molto gentilmente mi chiede: “ Lei è italiana?” – Sì - “L’Italia è in Europa?” – Sì – e mentre la sillaba
esce dalle mie labbra, improvvisamente realizzo la differenza tra passaporto elettronico e passaporto
europeo. Vorrei sprofondare, accenno un sorriso di scuse e porgo il passaporto.
L’incontro con gli altri compagni di viaggio che sono arrivati all’aeroporto di Roma dalle altre città è subito
cordiale. Finalmente i nomi, con alcuni dei quali ho scambiato sms e mail, hanno un volto e sono tutti volti
molto gradevoli. Arrivano da Milano, Cagliari, Udine, Palermo, Bergamo, Senigallia, Monza, Viareggio,
Como, Sondrio. Sono giovani e meno giovani, dai 25 anni di Giada agli 83 di Franco e Battistina. I miei 18
compagni di viaggio.
ARRIVO AL BEN GURION
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Dopo tre ore di viaggio l’aereo atterra al Ben Gurion. Siamo tutti un po’ agitati per i temuti controlli
all’ingresso. Luisa ci ha raccomandato di non portare con noi il programma di viaggio, visto che quasi tutti i
posti dove abbiamo intenzione di andare, non sono mete gradite alle autorità israeliane e quindi non
dovranno essere nemmeno nominati. In realtà il mio controllo va liscio come l’olio e l’addetto al controllo
passaporti non mi fa alcuna domanda. Non va altrettanto liscio per altri che vengono sottoposti ad un fuoco
di fila di domande sul motivo della visita, i tempi di permanenza, gli interessi. Nel complesso però nulla di
trascendentale e ci ricongiungiamo, senza troppi problemi, con la guida palestinese Mike che ci
accompagnerà durante tutta la settimana e che sarà il mio incubo quotidiano, visto che parla
esclusivamente inglese e va pure un po’ di corsa.
Abbiamo anche il nostro pullman che ci aspetta. Facciamo conoscenza con Mahar, autista “barbiere” che
durante tutta la settimana farà il pelo ed il contropelo a macchine, muri, marciapiedi e persone,
dimostrando una capacità di guidare e sfrecciare attraverso passaggi
calibrati al millimetro con una maestria degna del miglior autista
napoletano che voglia attraversare Spaccanapoli a Natale contromano.
Attraverso Tel Aviv senza molto interesse in verità. Una città, almeno per
quanto riesco a vedere dal finestrino, abbastanza moderna ed anonima.
60 km circa più ad est ci attende Gerusalemme.
Alloggeremo al Capitol, vicinissimo alle mura della città vecchia. La mia
camera è luminosa ed arredata con grandi tende verde smeraldo che
sovrastano il lettone matrimoniale ed oscurano due grandi finestre. Scopro
subito che una delle finestre dà su un piccolo e prezioso cimitero islamico.
Tutte le tombe sono a terra, rivolte verso un’unica direzione ed adornate
con lapidi in pietra scolpite. Non so se la vista mi inquieti di più o mi
affascini. Improvvisamente mi viene in mente il video di Vik all’interno del
cimitero di Gaza. Sorrido. Mi sembra quasi un segno del destino. Un saluto
di benvenuto.
Ho incontrato Luisa. Non la conosco ancora bene. So di lei solo che ci accompagnerà durante il viaggio e
sarà la nostra guida. E’ una bella signora dal viso aperto ed il sorriso cordiale. La prima impressione che mi
fa, mentre ci viene incontro, è che sia “avvolgente” e rassicurante. Mi piace.
Cena a buffet. Profumi e colori orientali invadono la mia tavola. Non so bene cosa mangio ma mi piace.
Salsine varie con la pita, il buonissimo pane arabo che ricorda le piadine. Riso, melanzane e zucchine
grigliate e speziate. Pasticcio di patate e naturalmente Taybeh, la birra palestinese, amarognola e decisa.
Dopo cena, incontro con Huda Al Imam, già direttrice del centro Culturale dell'Università Al Quds ed
un’altra donna, di cui capisco solo che è israeliana. Evidentemente collaborano tra loro e lavorano insieme
in un centro che tenta di dimostrare come la cultura può unire. Non riesco a seguire benissimo perché
nonostante la puntuale traduzione di Giada e di Luisa, faccio una fatica del diavolo a concentrarmi. Afferro
però il senso generale della collaborazione e della voglia di queste Donne di dimostrare che dialogare si
deve e si può. Luisa ci informa che la storia di Huda è descritta nel libro “Golda ha dormito qui" di Suad
Amery che mi riservo di comprare appena rientrata in Italia. Per ora mi accontento di capire che Huda è una
delle centinaia di migliaia di palestinesi che a seguito della guerra del 1948 ha visto la sua casa di
Gerusalemme sequestrata ed occupata dagli israeliani. Ora lavora presso il centro culturale Al Quds , sede
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pure di un piccolo museo, dove andremo domani e dove, insieme a donne israeliane contrarie
all’occupazione, dimostra quotidianamente che il dialogo è possibile.
Una volta in camera, prima di andare a letto, mi riaffaccio sul cimitero quieto ed illuminato fievolmente.
Il pensiero corre da solo
Eccomi Vik, sono venuta in Palestina.
22 agosto - SECONDO GIORNO
VISITA DI GERUSALEMME – MURO DEL PIANTO – BASILICA DEL SANTO
SEPOLCRO – GETSEMANI
CENTRO CULTURALE AL QUDS
La visita alla Spianata delle Moschee è saltata. Le autorità israeliane ne
hanno deciso la chiusura ai turisti ed ai musulmani per motivi di
sicurezza. Non ho capito se questo vale anche per gli israeliani ma poco
importa. Mike ci accompagna nella città vecchia. L’impatto è devastante.
Il muro di separazione voluto dagli israeliani, incombe dappertutto,
grigio, tetro, freddo. Un pugno nello stomaco. Non avrei mai immaginato
che quando si parla di colonie israeliane, ci si possa riferire anche a case
o addirittura stanze, nel cuore di Gerusalemme Est. Le bandiere
israeliane marcano il territorio, spuntando nei posti più impensabili.
Scopro in questa occasione che per colonia si può intendere anche una
singola stanza in una palazzina, sequestrata ed affidata ai coloni dopo
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che i proprietari sono stati costretti ad abbandonarla. Ovunque soldati armati. Sui tetti, agli angoli delle
strade.
Quando incrocio il primo colono disinvoltamente armato di mitra a spasso nel mercato, rimango
esterrefatta. Arriviamo con Mike fino ad uno dei checkpoint che controllano l’accesso alla Spianata. Ci
lasciano sbirciare all’interno attraverso una mezza porta aperta. I soldati ci identificano come turisti e non
sembrano particolarmente aggressivi ma l’armamentario che hanno addosso fa paura. Nel cuore di
Gerusalemme Est, la casa di Sharon, sormontata da un’enorme menorah ed imbandierata a festa con i
drappi biancocelesti e la stella di Davide. Mike ci spiega che in
realtà in quella casa Sharon non ha dormito una sola notte ma la
presenza dell’imponente costruzione nel cuore di Gerusalemme
Est è uno schiaffo continuo all’autorità palestinese. Riusciamo
comunque e nonostante tutto ad apprezzare la bellezza della città
vecchia con i suoi muri antichi in cui si vedono chiaramente le
tracce delle varie distruzioni e ricostruzioni che si sono succedute
nei secoli. Mike ci fa notare un arco che ormai è alto meno di un
metro ed altri angoli dove pietre, colori e materiali si alternano, si
stratificano e si addossano gli uni agli altri in un puzzle di stili ed
epoche storiche straordinariamente affascinanti. Inerpicandoci per
vicoli e salite, raggiungiamo una terrazza dove sventolano le
bandiere con la stella di Davide che domina il quartiere
sottostante. Mike ci spiega che questa terrazza, sequestrata da
Israele, viene utilizzata come palestra per l’allenamento dei ragazzi
israeliani prima del servizio militare. Questo vuol dire che giovani
virgulti a dorso nudo passano qui la giornata mettendo in mostra
muscoli e pettorali nel bel mezzo di una terrazza che sovrasta le
piccole costruzioni abitate dai palestinesi. A che pro? Se non per
affermare l’arrogante diritto di Israele sull’area assegnata dal
diritto internazionale ai Palestinesi?
A pranzo ci aspettano al centro culturale Al Quds.
Il centro culturale Al Quds, baluardo dell’identità palestinese a Gerusalemme Est, è anche sede di un
piccolo museo dove si possono ammirare foto, dipinti, attrezzi e manufatti della tradizione palestinese. Ci
accolgono Huda e le sue compagne. Dalla terrazza del centro si gode la vista di un antico bagno turco che si
vorrebbe restaurare e recuperare prima che Israele ci metta le mani. E’ un sito antico e nonostante
l’abbandono in cui versa, se ne intuiscono gli antichi splendori. Le volontarie del centro hanno organizzato
per noi un pranzo a base di piatti tradizionali. Scopro così la maqlouba (o rivoltata). Una specie di paella con
riso e cavolfiori che ci viene servita con pollo a parte. Io odio i cavolfiori ma non voglio essere scortese e
quindi non posso esimermi. Con la morte nel cuore accetto il coloratissimo piatto e sorprendentemente,
una volta assaggiato, scopro che non solo non mi disgusta ma mi piace pure!
Dopo pranzo pomeriggio libero con Gerusalemme che ci aspetta.
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Ci dividiamo in più gruppi ed io, insieme a Graziella, Libera, Giulia, Valentina, Samantha, Giada e Milena, ci
immergiamo di nuovo nei vicoli della città vecchia e in una delle strade occupate dal mercato che ci porterà
al muro del pianto. Passiamo attraverso il checkpoint ma nel piazzale subito mi viene incontro una
soldatessa israeliana che mi avvisa che non si possono fare foto. E’ sabato, mi spiega, e non è permessa
alcuna attività se non pregare. Evito di risponderle che anche la sorveglianza ed il controllo che lei fa è
un’attività e metto via il cellulare.
Il muro del pianto e tutta l’area antistante, sono divisi in due parti, una per le donne ed una per gli uomini.
E’ emozionante poter toccare pietre che hanno tremila anni. In ogni fessura si vedono foglietti e bigliettini.
Molte donne sono sedute nelle sedie antistanti e pregano con la Torah in grembo. Altre sono in piedi
contro il muro ed eseguono il rituale movimento del capo battendolo lievemente contro le pietre. In
generale c’è molto silenzio e tranquillità.
L’abbigliamento, soprattutto nelle più giovani, mi colpisce per l’antiquarietà e richiama alla mia mente
scene di film di Mormoni o Quaccheri. Ci sono moltissimi ortodossi a Gerusalemme, praticamente la
maggioranza. Cappelloni neri, barbone, treccine e palandrane nere affollano vistosamente tutte le strade,
soprattutto quelle della città vecchia. La deriva ortodossa sta spingendo gli stessi israeliani ad abbandonare
la città, lasciando sempre di più spazio agli ultraortodossi ed alla loro visione estremista ed intransigente
della religione.
Lasciato il Muro, ci dedichiamo ai siti del culto cristiano. 1^ tappa la Basilica del Santo Sepolcro.
Dall’esterno la Basilica si presenta abbastanza semplice. All’interno è quieto, non c’è moltissima gente. Mi
colpisce la vicinanza del Calvario, che nel mio immaginario di bambina intendevo come un monte distante
ed isolato e che invece è proprio là. La mia visita solitaria e senza traduttore è piuttosto scarna di
informazioni. Rubo qua e là parole in italiano ma nel complesso mi limito a gironzolare tra teche, cappelle,
stazioni della via Crucis, senza troppa comprensione. Mi colpisce particolarmente una grossa lastra di
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pietra all’ingresso che, mi dicono, è dove sarebbe stato adagiato il corpo del Cristo per essere lavato dalla
Madre e dalle Pie Donne. Nonostante il mio ateismo la Basilica mi emoziona. Aggirarmi in quei luoghi sacri
per la Cristianità mondiale, fa riaffiorare immagini e ricordi della mia infanzia e dei racconti di mio padre e
mia madre. Il luogo si presta e ritaglio un po’ di tempo per parlare un po’ con me.
Uscite dalla Basilica, prendiamo 2 taxi e saliamo all’Orto degli Ulivi. Ci accoglie un piccolo giardino che
ospita ancora, accanto a piante più giovani, 8 ulivi secolari. Recenti studi hanno datato gli 8 ulivi più antichi
al XII secolo ma la cosa più interessante è che studi sul DNA hanno stabilito che essi provengono tutti da
talee del medesimo albero e quindi si può presupporre che l’unica pianta madre possa essere stata
testimone delle vicende narrate dai Vangeli. I tronchi contorti e cavi, dai diametri imponenti (anche 3 metri)
per me, amante degli ulivi, non possono che essere estremamente affascinanti. Accanto all’Orto degli Ulivi,
la cosiddetta Grotta di Maria, dove si sarebbe svolta l’ultima cena. E’ una grotta naturale nella roccia. Vi si
accede scendendo una piccola scalinata ed è illuminata fievolmente da decine di lampade votive appese
alla volta di roccia. L’effetto è stupefacente. Anche qui la consapevolezza di poter poggiare la mano su
rocce contemporanee ai racconti dei Vangeli, dove magari hanno poggiato la loro mano persone come
Maria, Pietro, lo stesso Cristo, fa il suo bell’effetto
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In albergo, dopo cena, incontro con due attivisti israeliani, Udi e Taja, refusnik cioè obiettori di coscienza.
19 anni lui. 22 anni lei. Ci raccontano la loro scelta, pagata anche con mesi di carcere e con l’isolamento da
parte dei loro ex amici e coetanei. Crescono sempre di più i ragazzi israeliani che si rifiutano di fare il
servizio militare. Le conseguenze per loro, della loro scelta, sono abbastanza pesanti. Quando non si arriva
alla prigione, c’è comunque l’impossibilità di scalare qualsiasi graduatoria per il lavoro, per la casa, per
l’università. In tutte le graduatorie, infatti, fa punteggio la prestazione del servizio militare e chi non lo fa,
non ha chanches. E’ bello parlare con loro. Questi ragazzi sono la speranza che le cose possano cambiare.
Sono il futuro. Sono due creature, 19 e 22 anni ma hanno da insegnare a molti adulti. Ci raccontano, si
raccontano. Ci dicono che quasi tutti i loro coetanei non hanno idea di quanto sia ingiusta l’occupazione o
di come siano discriminati i palestinesi. Non è facile contrastare l’informazione di Stato che li cresce nella
convinzione di essere nel giusto e nell’equazione: palestinese uguale terrorista. Mai come in questo caso i
tanto bistrattati network sono utili e così fb e twitter diventano veicoli di informazione e conoscenza.
Mentre li saluto non posso non sentirmi orgogliosa di stringere loro la mano.
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La presenza sempre più massiccia di ebrei ultraortodossi a Gerusalemme sta allontanando dalla città anche
molti Israeliani laici o comunque non oltranzisti
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TERZO GIORNO
23/8 - Nablus ed il campo profughi di Balata
Oggi ci aspetta una lunga giornata. Alle 7,30 siamo già sul pullman che ci porterà a Nablus. Viaggiare
attraverso Gerusalemme è sempre incredibile. Dal finestrino scorrono le immagini di una città divisa in due.
Percorriamo la grande strada che divide la zona ovest dalla zona est. Luisa ci fa notare vari palazzi
istituzionali imbandierati con i drappi biancocelesti israeliani, che sono stati costruiti nella zona est in barba
alle disposizioni dei trattati internazionali che vietano di costruire palazzi istituzionali nei territori assegnati
ai palestinesi. La sede della Polizia è un classico esempio e troneggia al di qua della strada di separazione a
perenne testimonianza dell’arroganza israeliana e della considerazione in cui Israele tiene la legalità
internazionale. Alle pensiline degli autobus è impossibile non notare la presenza dei soldati armati di tutto
punto che scortano anche singoli coloni. Luisa ci spiega che è la regola.
Allontanandoci da Gerusalemme e salendo sulle colline circostanti possiamo vedere ancor meglio il lungo
serpentone dell’odioso muro di cemento che oltraggia il paesaggio. Dall’alto sembra un lungo e sinuoso
fiume che con ampie curve si snoda sul territorio invadendo spessissimo l’area che dovrebbe essere
palestinese. Il muro infatti è stato costruito allontanandosi molto dal tracciato dei confini scritti nel 1967 e
si infiltra con ampie divagazioni nei territori palestinesi, abbracciando e circondando le zone più verdi e più
fertili.
Attraversiamo una vallata e ci fermiamo a far visita a due anziane contadine che resistono isolate nella loro
casa proprio difronte ad un insediamento israeliano. La loro storia è quella di centinaia di altri. La colonia
che è sorta lì vicino vuole espandersi e mira ad annettersi il loro terreno. Per ottenere questo basta che
venga loro impedito di coltivare la loro terra per 3 anni ed in base ad una legge ottomana fatta propria da
Israele, le due donne perderebbero la proprietà. Le due anziane vivono quindi barricate in casa e sempre in
ansia, con la continua paura degli atti vandalici dei coloni che usano tutti i mezzi leciti ed illeciti per
convincerle ad andarsene. Sul muro antistante la casa, scritte minacciose ed insulti. Furti di animali e
scempio delle piante e dell’orto, sono all’ordine del giorno ma le due anziane non hanno nessuna
intenzione di andarsene e resistono imperterrite agli attacchi ed alle intimidazioni. Ci accolgono come
vecchi amici nella loro casa. Nel salone ampio e luminoso che dà sulla
loro terra, attrezzi della vecchia tradizione contadina come una grande
tavola di legno incastonata di decine di pietruzze che usano per pulire il
grano. Ci offrono dei fichi ed abbracciano con calore Luisa che ogni
volta che passa da là non manca mai di fermarsi a salutarle. Prima di
andar via compriamo da loro minuscole bottigline d’olio delle loro
preziose olive. E’ l’unico modo che ci è consentito per aiutarle. Non
accetterebbero mai, infatti, soldi o altro.
La seconda tappa è praticamente simile alla prima. La proprietà di una
famiglia palestinese che è rimasta l’unica in una vallata circondata da
tre alture in cui sorgono tre colonie. Se la famiglia se ne andasse, le tre
colonie potrebbero unificarsi e diventare un unico enorme
insediamento. Ovviamente anche qui è affidato ai coloni più aggressivi
e violenti, il compito di convincere la famiglia a sbaraccare. Qui
apprendiamo che una delle strategie più valide che hanno adottato i
palestinesi minacciati dai coloni, è l’uso di telecamere e macchine
fotografiche. Con l’aiuto delle organizzazioni nazionali ed internazionali
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e dei comitati popolari di resistenza civile nonviolenta, ogni contadino è stato fornito di telecamere o
cellulari, in grado di filmare e documentare gli attacchi e le dinamiche dei fatti. Non è infrequente infatti
che, a fronte di un attacco da parte dei coloni, arrivi poi l’esercito ed arresti i palestinesi che hanno reagito.
La famiglia che visitiamo, proprio perché è stata oggetto frequente negli ultimi tempi di violente aggressioni
da parte dei coloni degli insediamenti circostanti, è addirittura fornita di un sistema di telecamere in grado
di trasmettere in diretta immagini su internet. E’ quello che li ha salvati fino ad ora ma è difficile dire
quanto ancora potranno resistere. Il capofamiglia ci racconta che proprio pochi giorni prima i coloni sono
arrivati con un grosso suv ed hanno distrutto tutto l’orto ed il raccolto di un anno. Lui si è rifugiato sul tetto
ed ha cominciato a riprenderli col telefonino. Solo la presenza delle telecamere probabilmente ha evitato il
peggio ma la perdita dell'orto e del raccolto è comunque un danno enorme per chi vive di quello.
BALATA
Proseguiamo verso Nablus e verso il campo profughi di Balata. Non ho mai visto un campo profughi. Non so
cosa mi aspetti. Balata è il campo profughi più grande della Cisgiordania. Ospita oggi più di 30.000 rifugiati
nella stessa area che fu destinata nel 1950 a 5.000 persone. Campo profughi temporaneo dove furono
appoggiati 5.000 rifugiati provenienti maggiormente da Jaffa che da allora attendono di tornare a casa.
Non ci sono muri o recinti che delimitano il campo. Attraversi un arco e sei “dentro”. I rifugiati, man mano
che le famiglie aumentano, non potendo costruire in larghezza, accatastano stanze, le une sulle altre ed il
risultato è un intricatissimo dedalo di vicoli stretti, ai lati dei quali costruzioni costruite in altezza levano
aria e luce. La nostra meta è il centro culturale Jaffa. Il responsabile del centro che ci accoglie e ci spiega la
realtà del campo è un volontario, come tutti quelli che lavorano qui. Nel centro si organizzano attività
culturali, teatro, corsi, danza soprattutto rivolte a bambini e ragazzi. Ci racconta di come sia difficile levare i
ragazzi dalla strada. Gli adolescenti di oggi sono i bambini ai quali dopo la seconda intifada con la chiusura
del campo da parte delle autorità israeliane, è stato impedito di andare a scuola. Molti furono arrestati ed
escono ora dalle prigioni. Senza possibilità di istruzione, senza possibilità di un lavoro, nel campo sta
purtroppo prendendo sempre di più piede la mafia locale ed il lavoro dei volontari è durissimo. La maggior
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parte delle famiglie vive solo delle
sovvenzioni dell’autorità palestinese e degli
aiuti internazionali. Dopo più di 60 anni è
anche difficile mantenere viva la speranza
che le cose possano cambiare e che la
condizione di “rifugiato temporaneo” possa
essere cancellata. Come dar loro torto?
Frotte di ragazzini ci vengono incontro
quando usciamo. Ci chiedono in inglese:
qual è il tuo nome? Da dove vieni? Poi un
largo sorriso e la stretta di mano. Uno di
loro, a cui rispondo che vengo da Roma,
afferma sicuro: allora conosci Valentina!
Come fai a spiegare ad un bambino nato in
un campo profughi, da genitori nati in un
campo profughi, che là fuori esiste un
mondo in cui non si vive in un recinto? Che
a Roma di Valentina ce ne sono milioni con
cui non ci incontreremo mai? Mi piacerebbe
portarli via tutti da lì. Mi piacerebbe poter
dire loro che le cose cambieranno, che ci
sarà un futuro diverso ma mi limito a
distribuire sorrisi e strette di manine ed un
arrivederci che già so che sarà difficile
mantenere.
Lasciato il campo torniamo a Nablus dove saremo ospiti del centro culturale Human Right Supporter.
Nablus è un’antica città nel nord della Cisgiordania che deve il suo nome alla conquista romana che la
nominò Neapolis. L’Human Right Supporter è un‘altra associazione che, tra l’altro, organizza attività e
campi estivi rivolti soprattutto a bambini ed adolescenti. Mangiamo da loro, di nuovo la maklouba e
stavolta posso anche assistere in diretta alla “rivoltata”. Ci vuole maestria nel capovolgere il grande
pentolone sul vassoio d’acciaio senza far schizzare il contenuto dappertutto. Il ragazzo che è chiamato a
farlo, è giustamente molto orgoglioso di sé. Dopo pranzo una piccola riunione con i volontari del centro che
ci spiegano le varie attività e ci fanno vedere le foto dei bimbi che hanno partecipato ai campi estivi
precedenti. Per la prima volta assaggio pure il kunafeh, un dolce di formaggio fritto in una pastella di miele
e mandorle. Gli allievi della scuola di ballo hanno preparato una piccola performance per noi. Si esibiscono
nel cortile del centro, nei coloratissimi costumi tradizionali. Sono giovanissimi e sorridenti ed il loro ballo è
decisamente coinvolgente. Nella sala sovrastante, intanto, si preparano altri tre giovanissimi ballerini di
breakdance che si esibiranno in una performance musicale e teatrale molto particolare. Sono bravissimi
tutti e scrosciano applausi per tutti, rendendoli fieri ed orgogliosi dei loro talenti.
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Conosciamo anche Yasmeen Al Najiar –
giovanissima e coraggiosissima ragazza che ha
scalato il Kilimangiaro nonostante abbia perso
una gamba a tre anni. La sua impresa è
diventata simbolo della resistenza e della
determinazione del popolo palestinese che,
nonostante tutte le avversità, non si arrende e
resiste.
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La Maklouba o “rivoltata”
Gli ultimi istanti della
splendida
performance che i
ragazzi del centro
Human Right
Supporter di Nablus ci
hanno regalato.
Hanno danzato per noi
sotto il sole cocente
dell'ora di pranzo
incuranti del caldo e
della fatica. Il loro
entusiasmo e la loro
energia conquistano il
cuore
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La città vecchia di Nablus
Dopo pranzo, accompagnati da uno dei volontari del centro Human Right Supporter, andiamo a visitare la
città vecchia di Nablus. Il nostro accompagnatore ci racconta di come nel 2002, durante la seconda intifada,
la città fu sconvolta dall’operazione “scudo difensivo”. I soldati israeliani sparavano dai tetti ed impedivano
i soccorsi alle vittime, che morivano dissanguate per strada. L’esercito si faceva largo nella città entrando
nelle case non dalle porte ma sfondando i muri. Il nostro accompagnatore ci racconta di come una giovane
donna, nel tentativo di non far sfondare il muro della propria casa, aprì lei stessa la porta, provocando
l’immediata reazione dei soldati che, forse sorpresi o spaventati, la uccisero immediatamente sotto gli
occhi dei suoi bambini. Anche molte fabbriche di sapone, per le quali Nablus era ed è famosa, vennero
distrutte. Passeggiamo tra vicoli tappezzati di foto e ritratti di martiri. Non c’è casa che non abbia un
martire in Cisgiordania. Sono sempre stata un po’ diffidente verso l’uso della parola “martire”. Io ero
convinta che fossero definiti così solo i protagonisti degli attentati suicidi ed invece scopro che con la
parola martire i palestinesi indicano chiunque, uomo, donna o bambino che sia, morto a causa del conflitto
israelo-palestinese o dell’occupazione israeliana. Ogni martire ha diritto ad una lapide o foto o disegno che
sia, con i colori della bandiera palestinese, bianco, verde, rosso e nero ed i vicoli di Nablus ci potrebbero
sembrare quasi in festa per quanto sono colorati, se non sapessimo che dietro ognuna di quelle bandiere
c’è un morto.
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Arriviamo a casa di Neta Golan e di suo marito Nizar. Neta è un’attivista e pacifista israeliana, l’unica
israeliana che vive nella città vecchia di Nablus. E’ enorme la mia emozione nel conoscere una delle
fondatrici dell’ISM, l’International Solidarity Movement di cui faceva parte Vittorio Arrigoni. Neta e Nizar ci
offrono datteri e ristoro e ci raccontano di come si sono sposati in Italia, a Gradara. Quando Nizar ci
accompagna a visitare la loro casa, rimango affascinata dall’arredamento e soprattutto dai soffitti
finemente dipinti. Sembrano enormi tappeti orientali che ci guardano dall’alto. La magia dei ricami e le mie
divagazioni poetiche vengono però bruscamente interrotte da un grosso buco nel tetto che lascia vedere il
cielo azzurro. Un regalo dell’esercito israeliano, immagino.
Che emozione incontrare Neta Golan e
suo marito Nizar. Neta è una pacifista
ed attivista israeliana, cofondatrice,
insieme a Ghassan Andoni
(palestinese) ed alla “nostra” Luisa
Morgantini, dell’International
Solidarity Moviment, lo stesso di
Vittorio Arrigoni. E’ l’unica cittadina
israeliana che vice nella città vecchia di
Nablus
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Bimba di Nablus ed un antico negozio di spezie nella città vecchia di Nablus
Lasciamo la città vecchia attraversando il mercato. Dall’uscio di un emporio un ragazzotto piuttosto
nerboruto ci identifica come turisti e ci apostrofa con tono sarcastico: good morning! Americans? Hitler
number one! Le parole arrivano come un pugno nello stomaco. Sono sorpresa ed inorridita ma non so
come reagire. Il mercato è affollato e caotico. Prima di entrare nella città vecchia Luisa ci ha pregato di
coprire le spalle, avvertendoci che entriamo in una zona piuttosto integralista e non vogliamo essere
provocatorie. Io stessa ho indossato una kefiah sulla canottiera che mi lasciava troppo nude le spalle ed il
collo. Non so che fare. Non voglio provocare incidenti o forse, semplicemente, ho solo paura. La mia
espressione contrariata basta però comunque a provocare altre parole. Non conosco bene l’inglese ma
afferro il senso. Il tizio mi chiede sarcastico se sono amica degli Israeliani mentre continua a blaterare il
nome di Hittler. Non ho il tempo di rispondere. Alle mie spalle sopraggiunge Luisa. Apostrofa il tizio. Lo
zittisce. Il suo tono non ammette repliche. L’inglese non mi serve. Il tizio balbetta, tentenna, dice che
abbiamo capito male, chiede scusa. Sono ammirata e grata per questa piccola grande Donna che sotto
l’aspetto materno e rassicurante nasconde una grinta da guerrigliera. Capisco sempre di più perché qui la
amano tutti.
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Prossima tappa il villaggio di Kafr Qaddum
Kafr Qaddum è un villaggio a pochi chilometri da Nablus. Ogni venerdì gli abitanti del villaggio organizzano
una marcia nonviolenta per protestare contro la chiusura della strada principale che collegava Kafr Qaddum
a Nablus. La chiusura della strada isola dal 2003 il villaggio ed i suoi abitanti costringendoli a percorrere
un’ora di strada sterrata, invece dei 12 km di prima, per recarsi nella vicina città. Isolare un villaggio,
rendendogli difficile coltivare i propri terreni o recarsi al lavoro, a scuola, al mercato è una delle strategie
adottate dall’amministrazione israeliana per costringere i palestinesi ad abbandonare le loro case e le loro
proprietà. Non coltivare un terreno per 3 anni di seguito vuol dire vederselo confiscato. La proprietà viene
poi assegnata generalmente ai coloni.
Quando scendiamo dal pullman, ci accoglie un fortissimo odore di letame. Con Paola scherziamo sulla
terribile puzza e sull’uso dei concimi organici che evidentemente sono stati appena dati. Ancora non lo so
ma ho appena sentito e provato di persona uno degli effetti di uno dei mezzi di repressione delle proteste
usate dall’esercito israeliano: la skunk water. E’ un liquido chimico maleodorante ed urticante che viene
spruzzato con gli idranti sui manifestanti e la cui puzza terribile resta sui vestiti e sui corpi delle persone,
oltre che sui muri delle case e sul terreno, per giorni e giorni. A Kafr Qaddum viene usato regolarmente
ogni venerdì. Oggi è domenica e la puzza è dappertutto. Ne avevo letto ma sperimentarlo di persona è
un’altra cosa.
Ci aspetta un membro del comitato popolare di resistenza nonviolenta. Ci accoglie nella sua casa. Una casa
pulita, luminosa ma il terribile odore della skunk water è dappertutto. Ci racconta dei disagi, degli arresti,
delle marce. Il tono è pacato ma determinato. Non ci lasceremo mandar via. Non lasceremo le nostre case.
La nostra resistenza nonviolenta è la nostra stessa esistenza. Qui non è una guerra di religione ma un
conflitto per il territorio. Israele vuole le nostre terre, noi non siamo disposti a lasciargliele. Tornate nei
vostri Paesi e raccontate ciò che avete visto. E’ tutto ciò che vi chiediamo.
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La giornata è stata lunga e densa di emozioni ma non è finita. Si va a Duma.
So cosa è successo a Duma la notte tra il 30 ed il 31 luglio. Le foto della casa bruciata durante un attacco
terroristico dei coloni e la notizia di Ali, piccolo di 18 mesi arso vivo nel suo lettino, hanno fatto il giro del
web. So di suo padre Saed, 32 anni, morto in ospedale dopo una settimana di agonia e di sua madre Reham
27 anni, ancora ricoverata che lotta tra la vita e la morte. E’ solo l’ultimo di un’infinita serie di episodi
crudeli e terribili di cui ogni giorno leggo su internet. Quando arriviamo a Duma è già buio. Ci vengono
incontro due ragazzi armati di torcia. Sono la ronda. Il servizio di sicurezza che gli abitanti del villaggio
hanno deciso di organizzare dopo il terribile attacco. Fanno tenerezza con le loro biciclette e le loro torce
attaccate alla cintura. Dovrebbero costituire un deterrente per le bande di coloni che arrivano in branco ed
armati a bordo dei loro SUV. Avranno sì e no 18 anni. Ci scortano nel paese, fino a quell’ultima casa che ha
avuto il solo torto di essere troppo vicina al muro del villaggio. Un obiettivo facile per il gruppo di vigliacchi
che, scendendo dalla colonia, ha attaccato sicuro che all’interno ci fosse la famiglia. Un paio di metri più in
là c’è un’altra abitazione che la sera del crimine era vuota. Se avessero voluto solo intimidire, avrebbero
potuto colpire quella ma loro volevano uccidere e ci sono riusciti. La miccia è caduta sul lettino di Alì che ha
preso fuoco immediatamente ed ha avvolto il piccolo tra le fiamme. Non c’è stato scampo per lui
nonostante i tentativi del papà, che morirà una settimana più tardi per via delle terribili ustioni e della
mamma, di portarlo fuori. C’è lo zio del piccolo Alì ad aspettarci. Ci racconta quello che sa. Intorno una
piccola folla silenziosa nel buio della sera. Vogliono che sappiamo. Vogliono che guardiamo. Ci fanno
entrare in casa. Le mura, quello che rimane della casa, la stessa aria sanno ancora di fumo. Gli ambienti
sono piccoli. Le finestre sono protette da cancellate, che avrebbero dovuto proteggere gli abitanti della
piccola abitazione dagli attacchi dei coloni ed invece si sono rivelate una terribile trappola. Non ce la faccio
a restare. Devo uscire. Sul muro di fronte casa, nel cortile davanti alla finestra nella quale la mano assassina
ha lanciato la molotov, campeggia una scritta in caratteri ebraici, lasciata dalle bestie a firmare il loro atto di
coraggio: il Messia è passato da qui
(nota del 7 settembre 2015, dopo 38 giorni di agonia, è morta anche Riham, la mamma del piccolo Alì. Le ustioni sul
90% del corpo non le hanno lasciato scampo. Ora è rimasto solo il fratellino maggiore Amhed di 4 anni per il quale i
medici nutrono fondate speranze. Nessun responsabile a tutt’oggi è stato individuato per la legge Israeliana. Per
quanto riguarda infatti i coloni di estrema destra presunti responsabili della strage, seppure indentificati, sono ancora
a piede libero. Per loro un provvedimento di detenzione amministrativa di 6 mesi e nessuna accusa di essere coinvolti
direttamente nel rogo)
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L’unica foto che sono riuscita a
fare all’interno della casa. Poi
sono dovuta uscire e non per
la puzza di bruciato e di fumo
che ancora riempiva gli
ambienti ma per l’angoscia
insopportabile. Le grate alle
finestre, i giocattoli
carbonizzati, i brandelli di
coperte e tappeti per terra. Mi
sembrava di sentire le urla e di
vedere le fiamme. Ma come si
può?
24/8 – quarto giorno
OCHA
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Alle 8,00 carichiamo le valigie sul pullman. Lasciamo infatti Gerusalemme e stasera dormiremo a Betlemme.
Il primo incontro di stamattina è nella sede dell’OCHA, l’organismo delle Nazioni Unite che ha il compito di
monitorare l’occupazione.
I dati statistici si susseguono sul grande schermo. Grafici, tabelle, numeri nella loro asetticità sono
drammatici e dimostrano con la freddezza che solo i numeri possono avere come, dal 1948 ad oggi la
popolazione palestinese è stata oggetto di una sistematica, inarrestabile, preordinata, scientifica ed efficace
pulizia etnica. Dalle violenze della Nakba del 1948 alla detenzione amministrativa di oggi, i governi israeliani
non hanno mai smesso di perseguire un unico, palese scopo: la completa dearabizzazione di tutta la
Palestina storica, fino alle rive del Giordano. Nella famosa zona C, quella che Israele controlla dal punto di
vista amministrativo e militare, le strategie per ottenere che i Palestinesi se ne vadano ufficialmente di loro
volontà, sono molteplici quanto efficaci e si possono riassumere in pochi, semplici punti:
1. Edificabilità.
I permessi per costruire vengono concessi esclusivamente agli israeliani ed ai coloni.
Contemporaneamente intere zone che non sono state distrutte nelle varie guerre, vengono via via
dichiarate aree militari o archeologiche o riserve naturali. Chi si ostina a ricostruire la propria casa
sulla propria terra, è amministrativamente passibile di ordine di demolizione ma tutto
rigorosamente a termini di legge.
2. Accesso all’acqua
I permessi per scavare pozzi sono differenziati. I palestinesi possono scavare fino ad una certa
profondità. I coloni fino a tre volte tanto. Quando arriva una colonia i villaggi palestinesi circostanti
vedono prosciugarsi i loro pozzi ed i loro acquedotti e sono costretti a ricomprarsi la loro stessa
acqua in cisterne dalla Mekorot, azienda di distribuzione israeliana. Ovviamente la carenza d’acqua,
oltre che per la mera sussistenza di uomini ed animali, diventa un problema anche per l’irrigazione
dei campi ed un campo non coltivato per 3 anni è, sempre rigorosamente a termini di legge,
confiscato
3. Viabilità
Le strade principali, asfaltate e dirette, sono riservate agli israeliani, Le macchine con targa
palestinese non possono accedervi. A loro sono riservate strade quasi sempre sterrate e comunque
tortuose che allungano di decine di km i percorsi. Molti villaggi si vedono chiudere le strade di
accesso o di comunicazione verso le città vicine senza alcun motivo e senza alcun preavviso.
Ovviamente la pessima circolazione di uomini e merci ha effetti nefasti sulla già fragile economia
palestinese
4. Il Muro ed i checkpoint
Il muro separa lavoratori dal posto di lavoro, scolari da scuole, case da mercati, negozianti da
botteghe, contadini da terreni, malati da ospedali, madri da figli. I varchi nel muro sono distanti
anche 10 km l’uno dall’altro e sono aperti solo poche ore al giorno. Ad ogni varco le code per
entrare, sempre che si abbiano i permessi, possono durare anche ore.
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Israele oggi non uccide i palestinesi della Cisgiordania con le bombe. Si limita a rendere loro la
sopravvivenza impossibile: niente case, niente acqua, niente energia elettrica, niente lavoro, niente diritti.
Tutto rigorosamente a termini di legge. La sua legge, visto che per la legalità internazionale l’apartheid, il
muro e le colonie sono illegali. Chi riuscirebbe a resistere? Chi non abbandonerebbe?
La visita all’OCHA è stata interessante ma sconfortante. I dati che ci hanno fornito e che testimoniano la
continua violazione da parte di Israele della legalità internazionale, sono periodicamente trasmessi
dall’OCHA all’ONU, senza che cambi niente. Usciamo dall’OCHA con la terribile sensazione di stare
assistendo ad un silente e terribile, documentato e monitorato, genocidio mentre tutto il mondo resta a
guardare
Ramallah
Seconda tappa della giornata Ramallah. La città si presenta pulita e moderna. Tappa d’obbligo alla tomba di
Arafat e successivamente incontro con Mustapha Barghouthi del Medical Relief, tra i fondatori del
movimento politico Iniziativa Democratica, di relativa recente formazione che si pone in una posizione
alternativa sia ad Al fatah che ad Hamas. L’incontro è interessante ma sicuramente da approfondire.
Molto più emozionante la tappa successiva. Nella sede del Riwaq Centre for Architectural Conservation,
un’associazione che ha come scopo il recupero del patrimonio architettonico ed artistico palestinese,
abbiamo incontrato Suad Amiry, architetto, attivista, scrittrice palestinese. Una donna eccezionale. Parla
molto bene l’italiano e mi affascina subito mentre si racconta in tutte e tre le versioni. Architetto e
cofondatrice del Riwaq Centre for Architectural Conservation, crede nel recupero architettonico della
Palestina come mezzo per difendere l’identità culturale del suo popolo. Attivista, ha sognato per anni un
unico stato democratico per un unico popolo con pari diritti. Col passare degli anni si è amaramente
convinta che la soluzione fattibile poteva essere due Stati per due popoli. Oggi, alla luce delle esperienze e
della storia recente, ci confessa con amarezza di essersi convinta che in realtà le disquisizioni tra le due
soluzioni sono destinate a rimanere mere discussioni accademiche perché non c’è alcuna volontà reale di
mettere fine all’occupazione israeliana e trovare una soluzione che non sia un unico Stato, quello di Israele.
La terza sfaccettatura di questa affascinante personalità è quella di scrittrice. Suad ci racconta come ha
maturato la voglia di raccontare nei suoi libri il dolore del suo popolo attraverso il dolore vissuto in prima
persona. In realtà è un fatto inconsueto per uno scrittore palestinese. Suad ci racconta della difficoltà quasi
pudica dei suoi genitori, dei suoi conoscenti e dei palestinesi in generale a parlare della propria tragedia, del
proprio dolore, dell’ingiustizia e violenza subita in prima persona. Quando si parla della Palestina,
dell’occupazione, della Nakba, si parla, generalmente, del dolore di un popolo intero mentre c’è quasi
sempre ritrosia, come un senso di vergogna a parlare del dolore e della sofferenza individuali. Suad ci
racconta di come ha deciso di scrivere del dolore individuale di chi ha perso tutto. E‘ stato ascoltando sua
madre e suo padre parlare di come fossero stati costretti ad abbandonare tutto, dalla casa agli album di
fotografie, dai mobili ai tanti piccoli oggetti di uso quotidiano che affollano i ripiani ed i cassetti. Suad Amiry
mi affascina e mi conquista. Il tempo passa veloce ascoltandola. Non vedo l’ora di tornare in Italia per
comprarmi tutti i suoi libri.
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Ramallah è praticamente una Napoli al cubo. Traffico e caos mi fanno
sentire a casa. Per strada si incontrano pure strani ambulanti con una
strano armamentario sulle spalle che, mi dicono, sono venditori di
datteri.
A pranzo tutti insieme. Mangio di tutto: crema di ceci, polpette di
verdure, spezzatino di pollo speziato e condito con salse strane,
melanzane e zucchine in tutti i modi ed una serie di intingoli che non ho
idea di cosa siano ma che mangio con gusto.
Dopo pranzo ci dirigiamo al villaggio di Nabi Saleh
Nabi Saleh è un villaggio a pochi chilometri da Ramallah. Dal dicembre 2009, ogni venerdì, gli abitanti
organizzati dal comitato popolare per la resistenza non violenta del posto, organizzano marce di protesta
verso la fonte idrica del paese che le autorità israeliane hanno chiuso, dirottando l’acqua verso la vicina
colonia, rigorosamente illegale, di Halamish
Ci accolgono nelle loro case come vecchi amici e comincio a capire quanto sia importante per chi è abituato
a non aver diritto di parola, poter raccontare la propria storia a chi è disposto ad ascoltare. Faccio
conoscenza con la famiglia Tamini che si racconta attraverso la voce delle sue donne. C’è Manal che ci
spiega quanto è difficile essere donna in Palestina e nei villaggi assediati dai coloni. Sono le mamme, le
sorelle, le mogli a sopportare di più il peso dell’occupazione. Alle donne non è consentito abbattersi,
rassegnarsi, piangere. Con la mancanza cronica di occupazione che colpisce la quasi totalità dei Palestinesi,
sono le donne che spesso si barcamenano nel tirare avanti la famiglia e quando vengono incarcerate è
ancora più devastante per gli equilibri familiari. Non c’è donna in Palestina che non abbia perduto un figlio,
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un fratello, un marito ma occorre continuare a sostenere, a crescere, a consolare. Alla fine Manal usa
un’espressione che mi colpisce molto: le donne sono la colonna vertebrale della resistenza palestinese.
Nariman è una dolcissima mamma. Ha il capo velato ed un sorriso che trafigge il cuore mentre ci racconta
di come ha raccolto l’ultimo respiro del fratello colpito da un colpo d’arma da fuoco in un occhio. Nariman,
come quasi tutti i Palestinesi che hanno scelto la strada della resistenza non violenta, è armata di cinepresa
ed è preposta a filmare e documentare le manifestazioni pacifiche che ogni venerdì dal dicembre 2009 gli
abitanti di Nabi Saleh organizzano per protestare contro la chiusura della loro fonte idrica. Stava
riprendendo anche quel maledetto venerdì quando le urla dei suoi compagni l’hanno richiamata là, dove il
fratello era stato colpito. Abbandonare la cinepresa, ci dice, sarebbe stato ucciderlo due volte e così
Nariman con una mano ha continuato a riprendere mentre con l’altro braccio sorreggeva il capo del fratello
morente mentre gli prometteva che la sua morte non sarebbe stata vana e sarebbe stata conosciuta da
tutti. Siamo tutti ammutoliti. Alla domanda cosa farebbe a quel soldato che ha sparato nell’occhio del
fratello mentre era già in terra, risponde con semplicità: chi ha provato un dolore come il mio, non
potrebbe mai fare qualcosa che procurasse lo stesso dolore a qualcun altro. La forza e la serenità di
Nariman mentre racconta la sua tragedia sono più devastanti di tutte le lacrime che io abbia visto e sono
costretta a mettere gli occhiali da sole in casa, per nascondere il mio di pianto.
E poi arriva la piccola Ahed Tamini, la figlia di Nariman. E’ una ragazzina con il visetto vispo ed i lineamenti
da irlandese. Bionda, gli occhi azzurri della mamma. Lo stesso sguardo intenso e la stessa profondità di
sguardo. E’ quasi divertita dalla notorietà che suo malgrado l’ha colpita da quando, in una delle tante marce
a cui ha partecipato insieme ai suoi familiari, è stata fotografata mentre affronta a muso duro un soldato
israeliano bardato di tutto punto, urlandogli contro che quella è la sua terra e che sono loro che se ne
devono andare. La foto della piccola bionda e del soldato fece il giro del web e Ahed si è ritrovata ad essere
un’icona della resistenza non violenta dei villaggi palestinesi. Ci racconta con semplicità la sua
determinazione a non volere andare via, le sue settimane scandite dalla marcia del venerdì, i giochi col
fratello, gli studi, il suo amore per la Palestina. Ha 14 anni e dovrebbe giocare con le bambole e chissà,
magari in un cassetto qualcuna ce l’avrà pure o perlomeno mi fa piacere pensarlo.
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Oggi ho incontrato persone ed ascoltato storie che sono abituata a vedere su you tube. Immagini di
violenze ed arresti sempre uguali a se stesse nella loro drammaticità che quasi hanno il potere di attutire il
dolore e la percezione della realtà. Essere qui, parlare con loro, guardarli negli occhi, ascoltare le loro voci è
un’altra cosa.
Nota del 29/9
A Nabi Saleh non ho fatto foto ma dopo solo quattro giorni dalla nostra visita, il venerdì successivo 28
agosto, il video e le immagini del fermo del piccolo Mohammed hanno fatto il giro del mondo. Riconoscere i
volti di Ahed, di Manal, di Nariman in quei fotogrammi è stato un tuffo al cuore. Ho visto centinaia di video
simili fino ad ora, centinaia di volti sono passati sullo schermo, centinaia di storie ma quando quei visi,
quelle storie le conosci di persona è tutta un’altra storia.
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25/8 quinto giorno
Valle del Giordano
Partenza alle 8.00 dal Sahara Hotel di Betlemme verso la valle del Giordano. Attraversiamo in pullman la
colonia che sorge proprio a ridosso di Gerusalemme. Spazi verdi, aiuole, casette ordinate e ben tenute,
niente cisterne nere sui tetti, segno inequivocabile di acqua diretta, strade spaziose e ben asfaltate,
panchine, piste ciclabili, insomma una linda, curata cittadina. La differenza con le strade e le case di
Gerusalemme est è abissale. Eppure i Palestinesi di Gerusalemme pagano le stesse identiche tasse degli
Israeliani, per servizi che non hanno paragone. Man mano che scendiamo verso la Great Rift Valley il
paesaggio cambia. I colori si fanno più caldi. Le atmosfere ricordano sempre più storie di cammelli e di
deserti. Fa caldo. A destra e sinistra, dai finestrini del nostro pullman scorrono paesaggi rossicci e desertici
che improvvisamente lasciano spazio a grandi macchie verdi di palmeti ed olivi. Praticamente il Presepe! –
penso tra me.
Luisa ci aveva già fatto notare nei giorni precedenti un dettaglio che, nella sua apparente innocente
semplicità è al contrario sintomatico della condizione di apartheid che vivono i Palestinesi. Le strade che
percorriamo, non solo spesso sono interdette ai Palestinesi che devono usare strade secondarie riservate a
loro ma la segnaletica stradale in ebraico, in arabo ed a volte in inglese, riporta indicazioni esclusivamente
per le città israeliane e le colonie. Nella zona C in particolare, quella che secondo gli accordi di Oslo non è
territorio israeliano ma in cui ad Israele è stato riconosciuto il controllo amministrativo e il compito di
assicurarne la sicurezza attraverso l’esercito, ci sono indicazioni quasi esclusivamente per gli insediamenti
dei coloni che, oltretutto, sempre secondo gli accordi di Oslo, sono pure illegali. I villaggi palestinesi o sai
come raggiungerli o non li trovi, quasi a rimarcare come per le autorità israeliane, tali villaggi non esistono.
Mi viene da pensare amaramente che Israele si è portata avanti col lavoro. Per ora i villaggi sono spariti
dalla toponomastica, domani chissà.
Venendo da Gerusalemme, sulla nostra sinistra, in rapida successione, a distanza di poche centinaia di
metri l’uno dall’altro, ci sono due bivi. Il primo è per una colonia israeliana, il secondo è per il villaggio
palestinese dove siamo diretti. Con una perfidia che rasenta il sadismo, la svolta a sinistra sulla strada a
doppio senso di circolazione che stiamo percorrendo, è consentita solo per l’insediamento israeliano.
Doppia striscia interrotta, corsia di svolta dedicata e segnalata. Dopo pochi metri, la svolta per il villaggio
palestinese non c’è. Per poter imboccare la strada che conduce al villaggio, dobbiamo percorrere un’altra
decina di chilometri verso sud, fare inversione e tornare indietro. Ovviamente nessun autista palestinese
osa contravvenire ad alcuna regola, stradale o altro che sia. La pena è il ritiro immediato della patente, il
sequestro del mezzo e a volte pure l’arresto. Lo sfiancamento dell’ostinazione palestinese a non
abbandonare la propria terra, passa anche da queste piccole storie di ordinaria discriminazione e la
resistenza nonviolenta del popolo palestinese è anche sopportare questo piccolo, perfido stillicidio
quotidiano.
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Siccità e lavoro minorile nella Valle del Giordano
Incontriamo Rashed e Sireen sulla strada. Rashed e Sireen sono rappresentanti del JVS , Jordan Valley
Solidarity e saranno le nostre guide stamattina. Scendiamo dal pullman e ci sediamo all’ombra di una
grande pianta che non so bene identificare. Fa caldo ma sotto la grande chioma si sta bene.
La valle del Giordano era chiamata “il granaio della Palestina”. Ora è quasi tutta zona C, amministrata cioè
da Israele e controllata dal suo esercito. Stando alle cifre dell’OCHA (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli
Affari Umanitari) il 44% della valle è stato dichiarato dalle autorità israeliane o riserva naturale o “Military
Firing Zone”, zona adibita esclusivamente all’addestramento militare. Un altro 50% del territorio invece, è
occupato dagli insediamenti israeliani, illegali per la Corte Internazionale di Giustizia, dove risiedono circa
10.000 coloni. Nel rimanente 6% vivono, sparsi in 17 villaggi, gli 80.000 palestinesi superstiti dei 320.000
che abitavano là nel 1967. Il dramma più grande nell’intera Valle, causa principale della riduzione così
drastica della presenza araba nella zona, è la mancanza di accesso all’acqua e la siccità. La distribuzione
dell’acqua è affidata alla ditta israeliana Mekorot. L’80% dell’acqua della Valle viene così dirottata verso le
colonie israeliane e solo il 20% è disponibile ai palestinesi che la ricomprano dalla Mekorot in grandi
cisterne di plastica a trenta shekel per metro cubo ( circa 7 euro). I coloni la pagano 3 shekel!
I numeri che ci riferisce Sireen sono gli stessi che ci aveva dato il rappresentante dell’OCHA qualche giorno
fa e parlano da soli: 20% di acqua e 6% di terra per 80.000 palestinesi che sono nati là e risiedevano là da
generazioni e 80% di acqua e 50% di terra per 10.000 coloni richiamati là da Israele da tutto il mondo.
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La tragedia dell’acqua e della siccità riguarda, quindi, solo i palestinesi e lo si percepisce anche visivamente
perché basta girare lo sguardo intorno per notare le grandi macchie di verde recintate, dove sorgono
casette ordinate e dipinte in contrasto con l’arido paesaggio tutto intorno dove sorgono baracche con i tetti
in lamiera. Sembra un film. Una situazione irreale. Rasched ci racconta che nei giardini fioriti delle colonie
non è raro incontrare anche piscine dove giocano i bambini. Nei villaggi palestinesi è razionata anche
l’acqua da bere. Sireen ci parla poi di un’altra piaga della Jordan Valley: il lavoro minorile. I bambini
palestinesi vengono impiegati dai coloni nei loro palmeti per arrampicarsi sulle piante più alte per la
raccolta dei datteri. Scelgono i bambini perché sono più leggeri ed agili e quindi la pianta soffre di meno! I
bimbi vengono pagati 50 shekel al giorno (circa 12 euro) per 8/10 ore di lavoro (il salario minimo israeliano
è 5 euro l’ora). Lo sfruttamento minorile cresce proporzionalmente alla penuria di lavoro per gli adulti e
non e raro che per molte famiglie palestinesi questo sia l’unico reddito possibile.
Con Rashed saliamo verso quella che era la fonte idrica principale della zona. Quando arriviamo possiamo
vedere con i nostri occhi le grandi condutture dell’acquedotto che prima portavano l’acqua e la vita in tutto
il territorio circostante, completamente asciutte. Anche questo è a norma di legge. L’amministrazione
Israeliana, infatti, prevede che i palestinesi possano scavare pozzi fino a 150 metri. Le colonie fino a tre
volte tanto. In alto, in lontananza, i giardini recintati della colonia ci ricordano come poteva e doveva essere
quella zona qualche anno fa. Lo stesso Maher, il nostro autista, ci racconta che da piccolo la sua famiglia
aveva l’abitudine di venire in questi posti per piknik sull’erba e bagni nella fonte. Ora sabbia rossa e sassi ed
arbusti stentati che spuntano qua e là mentre in lontananza sulle colline circostanti, occhieggiano verdi i
giardini degli insediamenti. Sulla strada assolata compare un bambino a cavallo di un asinello. Ci guarda un
po’ diffidente mentre avanza lento sul sentiero sterrato. Gli faccio cenno se posso fotografarlo ma mi
risponde no con la testa e continua lento la sua marcia. Sembra un film di altri tempi ed invece è la realtà.
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Mentre riscendiamo dalla fonte ci fermiamo di nuovo. Davanti a noi ciò che resta di un accampamento di
nomadi. Tende strappate, una cisterna per l’acqua sradicata e sfondata, i pali dell’energia elettrica divelti
ed i fili tranciati. Intorno pezzi di ciò che si intuisce doveva essere l’arredamento. Si tratta di una famiglia
che solo 6 giorni prima, il 18 agosto, ha visto la tenda in cui si è ridotta a vivere, spazzata via dai bulldozer
dell’esercito israeliano. Siamo in zona C. I permessi per costruire li rilascia Israele o meglio non li rilascia,
come dicono i dati ufficiali dell’OCHA. Le famiglie si allargano ed anche senza i permessi i Palestinesi spesso
costruiscono su quella che comunque è la loro terra ma per la legge israeliana sono abusivi oppure lo
diventano improvvisamente perché il loro terreno rientra da un giorno all’altro in un’area dichiarata
militare o archeologica o naturale. Così le autorità israeliane emettono migliaia di ordini di demolizione.
Solo che qui gli ordini di demolizione li recapitano le ruspe. Le case vengono spianate. Chi può ricostruisce.
Una, due, tre volte. Poi, pur di non abbandonare la terra, che verrebbe immediatamente sequestrata, si
adattano a vivere nelle tende. Ma anche le tende sono considerate abusive e vengono spianate
regolarmente.
Entriamo nel povero accampamento devastato in silenzio, vergognosi quasi di invadere quella povera
intimità. La ragazza col bambino in braccio ci accoglie con un sorriso mesto. Non dice una parola mentre la
nostra guida ci racconta quello che è successo, ci invita a guardare, a fotografare, a raccontare al mondo
che quegli accampamenti sporchi, devastati non sono frutto delle abitudini o della propensione alla
sporcizia o della cultura dei beduini come il frettoloso passante e la propaganda mediatica inducono a
credere. Sono l’ultimo baluardo della resistenza nonviolenta di un popolo che non si rassegna a scomparire,
che si aggrappa con tutte le proprie forze alle proprie radici, nell’attesa che il mondo si decida ad
intervenire. Resistere per esistere,. Non c’è altra scelta.
Non riesco a sopportare l’idea di andar via da quel posto senza fare niente. Mi vergogno di invadere con la
nostra presenza, con le nostre macchine fotografiche quel povero spazio. Chiedo a Rashed cosa possiamo
fare per aiutare quelle persone. Soldi? Rasched mi brucia con lo sguardo e con le parole: Non siamo qui per
fare elemosina, per aiutare una singola realtà. Raccontate. Tornate nei vostri paesi e raccontate la verità. E’
per questo che siete qui.
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Rashed ci accompagna presso la sede del JVS. Un antico podere di proprietà di un’antica famiglia
palestinese che lo ha lasciato ai giovani volontari del JVS quando la siccità seguita al prosciugamento
dell’acquedotto, ha reso impossibile l’attività agricola che conducevano. La prima cosa che Rashed ci
mostra con molto orgoglio è il nuovo centro di ascolto per le donne realizzato con i mattoni di acqua e
terra che i volontari del JVS hanno riimparato a costruire. E’ una costruzione bassa, circolare, con il tetto in
legno. Rashed ci racconta con orgoglio che è stata realizzata in 24 ore. Con lo stesso procedimento i
volontari hanno realizzato già diverse opere tra cui un asilo e diverse abitazioni che erano state spianate dai
bulldozer. Rashed ci mostra la straordinaria macchina che i volontari hanno “brevettato” per costruire i
mattoni. Prima li realizzavano completamente a mano. Ora un marchingegno assemblato con pezzi di
motore, cinghie e ricambi meccanici vari, rende il lavoro della pressatura della terra e dell’acqua negli
stampi più celere. Si lavora di notte, non tanto per riparare i volontari dalle alte temperature giornaliere ,
quanto per evitare che la preziosa l’acqua usata per impastare la terra evapori in fretta sotto il sole
cocente. Rashed ed i suoi compagni tentano con il loro lavoro di contrastare e rallentare l’abbandono delle
terre della Valle del Giordano da parte dei Palestinesi, stretti tra ordini di demolizione, siccità provocata,
disoccupazione e violenze dei coloni ma l’amara realtà è che, se gli anziani dei villaggi si abbarbicano alla
loro terra con le unghie e con i denti, i giovani sono sempre meno disposti, in nome dell’identità culturale
palestinese a sopportare abusi e privazioni e la diaspora della valle del Giordano sembra davvero
inarrestabile.
A pranzo per la prima volta assaggio uno stupendo piatto a base di agnello e zuppa di fagioli. La carne e
spezzettata finemente, quasi da sembrare un ragù e l’intingolo di fagioli e le spezie le danno un sapore
unico.
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Rasched e la sua “macchina per i mattoni
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La Palolea
Lasciati i ragazzi del JVS, ci rechiamo a Gerico a conoscere un altro bel progetto di un giovanissimo
imprenditore palestinese Hitham Kayali che, dopo anni di testarde battaglie burocratiche, è riuscito ad
aprire proprio questa settimana, un’azienda innovativa che dalle foglie di ulivo estrae un’essenza
utilizzabile per vari usi industriali, dai cosmetici agli alimentari. La Palolea. Visitiamo l’impianto, nuovo di
zecca. La cosa più straordinaria è che i vari macchinari che l’azienda utilizza sono interamente progettati da
lui e dai suoi collaboratori. Questo ragazzo avrebbe potuto restarsene in Canada, dove la sua famiglia ormai
risiede da diversi anni ma ha deciso di tornare a “casa” e sfidare il gigante israeliano. Ora Hitham dà lavoro
ad almeno una decina di persone, che spera potranno aumentare nel tempo ma il valore aggiunto più
importante all’economia del suo Paese è che gli ulivi della zona, oltre alla classica produzione dell’olio,
potranno rendere un ulteriore profitto agli agricoltori. Gli ostacoli burocratici sono infiniti e le mille
difficoltà che incontrano gli imprenditori palestinesi non lo spaventano. Ci racconta di come i container dei
prodotti palestinesi che riescono ad arrivare alla frontiera vengano spesso “dimenticati” sotto il sole per
ore. Quando finalmente sono sdoganati la “sicurezza” impone che debbano essere trasbordati su altri mezzi
che abbiano targa israeliana per poter attraversare il confine, con aggravio enorme di costi e di tempi. In
queste condizioni è diventato davvero difficile riuscire ad esportare qualsiasi genere alimentare compreso
l’olio che spesso inacidisce e viene rifiutato dagli importatori. Per questo molti hanno rinunciato del tutto
ad esportare e l’economia palestinese è sempre più in ginocchio. Il coraggio e la determinazione di questo
ragazzo sono contagiosi e nessuno di noi dubita che la sua impresa andrà a gonfie vele. Usciamo dalla
fabbrica con la promessa che quando i suoi prodotti arriveranno in Italia, li compreremo in massa.
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Gerico - Hisham Palace
Ultima tappa della giornata un antico sito
archeologico risalente all’VIII secolo d.C. , il palazzo
di Hisham, la residenza invernale dei califfi
omayyadi, a cinque km da Gerico. E’ strano vestire
di nuovo per qualche ora le semplici e spensierate
vesti del turista e mi tuffo in quest’atmosfera satura
di tutti i colori del sole. Il luogo è bellissimo. Fa molto
caldo e tutto intorno i colori dominanti sono i gialli, i
rossi, i marroni dei paesaggi desertici. Mi sembra di
essere sul set del film “Assassinio sul Nilo” di Agatha
Christie. Gli ampi spazi, il caldo, le rovine arse dal
sole, il silenzio. L’enorme decorazione che un tempo
sovrastava il palazzo principale e che ora giace a
terra, sopravvissuta ad un antico terremoto che ha
distrutto quasi tutto il resto, sembra un’enorme
stargate da cui si possa attraversare il tempo e lo
spazio. All’interno di quello che era un lussuoso
bagno turco, lo splendido mosaico dell’albero della
vita, rappresentazione del ciclo vitale con la pianta
generosa che offre i suoi frutti ai teneri cerbiatti,
destinati ad essere preda e sfamare i feroci carnivori
che comunque a loro volta torneranno alla terra
concimandola. La Valle dl Giordano è anche questo.
Antiche culture. Archeologia. Storia. Civiltà
millenarie. Anche la convivenza pacifica di ebrei,
musulmani, cristiani, atei fa parte della polverosa
storia passata? E progresso, modernità, crescita
vogliono dire per forza sopraffazione, guerra,
occupazione? E’ questo che l’Uomo ha imparato nel
suo cammino?
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HIS
All’interno di quello che era un lussuoso
bagno turco, lo splendido mosaico
dell’albero della vita, rappresentazione del
ciclo vitale con la pianta generosa che
offre i suoi frutti ai teneri cerbiatti, destinati
ad essere preda e sfamare i feroci
carnivori che comunque a loro volta
torneranno alla terra concimandola
26 agosto – sesto giorno
At Tuwani Altra giornata luuunga luuunga e piena di incontri ed emozioni. Mettetevi comodi 
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Prima tappa il villaggio di At Tuwani, un piccolo villaggio a sud di Hebron ed incontro con un gruppo di
attivisti italiani che stanno qui tramite Operazione Colomba, un’ organizzazione tutta italiana i cui volontari
scelgono di vivere nelle zone di guerra in tutto il mondo per aiutare e sostenere le popolazioni civili. Qui
oggi ce ne sono una decina, tutti giovanissimi, dai 22 ai 25 anni. Incontrarli è stato un balsamo per l'anima.
Ragazzi così sono davvero la dimostrazione che la speranza c'è. All’ingresso del villaggio ci accoglie Sara, 24
anni. Ci aspetta sotto un piccolo monumento costruito direttamente sulla roccia, voluto dagli abitanti del
villaggio e dedicato a 4 pacifisti internazionali diventati simbolo ed esempio per tutto il mondo: Angelo
Frammartino, accoltellato il 26 agosto 2010 a Gerusalemme da un palestinese che credeva di colpire un
israeliano; Tom Hurndall, il 22enne britannico colpito il 14 aprile 2003 alla testa dall’esercito israeliano a
Gaza mentre tentava di mettere in salvo alcuni bambini, morto dopo otto mesi di agonia il 13 gennaio 2004;
Rachel Corrie, 24enne americana, schiacciata dai bulldozer israeliani il 16 marzo 2003 mentre tentava di
impedire la demolizione di alcune abitazioni a Gaza ed infine, e il cuore mi si stringe d’emozione, Vittorio
Arrigoni, rapito e poi ucciso sempre a Gaza da sedicenti militanti salafiti il 15 aprile 2011. 4 Ragazzi. 4 Eroi
loro malgrado. 4 Vittime dell’occupazione israeliana, a prescindere dalla mano assassina che li ha colpiti.
Condivido la scelta di At Tuwani di ricordare i 4 pacifisti insieme, non importa se morti per mano israeliana
o per mano palestinese e mi piace ritrovarmi Vik ogni tanto accanto in questo mio viaggio.
Insieme con Hafez, uno dei leader del Comitato South Hebron Hills, comitato popolare di resistenza civile
nonviolenta, ci inerpichiamo sulla collina che domina il paese e ci sediamo sotto una maestosa pianta
d’olivo. Uno spiacevole incidente ci addolora la giornata. Una delle nostre compagne di viaggio, salendo sul
sentiero scosceso, cade rovinosamente per un paio di metri dentro una profonda depressione del terreno,
battendo violentemente la testa contro le rocce e fratturandosi due costole. Le urla e la confusione durano
diversi minuti finché alcuni volontari riescono a riportarla giù, verso la strada e la portano al più vicino
ospedale. Siamo tutti molto dispiaciuti ed addolorati. Il nostro accompagnatore, al momento dell’incidente,
aveva con sé in braccio la figliolina di forse 3/4 anni. Un angioletto biondo che non ha detto una sola parola
per tutto il tempo del trambusto seguito alla caduta. Ora che ci siamo accomodati ed il padre comincia a
parlare, scoppia improvvisamente in un pianto dirotto. Il padre la consola e l’abbraccia tranquillizzandola e
spiegandoci che la piccola è in ansia e dispiaciuta per la nostra amica poi la lascia andare, sorridendo dei
nostri timori che anche lei possa cadere su quelle rocce scoscese. I bambini qui ad At Tuwani sono costretti
ad imparare a sopravvivere molto in fretta e la loro soglia del dolore fisico è altissima. Sara, la volontaria di
Operazione Colomba che ci accompagna, ci racconta ridendo di come si trovi spesso di fronte ragazzini che
cadendo si procurano ferite anche importanti a cui non danno alcun peso. Una volta un bimbo di una
dozzina d’anni le si presentò con un taglio sul braccio chiedendole un cerotto. Trasportato di corsa in
ospedale, il taglio richiese 18 punti di sutura!
La piccola si è allontanata e noi riprendiamo il nostro piccolo incontro quando all’improvviso, di nuovo, ci
giungono i suoi singhiozzi accorati. Evidentemente il pensiero di quanto è accaduto, della nostra amica che
piange e della nostra chiara apprensione, non la lascia. Il padre corre a consolarla mentre Sara ci spiega
mestamente che qui i bambini sanno che quando i grandi piangono, spesso qualcuno non lo rivedono più.
E’ vero che la loro soglia di dolore fisico è altissima ma non altrettanto quella emotiva, continuamente
scossa e messa alla prova da quanto vivono. La fragilità ed i singhiozzi di questa bimba, accorata ed
angosciata per le sorti degli adulti, è uno dei ricordi di questa giornata che mai potrò cancellare.
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Il villaggio di At Tuwani è importante. E’ l’esempio vivente e concreto di quanto può essere vincente
l’azione della resistenza nonviolenta. E’ qui che è nato il primo comitato popolare di resistenza nonviolenta
ed è qui che si sono ottenuti grandi risultati facendo di At Tuwani un faro ed un esempio per tutti gli altri
villaggi della zona C, quella controllata amministrativamente e militarmente da Israele. At Tuwani è stretto
tra la colonia di Ma’On, illegale come tutte le altre colonie in zona C per il diritto internazionale e
l’avamposto di Havat Ma’ On, illegale per la stessa Israele ma senza che questo nella pratica voglia dire
nulla. Già sappiamo che i coloni, soprattutto quelli degli avamposti, sono spesso protagonisti degli episodi
di violenza che costituiscono la migliore e consolidata strategia di disturbo ed aggressione per spingere i
Palestinesi ad abbandonare le loro terre. Ad At Tuwani la storia non è diversa ma gli abitanti di At Tuwani
non hanno ceduto né alla tentazione di andarsene né tanto meno a quella di rispondere con la violenza.
Con l’aiuto di organizzazioni internazionali ed israeliane come Yesh Din, i Ta'ayyush, i Rabbini per i diritti
umani, o ancora Bet'Selem, si sono opposti per vie legali a tutti gli atti di oppressione, denunciando le
aggressioni dei coloni ed ottenendo uno storico risultato in tribunale: nel 1999 l'Alta Corte Israeliana ha
riconosciuto il diritto degli abitanti di At Tuwani a vivere qui, sulle terre di cui molte famiglie hanno atti di
proprietà che risalgono all'Impero ottomano. Ma non è tutto. Altro storico risultato, ottenuto sempre per
vie legali e sempre grazie anche all’appoggio di avvocati israeliani, è stata la demolizione del muro che era
stato costruito per più di 40 km sulla bypassroad che delimita il confine tra area C ed area A e che aveva
isolato completamente il villaggio dalla vicina città di Yatta. Le bypassroad sono strade riservate agli
israeliani ed interdette ai palestinesi, orribile esempio di discriminazione razziale ratificato
nell’ordinamento israeliano
Prima di andare via da At-Tuwani Sara ci porta a visitare l’altra importante realtà che esiste qui nel villaggio
e cioè la cooperativa di donne guidate da Kifah Adara. Kifah è arrivata qui da Yatta a soli 16 anni dopo un
matrimonio combinato. Ci racconta la sua storia. Lasciare la grande Yatta, in zona A e quindi in territorio
cosiddetto libero, per andare a vivere in uno sperduto villaggio in zona C, in pieno territorio occupato, non
è stato facile ma quando ad At- Tuwani si è sviluppata l’idea della resistenza nonviolenta come opposizione
all’occupazione ed alla violenza quotidiana israeliana, ha capito che anche le donne potevano esserne parte
attiva e sostanziale. Con altre sette compagne e vincendo all’inizio soprattutto la diffidenza e la contrarietà
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degli anziani del villaggio, ha messo su una cooperativa di donne per produrre manufatti artigianali da
vendere. La cooperativa oggi conta e dà lavoro a 32 donne ed i proventi della vendita dei manufatti,
soprattutto attraverso canali internazionali, contribuiscono al sostentamento delle famiglie del villaggio,
strette nell’assedio tra colonia ed insediamento.. La costituzione di una cooperativa di donne indipendente
ed autosufficiente economicamente costituisce in effetti una doppia vittoria: contro l’occupazione e contro
le antiche, rigide tradizioni palestinesi che, soprattutto in villaggi così isolati dalle grandi città, sono molto
radicate e vorrebbero le donne dipendenti dai loro mariti. Un doppio risultato di cui Kifah è giustamente
orgogliosa.
La cooperativa ha ora in mente un nuovo, dirompente progetto che Kifah ci racconta con entusiasmo. Il
progetto è stato chiamato “Two nerburs”, cioè due vicini e coinvolge donne palestinesi ed israeliane. E’
nato dall’incontro di Kifah con una stilista israeliana che disegna vestiti di alta moda. Il progetto è ardito. La
stilista israeliana disegnerà i modelli che le donne di At Tuwani arricchiranno con i loro ricami. Sempre
donne, stavolta israeliane, si occuperanno successivamente dell’applicazione dei ricami sui vestiti. La
collaborazione tra donne palestinesi ed israeliane non è vista di buon occhio né dall’una né dall’altra parte
ed un progetto del genere si presta sicuramente a molte critiche e diffidenze ma Kifah e le sue compagne
sono determinate a portare avanti il loro sogno per dimostrare che non esistono barriere se solo si ha la
volontà di non crearle. La Resistenza passa anche da qui, Nel non accettare gli stereotipi da entrambe le
parti, per cui non può esistere una collaborazione tra israeliani e palestinesi. Nel dimostrare che Palestinesi
ed Israeliani possono convivere, lavorare, dialogare e perché no, essere amici, aldilà di tutte le convenzioni ,
i pregiudizi, l’odio che da sempre da entrambe le parti si dà per scontato, quando non si fomenta
Da At Tuwani ci spostiamo a Susiya per andare a visitare uno dei fiori all’occhiello del villaggio: la scuola.
L’unica della zona, frequentata dai bambini dei villaggi vicini nonostante gli episodi di bullismo e le
aggressioni da parte soprattutto dei coloni ultranazionalisti dell’avamposto. Episodi così violenti e così
frequenti che, grazie anche alle documentazioni fotografiche, le denunce circostanziate e l’attenzione
mediatica ottenuta con l’appoggio delle organizzazioni internazionali ed israeliane, le stesse autorità
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israeliane, a cui in teoria, in zona C i trattati internazionali affidano la sicurezza, sono state costrette ad
assegnare la scorta dell’esercito ai piccoli che devono raggiungere la scuola passando tra la colonia e
l’avamposto.
E’ tardi e quindi i bimbi sono già usciti. Ne incontriamo alcuni che scendono lungo la strada sterrata che sale
alla scuola. Ci guardano con curiosità. Ci sorridono. Trotterellano sui ciottoli della “strada” con disinvoltura
con i loro zainetti sulle spalle e le calzature più disparate. Mentre arranco in salita per i pochi metri che il
pullman ci ha lasciato da percorrere, non posso non pensare a quanta strada percorrono ogni giorno questi
piccoli scolari per guadagnarsi il diritto all’istruzione. La scuola è una costruzione semplice. Un lungo
parallelepipedo diviso in una decina di classi, cellette così piccole che ospitano a malapena 4/5 banchi. I
disegni dei bambini alle pareti, le tavole dei numeri e dell’alfabeto, le seggioline, sono gli stessi di tutte le
scuole del mondo così come dovrebbe essere uguale il loro diritto all’istruzione ed alla pace. All’esterno
della scuola il “campo da gioco”, dove i bimbi passano la ricreazione. Nella calura del giorno, sembra più un
campo di punizione che non di gioco, assolato, riarso e nudo come si presenta. Che sogni hanno questi
bambini? Quale futuro li aspetta? Quanti di loro finiranno sui muri, nei disegni commemorativi imbandierati
dei loro villaggi? Scaccio la tristezza ed ascolto l’orgoglioso racconto del preside della scuola. Nonostante At
Twuani goda di un piano regolatore e quindi dell’autorizzazione a costruire strappata dal comitato di
resistenza civile nonviolenta dopo lunghe battaglie legali, la scuola è stata edificata poco al di là della zona
consentita ed è sempre a rischio demolizione. La scelta non è casuale. Rientra nell’azione della resistenza
civile nonviolenta con la quale gli abitanti della zona C rivendicano pacificamente il diritto di costruire sulle
loro terre e non riconoscono all’amministrazione israeliana il diritto di negarglielo. La scuola è stata già
abbattuta diverse volte ed ogni volta è stata ricostruita. Anche qui esistere è resistere
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Le bimbe si Susyia.
A seguito dei
frequentissimi atti
di bullismo e
violenza dei coloni
ultranazionalisti di
Havat Ma’On che
se la prendono
pure con i bambini,
denunciati e
fotografati dagli
operatori
internazionali,
l’autorità israeliana
è stata costretta ad
assegnare una
scorta ai piccoli,
affinché arrivino integri a scuola. Inutile dire che i rapporti degli osservatori internazionali denunciano che le scorte
spesso e volentieri non si presentano o si presentano tardi, lasciando i piccoli da soli in balia degli eventi
A pranzo ci aspettano ad Hebron
Hebron è una città grande ed abbastanza caotica. La sua storia è decisamente particolare. Ad Hebron la
componente ebraica e la componente araba avevano sempre convissuto in pace. Dopo i moti del 1929 e del
1936, le famiglie ebree avevano evacuato la citta ma dopo la guerra dei sei giorni, un gruppo di circa 200
ebrei , con la scusa di un pellegrinaggio, riuscirono ad occupare uno storico hotel nel cuore della città
vecchia. L’allora ministro Rabin evacuò i coloni in una base militare là vicino, che sarebbe diventata poi la
colonia di Kyrat Arba, situata appena fuori Hebron. Una colonia illegale che oggi conta più di 7000 abitanti.
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Da lì a poco il centro della città vecchia venne di nuovo occupato da altre famiglie ebraiche che tutt’oggi
rivendicano di essere ‘’discendenti’’ dell’antica comunità ebraica di Hebron, nonostante questa si sia
completamente dissociata dai coloni. Le due comunità convissero nella città vecchia, seppure con molte
difficoltà e scontri, fino al 1994. In quell’anno ci fu un sanguinoso attentato ad opera di un ex ufficiale
dell’esercito israeliano che irruppe nella moschea uccidendo a colpi di mitra 29 fedeli che stavano
pregando, prima di essere a sua volta sopraffatto ed ucciso. La strage fu il pretesto e con la scusa di isolare,
per motivi di sicurezza, i circa 500 coloni israeliani che si erano insediati nella città vecchia, dalla
popolazione araba, nel 1997 la città fu divisa in due: Hebron1, sotto il controllo palestinese ed Hebron2,
sotto il controllo israeliano. In Hebron2 , oltre ai 500 coloni ebrei, rimasero “imprigionati” dalla divisione
oltre 40.000 palestinesi . Imprigionati perché le condizioni di apartheid in cui vivono non sono molto
dissimili a quelle di una prigione a cielo aperto. Libertà di movimento limitata con decine di checkpoint a
distanza pure di 20 metri l’uno dall’altro. Libertà di reagire ai soprusi ed alle violenze dei coloni pari a zero,
visto che ogni volta che si accenna una reazione, l’intervento dell’esercito finisce sempre con l’arresto degli
arabi. Nel 2000 Shuhada Street, la principale arteria della città vecchia è stata anch’essa chiusa per motivi di
sicurezza ai palestinesi. Intorno a Shuhada Street, la strada principale del centro storico, si trovano quattro
colonie: Tel Rumeida, Beit Hadassah, Beit Romano e Avraham Avinu in cui vivono circa 800 coloni, protetti
da più di 4000 soldati.
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Hebron - Youth Against Settlements - Giovani contro gli insediamenti
A pranzo ci aspettano al Youth Against Settlements , Giovani contro gli insediamenti . L’associazione occupa
un’antica palazzina in Hebron2, la parte di Hebron sotto il totale controllo amministrativo e militare
israeliano. Il centro Y.A.S si prefigge, attraverso l’azione nonviolenta , la resistenza all’occupazione
israeliana. Le loro armi sono le telecamere ed cellulari con i quali documentare e denunciare le quotidiane
violenze che i coloni ultraortodossi ed ultranazionalisti di Hebron compiono, spalleggiati dall’esercito. Ad
Hebron la convivenza tra palestinesi e coloni è davvero ai limiti della tollerabilità. Le case assegnate ai
coloni, i terreni sequestrati, le zone vietate ai palestinesi e quelle invece abitate dagli arabi, sono
praticamente contigue. I volontari del centro e gli internazionali che in questo momento sono presenti, ci
raccontano che lo stesso centro, separato dall’insediamento illegale che gli sta di fronte solo da una rete a
tratti divelta, è oggetto di continue incursioni sia da parte dei coloni, sia da parte dei militari che, con la
scusa della sicurezza entrano, perquisiscono e a volte arrestano per “controlli” i volontari presenti. I ragazzi
ci hanno preparato il pranzo ed hanno apparecchiato fuori, su una terrazza che dà proprio
sull’insediamento contiguo. Appena ci sediamo, vedo scendere dalla collinetta di fronte due ragazzotti
nerboruti, vestiti da ortodossi che, col chiaro intento di controllarci, prendono posto su una panchina per
fissarci e controllarci. E’ una situazione ai limiti del grottesco. Per me è strano mangiare tutti insieme, in
allegria, sotto lo sguardo attento di quei due. I volontari e gli internazionali sembrano invece perfettamente
a loro agio ed ignorano serenamente la presenza dei due “controllori”. Chiacchierano con noi e sono
tranquilli. Non pare ci facciano caso più di tanto mentre a me l’espressione schifata e di disapprovazione
dei due non concilia per niente l’appetito. Dopo pranzo, insieme ai tanti volontari presenti, tra cui un
gruppo di francesi, facciamo un breve briefing e Muhanned ci racconta della difficile convivenza, degli
arresti, della loro azione di documentazione dei soprusi, della loro resistenza nonviolenta perché anche qui
ogni giorno che passa senza cedere alla tentazione di andare via, è una vittoria. Perché anche qui esistere è
resistere.
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– Hebron - Shuhada Street ed il suk
Il centro Y.A.S. è anche impegnato nella campagna Open Shuhada Street che si prefigge la riapertura della
strada principale della città vecchia di Hebron che collegava da nord a sud la città e che dal 2000, sempre
per accampati motivi di sicurezza, l’esercito israeliano presidia e vieta ai Palestinesi. Shuhada Street era il
cuore della città e la sua chiusura ha riflessi drammatici in molteplici aspetti della vita di Hebron. Prima di
tutto ha isolato tutte le famiglie palestinesi che ancora si ostinano a non abbandonare la loro casa e che ora
vivono prigioniere nelle loro stesse abitazioni, senza neanche poter usare i propri usci che danno sulla
strada. Muhanned ci racconta che per raggiungere le loro abitazioni, molti palestinesi sono costretti a
passare sui tetti o a fare un giro di diversi chilometri per percorrere una distanza che prima si faceva in un
paio di minuti. Ovviamente anche i negozi che prima prosperavano su quella che era il corso principale della
città sono stati chiusi ma l’aspetto forse più pesante per i Palestinesi è che questa chiusura immotivata ed
arbitraria della strada è la più palese, sfrontata, sfacciata affermazione della prepotenza e dell’arroganza
dell’amministrazione israeliana. Hebron è l’unica città della Cisgiordania che ospita una colonia al proprio
interno, con i palestinesi che vivono nei piani inferiori, costretti a mettere reti di protezione per difendersi
dai sassi e dall’immondizia lanciati dai coloni che vivono nei piani superiori. Muhanned ci accompagna a
Shuhada Street, fino al limite a lui consentito e ci dà appuntamento dall’altra parte della strada.
Attraversiamo Shuhada Street in un’atmosfera surreale. Sembra il set di uno di quei film western dove si
racconta delle città fantasma. La strada è costeggiata da case e botteghe con gli usci sbarrati. Anche le
finestre ai piani superiori, sono chiuse e spesso protette da reti e grate. A sinistra c’è il camminamento che
prima della chiusura della strada era riservato ai palestinesi e che ora non usa più nessuno. Sarà l’orario ma
non si vedono neanche coloni. Solo militari. Ce ne sono all’inizio, alla fine, al centro, sui tetti.
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Non ci danno fastidio e non ci fermano. Immagino che la nostra condizione di turisti sia abbastanza
evidente. Alla fine della strada ci ricongiungiamo con Muhanned che è arrivato là con la macchina facendo
un ampio giro. Ci accompagna al vecchio suk, il mercato della città vecchia. Passeggiamo tra botteghe e
negozi colorati ed affollati. Impossibile non notare sui tetti delle palazzine circostanti il numero
impressionante di soldati armati fino ai denti. Ce n’è uno ogni 10 metri!! A tratti sul mercato si vedono
grosse reti tese da un lato all’altro della strada, ad un’altezza di tre/quattro metri. Sulle reti si intravede di
tutto, persino pezzi di sanitari e molta immondizia. Un vecchio bottegaio ci spiega che le reti sono state
messe per difendersi dal lancio di pietre ed oggetti da parte dei coloni che quotidianamente, dalle finestre
e dai tetti sovrastanti il mercato, lanciano di tutto. Purtroppo, ci dice mestamente, le reti non fermano i
liquidi e sputi, liquami, urina, varecchina continuano a piovere su botteghe, merci e persone. - Ma
l’esercito? - Chiedo d’impulso. Lui sorride e tace ed il suo sguardo vale più di mille accuse.
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– la fabbrica di ceramiche ed il centro culturale Al – Shmoh di Al- Ma ‘Sara
Lascio Hebron con una gran tristezza nel cuore nonostante lo shopping sfrenato che mi sono regalata.
Adoro girare per bancarelle e mercatini ed il suk di Hebron offre veramente di che sbizzarrirsi. Con la scusa
di aiutare l’economia locale e col pretesto di dover portare qualche souvenir ho comprato un sacco di cose
bellissime, dalle sciarpe di seta e cachemire colorate con i colori dell’oriente alle spezie profumate, dai
narghilè alle kefiah ma il piacere di fare compere non è riuscito a liberarmi dall’angoscia di quelle reti
sospese sulla testa. Prossima tappa, sulla strada del ritorno, una fabbrica di ceramiche e vetri soffiati.
Fantastica. All’ingresso, davanti alla bocca spalancata di un forno, un ragazzo sta lavorando ad un vaso.
Veder quel vetro plasmarsi e prendere vita, animato dal soffio sapiente e dalle mani del giovane, è davvero
emozionante. In pochi minuti l’incandescente goccia di vetro si trasforma in una splendida caraffa. Anche
qui, sempre con lo spirito di aiutare l’economia locale, mi lascio andare a qualche spesuccia.
Tornando verso Betlemme facciamo tappa ad Al-Ma’Sara, al centro culturale Al-Shmoh. E’ un centro
culturale nato dalla volontà e dalle risorse di alcuni privati che hanno investito i loro risparmi per affittare i
locali e comprare i primi computer. Ora serve dieci villaggi della periferia sud di Betlemme ed i giovani e gli
universitari che vivono nella zona hanno un punto di riferimento e di ritrovo, oltre che di studio e di accesso
ad internet. Da quando le restrizioni e le chiusure dei varchi verso Betlemme si sono fatte sempre più
frequenti, lunghe ed improvvise, avere una struttura così nella zona è un grande risultato ed un grande
vantaggio per i ragazzi. Il volontario che lavora nel centro e che ci illustra il loro progetto è molto orgoglioso
del lavoro svolto. Ci spiega che la resistenza pacifica nonviolenta passa anche da queste azioni. Favorire la
cultura, creare centri di aggregazione sociale, levare i ragazzi dalla strada e nel contempo assicurare più
tempo ai genitori per occuparsi dell’economia familiare. Anche così si contrastano le strategie
dell’occupazione israeliana. Ci illustra poi brevemente una cartina della zona C, mostrandoci tutti i punti in
cui i coloni hanno occupato e sequestrato case e territorio. Ci tiene a farci vedere la cartina perché ci tiene
a farci vedere fisicamente il furto di territorio che ogni giorno Israele, attraverso le colone, opera. Poi,
prima di salutarci, ci chiede quello che tutti gli altri attivisti nonviolenti che abbiamo incontrato fin’ora, ci
hanno già chiesto: tornate nei vostri paesi e raccontate. Raccontate che qui non è una guerra di religione.
Non è una guerra tra Ebrei e Musulmani o Ebrei e Cristiani. Questa è una semplice guerra di territorio. Qui
c’è uno Stato, Israele, che vuole espandersi e vuole il territorio della Cisgiordania ed una popolazione che è
decisa a non lasciarsi scomparire. Se non si esce dall’equivoco che Israele rappresenti tutti gli Ebrei del
mondo e che combatte per la sopravvivenza della religione ebraica, non si potrà mai avere una visione
obiettiva dei fatti. Spogliate il conflitto dal pretesto religioso ed Israele resterà nuda nel suo disegno
espansionistico e terreno.
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Rientriamo a Betlemme. E’ stata una giornata altalenante tra entusiasmo e speranza e frustrazione e
rabbia. Abbiamo incontrato i comitati popolari di resistenza civile nonviolenta ed i volontari di Operazione
Colomba che hanno regalato una ventata di ottimismo ad una giornata così lunga e faticosa. Parlare con
quei ragazzi così giovani e determinati, vederli lavare i piatti e centellinare con loro l’acqua è stato
fantastico. Sono dovuta andare al bagno ad At-Tuwani ed i volontari mi hanno ospitato nella loro “casa”.
Con molta semplicità mi hanno indicato il bagno e poi mi hanno avvisato di non tirare l’acqua, perché qui si
tira una sola volta al giorno. Loro, come tutti i palestinesi , sanno che l’acqua qui è oro. Non avrei mai
pensato che un giorno non solo non avrei provato schifo ma addirittura sarei stata orgogliosa di dividere un
bagno “sporco”. Questi ragazzi che scelgono di lasciare le loro esistenze comunque normali sapendo di
doversi adattare a situazioni di sicurezza, di igiene, di sopravvivenza così difficili, sono un balsamo per
l’anima e mi riempiono di orgoglio e di speranza.
Ora è tempo di dormire, perché domani levataccia alle 5,15 per andare finalmente alla spianata delle
Moschee. Buonanotte e spero che non mi odiate molto per avervi scelto per condividere il mio diario.
Come dice sempre la mia mamma: anche gli onori son castighi di Dio.
27/8 settimo giorno – La Spianata delle Moschee
Stamattina levataccia. Alle 6,30 siamo già sul pullman che ci porterà di nuovo a Gerusalemme ed alle sette
siamo già in fila al checkpoint che ci permetterà di accedere alla Spianata. Gli orari di entrata, così come gli
accessi, sono differenziati per gli ebrei ed i non ebrei . Per noi l’entrata sarà possibile dalle 7.30 e la fila si
ingrossa, di minuto in minuto, sempre di più. Alla nostra sinistra, l’ingresso per il Muro del Pianto per gli
Ebrei è già aperto. Mi colpisce la stragrande maggioranza di ebrei ultraortodossi che passano. Si
riconoscono facilmente dalle capigliature acconciate con le classiche treccine e le lunghe barbe. Molti
indossano la kippah ma molti altri, invece, portano cappelloni neri di varie forge. Palandrane e cappotti neri
e maniche rigorosamente lunghe, nonostante sia il 27 agosto, completano il quadro. Ci sono gruppi di
giovani studenti e famigliole complete. Le poche ragazze che vedo passare sembrano uscite da un collegio
di 50 anni fa. Gonne molto sotto al ginocchio, camicie a maniche lunghe, colletti e calzini bianchi. Mi
tornano in mente le parole di Udi, il 19enne israeliano obiettore di coscienza che qualche sera fa in albergo,
ci ha detto che la presenza di tanti integralisti a Gerusalemme sta provocando l’abbandono dalla città
anche da parte di tanti Israeliani moderati o laici.
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In fila per la Spianata ma separati da noi e scortati da un militare armato, ci sono una signora anziana ed un
uomo. La scorta armata ci incuriosisce e chiediamo a Mike chi siano. Mike ci spiega che sono estremisti di
un movimento ultranazionalista ebraico che rivendica il diritto di ricostruire sulla Spianata, ovviamente al
posto delle Moschee che oggi vi sorgono, il cosiddetto Terzo Tempio là, dove secondo la tradizione ebraica,
sorgevano già il Primo e, successivamente, il Secondo. Nell’attesa di realizzare questo progetto, è
consentito loro comunque di andare a pregare sulla Spianata ma, considerando che la loro presenza è
decisamente invisa ai musulmani, vengono sempre scortati. Siamo tutti sconcertati da quanto racconta
Mike. Gli accordi internazionali successivi alla guerra del ’67 hanno riconosciuto la sovranità religiosa della
Spianata agli Arabi, garantendo ai non Musulmani il diritto di entrare ma non di pregare. Agli Ebrei è stato
invece riservato per la preghiera il Muro del Pianto, adiacente la Spianata ma con ingresso separato.
Accompagnando gli estremisti ebrei a pregare sulla Spianata con le armi, è palese la violazione da parte
delle le autorità israeliane di tali accordi ma soprattutto è sfacciata l’ostentazione di quanto gli israeliani
tengano in considerazione l’Autorità palestinese a cui in teoria è affidata la Spianata. La presenza degli
ultranazionalisti ebrei sulla Spianata è vissuta dai musulmani come un’offesa. Tra l’altro gli attivisti
ultranazionalisti non fanno niente per nascondere il loro progetto di spianare le Moschee per ricostruire il
Tempio e quindi spesso tali “visite” sono fonte di tensioni ed “incidenti” nonostante la scorta armata. Nel
2000 fu proprio la “passeggiata” sulla Spianata ostentata da Sharon, circondato da uomini armati, che
innescò quella che viene chiamata seconda intifada. Mike aggiunge poi un particolare che davvero fa
riflettere: la religione ebraica in realtà vieta l’ingresso ai propri fedeli sulla Spianata, proprio perché
calpestare il luogo Sacro sarebbe peccato. Anche il progetto di voler ricostruire il Tempio è assolutamente
in contrasto con il credo ebraico per il quale ciò che Dio ha distrutto non può essere ricostruito da opera
umana. Perché allora le autorità israeliane, in barba alla stessa religione ebraica, tollerano ed anzi
agevolano, l’ingresso di questi estremisti ultranazionalisti che niente hanno a che fare con la fede e con la
religione e la cui presenza è quasi una bestemmia per la Torah?
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La Moschea della Roccia e la Moschea di Al Aqsa
Finalmente arriva l’ora di entrare. All’ingresso della Spianata ovviamente un checkpoint con tanto di metal
detector, controllo dei documenti ed apertura di tutti gli zainetti. Nel mio la soldatessa israeliana trova tre
piccole croci di legno che ho comprato a Betlemme. Le tira fuori, scambia un rapido sguardo con l’altro
soldato e poi le rimette dentro raccomandandomi di non tirarle fuori. Sono tutti e due molto giovani e
sorridenti e mi stupisce il contrasto della loro apparente normalità in un luogo ed in un ruolo che sembrano
più una trincea che un ingresso ad un luogo di culto.
La Spianata è bellissima. Sono consapevole di trovarmi in
uno dei luoghi più sacri della terra, visto che lo è per le tre
religioni monoteiste principali. Qui sorgono infatti le due
Moschee più importanti per l’Islam, quella della Roccia e
quella di Al Aqsa, da cui Maometto assunse in cielo. Qui
per gli Ebrei sorgeva il Primo Tempio, il tempio di
Salomone, distrutto dai Romani e di cui rimane solo un
tratto di muro occidentale, il cosiddetto Muro del Pianto.
Qui infine, per i Cristiani, Gesù venne diverse volte a
discutere con i Sacerdoti e le sue visite al Tempio sono
riportate in numerosi passi dei Vangeli. E’ incredibile e
tristissimo che un luogo che potrebbe rappresentare il
massimo dell’unione e delle analogie tra le tre religioni e
che dovrebbe essere condiviso in pace ed armonia in
nome dell’amore verso un Dio, sia in realtà l’occasione ed
il pretesto per scatenare sempre di più odio e violenza. Ma
la religione non dovrebbe essere amore e condivisione?
Mah!
La presenza di soldati israeliani armati e poliziotti
palestinesi è opprimente ma ormai mi ci sono abituata. La
visione della Moschea della Roccia è fantastica. La si
intravede già, incorniciata da tre archi, al sommo di una
piccola scalinata. La sua cupola d’oro è famosa in tutto il
mondo e capisco il perché. E’ meravigliosa. Man mano che
mi avvicino, scopro le sue pareti adornate di magnifici e
coloratissimi mosaici. Secondo la religione musulmana la Moschea della Roccia ospita la Roccia sacra da cui
Maometto ascese al cielo. La stessa roccia sulla quale Abramo fu fermato da Dio mentre stava per
sacrificare il figlio Ismaele (o Isacco). Purtroppo le Moschee della Spianata sono chiuse ai non Musulmani ed
ai turisti è concesso di ammirarle solo dall’esterno ma già l’esterno vale assolutamente la pena. Sono
entusiasta dei colori e degli adorni dello stile bizantino. La Moschea è ottagonale ed ogni parete è diversa
dalle altre ma sono tutte meravigliosamente decorate con mosaici ed iscrizioni. Gli azzurri, i blu, gli ori, i
viola ed i verdi, sono un’esplosione di luce che svetta verso il cielo ed incanta. Accanto alla Moschea c’è una
costruzione più piccola con la stessa pianta ottagonale e con gli stessi magnifici mosaici. Un’unica parola:
meravigliosa.
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La Moschea di Al Aqsa è la più grande
moschea di Gerusalemme e può
ospitare fino a 5000 fedeli. Dall’esterno
non è paragonabile come bellezza alla
Moschea della Roccia perché in realtà
è solo una grandissima costruzione
monocromatica ma è comunque molto
imponente. Mi piacerebbe da morire
poterla vedere internamente ma
purtroppo le moschee della Spianata
sono riservate esclusivamente ai fedeli
musulmani e mi devo accontentare di
passeggiare nell’ampissimo cortile.
Sulla
Spianata molti angoli sono riservati alla
preghiera con tappeti pronti ad
accogliere i fedeli nelle rituali
genuflessioni. Ci sono anche molti
spazi dove giovani ed anziani studiano
il Corano . Se non fosse per
l’abbigliamento diverso, sembrerebbe
di stare nel cortile antistante il Muro
del Pianto. All’improvviso sento delle
grida e del vocio. Riconosco i due
estremisti dell’ingresso che, passando
accanto ad un gruppo di giovani intenti
nelle lettura del Corano, li ha
apostrofati con toni vivaci. Ovviamente
non capisco lo scambio di battute, che
dura pochi secondi, mentre le guardie
palestinesi ed i soldati israeliani si
frappongono tra i due gruppi ma non
mi è difficile immaginare che non
fossero complimenti.
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La moschea di Al Aqsa sacra ai Musulmani in quanto ultima Moschea a cui arrivò Maometto prima della sua
ascensione in cielo. E’ la più grande Moschea di Gerusalemme ed uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Peccato che
sorga proprio nello stesso luogo in cui per gli Ebrei sorgeva il Tempio di Salomone e questo, invece di unire, non fa
altro che alimentare odio e violenza. Con gli accordi internazionali successivi alla guerra dei sei giorni del 1967, la
Spianata è stata affidata agli Arabi. Agli Israeliani è stato lasciato come luogo di culto, il muro occidentale del Tempio
preesistente, esterno alla Spianata. Il Muro del Pianto
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Uscendo dalla Spianata abbiamo di nuovo attraversato Gerusalemme. Solo sette giorni fa non capivo il
perché delle bandiere israeliane a pochi metri dalla case arabe. Non riuscivo neanche ad immaginare la
convivenza di coloni e palestinesi separati solo da un muro o, come ad Hebron, da una rete di protezione.
Ora guardo tutto con occhi diversi e non mi capacito di come possa essere possibile. In fondo alla strada
troneggia la casa di Sharon, con l’enorme menorah che la sovrasta e la bandiera israeliana ben in vista.
Ricordo le parole di Mike: Sharon non ci ha passato neanche mai una notte ma ora capisco il senso di quella
presenza, così ingombrante ed evidente. I coloni avanzano di casa in casa, occupando stanze ed abitazioni
abbandonate dai proprietari palestinesi. Si appropriano della città est centimetro dopo centimetro,
cacciandone gli abitanti con i buoni od i cattivi modi. Incontrare coloni armati di mitra per strada è, ai miei
occhi, pazzesco ma non così per gli arabi che sanno bene che quei mitra possono sparare da un momento
all’altro e che i soldati si gireranno dall’altra parte. E’ già successo. Succederà ancora.
E poi soldati, soldati
dappertutto
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Colonie a Gerusalemme
Est. Si riconoscono dalle
bandiere esposte e
generalmente occupano
sempre i piani superiori,
Passarci sotto o peggio
abitarci, è resistenza
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Betlemme ed i bambini della Hogar “Niño Dios”
Lasciata Gerusalemme, torniamo a Betlemme. Abbiamo appuntamento con Don Mario del Patriarcato
Latino di Gerusalemme che ci farà conoscere la Hogar “Niño Dios”. A pochi passi dalla Chiesa della Natività
scopriamo la bella e solare costruzione che ospita la casa di accoglienza dei Bambini Gesù. E’ la prima volta
da quando siamo arrivati in Palestina che ci confrontiamo con la realtà cristiana. Spesso quando si parla di
Israele e Palestina, si pensa solo ad ebrei e musulmani dimenticando la comunità cristiana che oggi conta
circa 50.000 fedeli. Prima del 1948 i cristiani in Palestina erano circa il 10% della popolazione. Dopo il 1948
la continua diaspora li ha fatti scendere a circa il 2,5% e continuano a calare.
Don Mario ci accoglie nel cortile. E’ un bell’uomo sulla
quarantina. Con un gran sorriso ed una bella stretta di
mano. Ci accompagna dentro presentandoci la
struttura.
La Hogar “Niño Dios” è gestita da un manipolo di
suorine appartenenti alla congregazione del Verbo
Incarnato. E’ nata praticamente da zero, quando il
Patriarcato Latino di Gerusalemme mise a disposizione
di due Suorine argentine dai nomi decisamente
particolari, suor Gesù e suor Cristo, una stanzetta per
ospitare tre piccoli disabili senza famiglia. Don Mario
sorride amaramente mentre ci dice che nascere
disabili in Palestina è una doppia disgrazia perché la
disabilità è vissuta dalle famiglie con vergogna, quasi
come una punizione divina ed i piccoli vengono spesso
abbandonati e rinnegati. Mentre lui parla non posso
non pensare che anche in Italia, neanche tanti anni fa,
non è che fosse molto diverso. Nel corso degli anni e
grazie esclusivamente al lavoro delle suore, che nel
frattempo sono diventate 5, ed alle Provvidenze, così
come le chiama lui, la stanzetta è diventata una bella
palazzina che piano piano si è conquistata l’attenzione
internazionale ed ora può ospitare fino a 35 piccoletti.
La casa è piena di luce e soprattutto è piena di gente!
Ci sono decine di volontari, quasi tutti italiani, che
lavano per terra, puliscono i vetri, rifanno i letti, giocano con i bimbi. Don Mario ce li presenta tutti man
mano che li incrociamo mentre sorridenti svolgono le loro faccende e così scopriamo che praticamente
nella casa è un via vai di associazioni e volontari che si danno il cambio durante tutto l’anno per dare una
mano concreta a questo progetto che è unico in tutta la Palestina. In questo momento ci sono una trentina
di volontari dell’UNITALSI ed è un piacere parlare finalmente un po’ in italiano con loro.
Quando finalmente arriviamo nel salone dove sono i bambini con i loro assistenti e Don Mario ce li
presenta, gli si illuminano gli occhi mentre i bambini gli si affollano intorno. Resto molto colpita
dall’evidente affetto che i bimbi hanno verso di lui. Sono tutti bimbi “speciali” , orfani o abbandonati dalle
famiglie d’origine. Cristiani e Musulmani, non fa differenza. Don Mario è molto orgoglioso di mostrarci la
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piccola piscina appena realizzata dove i bimbi possono fare idroterapia e musicoterapia in acqua. Ci
racconta che l’ultimo grosso contributo al miglioramento ed allargamento della Casa è arrivato dal
Consolato Italiano. In realtà, ci dice, è stato merito dell’ultimo piccolo Angelo che è volato in cielo. Un
piccolo abbandonato ed accolto dalle suorine che aveva urgente bisogno di un intervento per la grave
malformazione con cui era nato. Don Mario era riuscito ad ottenerne il ricovero presso un ospedale
italiano ma i permessi da parte delle autorità israeliane per l’espatrio avevano tardato così tanto ad arrivare
che, lo stesso giorno che erano finalmente arrivati, dopo quasi un mese, il piccolo non ce l’aveva fatta ed
era volato in cielo. Il console italiano, che era stato coinvolto per tanto tempo nella ricerca dei documenti e
dei permessi ed aveva quindi avuto modo di conoscere il bimbo e la Casa, c’era rimasto così male che, dopo
la morte del piccolo, aveva preso a cuore la struttura ed era riuscito ad ottenere un bel finanziamento per
la casa dei Gesù Bambini.
E’ strabiliante ascoltare Don Mario mentre racconta la sua storia, dove ogni cosa ha un senso, ogni
sofferenza pare avere un significato, ogni dolore pare avere una speranza.
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La diaspora cristiana e la messa degli ulivi nella valle del Cremisan
Ma la Hogar “Niño Dios” non è la sola passione di Don Mario e nel salone della Casa, tra una carezza ad un
bimbo di passaggio ed un abbraccio ed un sorriso dispensati a tutti i piccoli che vengono a pretendere la
loro dose di attenzione, Don Mario ci racconta dei suoi ulivi e della valle del Cremisan.
La valle del Cremisan è una verde vallata ricca di viti ed ulivi che si estende a ridosso dei confini del 1967,
tra Gerusalemme e Betlemme. E’ da sempre il cuore della comunità cristiana palestinese. I terreni della
valle ad est della Green Line sono di proprietà di 58 famiglie cristiane del villaggio di Beit Jala, di un
monastero salesiano e di un convento di suore. Nella valle, dopo il 1967, sui terreni espropriati alla
municipalità di Beit Jala, sono state già costruite due colonie: Gilo e Har Gilo, una a nord e l’altra a sud del
villaggio. Entrambe, come tutte le colonie costruite nei territori occupati, sono illegali per il diritto
internazionale. Gilo mi è nota di nome. Ne ho sentito parlare quando in Italia si è acceso lo sdegno per la
designazione da parte di Netanyahu di Fiamma Nirenstein, l’ex parlamentare del PdL, ad ambasciatrice
d’Israele a Roma. Una colona. Che ha appunto casa a Gilo. Don Mario continua il suo racconto.
Nel 2006, dopo la seconda intifada, con la scusa della sicurezza, l’autorità israeliana annunciò il progetto di
costruire l’ennesimo muro per separare il territorio israeliano dai territori occupati o sotto l’autorità
palestinese. In realtà il progetto del muro attraversava tutta la valle, discordandosi moltissimo da quelli
che sono i confini del 1967 ed incuneandosi profondamente nei territori occupati. Il disegno del muro
collegava definitivamente le due colonie illegali, trasformando di fatto l’occupazione in annessione ed
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isolando ancora di più Betlemme ed il villaggio di Beit Jala da Gerusalemme. Appena saputo del progetto le
58 famiglie, a cui si aggiunsero in seguito i salesiani e le suore, avviarono una lunga battaglia legale per
opporsi a ciò che di fatto, le avrebbe separate per sempre dai propri terreni. Dopo 8 anni di procedimenti
legali, nel mese di aprile 2015, la Corte Suprema di Israele ha rigettato il piano di costruzione del
muro presentato dal Ministero della Difesa, accogliendo le istanze dei ricorrenti e riconoscendo che si può
cercare un percorso alternativo e meno lesivo dei diritti dei proprietari della terra. La sentenza della Corte
Suprema è stata accolta da tutti come un miracolo. Per la prima volta, infatti, la Corte Suprema andava
contro il parere del ministero e dell’esercito ma purtroppo si trattava di una vittoria di breve durata. Don
Mario ci racconta che infatti il 6 luglio il tribunale ha annullato la decisione ed il 17 agosto, dieci giorni
prima della nostra visita, nonostante il fatto che i procedimenti giudiziari siano tuttora pendenti dinanzi
all’Alta Corte israeliana, l'esercito è arrivato senza preavviso a Beit Jala, accompagnato da ruspe e mezzi
pesanti ed ha iniziato a sradicare ulivi secolari che risalgono fino a 2000 anni fa ed a spianare le terre per la
costruzione del muro di separazione. Mentre racconta dei suoi ulivi e della sua gente don Mario perde
molta della sua compostezza. La condanna dell’ingiustizia dell’occupazione, degli espropri, delle ruspe, è in
ogni sua parola. Non ci nasconde che il fatto che il dietrofront dell’Alta Corte sia arrivato proprio dopo il
riconoscimento ufficiale da parte del Vaticano dello Stato di Palestina non gli sembra per niente un caso ed
il suo sdegno e la sua passione me lo rendono ancora più simpatico. Da quando hanno saputo dei progetti
israeliani i preti e le suore della valle hanno inventato la loro resistenza nonviolenta ed hanno deciso di
celebrare messa sotto gli ulivi minacciati di eradicazione e così ogni settimana prima, ed ogni giorno ora,
affrontano coloni e soldati a fianco delle famiglie palestinesi. Non è raro che la messa si concluda a suon di
lacrimogeni ma ognuno lotta come può -dice don Mario – e contro coloni e soldati israeliani armati di tutto
punto, noi spariamo le nostre Ave Maria
Mentre ascolto Don Mario penso con amarezza quanto l’informazione che raggiunge l’Italia e
probabilmente tuto il resto del mondo, sia assolutamente parziale e tendenziosa. Non si parla quasi mai dei
Palestinesi cristiani e della loro diaspora e gli occidentali tendono ad indentificare i Palestinesi e gli Arabi in
generale con i Musulmani. In realtà la situazione delle famiglie palestinesi cristiane non è assolutamente
dissimile da quella delle famiglie palestinesi musulmane. Ad Israele non importa di chi sia la terra. La vuole
e basta ed adotta le identiche strategie per costringere i proprietari, cristiani o musulmani che siano, ad
abbandonare con le buone o con le cattive la propria casa. Le parole ascoltate in questi giorni dai tanti
rappresentanti dei comitati popolari di resistenza nonviolenta, mi riecheggiano nella mente: non è una
guerra di religione. E’ una guerra di territorio. Non è una guerra tra musulmani ed ebrei. E’ uno Stato che
vuole un territorio ed un Popolo che non vuole morire.
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Il Muro
Prossima tappa, il campo profughi di Aida. Il campo profughi di Betlemme dove dal 1950, i profughi di 17
villaggi spazzati via dalla nascita di Israele, attendono di poter tornare alle proprie case. Il campo sorge
nell’area nord di Betlemme, in area A ma a ridosso dell’area C da cui è separato dal Muro. E’ da quando
sono arrivata in Palestina che vedo il Muro. L’ho visto a Gerusalemme. L’ho visto in Cisgiordania. L’ho visto
serpeggiare nelle valli che attraversavamo con il pullman. Il Muro, cioè la barriera di separazione voluta da
Sharon dopo la seconda Intifada, che dovrebbe servire a proteggere gli Israeliani dagli attacchi dei
Palestinesi e che dovrebbe ricalcare la linea verde, cioè la linea di armistizio del 1949 tra Giordania ed
Israele. In realtà già sappiamo che delle centinaia di chilometri, ben pochi, forse il 15% rispetta
effettivamente la Green Line. Il Muro si insinua prepotentemente nel territorio palestinese, rubando
chilometri e chilometri di terra, quasi sempre la più verde e la più fertile e separando per sempre intere
famiglie da proprietà e negozi. Ora per la prima volta ce l’ho davanti a portata di mano. E’ altissimo. Mani
ignote lo hanno decorato con graffiti, disegni, scritte, fin dove ci si può spingere con le braccia e pure più
su. Se non sapessi che cos’è, lo troverei bello. Enormi murales colorati, messaggi di pace e di lotta, in tutte
le lingue e di tutte le dimensioni. Moltissimi inneggiano alla Pace, all’Amore, alla Libertà. Non c’è quasi più
un centimetro di cemento libero. Come se chiunque passando di qua, volesse lasciare un segno. Non
pensavo un muro potesse urlare ed invece, davanti a quei colori, a quei disegni, a quei messaggi, sembra
che le parole scritte si stacchino dal muro ed urlino nel desiderio di riempire il silenzio assordante che ha
permesso tutto questo.
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Il campo profughi di Aida e le chiavi di casa nel cassetto di migliaia di profughi che attendono il ritorno.
Il campo profughi di Aida fu realizzato nel 1950 per accogliere i profughi dei villaggi tra Gerusalemme ed
Hebron cancellati dalla nascita di Israele. All’inizio fu dichiarato zona franca ed ai profughi fu promesso che
la permanenza nel campo sarebbe stata temporanea e che appena si fosse normalizzata la situazione,
avrebbero potuto tornare nelle loro case. Il campo occupava meno di un chilometro quadrato e diede
ospitalità a circa 1.200 persone. Nel 1956 l’UNRWA sostituì le tende con unità abitative in cemento.
L’intenzione era buona ma per coloro che speravano sempre in un ritorno a casa, fu l’inizio della fine.
Quella che doveva essere infatti una soluzione temporanea, cominciò a rivelarsi per quella che sarebbe
stata in realtà una soluzione definitiva. Oggi nello stesso chilometro quadrato di 65 anni fa vivono quasi
5.000 persone, in case che si accatastano le une sulle altre e che crescono in altezza , rendendo ancora più
anguste ed invivibili le strette vie che separano le abitazioni. Quando arriviamo al campo, il cancello di
ingresso mi dà una strana sensazione. Sono stata da poco ad Auschwitz e davanti all’ingresso del campo di
Aida non posso impedirmi di pensare quanto gli ingressi delle prigioni si assomiglino tutti. Un’enorme
chiave sovrasta il cancello. Mike ci spiega che la chiave è il simbolo del ritorno. Quando i palestinesi
scapparono dalle loro case, pressati dall’esercito israeliano che cancellava villaggio dopo villaggio, tutto ciò
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che esisteva su quello che si era deciso diventasse lo Stato di Israele, tra le poche cose che riuscivano a
portare via, la più preziosa era la chiave di casa, di quella casa in cui pensavano di fare ritorno. Tutti gli
800.000 palestinesi che furono costretti da un giorno all’altro ad abbandonare la propria casa, la propria
vita, portarono con sé la chiave di casa ed ora quell’enorme scultura che sovrasta il cancello del campo
profughi di Aida sta là a ricordare a tutti che finché non verrà riconosciuto il diritto al ritorno a chi è stato
costretto con la forza a lasciare tutto, non ci potrà essere né giustizia né pace.
Il campo profughi di Aida, così come quello di Balata e come ogni altro campo profughi è una delle ferite
aperte di questa terra. Le migliaia di persone che furono costrette ad abbandonare le proprie case, vivono
ammassate in pochi metri quadrati, quasi sempre senza alcuna speranza di trovare un lavoro e ancora
meno di studiare. Vivono praticamente di sussistenza e nei campi la mafia locale regna sovrana, speculando
su povertà e mancanza di istruzione. Questo ce lo raccontano i volontari dei centri sociali che in ogni campo
cercano di creare una parvenza di normalità per bambini ed adolescenti ma non nascondono che ogni
giorno è più difficile. Dopo la seconda intifada (settembre del 2000) la situazione ad Aida è diventata ancora
più drammatica. Durante l’intifada, infatti, il campo fu chiuso completamente ed i bambini non potettero
frequentare la scuola per mesi e mesi. Molti adolescenti furono arrestati, come è uso in Israele, perdendo
mesi, quando non anni, di scuola. Quei bambini e quegli adolescenti sono i i ragazzi ed i giovani di oggi che
non hanno alcuna possibilità di trovare un lavoro e che sono facile preda della malavita locale che ne fa
manovalanza. Nel 2003, per annettere allo Stato di Israele quella che è considerata la tomba di Rachele, che
sorge proprio vicino al campo, è stato prolungato il muro di separazione voluto da Sharon dopo l’intifada
del 2000 ed ora il campo è chiuso su due lati dall’enorme muro di cemento che contribuisce non poco a
farlo sembrare una vera e propria prigione a cielo aperto.
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Il campo di Aida, come tutti i campi profughi, è visto dalle autorità israeliane come terreno di caccia.
Nonostante sia in zona A, quella cioè sotto il pieno controllo arabo, in realtà i soldati israeliani entrano a
tutte le ore per effettuare rastrellamenti e perquisizioni e non è raro, purtroppo, che dalle torrette di
guardia che sorvegliano il muro e che sovrastano il campo, cecchini sparino su strade e passanti. Dal tetto
della casa dove ci ha portato la nostra guida, si vede l’edificio scolastico all’interno del campo, di proprietà
delle Nazioni Unite. Il volontario ci fa notare le finestre murate. I colpi dei cecchini infatti arrivavano anche
là ed ora i bambini di Aida non hanno diritto neanche più alla luce ed all’aria mentre fanno lezione.
La scuola di musica nel campo profughi di Aida
Andiamo a visitare la scuola di musica. Finalmente possiamo sorridere e rilassarci di fronte ai visi solari dei
volontari, residenti del campo ed internazionali. La scuola di musica è solo una della iniziative che i
volontari riescono a mandare avanti nel centro sociale che gestiscono. Nato come un asilo, oggi accoglie
tante attività, dalla musica al teatro, dal doposcuola per i piccoli al centro di ascolto per le donne. I
volontari cercano di offrire ai rifugiati del campo, soprattutto ai bambini, qualche ora di apparente
“normalità”.
Sono felice di poter finalmente consegnare gli strumenti musicali che alcune volontarie pacifiste ci avevano
affidato a Roma prima di partire. Io trasportavo un clarinetto, altri miei compagni di viaggio hanno portato
un violino, dei bonghi, un flauto dolce e delle nacchere. E pensare che prima di partire, trasportare quel
clarinetto mi aveva messo addosso un’ansia pazzesca perché non sapevo come giustificarne il possesso!
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Durante la visita al campo profughi di Aida, il rappresentante del comitato locale di resistenza nonviolenta,
ci parla di un altro aspetto della tragedia palestinese: l’assuefazione al campo. Molti ormai sono quelli nati
e cresciuti nei campi profughi. Gli anziani sono quasi tutti morti. I giovani non conoscono altro che la loro
condizione di profugo. Non c’è lavoro. Non c’è speranza di tornare nelle proprie case. La risposta di chi non
si rassegna a tutto questo può essere soltanto di due tipi: armata o nonviolenta. I comitati popolari che
abbiamo incontrato sono tutti impegnati nella resistenza nonviolenta, perché credono che sia la sola che
può dare un risultato. Non raccolgono le continue provocazioni dei coloni e dei soldati, perché sanno che è
proprio quello che vuole Israele per avere il pretesto per spazzarli via. Il loro motto è: Esistere per resistere,
Resistere per esistere. Li ammiro e davvero mi chiedo quanto potrà durare la loro determinazione a non
reagire in maniera violenta. Le loro case sono ancora là, aldilà di un muro di cemento. Le possono vedere,
passando, con le finestre aperte e le piante sui balconi ed i nuovi proprietari dentro. E’ umano sopportare
senza reagire tutto questo? Quanti di noi ne sarebbero capaci? Eppure la condanna sale immediata ed
unanime dal mondo occidentale quando qualcuno ogni tanto reagisce e se ai lanci di pietre dei giovani
Palestinesi, Israele risponde con il fosforo bianco, mbhè, se la sono cercata.
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La Basilica della Natività
Lasciato il campo di Aida abbiamo il pomeriggio libero e certo non posso lasciare Betlemme senza aver visto
la Basilica della Natività. Con alcune delle mie compagne mangiamo in un ristorantino proprio sulla piazza e
continuo a rimanere stupita di quanto mi piaccia mangiare qui, nonostante le spezie e l’abbondanza di
verdure che normalmente non gradisco affatto.
La basilica della Natività ha un ingresso talmente piccolo ed anonimo che prima di convincerci ad entrare,
dobbiamo chiedere conferma che sia proprio l’entrata della Basilica. In effetti la povertà della porticina
laterale di accesso e le sue ristrette dimensioni che quasi ti obbligano a chinare il capo per entrare, sono
volute, affinché i fedeli siano costretti ad assumere un atteggiamento di umiltà nell’entrare.
All’interno ci accoglie un’ampia sala tenuemente illuminata. Dappertutto transenne e ponteggi. La basilica è
in fase di restauro e mi fa piacere venire a conoscenza che è un’impresa italiana che collabora ai lavori. La
sala principale è abbastanza ampia e piena di angoli suggestivi. Non posso non correre col pensiero a quello
che successe qui nell’aprile/maggio del 2002 ed alle centinaia di persone che furono assediate in questo
luogo di fede per un mese e mezzo. Ancora non riesco a credere quanto poco scalpore e scandalo fece
quello che è passato alla cronaca come l’assedio della Basilica della Natività, durante la seconda Intifada,
quando l’esercito israeliano entrò con i carri armati sulla piazza della Natività, inseguendo quelli che per
loro erano terroristi. Un centinaio di Palestinesi trovò rifugio nella Chiesa dove resistette 39 giorni insieme e
grazie anche ad una quarantina di Francescani e Suore. Una storia incredibile di solidarietà e fratellanza tra
cristiani e musulmani che avrebbe dovuto sconvolgere il mondo e che invece fu ovattata, mistificata, persa
tra tante notizie più interessanti ed importanti e poi presto dimenticata e relegata in un angolo della
memoria. Chissà se entrassero i carri armati a piazza San Pietro, come reagirebbe il mondo.
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La Grotta della Natività
Dalla Cappella principale una stretta scala permette l’accesso alla Grotta della Natività. Saremo almeno un
centinaio di persone che, più o meno ordinatamente, ci stringiamo in un imbuto per accedere in piccoli
gruppi alla Grotta. Con noi un coloratissimo gruppo di almeno una cinquantina di fedeli, probabilmente
Africani. Indossano tutti tuniche e giacche sgargianti, viola ed oro. Sono tutti piuttosto abbondanti di stazza
e siamo veramente tanti in quel piccolo spazio ma tutti procediamo con molto ordine e rispetto ed è
bellissimo essere immersa in tutto quel colore. Mi sembra all’improvviso di essere catapultata in un coro di
Gospels. Finalmente scendo l’ultimo gradino della piccola scala e mi ritrovo nella Grotta della Natività.
Nonostante il mio ateismo, confesso che sono emozionata. In un angolo una stella lucente sul pavimento
segna il punto dove la tradizione cristiana vuole sia venuto alla luce il piccolo Gesù. Poco più in là il punto
dove sarebbe stata la mangiatoia in cui Maria adagiò il Piccolo appena nato. E’ strano che questo spazio
così piccolo sia affidato a due congregazioni diverse. Infatti qui convivono a stretto contatto di gomito i
custodi greco-ortodossi ed i francescani, ai quali è affidata la cura e la custodia distintamente dei due posti.
Non è raro, da quello che so, che le divergenze teologiche si traducano in scontri piuttosto focosi e mi viene
da sorridere mentre mi guardo intorno, pensando alle tonache impegnate in accesi incontri di boxe. Poi
anche qui, come mi è successo nella chiesa del Santo Sepolcro, mi ritaglio un paio di minuti per pensare a
me ed a quanto sono fortunata a stare qui, in questo momento.
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Il chiostro esterno alla Grotta della Natività di Betlemme. Quiete e pace che molto contrastano con la realtà
di un’occupazione che non si fa scrupolo di entrare con i carri armati sulla piazza della natività quando
meglio crede
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28 agosto – ultimo giorno Jaffa
Lasciamo l’albergo di Betlemme per l’ultima volta. Destinazione Jaffa. La nostra guida è di nuovo Mike. Fa
un caldo appiccicoso e l’idea che non potrò cambiarmi prima di prendere l’aereo è abbastanza deprimente.
Jaffa è in territorio israeliano. Praticamente è la prima volta che mi trovo a passeggiare in una cittadina
israeliana. Jaffa fu l’ultima città conquistata dall’esercito israeliano nel 1948. 70.000 palestinesi, cristiani o
musulmani che fossero, che abitavano là da generazioni, furono cacciati dalle loro case per fare spazio al
nuovo Stato deciso dalla comunità internazionale. Il primo
campo profughi che abbiamo visitato, quello di Balata, per
molti di loro dal 1948 è tutto ciò che hanno. Jaffa nel 1948
era una delle città palestinesi più ricche ed importanti . Il suo
grande ed attrezzatissimo porto era infatti uno snodo
cruciale per i pellegrini diretti in Terra Santa ed il commercio
prosperava. Gli arabi che vivono oggi a Jaffa si arrabattano
vendendo falafel e tappeti ai turisti che vengono qui a
villeggiare per il bel mare, quasi sempre ignari di stare
passeggiando per le vie di una della più antiche cittadine
della Cisgiordania. La città vecchia è molto caratteristica, col
suo continuo saliscendi di stretti vicoli che costeggiano
botteghe di artisti che espongono le loro opere in vetrina.
Ceramiche, pietre, gioielli ma soprattutto creazioni artigianali
uniche perché qui hanno preso la residenza, nelle case che
una volta erano dei palestinesi, molti artisti israeliani. “Gli
artisti, a volte, riescono a essere davvero sensibili! “
scrive Suad Amiry nel suo libro “Sharon e mia suocera” . Ho
la memoria del cellulare piena e non posso scattare più foto
ed è un vero peccato perché la città offre molti squarci
panoramici caratteristici che varrebbe la pena di
immortalare. Consumo gli ultimi byte per una foto ricordo
sulla piazza antistante il porto, sui cui ciottoli sono riportati i
nomi dei maggiori porti del mondo, con l’indicazione della
loro distanza da qui.
Il viaggio è finito.
Avrei milioni di dettagli da aggiungere ma spero di avervi almeno incuriosito e che magari decidiate di
approfondire il lacunosissimo racconto che ho fatto.
Una cosa mi preme dire e la ripeterò fino a sfinire chi mi ascolta:
dovunque siamo andati, chiunque abbiamo incontrato, ci è stato chiesto soltanto di tornare nelle nostre
città e raccontare ciò che abbiamo visto e soprattutto di spiegare a tutti che l'occupazione Israeliana dei
territori palestinesi non è un conflitto tra ebrei e musulmani ma un conflitto per la conquista di un
territorio. Non è una guerra di religione ma una guerra di territorio in cui un gigante schiaccia un topolino.
Non è un “conflitto tra le parti” ma un’occupazione. La pulizia etnica della Palestina da parte del governo
Israeliano, cominciata nel 1948 con 800 mila persone cacciate dalle loro terre, 531 villaggi distrutti, 40 mila
palestinesi uccisi non si è mai fermata. Oggi prosegue senza sosta, alternando le varie “operazioni
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difensive” che impiegano l’esercito meglio armato dl mondo contro i razzi e i sassi palestinesi, alle strategie
meno evidenti ma altrettanto devastanti quali la privazione dell’acqua, del lavoro, della terra, della
possibilità di costruire case, della difficoltà di andare a scuola, delle leggi razziali, dell’impossibilità di vivere
una vita dignitosa.
La resistenza civile non violenta, dopo 67 anni di occupazione ed apartheid è l'unica strada e l'unica
speranza. Ci hanno pregato di testimoniare, fotografare, raccontare, aderire alla campagna di boicottaggio
e sanzioni affinché la pressione dell’opinione pubblica possa porre fine al più presto all'occupazione. Se vi
va, fatelo anche voi.
Fine del racconto
Enza Raso
AssopacePalestina è l’Organizzazione con la quale sono partita e grazie alla quale ho potuto vedere con i
miei occhi ciò che ho raccontato. Nessun diario, nessun filmato, nessun documento potrà mai darvi ciò che
vi dà un viaggio di questo tipo. Ogni anno, dal 1988, AssopacePalestina dà a tutti questa opportunità con i
suoi viaggi e con la sua incredibile accompagnatrice, Luisa Morgantini. Informatevi per il prossimo viaggio
scrivendo a [email protected]
Andate, guardate, tornate, raccontate.
Grazie Assopace. Grazie Luisa
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