le missioni estere di angelo ramazzotti - Atma-o

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le missioni estere di angelo ramazzotti - Atma-o
LE MISSIONI ESTERE DI
ANGELO RAMAZZOTTI
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STORIA E VITA MISSIONARIA
Collana diretta da P. Piero Gheddo
Ufficio Storico del Pime - Via F.D. Guerrazzi, 11
00152 Roma - Tel. 06.58.39.151
1 - Piero Gheddo, Missione Brasile. I 50 anni del Pime nella Terra di
Santa Croce (1946-1996), pagg. 384 + 32 fotografiche, L. 25.000
2 - Paolo Manna, Virtù apostoliche, pagg. 460, L. 30.000
3 - Piero Gheddo, Dai nostri inviati speciali. 125 anni di giornalismo
missionario da Le Missioni Cattoliche a Mondo e Missione (1872-1997),
pagg. 124, L. 11.000
4 - Piero Gheddo, Missione Amazzonia. I 50 anni del Pime nel Nord
Brasile (1948-1998), pagg. 484 + 32 fotografiche, L. 30.000
5 - Giuseppe Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre
mondiali, pagg. 334, L. 30.000
6 - Piero Gheddo, Missione America. I 50 anni del Pime negli Stati Uniti,
Canada e Messico (1947-1997), pp. 176 + 16 fotografiche, L. 18.000
7 - Piero Gheddo, Missione Bissau. I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau
(1947-1997), pagg. 464 + 32 fotografiche, E 14,46
8 - Amelio Crotti, Noè Tacconi (1873-1942), il primo Vescovo di Kaifeng
(Cina), pagg. 368, L. 30.000
9 - Mauro Colombo, Aristide Pirovano (1915-1997), il Vescovo dei due
mondi, pagg. 384 + 32 fotografiche, L. 30.000
10 - Piero Gheddo, Pime, 150 anni di missione (1850-2000), pagg. 1230,
E 25,82
11 - Domenico Colombo (a cura di), Pime (1850-2000). Documenti di
fondazione, pagg. 462, E 15,49
12 - Piero Gheddo, Il santo col martello. Felice Tantardini, 70 anni di Birmania, pagg. 240 + 16 fotografiche, E 10,33
13 - Angelo Montonati, Angelo Ramazzotti Fondatore del PIME (18001861), pagg. 224 + 8 fotografiche, E 10,33
14 - Piero Gheddo, Paolo Manna (1872-1952), Fondatore della Pontificia
Unione Missionaria, pagg. 400 + 4 fotografiche, E 14,46
15 - Pino Cazzaniga, Giappone missione difficile. I 50 anni del Pime nel
Paese del Sol Levante, pagg. 304 + 16 fotografiche, E 13,00
16 - Amelio Crotti, Gaetano Pollio (1911-1991), Arcivescovo di Kaifeng
(Cina), pagg. 186 + 32 fotografiche, E 13,00
Volumi di prossima pubblicazione:
17 - Piero Gheddo, Carlo Salerio, Missionario in Oceania e Fondatore
delle Suore della Riparazione (1827-1870)
AUTORI VARI
LE MISSIONI ESTERE
DI ANGELO RAMAZZOTTI
Radici storiche e spirituali
Prefazione di Franco Cagnasso
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA
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Copertina di Bruno Maggi.
© 2002 EMI della Coop. SERMIS
Via di Corticella, 181 - 40128 Bologna
Tel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52
web: http://www.emi.it
e-mail: [email protected]
N.A. 1777
ISBN 88-307-1152-7
Finito di stampare nel mese di luglio 2002 dalla Grafica Universal
per conto della GESP - Città di Castello (PG)
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«Doniamo almeno amore a tutti
e potremo dirci figli di Dio»
(dalla Lettera pastorale di mons. Ramazzotti
scritta per la Quaresima del 1857)
PREFAZIONE
Il secondo centenario della nascita del fondatore e il centocinquantesimo anniversario della fondazione, entrambi celebrati nel
2000, sono stati per i missionari del Pontificio Istituto Missioni
Estere (PIME) l’occasione che ha portato alla riscoperta di una
parte importante della loro storia.
Durante gli anni del post-concilio, essi si sono impegnati soprattutto nel rinnovamento della missione e, in misura minore, in
quello dell’organizzazione del loro istituto.
Era giusto dare priorità a questo impegno, tuttavia il passato
era rimasto troppo in ombra. Le generazioni più giovani lo conoscevano poco e – tese a guardare avanti per rispondere ai molti e
rapidi mutamenti dei paesi in cui operano e della missione – non
sentivano il bisogno di esplorarlo.
Gradualmente, in questi ultimi anni è cresciuta però l’attenzione alle fonti, con il desiderio di conoscere meglio le proprie
radici. Oltre alle due importanti date appena ricordate, hanno contribuito a questa maturazione vari altri elementi.
Diverse comunità stanno compiendo i 50 anni della loro presenza in alcuni paesi (Brasile 1946, Guinea-Bissau e Stati Uniti
1947, Amazzonia 1948, Giappone 1950) e ciò le spinge a confrontarsi con la loro storia anche per capire come impostare il futuro.
L’iter di studio e ricerca per la beatificazione di padre Paolo
Manna è stato concluso e la beatificazione approvata (il 4 novembre 2001 Giovanni Paolo II ha beatificato padre Paolo Manna,
ndr), risvegliando interesse per i tempi in cui padre Manna è vissuto e gli avvenimenti in cui ha avuto parte.
Il 1° ottobre 2000 padre Alberico Crescitelli, ucciso in Cina
cento anni prima, è stato proclamato santo e il fatto si è aggiunto
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ad altri che tengono desto l’interesse del PIME per la Cina sia del
presente come del passato.
Padre Piero Gheddo, che da circa 40 anni era alla direzione
del mensile «Mondo e Missione», nominato direttore dell’Ufficio
storico del PIME nel 1994, ha dato un forte impulso alla ricerca e
a pubblicazioni curate direttamente da lui con l’ufficio stesso, o
incoraggiando e sostenendo il lavoro di altri.
Il ritorno alla propria storia è sollecitato anche dal progressivo
internazionalizzarsi del PIME: giovani di altri paesi sentono la
necessità di studiare le origini di questo istituto, per molto tempo
esclusivamente italiano, di cui fanno parte. Non si tratta soltanto
di interesse culturale, ma di una vera e propria ricerca sul carisma
e sulla spiritualità che danno alla nostra «famiglia di apostoli»
(come amiamo descriverci) le caratteristiche che la distinguono.
Studiando il nostro passato, ci stiamo rendendo conto che un piccolo gruppo di uomini che operano perlopiù lontani dai riflettori della cronaca e in luoghi remoti, considerati di scarsa importanza, può in
realtà incidere profondamente sulla storia dei popoli.
Dal 1850 a oggi il PIME ha accolto non più di 1.700 uomini
circa, a cui vanno affiancate le Missionarie dell’Immacolata, di più
recente fondazione (1936). Sono pochi, ma la loro opera ha permesso la fondazione di numerose Chiese locali in Cina, Hong Kong,
India, Birmania e Bangladesh e un consistente rafforzamento di
altre in Brasile, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Thailandia, Filippine, Giappone, Papua-Nuova Guinea, Cambogia,
Messico, Taiwan. Si tratta perlopiù di Chiese vive e ricche non
solo di fedeli ma anche di opere sociali, culturali, caritative spesso
notevoli.
E in Italia?
Il PIME fin dalla sua origine ha sempre fatto ogni sforzo per
mantenere le sue caratteristiche, una delle quali consiste nel ritenersi un’organizzazione – se così si può dire – di supporto, non
totalizzante. Si considera uno strumento, il più agile e leggero possibile, di cui le Chiese locali possono servirsi per adempiere al loro
compito di svolgere la missione ad gentes, cioè ai non cristiani, e
all’estero. Ancora oggi, chi entra nell’istituto sa che dovrà partire,
anche se il suo paese di origine è a maggioranza non cristiana.
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Per questo motivo, la presenza del PIME in Italia non si è mai
espressa con opere pastorali di carattere generale (parrocchie, scuole, opere sociali o culturali) ma si è sempre volutamente limitata
ad attività e opere che siano in strettissimo rapporto con il fine
dell’istituto, cioè le missioni ai non cristiani e all’estero. Il PIME è
sviluppato, in particolare, nei campi della comunicazione, della
formazione per seminaristi e laici che vogliono partire, dell’animazione missionaria e del supporto logistico, economico, culturale e spirituale ai membri che operano in altri paesi.
Siamo e vogliamo continuare a essere strettamente legati alle
Chiese in Italia, «specializzandoci» sempre meglio nel compito
che esse hanno di evangelizzare le genti, così come altre istituzioni
si specializzano nel campo della salute o dell’educazione giovanile, dell’emarginazione sociale, ecc.
Questa presenza limitata e con obiettivi precisi non ci rende
però estranei alla realtà italiana, come desideriamo che non ci renda estranei ad altri paesi da cui ora provengono molti nuovi membri. Al contrario, ci costringe a innestare profondamente ciò che
facciamo nel tessuto della realtà ecclesiale, perché se così non facessimo non saremmo noi stessi e, mancando di spazi nostri, perderemmo immediatamente il terreno in cui operare.
Ciò è facilmente riscontrabile anche dalla lettura di questo volume, frutto di una giornata di studio organizzata al Centro missionario del PIME di Milano il 28 ottobre 2000, e curato da padre
Massimo Casaro, direttore del Museo dei Popoli e delle Culture e
dei programmi culturali a esso collegati.
Indagando su ciò che ha portato alla fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, sul contesto storico in cui
esso è sorto e sulla figura di mons. Angelo Ramazzotti, il fondatore, ci siamo accorti di quanti e quanto interessanti siano i nostri legami con la storia di Milano e dell’Italia, e allo stesso tempo di come la nascita di questo istituto che pure è rimasto numericamente limitato sia stata significativa e continui ad esserlo per
la Chiesa italiana.
La maggior parte dei nostri uomini ha operato e opera altrove,
e ciò significa che sono in certo qual modo espressione di una
nostra capacità di allargare gli orizzonti, di adattarci, di «esporta9
re» quella fede che tanto ha inciso nella nostra storia. Allo stesso
tempo però comporta anche un «ritorno», culturale e spirituale,
di non poco conto. La Chiesa e la società lombarda prima e poi
italiana sarebbero diverse se non avessero saputo inviare tanti «ambasciatori» di pace, solidarietà, interesse per gli altri, accoglienza
della parola evangelica per cambiare la vita.
Questo volume, ben documentato, è interessante per ciò che
racconta e anche appassionante: aiuta a capire che la missione è
davvero elemento vitale per la Chiesa e anche per una società
civile.
Milano, ottobre 2000
P. FRANCO CAGNASSO
Superiore generale del PIME
Nell’anno 2000 la EMI ha pubblicato: Angelo Ramazzotti, Fondatore
del PIME (1800-1861), di Angelo Montonati (pagg. 224 + 8 fotografiche,
e 10,33), di cui sono uscite due edizioni.
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LA FIGURA E LA SPIRITUALITÀ
DI MONS. ANGELO RAMAZZOTTI
di Francesca Consolini
La fisionomia spirituale di una persona, soprattutto di un candidato alla santità, come nel caso di mons. Ramazzotti, non può
mai essere disgiunta dalla sua vita. Se vogliamo delineare le linee
portanti di questa spiritualità, possiamo definirle così:
– amore alla preghiera e in particolare all’Eucaristia;
– obbedienza indiscussa al Papa e alla Chiesa;
– spirito missionario;
– carità organizzata;
– stile di vita povero e amore alla verità.
Questi tratti dello spirito non possono però essere disgiunti
dalla sua vicenda umana, anzi è in essa che si incarnano, prendono
consistenza e, nel caso di un fondatore, si trasmettono alla propria
famiglia religiosa costituendone il carisma.
Mons. Angelo Ramazzotti che, in questa sede, viene oggi ricordato soprattutto come fondatore del Seminario Lombardo per le
Missioni Estere, fu anche uno dei più grandi vescovi del Regno
Lombardo-Veneto, prima dell’unità di Italia e prima del Concilio
Vaticano I.
La sua vicenda terrena si può suddividere in quattro momenti:
– gli anni giovanili dalla nascita (1800), al sacerdozio (1829);
– la permanenza fra gli Oblati Missionari di Rho dal 1829 al
1850, con la fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni
Estere;
La dott.ssa Francesca Consolini è postulatrice di varie cause di Servi e
Serve di Dio; collabora inoltre con l’Ufficio delle cause dei santi della diocesi di Milano e di altre curie vescovili. È autrice della Positio super virtutibus
del Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti.
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– l’episcopato a Pavia dal 1850 al maggio 1858;
– il patriarcato a Venezia dal 1858 alla morte, il 24 settembre
1861.
Angelo Francesco Ramazzotti nasce a Milano il 3 agosto 1800
da Giuseppe Cristoforo e Giulia Maderna, entrambi originari di
Saronno. Ricevette la sua prima formazione scolastica ed umana in
una Milano che stava attraversando un non facile periodo di assestamento politico, soprattutto fra gli anni dal 1800 al 1809, anno nel
quale il Ramazzotti venne ordinato sacerdote ed entrò fra gli Oblati
Missionari di Rho. Sono sufficienti brevi cenni per illustrare la situazione della diocesi ambrosiana di quel tempo: il 2 giugno 1800
Napoleone Bonaparte, primo console, fece il suo ingresso trionfale
in Milano, promettendo tolleranza e libertà. L’arcivescovo era l’ottuagenario mons. Filippo Maria Visconti che morì il 30 dicembre
1801 a Lione, dove partecipava alla Consulta straordinaria, promossa da Napoleone e organizzata dal ministro Talleyrand, allo scopo di riordinare gli affari della seconda Repubblica Cisalpina.
I lavori della Consulta proseguirono fino alla stipulazione del
Concordato del 1803 fra la Repubblica francese e la S. Sede. La
Repubblica Cisalpina doveva seguire le sorti della Francia: trasformatasi questa in impero, essa divenne Regno Italico. Le vicende conseguenti a questo cambiamento sono note: la storica incoronazione con la «corona ferrea» di Napoleone nel duomo di Milano il 26 maggio 1803; il malcontento generale della Chiesa per le
ingerenze del potere civile nelle questioni religiose; la diffusione
del Catechismo imperiale; la sempre più massiccia opera di soppressione delle corporazioni religiose e il conseguente incameramento dei beni ecclesiastici. L’azione debole e troppo ossequiente
a Napoleone dell’arcivescovo mons. Caprara, quasi mai in sede,
che viveva abitualmente a Parigi come legato a latere dell’imperatore, non aveva fatto che aumentare il malcontento. Alla caduta di
Napoleone seguirono la restaurazione austriaca e l’elezione nel
1818, dopo la reggenza del vicario capitolare mons. Carlo Sonzini, di un grande arcivescovo: mons. Carlo Gaetano Gaisruck. Sotto di lui, la Chiesa ambrosiana riacquistò gradatamente un certo
equilibrio; pur essendo di origine austriaca, infatti, il nuovo arci12
vescovo si sentiva soprattutto pastore della Chiesa milanese e sapeva porre un freno deciso alle pretese ingerenze del potere civile.
È da sottolineare che mons. Ramazzotti non ebbe a risentire
molto della situazione politica che si rifletteva anche negli ambienti ecclesiastici; scelse infatti la via del sacerdozio nel 1825 e
compì gli studi teologici sotto l’arcivescovo Gaisruck che ebbe
molto a cuore la preparazione dei suoi preti, tanto che, come scrive il Visconti Venosta, «si formò in Lombardia un clero colto, stimato e amato che seppe più tardi immedesimarsi nella vita del
popolo e nelle aspirazioni nazionali». Quest’ultima affermazione
non vale però per mons. Ramazzotti, morto nel 1861; egli non fu
mai attratto dalle vicende politiche; si preoccupò invece, e molto,
delle conseguenze che guerre e sollevazioni riversavano sulla popolazione più povera; egli fu sempre fedele all’idea del potere temporale del papa come garanzia di libertà religiosa e all’Impero austro-ungarico, del quale, pur difendendo i diritti della Chiesa, si
sentiva un suddito fedele.
Formazione scolastica e sacerdotale
Compiuti gli studi primari e liceali, prima presso il Collegio
Viglezzi di Saronno, poi in quello di Gorla Minore e quindi al Collegio Longone e poi in quello di S. Alessandro di Milano retti dai
Barnabiti, passò alla facoltà di legge della Regia Università di Pavia
dove si laureò nel 1823. Ottimo studente dal lato del profitto e della
disciplina, sembra non risentire affatto dei moti risorgimentali che
infiammano la maggior parte dei suoi compagni, molti dei quali
abbandonano gli studi e prendono parte ai moti piemontesi del 1821:
fatto insolito per i tempi, egli sembra disinteressarsi completamente
degli avvenimenti politici che accadono attorno a lui, atteggiamento che sarà caratteristico della sua personalità; per tutta la vita si
sarebbe dimostrato soprattutto un pastore, preoccupato solo del
bene della sua gente, fautore di conciliazione e di pace.
La fonte principale dalla quale attingere per conoscere l’intimo di mons. Ramazzotti è la biografia scritta solo qualche mese
dopo la sua morte da don Pietro Cagliaroli; questi era il segretario
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di mons. Ramazzotti, lo aveva seguito a Pavia e poi a Venezia,
condividendo ogni sua fatica ed ogni suo ideale; era profondamente amico del vescovo il quale spesso gli confidava i suoi pensieri più intimi, le sue riflessioni ed anche alcuni preziosissimi ricordi; negli ultimi anni di vita del Ramazzotti, il Cagliaroli fu anche suo confessore e, in questa veste, oltre che come amico, lo
assistette nella sua ultima malattia e al momento della morte. Volendone poi scrivere la biografia, don Cagliaroli condusse una
approfondita indagine presso amici, compagni e conoscenti di
mons. Ramazzotti, raccogliendo una serie di preziose testimonianze, aiutato in questo lavoro da padre Angelo Taglioretti, oblato di
Rho anch’egli amico del Ramazzotti e suo collaboratore nella fondazione del Seminario Lombardo.
Quanto al Ramazzotti studente universitario, il Cagliaroli, sulla base delle testimonianze raccolte, lo descrive come un giovane
di sani ed onesti costumi; si distingue per una certa signorilità di
tratto e moderazione nel parlare che lo fanno rifuggire da ogni
volgarità; apprezza l’amicizia cordiale e sincera; è attento nell’osservanza delle pratiche religiose, dei precetti e delle astinenze, ma
non è bigotto e manifesta la sua fede senza rispetto umano; dimostra, fin da allora, molta attenzione verso i poveri.
Dopo la laurea, dal 1823 al 1825 frequenta gli studi di due noti
legali milanesi per compiere il suo tirocinio. Nel 1825, quasi come
un fulmine a ciel sereno, comunica alla madre la sua intenzione di
farsi sacerdote. L’età matura, gli studi universitari già compiuti e
la serietà della sua vocazione gli consentono di frequentare come
alunno esterno il seminario teologico di Milano fino al sacerdozio,
ricevuto il 13 giugno 1829.
Missionario Oblato di Rho
Strettamente unita alla vocazione sacerdotale si manifesta in lui
quella missionaria; già al terzo anno di teologia si fa strada nel suo
animo «il desiderio di consumare tutta la vita nella santificazione
delle anime», non solo come prete; pensava quindi di ritirarsi in un
istituto religioso «per svincolarsi da ogni sollecitudine e cura di fa14
miglia», senza però rinunciare a quello che considerava il compito
principale del sacerdote: la predicazione. Sceglie quindi di far parte
degli Oblati Missionari di Rho proprio per la cura precipua che essi
mettevano nella predicazione popolare; la domanda di ammissione
presentata dal chierico Ramazzotti al termine del terzo anno di teologia venne accettata anche se la sua entrata fu differita a dopo l’ordinazione sacerdotale; il collegio di Rho era infatti formato da sacerdoti diocesani, già ordinati, caratteristica che il Ramazzotti trasferirà nel suo Seminario per le Missioni Estere. Il giorno stesso
della sua ordinazione, nel pomeriggio, il Ramazzotti entrò nel collegio dei missionari di Rho. Questi erano stati fondati dal Servo di
Dio Giorgio Maria Martinelli, il quale completava, con la sua istituzione, quella già fiorente degli Oblati dei SS. Ambrogio e Carlo; il
collegio aveva sede presso il santuario della Madonna Addolorata
di Rho; come le altre istituzioni religiose, esso venne soppresso in
due riprese: da Napoleone nel 1798-1799 e insieme all’intera congregazione nel 1810. Il cardinale Gaisruck non aveva molta simpatia per gli Oblati di Rho e fu solo grazie all’azione di Ramazzotti, per
tre volte superiore del collegio, che l’arcivescovo nel 1839 approvò
il ripristino giuridico del collegio.
L’azione di mons. Ramazzotti come oblato di Rho risulta dalle
testimonianze dei suoi confratelli. Prima di tutto egli fu fedele alle
norme che regolavano il collegio e alle direttive del suo fondatore:
predicazione popolare, esercizi per il clero e le religiose; in più a
padre Ramazzotti fu affidata la predicazione della dottrina «che
per lunga consuetudine e con pieno beneplacito del parroco si
teneva nel santuario del collegio. E la veniva esponendo con quella precisione, popolarità e chiarezza che era tutta propria del suo
cuore, dei suoi lumi e della sua esperienza».
Al di là delle missioni, egli si sobbarcò poi il delicato compito
della direzione «di molti sacerdoti di quei dintorni e di altri luoghi
[...] a tutti mostravasi largo di ogni assistenza, anche per consigli,
onde poteano abbisognare ne’ loro rispettivi uffizi; così che non
sapevan finire di commendare la prudenza e saviezza di avvisi e di
regolamenti che attingevano all’amorevole sua direzione».
Secondo le prescrizioni della Norma venivano distinti due tipi
di missione: quelle brevi, chiamate anche «missioni di visita», per15
ché preparavano alla visita pastorale dell’arcivescovo e duravano
un giorno o due al massimo di predicazione, e le missioni vere e
proprie di due settimane, con la predicazione distinta per gli uomini, le donne, i fanciulli, le confessioni e comunioni generali.
Il registro Missioni ed esercizi dal 1793 al 1888, conservato nell’archivio del collegio di Rho, permette di conoscere dove e quando Ramazzotti predicò le missioni. Egli predicò 214 missioni, 35
delle quali sono da considerarsi missioni vere e proprie, e di non
meno di otto giorni le altre, in tutto il territorio della diocesi
ambrosiana di allora che si estendeva a territori ora appartenenti
alle diocesi di Novara, Como e al Canton Ticino. Le testimonianze dei confratelli e le relazioni dei parroci visitati dalla missione
ricordano che padre Ramazzotti era instancabile; egli si sobbarcava a qualsiasi fatica pur di riuscire nell’opera di riconciliazione e
conversione delle anime. Scrive don Cagliaroli:
Portavasi anche nella missione a confortare gli ammalati del paese,
ed ascoltare le confessioni, e animandoli alla pazienza per ogni maniera si studiava di aiutarli e consolarli. Né farò qui menzione dei
disagi tollerati da lui in molte di tali missioni, specialmente nelle parti
montuose della diocesi [...] Gli bisognava inerpicarsi su per balze e
dirupi e tenere angustissimi sentieri che gli esponevano a pericolo la
vita [...] fino a casolari che posti all’ultimo confine della diocesi s’alzavano sui gioghi di altissimi monti, non impaurito per rischi, non
vinto per istanchezza, costretto spesso a dividere un pane scarso coi
meschini abitanti, ricoverato nelle loro affumicate e fetide capanne,
questo vero angelo di Dio evangelizzava allegramente la pace, amministrava i SS. Sacramenti come se avesse dimorato fra le mura del suo
Collegio. E quanto più c’era da lavorare e patire, tanto meglio si chiamava contento il padre Ramazzotti.
Avvalendosi della sua formazione di avvocato si prestava anche a ricomporre liti che duravano da anni e a riportare la pace
nelle famiglie: «Le missioni si sarebbero dette propriamente la
vita della sua vita, tanto era ardentissimo e direi quasi irrefrenabile
il sentimento del bene onde era tutto animato. Mi attestano i
Padri che gli furono compagni che, finita una missione, avrebbe
voluto tosto incominciarne un’altra, e quando sulla lista dei
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destinatari alle missioni, non leggesse il suo nome, restava come
tutto mortificato».
Nell’animo di padre Ramazzotti però si faceva già strada la
chiamata a una missione più completa: quella ad gentes, che avrebbe
poi concretizzato nella fondazione del Seminario Lombardo per
le Missioni Estere.
Un suo confratello, padre Liborio Rossi, ricorda infatti che,
tornando al collegio dopo una missione, padre Ramazzotti spesso
gli diceva: «Immaginiamo di essere due missionari, di quelli dell’Oceania che vengono a casa dopo aver passato una giornata di
fame, di stenti, di stanchezza. Oh che gusto», e più volte tornava
sull’argomento della bellezza della vita spesa nella missione.
Padre Ramazzotti fu per tre volte superiore del collegio di Rho:
dal 1839 al 1841, dal 1841 al 1843 e dal 1847 al 1849, fatto eccezionale perché non era previsto che un superiore rimanesse tale
per due mandati consecutivi, ma tale fu la volontà del card. Gaisruck. Durante l’ultimo mandato egli si distinse per l’azione di
pacificazione che svolse, per conto del governo provvisorio, per
contenere la rivolta contro il governo austriaco nei paesi vicini a
Milano; come in altre circostanze non si schierò né da una parte
né dall’altra, ma si preoccupò che le conseguenze di tale rivolta
non rendessero ancora più difficili le condizioni dei contadini, per
i quali chiese al governo provvisorio la tutela di alcuni diritti contro i soprusi dei proprietari terrieri.
Di questo terzo mandato del padre Ramazzotti come superiore degli Oblati di Rho rimangono alcune belle testimonianze di
alcuni suoi confratelli che ne mettono in luce l’umiltà e la carità;
per padre Ramazzotti il vero missionario doveva essere santo; per
ottenere buoni frutti dalle loro fatiche «i missionari devono essere
santi per i primi». Ai confratelli era solito dire che i missionari
«devono essere umili, devoti, pazienti, amanti del vero desiderio
di piacere a Dio; devono essere mortificati, obbedienti alle loro
Regole, far bene la mezz’ora di meditazione alla sera, digiunare al
sabato, confessarsi due volte la settimana, avere un contegno che
spiri santità e pace interna».
Padre Ramazzotti non si accontentava del bene che faceva, ed
era già molto, come missionario di Rho: «Facciamo del bene e
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facciamolo davvero» era una esortazione che rivolgeva spesso ai
confratelli e ne dava l’esempio; secondo la testimonianza di don
Giovanni Salerio, fratello di padre Carlo che avrebbe poi fatto
parte del Seminario Lombardo e fondato le Suore della Riparazione, padre Ramazzotti viveva in vera povertà personale perché
con quanto poteva disporre di suo pagava l’affitto ad alcune famiglie indigenti; forniva di una conveniente dote le ragazze povere;
procurava lavoro a chi non ne aveva; era poi cordiale e sincero con
gli amici e si rammaricava quando, per ragioni di ministero, non
avrebbe potuto fare quanto avrebbe voluto, come curare personalmente i poveri, lavarli, accudirli.
Fin dai primi anni della sua attività come missionario di Rho, il
Ramazzotti si era prefisso di restituire ad un fine religioso l’ex
convento di S. Francesco a Saronno che suo padre aveva acquistato come bene ecclesiastico espropriato e che, nella divisione dei
beni, gli era pervenuto in proprietà. Vi aprì un oratorio maschile
come quelli che stavano fiorendo nelle parrocchie ambrosiane;
l’idea gli era venuta durante il mese di vacanza che i padri di Rho
trascorrevano in famiglia. Scrive il Cagliaroli:
Le osservanze del Collegio danno ai RR. Padri, nella stagione
autunnale, un mese di vacanza perché possano prendere quel sollievo che è necessario, onde riaversi delle fatiche sostenute durante l’anno. Ma del padre Ramazzotti si può affermare che non sapeva che
cosa fossero le vacanze; egli non fece mai viaggio di puro diporto, né
volle concedersi una ricreazione, un divertimento di sorta; ben metteva
a profitto il tempo che gli era lasciato libero, per fare ancora del bene.
Onde, portandosi a Saronno, dove aveva la sua casa patrimoniale,
ampio e comodo locale, chiamava a sé i poveri contadinelli del paese
e con grande pazienza e carità li veniva istruendo nelle verità religiose e si adoperava con calde esortazioni ad innamorarli della cristiana
virtù, conformandoli così al santo timore di Dio.
Pensò di rendere poi stabile questa istituzione; contemporaneamente e sempre a sue spese apriva nella stessa casa un orfanotrofio maschile di tipo familiare, affidato ad un sacerdote assegnatogli dall’arcivescovo. L’oratorio e l’orfanotrofio presero il
via la domenica 23 luglio 1837; per entrambi padre Ramazzotti
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stese un regolamento e provvide ad ogni spesa. Scrive il Cagliaroli
nel 1861:
Saronno ebbe ben presto a sentire i salutari effetti di questa istituzione perché i giovani tolsero a convenirvi in gran numero; se ne contavano sino a 300 e più e con tale amore vi si recavano che stimassero il
più grave dei castighi quello di esserne esclusi. Man mano che ne
miglioravano i costumi crebbe l’ardore della carità e massime nella
gioventù si strinsero i legami di tal vicendevole affetto da parere come
membri di una sola famiglia. Il padre Ramazzotti nei giorni in cui
poteva disporre di sé, faceva sentire la sua voce che era da tutti ascoltata con divota e filiale riverenza. Di tratto in tratto inviava eziandio
taluno dei Rev. Padri del Collegio a tenervi fervorosi ragionamenti
che riuscivano sempre a raffermare quei giovani nel retto sentiero
della virtù. E dodici si noverano i giovanetti di Saronno che, avviati
alla pietà, si determinarono ad abbracciare lo stato religioso. L’oratorio è in fiore anche adesso colla benedizione di tutti: bella e santa
memoria del padre Ramazzotti.
Fu però soprattutto l’orfanotrofio che assorbì la massima cura
da parte del Ramazzotti. Era modellato sullo stile di una famiglia:
venti ragazzi al massimo, e quindi l’andamento e l’assistenza vennero affidati soprattutto al sacerdote assistente che viveva con loro.
Alcuni maestri e prefetti di lavoro seguivano i giovani nella preparazione professionale perché l’orfanotrofio era per i figli dei contadini e degli artigiani. Ramazzotti cercava di esservi presente il
più possibile: «specialmente il giovedì – attesta padre Rossi – faceva tante volte a piedi, una gita sino a Saronno per trovare i suoi
orfanelli ed anche la buona madre». Giulia Maderna, infatti, vedova fin dal 1819, essendosi l’altro figlio Filippo sposato, si era
trasferita a Saronno e viveva nell’orfanotrofio, facendo da mamma a quei bambini. Il mantenimento dell’oratorio e dell’orfanotrofio costava a padre Ramazzotti «circa sei mila lire all’anno ed
egli si esaurisce e si fa povero veramente, povero e gramo anche
negli abiti per dar pane ai bisogni materiali e spirituali degli orfani
e dei giovanetti». Durante le «cinque giornate» di Milano il Governo provvisorio di Lombardia ricorse all’orfanotrofio di Saronno
per farvi «raccogliere ed educare un numero di orfani e derelitti in
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causa della nostra gloriosa rivoluzione»; contemporaneamente,
però, Ramazzotti vi accoglieva anche sedici fanciulli figli dei soldati austriaci che avevano abbandonato Milano in tutta fretta ed
egli «pensò a rivestirli, a mantenerli, ad educarli. E a togliere ai
nostrali ogni preoccupazione a danno degli stranieri, fece intendere ad essi, siccome secondo le leggi della carità cristiana, fossero tutti fratelli in Gesù Cristo; badassero quindi a non recare ai
giovinetti austriaci offesa alcuna. E per verità l’armonia di quella
casa non fu turbata minimamente, né sorse mai litigio o contesa
che la rompesse». Riaffiora questo tratto caratteristico della spiritualità di Ramazzotti che lo contraddistingue sempre: patriarca di
Venezia proprio negli anni cruciali della vigilia della seconda guerra
di indipendenza, in un clima di accesa avversione all’Austria, egli
chiederà senza timore alla popolazione, peraltro già provata da
tante privazioni, di aiutare le famiglie di alcuni soldati austriaci
sinistrate dallo scoppio di una polveriera; chiedeva ed era ascoltato perché, per primo, dava esempio di sorprendente carità e accoglienza, conducendo una vita poverissima.
L’accoglienza offerta ai ragazzi austriaci e ai figli degli insorti
sorprese persino il maresciallo Radetzky, che constatò «la veramente evangelica carità con chi, qual missionario, continua costì,
come riferisce codesta R. Delegazione Provinciale, a mantenere
ed a far istruire a tutte sue spese parecchi giovanetti di quel paese
ed anche esteri». Dopo l’elezione a vescovo di Pavia, Ramazzotti
nel 1852 trasferì il suo orfanotrofio nella tenuta detta dei Casoni,
nella campagna pavese; tutto però fu spazzato via dalla piena del
Po dell’ottobre 1857 ed egli non fu più in grado di rimettere in
piedi la sua istituzione. Anche da vescovo Ramazzotti amò sempre
i suoi orfanelli; anzi aveva scelto l’orfanotrofio come luogo per
passarvi le vacanze e i giorni di riposo. Scrive il suo biografo, che
ve lo accompagnava:
Ed io credo che tanto gli fosse piacevole questo luogo perché poteva
qui vivere a suo bell’agio quella santa povertà che era una delle virtù
predilette dell’animo suo. Sceglieva per sé la stanza più remota e
meschina della casa, lasciando le più comode pe’ i sacerdoti che l’avessero accompagnato: vi si saliva per una scala di legno e la suppelletti-
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le altro non era che un letticciuolo, due scranne di paglia, un tavolino
di legno greggio. Né si lagnava mai della molestia cagionata da pungentissime zanzare che in quei luoghi sono frequentissime. Mangiava
nella cucina degli orfanelli o in una stanza vicina che serviva alle loro
arti. Né mai mostravasi tanto lieto e contento come quando si fosse
trovato in tal condizione.
Sul finire del 1848 il governo austriaco, cui spettava la scelta
dei vescovi del Regno Lombardo-Veneto, cominciò a pensare a lui
come un possibile titolare di una sede episcopale vacante.
Lascio agli altri autori di questo volume la storia della fondazione del Seminario Lombardo. Qui voglio solo sottolineare che
anche in questa fondazione l’obbedienza piena al papa fu la nota
caratteristica che mons. Ramazzotti volle imprimere, perfino a
costo, come scrisse chiaramente nel 1853, di sacrificare il fine stesso
del seminario, cioè la missione ad gentes che costituiva l’ideale di
tutta la sua vita.
Vescovo di Pavia
Proprio l’obbedienza a papa Pio IX impedì a mons. Ramazzotti
di seguire come avrebbe voluto il Seminario Lombardo ed anche
di farvi parte; infatti la sera dell’11 novembre 1849, mentre alla
certosa di Pavia con don Giuseppe Prada e padre Marcello Supriès
egli poneva le basi per la fondazione del Seminario Lombardo,
Francesco Giuseppe imperatore d’Austria lo nominava vescovo
di Pavia. Tra la nomina e l’ingresso in sede intercorse quasi un
anno, durante il quale Ramazzotti perfezionò la fondazione del
Seminario Lombardo. Un tale spazio di tempo era nella norma:
l’iter della nomina di un vescovo del Lombardo-Veneto era
complicatissimo, soprattutto per una sede come Pavia che era vacante da più di cinque anni per la morte di mons. Luigi Tosi, avvenuta nel 1845.
La scelta del vescovo doveva essere approvata dal papa e secondo gli accordi che regolavano i rapporti fra l’Austria e la S.
Sede, mentre prima di tale rettifica si doveva eseguire tutta una
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serie di passaggi: comunicazione del segretario di Stato di Pio IX,
cardinale Antonelli, al nunzio a Vienna di aver ricevuti dall’imperatore il nominativo del nuovo vescovo e la lettera del candidato
al ministro del Culto e Istruzione a Vienna per esternare la propria adesione alla scelta imperiale, e così pure all’I.R. Delegazione
di Pavia e al governatore interinale della Lombardia; i vari organi
governativi poi si comunicavano a vicenda gli assensi ricevuti. Prima delle «bolle placitate» di Roma, la S. Sede faceva i suoi passi:
corrispondenza fra il cardinale Antonelli e il nunzio a Vienna circa le qualità dei nuovi eletti che dovevano essere sacerdoti di provate virtù, fedeli al papa oltre che all’imperatore, non troppo «austriaci» e soprattutto per niente filoliberali. Occorreva poi anche
un certificato medico sulle condizioni fisiche del nuovo vescovo,
onde evitare di dover ripetere il tutto entro breve tempo; in quello
rilasciato a Ramazzotti dal dott. Giovanni Carnelli, si intravede
già la causa che lo avrebbe condotto ad una morte repentina e
precoce: «soffre da molti anni di congestioni sanguigne precordiali
a grado di far temere qualche guasto organico, se l’arte e la natura
non concorressero a provvedere istantaneamente».
I più interessanti fra i diversi documenti intercorsi fra Roma e
Vienna sono la dichiarazione sulle virtù sacerdotali di Ramazzotti
di padre Gaetano Ravizza, superiore del collegio di Rho, che ne
mette in luce la grande carità verso i fanciulli ed i poveri, per mantenere i quali «è continuamente sì privo di mezzi finanziari che
spesso non ha con che provvedere a se stesso il conveniente», e
quella resa alla S. Sede dall’arcivescovo Romilli circa la persona
del padre Ramazzotti esaminata in ogni epoca ed aspetto del suo
sacerdozio: giovane prete dotto e generoso che rinunciava ai suoi
legati in favore dei confratelli più bisognosi; evangelizzatore di
bene e di pace come missionario di Rho; esempio di dottrina e di
pietà e fortezza per il clero, dal quale è amato e stimato; sollecito
nella carità verso i poveri, specie i fanciulli orfani; lo stesso arcivescovo confessa di privarsene «immo cordis dolore», perché era
solito ricorrere al suo consiglio.
Finalmente nel marzo si tennero a Roma i processi della dataria
apostolica per l’elezione di mons. Ramazzotti a vescovo di Pavia.
Risultati questi più che positivi, nel concistoro segreto del 20 mag22
gio 1850 Pio IX lo nominò vescovo di Pavia. Ne veniva di conseguenza che, entro sei mesi, egli doveva recarsi a Roma per la consacrazione episcopale, che avvenne il 30 giugno 1850 per mano
del prefetto della Sacra Congregazione di Propaganda Fide card.
Franzoni nella chiesa di S. Carlo al Corso. Ramazzotti aveva accettato la nomina a vescovo di Pavia solo in obbedienza al papa.
La città aveva risentito moltissimo delle tensioni politiche del
1848 e della posizione assunta alla fine dell’aprile di quell’anno
da Pio IX, il quale aveva preso netta distanza dalla rivoluzione e
dalla guerra; erano quindi riemerse le antiche tesi sia regaliste
che rigoriste, convergenti nell’opposizione al temporalismo del
papa. Mons. Ramazzotti si trovava quindi a gestire la diocesi in
una fase di transizione, segnata appunto da quella diatriba, molto viva nel clero «tra chi ritiene che ci si debba stringere attorno
al papa, raccogliere le forze e battersi frontalmente contro la rivoluzione e chi, viceversa, pensa che il potere temprale sia un
fardello da cui al più presto occorre liberarsi per poter instaurare un rapporto validamente collaborativo con l’Italia risorgimentale». Gran parte dei sacerdoti «tosiani» era su quest’ultima posizione, mentre il nuovo vescovo, non per opportunismo ma per
convinzione, era dall’altra parte. Questo non impedì però a mons.
Ramazzotti di avere rapporti di sincera amicizia e valida collaborazione con sacerdoti come don Pietro Terenzio, convinto fautore della «santa causa dell’indipendenza nazionale», da lui nominato cancelliere della curia. Il seminario aveva risentito moltissimo delle vicende del 1848, cui professori ed alunni avevano preso parte; per tale motivo era stato occupato dagli austriaci nel
biennio 1848-1849 e adibito ad usi militari e civili. La diocesi
contava sette parrocchie urbane compreso il suburbio e
settantacinque suburbane, quasi tutte di regio patronato e sostenute dalla carità dei fedeli. L’economia della diocesi era basata
tutta sull’agricoltura per cui risentiva pesantemente delle calamità naturali, come avvenne anche durante l’episcopato del Servo di Dio. Dopo le soppressioni giuseppine e napoleoniche e il
drastico ridimensionamento del territorio diocesano nei primi
decenni del secolo, all’ingresso di mons. Ramazzotti in Pavia l’unico insediamento religioso era rappresentato dai frati della certo23
sa, da poco rientrati in possesso del loro monastero, mentre non
esistevano più conventi femminili.
Mons. Ramazzotti entra in diocesi il 29 settembre 1850. Particolare curioso era il fatto che la maggior parte dei beni e delle
rendite della mensa vescovile era al di là del Ticino, non più nel
Lombardo-Veneto ma nel Regno di Sardegna, per cui il vescovo,
per riscuoterne i proventi, doveva fare domanda al governo di
Torino. Dal momento che la sede era vacante da anni, «le rendite
intercalari della mensa ammassate nella lunga vacanza, gli davano
in mano una somma rilevante»; ma egli, «uomo di inesauribile
carità verso i poveri, dedicò le prime sue cure e rivolse ad essi
tutta intera la sua benevolenza».
Nei sette anni di episcopato l’interesse di mons. Ramazzotti
verso il suo clero fu davvero lodevole; appena qualche mese dopo
il suo ingresso in diocesi egli si era già fatto un’idea sulla condotta
del suo clero; questo fatto lo portò a prendere una ragionevole
distanza da alcuni provvedimenti governativi, in virtù dei quali
l’I.R. Luogotenenza si riservava «di allontanare immediatamente
dalla cura d’anime tutti quei beneficiati, contro i quali emergessero fondati sospetti di sleali sentimenti politici e di abuso di potere
spirituale». Non era facile mantenere un saggio equilibrio fra l’autorità di vescovo che doveva rispettare le opinioni dei propri sacerdoti e la continua, quasi ossessiva sorveglianza del governo austriaco sempre all’erta.
Buon suddito che sottolineò con la dovuta solennità gli avvenimenti della casa imperiale come il matrimonio di Francesco Giuseppe con Elisabetta di Baviera e la nascita dell’arciduchessa Sofia, era però ben deciso quando si trattava di difendere i diritti
della Chiesa; nel 1852 oppose un cortese ma fermo rifiuto a produrre alle autorità governative la lista degli insegnanti da nominarsi nel ginnasio vescovile, essendo quest’organismo sotto la diretta responsabilità del vescovo. Lo scontro più diretto con l’I.R.
Luogotenenza lo ebbe nel 1853, quando questa pretese di regolare l’istruzione catechistica e religiosa della gioventù. Una circolare
governativa del 18 giugno 1853 raccomandava ai parroci, agli insegnanti e ai rettori dei convitti «d’istillare profondamente nei loro
cuori la venerazione a Dio e la riconoscenza e l’amore al sovrano
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imperiale che veglia con tanta cura al loro bene». Venivano poi
prescritte come obbligatorie fra le preghiere quotidiane due
orazioni pubblicate nel Piccolo catechismo di chiaro sapore imperiale: nella medesima circolare si dava avviso della prossima preparazione del catechismo per le scuole primarie a cura del ministero del Culto. La reazione di Ramazzotti fu decisa, rivendicando
alla sola Chiesa l’insegnamento religioso e la compilazione del catechismo al vescovo; la reazione fu tanto inaspettata che, quando
egli si recò a Roma per la Visita ad Limina, fu sorvegliato dalla
polizia segreta.
Una delle prime iniziative di mons. Ramazzotti fu quella di organizzare gli esercizi spirituali per il clero; organizzò poi la «Congregazione dei casi» (morali, teologici), nelle diverse parrocchie cui
partecipava lui stesso; voleva infatti conoscere a fondo la preparazione culturale e teologica dei sacerdoti e per questo, spesso, animava la discussione sugli argomenti che venivano trattati; formò
poi la Congregazione Ecclesiastica di Carità con «l’incarico di por
mente a quanto si potesse fare a maggior profitto delle anime; e ciò
che di mano in mano l’uno o l’altro di loro veniva proponendo, era
deciso in comune in un coi mezzi con che recarlo ad effetto».
A detta del biografo don Cagliaroli che ne fece personalmente
esperienza, l’azione di mons. Ramazzotti nei confronti del clero fu
paterna, paziente, ma capillare ed attenta, non priva della dovuta
severità:
Né mai si era a desiderare in mons. Ramazzotti maggiore vigilanza
sui portamenti dei sacerdoti e maggior fervore nel riscaldare gli animi negli studi loro convenienti e nella santità della vita. Prendeva
informazioni minute, massime se i curatori d’anime compissero con
fedeltà e diligenza i propri ministeri, se illibato il costume, sana la
dottrina. E richiamando al dovere chi ne deviava, congiungeva sì
fattamente la carità alla correzione che esigendo l’emenda del colpevole, non se ne alienava mai l’animo pronto a ridonargli la sua fiducia
appena gli mostrasse sicuro ravvedimento.
In genere il clero rispondeva bene a queste premure, ma non
mancarono situazioni nelle quali il vescovo si vide costretto ad
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operare «tagli dolorosi». La più grave di tali situazioni avvenne
nel 1854-1855, dopo la definizione del dogma dell’Immacolata
Concezione. Fu un episodio tanto penoso che per affrontarlo mons.
Ramazzotti «vi ebbe a spiegare tale una mirabile virtù che toccò,
si può dire, l’eroismo». Quattro sacerdoti del clero diocesano fecero giungere al vescovo una «protesta» con la quale dichiaravano
di non poter aderire alla bolla Ineffabilis Deus perché contraria
alla verità. La prima reazione di Ramazzotti fu quella di scrivere ai
sacerdoti una lettera, non pervenuta, con la quale li sospendeva
dal ministero fino al chiarimento della loro posizione. Li chiamò
poi in arcivescovado e quindi, «colla carità tutta propria del suo
bel cuore, per ogni maniera si adoperò a richiamarli da loro errore». Dal momento che questi perseveravano nella loro posizione,
il vescovo mise in movimento tutte le persone che lo potevano
aiutare per convincere i quattro ad obbedire al papa; coinvolse la
diocesi nella preghiera; non volle né chiacchiere né accuse nei riguardi dei dissidenti. Anzi chiamando a Pavia mons. Luigi Biraghi
e padre Taglioretti perché si incontrassero con quei sacerdoti, raccomandò loro di lasciare ad essi la libertà di esporre «le ragioni
alle quali credono di potersi appoggiare e a sentire in qual modo
possono essere sciolte le loro difficoltà».
La vicenda si concluse con la sentenza di scomunica verso i
dissidenti, che furono allontanati dalla diocesi; mons. Ramazzotti
si occupò personalmente del gruppetto di simpatizzanti che quei
sacerdoti avevano riunito attorno a loro: «Li chiamò a sé e si condusse da loro; li istruì e li fece bene istruire sul dogma definito e
sulle ragioni per cui doveva essere creduto, sventando le obiezioni
che erano state loro messe in capo».
Uguale premura egli dedicò al seminario, nel quale, nel 1853,
erano presenti 53 seminaristi teologi; per quanto non fosse conforme ai canoni del Concilio Tridentino, il vescovo riservò a se
stesso la diretta responsabilità del seminario, come forma di tutela
contro l’ingerenza del governo austriaco che considerava il seminario come potenziale semenzaio di rivoluzionari. Mons. Ramazzotti ebbe molta cura nel vagliare l’ammissione dei candidati e
scelse per il seminario professori e confessori altamente preparati;
quasi quotidianamente si recava in seminario mantenendo un rap26
porto personale con i giovani alunni. Per quanto riguarda l’ammissione dei chierici era severissimo, non piegandosi ad alcuna
raccomandazione, era però altrettanto generoso nel collocarli una
volta dimessi dal seminario:
Quando il chierico specialmente non gli desse bastevoli guarentigie
sull’onestà del costume e sulla integrità della dottrina, non che escluderlo dai sacri ordini, anche gli facea porger giù l’abito ecclesiastico.
Né valeano a piegar l’animo del vescovo a condiscendenza le preghiere e le istanze più pressanti dei parenti e di altre persone anche di
conto, non volendo per una falsa compassione tradire gli interessi di
Dio. A coloro poi che, o per espresso comando di lui, o per proprio
consiglio venivano esclusi dal sacerdozio, era largo di tutta la sua
carità non mancando di adoperarsi presso le magistrature ed i privati
affinché fossero provvisti di onesti impieghi.
Nella relazione per la Visita ad Limina Apostolorum del 27 settembre 1853 si legge che, all’epoca, nella diocesi di Pavia esistevano
due soli insediamenti religiosi: i Certosini dimoranti presso la famosa certosa e le Figlie della Carità, dette Canossiane dalla fondatrice
Maddalena di Canossa, nate per provvedere all’educazione delle
fanciulle del popolo. Queste suore erano state chiamate a spese di
mons. Ramazzotti per occuparsi dell’educazione e della formazione
delle fanciulle, specie le più povere. Mons. Ramazzotti aveva conosciuto le Canossiane a Milano e le giudicò le più adatte a questo
compito; per questo si recò personalmente nella casa milanese di
via S. Michele alla Chiusa per chiedere alcune religiose per la fondazione di Pavia; a questo scopo non mancò di sollecitare una risposta dalla superiora generale, madre Margherita Crespi. L’avvio
della casa non fu facile, ostacolato dal complicato meccanismo burocratico regolato dalle autorità austriache; essendo però un’opera
che presentava indubbi vantaggi sociali, il feldmaresciallo Radetzky
ne agevolò le pratiche; la scuola con la casa-convitto aveva sede
nell’ex convento delle Francescane che il vescovo aveva provveduto ad adattare e arredare. L’opera prese il via il 3 dicembre 1852,
sempre provvista di tutto, anche del cibo, dalla sollecitudine di mons.
Ramazzotti; in essa venivano preparate anche le ragazze delle campagne che, avendone le capacità, desideravano diventare maestre
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rurali; per quelle che non potevano pagare la retta provvedeva la
carità del vescovo. Dal 1853 in questa casa funzionò anche una scuola
per le sordomute, con un’apposita maestra venuta da Milano dove
queste scuole funzionavano già con successo; non riuscì a fare altrettanto per i ragazzi, perché gli assembramenti maschili erano
guardati con sospetto dalle autorità governative.
L’opera di carità svolta dal vescovo fu davvero notevole ed abbracciava ogni campo: la condizione dei malati negli ospedali; il
problema dei ragazzi sordomuti; i suoi orfani trasferiti da Saronno
nella campagna pavese; la disastrosa inondazione del Po e del
Ticino dell’ottobre 1857; il colera, le carestie. Vi erano poi urgenze morali: redigere il nuovo catechismo; istituire il tribunale per i
matrimoni; esercizi e missioni nelle parrocchie.
Mons. Ramazzotti aveva uno stile tutto suo nel fare le opere di
carità. Si sapeva servire di validi collaboratori: sacerdoti, Canossiane, laici preparati, nelle cui mani metteva tutto del suo per sovvenire alle diverse necessità. Ma il suo nome e la sua azione diretta
non comparivano quasi mai; inoltre non amava molto fare la carità spicciola dell’elemosina, preferiva investire anche grandi somme in opere valide e durature che, oltre a risolvere i problemi del
momento, davano la garanzia della continuità; si serviva, potenziandole, anche delle opere già esistenti come la Pia Casa di Industria che sostenne con denaro, con la sua presenza, con l’acquisto
di materiale per fare lavorare le donne e le fanciulle, per provvedere all’istruzione dei poveri. Diede molta attenzione ai giovani;
per gli apprendisti, gli operai e gli artigiani aprì, in episcopio, le
scuole serali gratuite.
Monsignor Ramazzotti dovette poi affrontare gravi emergenze: l’epidemia di colera del 1855 durante la quale aprì un ospedale
nel seminario, visitando più volte i malati nei due lazzaretti cittadini e nelle campagne, informandosi dai parroci sulle loro necessità; solo l’insistenza dei suoi sacerdoti che temevano per l’incolumità
del vescovo, lo fece desistere dall’assistere egli stesso i malati.
Fu poi ammirevole l’opera che svolse durante la piena del Po e
del Ticino dell’ottobre 1857; don Cagliaroli lo accompagnò nei
paesi sinistrati dove il vescovo provvide in prima persona all’invio
di viveri, al soccorso degli anziani e dei malati; egli seppe organiz28
zare tanto bene le operazioni di assistenza e di spedizione di viveri, letti, coperte e indumenti che l’arciduca Massimiliano d’Austria, fratello dell’imperatore e governatore del Lombardo-Veneto,
lo propose come successore nella sede vacante del patriarcato di
Venezia: una città, a quel tempo, oppressa dalla miseria dove viveva un vero esercito di poveri.
Il denaro con il quale il vescovo provvedeva a tutto gli proveniva dalla rendita vescovile e dal suo patrimonio personale che si
andava esaurendo; vi era poi la generosità del fratello Filippo e di
altri benefattori; ma soprattutto mons. Ramazzotti viveva in povertà più che monastica. In episcopio viveva secondo lo stile di
vita comunitario dei missionari di Rho, dividendo il tempo fra molte
ore di preghiera e di studio (la sera e la notte) e l’opera pastorale;
aveva con sé, come farà anche a Venezia, un gruppo di sacerdoti,
detti «preti di famiglia», con i quali faceva vita comune; questi,
come lo stesso vescovo, si dedicavano soprattutto alla predicazione
delle missioni nelle varie parrocchie della diocesi e all’insegnamento del catechismo per il quale mons. Ramazzotti aveva aperto
diverse scuole di dottrina cristiana. Personalmente lo stile di vita
del vescovo era austerissimo: pasti frugali, niente riscaldamento
nelle sue stanze; mobili, vesti, suppellettili ridotti all’essenziale;
camminava a piedi il più possibile, usando pochissimo la carrozza; si serviva pochissimo anche della servitù: volle che i laici in
servizio in episcopio abitassero nelle loro case, sapendoli padri di
famiglia. Don Cagliaroli sostiene «che in capo a pochi mesi avesse
dispendiato in limosine lire 80.000», per provvedere ai poveri delle campagne, ai malati del civico ospedale, per «somministrar denaro a liberare pegni dal Monte di Pietà», visitare «uno per uno i
pii istituti e a tutti recò sovvenimenti». Viveva in tanta povertà che
gli stessi suoi collaboratori ed il suo amministratore, un laico noto
anch’egli a Pavia per la sua carità, arrivavano a rimproverarlo con
molta familiarità, ma «il vescovo coll’usata sua giovialità e senza
esitanza rispondeva che nessuno meglio di lui desiderava farsi
povero, rincrescendogli solo che dal suo stato alla paglia di S. Carlo c’era ancora molta distanza».
Oltre allo studio, alla preghiera e alle visite al seminario e alle
diverse istituzioni caritative della diocesi, mons. Ramazzotti rice29
veva personalmente chiunque si recava in episcopio, anche i poveri. Esaminava poi personalmente «i negozi di massima», cioè le
questioni più delicate che cercava di risolvere con l’aiuto dei suoi
collaboratori e con lunghe ore di studio, specie di notte.
Per incrementare le vocazioni sacerdotali sostenne il Collegio
Vescovile, già fondato da mons. Tosi, e non volle tralasciare la
predicazione e l’amministrazione dei Sacramenti come aveva sempre fatto da missionario di Rho:
Predicava nella cattedrale [...] entro l’Ottava di Pentecoste amministrava solennemente la Cresima in Duomo ed anche ogni dì nella sua
cappella vescovile. Né si ricusò mai dal conferire questo gran sacramento ai figlioletti in pericolo di vita, sia in città che in campagna,
appena ne fosse domandato. Né dal farlo lo indugiavano affari più
importanti che fossero, né inclemenze di stagioni per quanto stemperate; onde più di una volta fu veduto attraversare la città a piedi,
mentre a falde larghe cadeva la neve.
Sempre sullo stile appreso e vissuto fra i missionari di Rho,
intraprese la visita pastorale nell’aprile 1853, predicando e confessando con molta semplicità, anche in dialetto come aveva imparato a fare quando era missionario.
Del resto mons. Ramazzotti si considerò sempre e soprattutto
un missionario; quando seppe della sua elevazione al patriarcato di
Venezia, scrisse due volte a Pio IX per convincerlo a non accettare
la proposta dell’imperatore; la prima lettera, del 13 febbraio 1858, è
andata persa; nella seconda, del 15 marzo successivo, egli afferma
chiaramente di non essere all’altezza di un tale compito per «la disparità che io non potrei negare, neppure volendo, tra la mia attitudine e l’alto e gravissimo compito che è quello del patriarcato di
Venezia», questo perché, già all’epoca nella quale era stato nominato vescovo a Pavia, i suoi «pensieri non erano al di là della carriera
di missionario». Era molto delicato anche il momento politico; a
Venezia si respirava aria di acceso patriottismo e si sapeva che la
scelta del nuovo patriarca era fatta dall’imperatore. Fu dunque
Massimiliano d’Austria a suggerire il nome di Ramazzotti, passato,
in un primo momento, sotto silenzio: «Egli sarebbe inoltre uno dei
più saggi ed intelligenti vescovi della Lombardia; di esemplare inte30
grità morale [...] di una eccellente cultura teologica». Era considerato «uomo di moderazione»; soprattutto era noto per la sua eccezionale carità: «Dal lato dei poverelli – scrive mons. Moro, vicario
capitolare di Venezia – mons. Ramazzotti vi ottiene un massimo
provento. Un esercito di 45.000 poveri inserito nelli cataloghi
interinali, è la miglior dote del patriarca».
La nomina gli giunse di sorpresa; una lettera del barone Ernesto
di Kallesperg, vicepresidente dell’I.R. Luogotenenza, con la quale
lo salutava patriarca di Venezia. E poi nei giorni successivi la nomina ufficiale e le lettere di felicitazione. Prima che il papa apponesse
il suo placet, egli tentò di esimersi scrivendo appunto le due citate
lettere, rimettendosi comunque come sempre alla volontà del Santo
Padre: «Basterà, lo ripeto, un suo cenno a togliermi ogni esitazione».
Patriarca di Venezia
Ma per la sede patriarcale di Venezia, come avvertiva l’Imperial
Cancelleria, occorreva procedere con molta cautela: «Il patriarcato
in questione ricopre una grande importanza rispetto alla posizione
del patriarca come metropolita; la scelta di un valente patriarca è
difficoltosa anche a causa delle personalità degli immediati predecessori del patriarca stesso che si sono distinti per fermezza di fede,
integrità morale ed erudizione; in essi Venezia venerava non solo
l’alta dignità ecclesiastica, ma anche la persona stessa». Egli ignorava però che il processo della dataria apostolica del 12 marzo lo aveva già promosso patriarca di Venezia; il breve di Pio IX del 25 marzo 1858, che lo trasferiva dalla sede di Pavia a quella metropolitana
di Venezia, mise fine ad ogni riluttanza da parte del Servo di Dio.
L’ingresso nella nuova diocesi avvenne il 15 maggio 1858, preceduto da una sosta nel Seminario Lombardo, a Milano presso la
sede di S. Calocero, e fu celebrato con tutta la pompa dell’occasione che mons. Ramazzotti aveva cercato invano di evitare; era
talmente alieno dal far mostra di sé che da Pavia i suoi preti non
furono in grado di inviare a Venezia neppure un ritratto del nuovo
patriarca perché egli non aveva mai voluto farsi ritrarre. In effetti
le raffigurazioni che si hanno di lui sono state fatte a memoria,
31
perché mons. Ramazzotti non accettò mai di farsi ritrarre per
modestia e per spirito di povertà.
La sera stessa del suo ingresso, stupì tutti perché senza seguito
e su una semplice gondola si recò a visitare due sacerdoti che aveva saputo essere gravemente malati.
A Venezia il patriarca trovò una vita religiosa molto più viva
rispetto a Pavia: parecchie case religiose ben funzionanti e molto
clero, abbastanza preparato; buono anche lo stato del seminario
che vantava una pregevole biblioteca ed accoglieva duecento chierici. Ma mons. Ramazzotti era abbastanza realista per sapere che
la più parte di loro non aveva ancora raggiunto l’età per decidere
se diventare responsabilmente sacerdote.
A Venezia funzionava una attivissima rete di carità e solidarietà coordinata dalla Società di S. Vincenzo de’ Paoli, con la quale
Ramazzotti ebbe un ottimo rapporto di collaborazione.
Buona anche l’indole della popolazione, incline all’umanità ed
alla religione, più portata, scrive lui nella relazione per la Visita ad
Limina, a prendere la vita con serenità che a sottoporsi a duri lavori; una popolazione varia e vivace che aveva però un unico grave difetto, contro il quale il patriarca combatterà con la parola e la
penna senza darsi tregua: la bestemmia. La sorveglianza austriaca
non era così oppressiva come a Pavia e mons. Ramazzotti godeva
di una certa autonomia, consolidatasi poi nel febbraio 1861 quando divenne deputato della camera del Consiglio dell’imperatore.
Quanto all’azione di mons. Ramazzotti, sebbene egli sia stato
patriarca solo tre anni, ha del sorprendente: riordino e fondazione
di nuove scuole della Dottrina Cristiana con la preparazione di catechisti e sacerdoti seguiti personalmente da lui e compilazione del
nuovo catechismo; riunione del concilio provinciale dei vescovi suffraganei, tenutosi dal 18 ottobre al 4 novembre1859; evento, questo, importantissimo perché vedeva riuniti tutti i vescovi della sua
provincia ecclesiastica per uno scambio e un confronto di azione
pastorale, soprattutto per arrivare all’uniformità dell’insegnamento
da impartirsi nei ginnasi e nei seminari. Non fu facile convincere i
confratelli vescovi a muoversi in piena guerra di indipendenza, ma
era necessario un confronto dopo il recente concordato firmato fra
Austria e Santa Sede nel 1855. Gli statuti del concilio furono stam32
pati dal successore del Ramazzoti, mons. Travisanato. La celebrazione del sinodo ebbe riscontro molto positivo nell’opinione pubblica, bene informata circa la solennità dell’evento. Mons. Ramazzotti avrebbe voluto celebrare un secondo concilio provinciale e il
sinodo diocesano nel 1862, ma non ne ebbe il tempo.
Il 20 giugno 1858 intraprese la visita pastorale cominciando
dalle parrocchie più povere, quelle della zona dell’Estuario, «tanto gli stavano a cuore i più meschini, non già i meglio agiati o
ricchi fra i suoi diocesani». Due volte si recò nella forania dell’Estuario, ma nei soli tre anni del suo episcopato a Venezia non
riuscì a completare la visita pastorale. Per le parrocchie dell’Estuario egli volle provvedere perché, al di là della consuetudine che
prevedeva un solo concorrente impedendo al vescovo di scegliere
la persona più degna, esse venissero considerate alla stregua delle
parrocchie di città; anzi, considerando le difficili condizioni di quei
luoghi, con una lettera circolare del 19 luglio 1859 invitava i sacerdoti a chiedere di esservi assegnati:
Come un soldato valoroso domanda il posto più pericoloso e più
difficile, o meglio, come la carità ambisce gli offici più oscuri, più
penosi e meno remunerati della terra [...] ricordatevi – scrive ai sacerdoti – che assumendo il sacerdozio avete assunto uno speciale
obbligo di obbedienza al vostro patriarca, di servizio verso la Chiesa,
di zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime.
Come a Pavia, così anche a Venezia mons. Ramazzotti si preoccupò di avviare opere di carità sotto il segno della continuità e dell’efficienza, collaborando con la Società delle Conferenze di S. Vincenzo
de’ Paoli e con le famiglie religiose esistenti o in via di formazione.
L’aiuto che diede alle nuove famiglie religiose fu rilevante:
– Francescane Clarisse della Trinità. Per loro mons. Ramazzotti, su richiesta della superiora suor Maria Crocifissa Scarpa, si adoperò presso la S. Sede affinché il piccolo convento della Giudecca
ottenesse l’erezione canonica, con voti religiosi perpetui; l’interessamento del patriarca fu sollecito presso la S. Sede e presso le
autorità austriache, tanto che il 9 febbraio 1859 egli accoglieva la
professione delle prime suore e imponeva la clausura vescovile.
33
– Carmelitane Scalze. Nel 1853 una pia dama della città, la contessa Paolina Giustiniani Recanati vedova Malipiero, aveva proposto ai Carmelitani presenti in Venezia la fondazione di un monastero che fosse sotto l’immediata giurisdizione dell’Ordine
Carmelitano; questo rendeva difficile l’assenso della Santa Sede
che preferiva che le case religiose, anche claustrali, fossero soggette al vescovo. La cosa venne fatta conoscere al patriarca, «ed egli
considerando il bene che, ad onta della voluta condizione, potea
derivarne alla sua Venezia, ne scrisse al Santo Padre in termini di
persuasione, e ne ebbe prontamente la più ampia approvazione».
A mons. Ramazzotti venne anche concessa la facoltà di permettere che la contessa fondatrice entrasse con alcune compagne nel
monastero di Parma per compiervi il noviziato; egli ottenne inoltre dal Santo Padre che, non essendo ancora pronta la sede destinata a monastero, la fondazione iniziasse a operare in una casa
presa in affitto con le debite assicurazioni, impegnandosi egli stesso a seguire personalmente l’andamento della comunità e a vigilare sull’esatta osservanza della regola e della clausura.
– Figlie del Sacro Cuore. Dallo zelo del canonico Daniele Canal, nel 1852, erano state fondate le Figlie del Sacro Cuore che si
occupavano dell’educazione delle fanciulle poverissime in una casa
a S. Maria del Pianto. Il Canal, con la collaborazione della Serva
di Dio Anna Marovich, pensò poi alla fondazione di una casa in
cui accogliere «quelle infelici che all’uscire dal carcere, lasciate in
balìa di sé medesime, correrebbero il rischio di ulteriori traviamenti». L’istituzione, all’arrivo del patriarca, era ancora ai primi
passi e progrediva con fatica data l’originalità dello scopo che si
prefiggeva. Solo grazie all’incoraggiamento di mons. Ramazzotti
la Marovich portò avanti il suo progetto: «Fu pertanto il Patriarca
che, udito esporsi dalla signora Marovich le sue pietose intenzioni, gliene approvò siccome volute da Dio, confortandola con grande
ardore a recarle in pratica, senza tema di dare in fallo. Largo a lei
sempre di savi consigli, quante volte n’era richiesto, le prestò anche mezzi per farsi incontro ai primi dispendi nell’avviamento di
tanta impresa». Le Figlie del Sacro Cuore si unirono poi alle Pie
Signore della Casa di Nazareth, oggi Suore della Riparazione, fon34
date a Milano nel 1859 da padre Carlo Salerio del Seminario Lombardo per le Missioni Estere.
– Figli della Carità Canossiani. Fondati anch’essi, come le Suore Canossiane, da Maddalena di Canossa, nel 1833. All’ingresso
del Servo di Dio in diocesi, erano soltanto cinque, abitavano in
una casa presso la chiesa di S. Giosuè dove gestivano un frequentatissimo oratorio maschile, ma non erano canonicamente costituiti. Frequentandoli, mons. Ramazzotti si rese conto del gran bene
che operavano e decise di erigerli canonicamente, intendendo affidare loro il Patronato di S. Giuseppe per i ragazzi discoli e vagabondi che si stava organizzando allora. Il 29 aprile 1860 egli diede
loro l’abito religioso, dopo aver ottenuto anche i relativi permessi
dalle autorità governative.
Soprattutto, mons. Ramazzotti si interessò delle Suore Canossiane e in particolare dell’opera che gestivano in S. Alvise dove
aveva sede una casa per sordomute. Decisivo fu il suo apporto per
l’apertura di queste suore al mondo missionario. Esse erano già
state richieste, nel 1858, dai padri del Seminario Lombardo per
affiancare la missione che stavano aprendo ad Hong Kong. Vi era
però il fatto che la fondatrice non aveva previsto, nelle Costituzioni dell’ordine, l’invio delle suore in missione; avuta la certezza che
le religiose personalmente erano ben disposte alla vita missionaria, mons. Ramazzotti, previo assenso della Sacra Congregazione
di Propaganda Fide, scrisse a mons. Ludovico Bensi, consultore
della Sacra Congregazione dei religiosi, prospettando la necessità
che tali suore affiancassero i padri nelle missioni: «I missionari di
S. Calocero che abbiamo in India mostrarono il bisogno ed il desiderio che una congregazione religiosa femminile si assumesse colà
l’educazione delle fanciulle, come essi i missionari quella dei fanciulli».
La Sacra Congregazione dei religiosi non ritenne però opportuno accettare tale proposta appunto per l’ostacolo frapposto dalle Costituzioni; partirono per l’India le Suore della Carità, dette di
Maria Bambina. Nel 1859 don Marinoni, superiore del Seminario
Lombardo, e il prefetto apostolico di Hong Kong mons. Luigi
35
Ambrosi, ripeterono la loro richiesta per la missione di Hong Kong,
mettendo la cosa nelle mani del Ramazzotti. Questi, dopo aver
sondato la disponibilità delle religiose delle due case di Venezia e
di Pavia, nel gennaio 1860 chiese ed ottenne dal Santo Padre la
facoltà di apportare alcune modifiche alle Costituzioni della Canossa, in merito alle particolari situazioni del lavoro missionario.
La prima spedizione delle Canossiane partì da Venezia benedetta
dal patriarca il 24 febbraio 1860.
Mons. Ramazzotti sostenne poi moltissimo l’opera che le
Canossiane svolgevano a S. Alvise a favore delle ragazze sordomute, vistandone la scuola e la casa, provvedendole di adeguate maestre, incoraggiandole e invitando le dame veneziane a formare un
comitato sostenitore per assicurare il mantenimento delle più povere. Egli si adoperò poi moltissimo per avere un’analoga opera a favore dei ragazzi ma, per le consuete difficoltà con la burocrazia austriaca, vi riuscì solo alla vigilia della morte affidandoli ai Somaschi.
Aveva in progetto di fondare una casa di Oblati missionari,
cioè di sacerdoti diocesani e provenienti dalle diocesi suffraganee
impegnati a tempo pieno nelle missioni fra il popolo; per presentare tale progetto ai vescovi, li visitò personalmente nelle loro sedi,
ottenendone l’approvazione, ma la sua morte prematura troncò
questo progetto. Ugualmente la sua scomparsa quasi repentina
mise fine anche al progetto dell’istituzione di una parrocchia di
rito greco per la quale, nel 1859, aveva già chiesto l’autorizzazione
al prefetto di Propaganda Fide card. Barnabò e aveva già predisposto l’arrivo, a sue spese, di don Nicola Franco, sacerdote siciliano di rito greco.
Ma Venezia era soprattutto una città piena di poveri; il patriarca
collaborava assiduamente con la Commissione della beneficenza
pubblica che vagliava i vari casi e vi provvedeva; esiste un fitto scambio epistolare fra il patriarca e il presidente di detta commissione
che rivela la capacità di Ramazzotti di ascoltare e collaborare. Nonostante ciò, una vera corte dei miracoli assediava il palazzo patriarcale ogni giorno: «i poveri confidentemente ricorrevano a lui, certi
di esserne sovvenuti. L’atrio, l’anticamera, a volte, si può dire che ne
formicolassero»; egli li riceveva ad uno ad uno, ascoltandoli e confortandoli; se gli veniva fatto osservare «che così andavano perdute
36
delle ore a lui tanto preziose, rispondeva sorridendo che anzi ci
guadagnava e di buono». La miseria era aggravata dalla situazione
politica, per la quale Venezia era stretta in una morsa dalla terra e
dal mare, a causa dei moti rivoluzionari indipendentisti e dello stretto
controllo degli austriaci, che non facevano giungere alla città le derrate alimentari necessarie. Nel 1859 la città venne bloccata dalla
parte del mare e la situazione era disperata; lo scriveva don Federico Salvioni, altro segretario di Ramazzotti, a madre Luigia Grassi
superiora delle Canossiane di Pavia: «La miseria qui si fa così grande che anche il pane della carità non si può offrire con così largo
cuore. Si immagini, signora superiora, che una sola ditta lasciò ieri
in libertà cento uno lavoratori, il che vuol dire cento una famiglie
senza pane e tutte vengono dal patriarca, così il numero dei bisognosi cresce ogni giorno».
Al patriarca per vivere bastava sempre meno: «Negli ultimi
tempi, sopra crescendo i bisogni dei poveri e venendogli meno a
tanto dispendere i redditi della mensa, ordinò che si vendessero le
argenterie della casa, non ritenendo che quanto serviva all’uso giornaliero della tavola e per pochi»; arrivò fino al punto di pensare
seriamente di vendere anche la croce pettorale, non avendo più
risorse personali alle quali attingere.
Lo spettacolo dei poveri e l’impossibilità di potervi provvedere tormentavano mons. Ramazzotti, tanto che, secondo don
Cagliaroli con il quale egli si confidava, era convinto che questo
contribuì ad aggravare i suoi disturbi cardiaci e a portarlo alla
morte: «Anche pochi dì prima che scoppiasse la terribile malattia, che in breve tempo lo trascinò al sepolcro, fu udito dire quasi piangendo: “Oh tanti poveri che io vorrei aiutare e non posso!
Son questi poveri, credetelo a me, che mi affannano il respiro,
mi struggono la salute”».
Importante è poi quanto fece per i carcerati. Non solo ottenne
dalle autorità austriache di potenziare il numero dei cappellani,
ma per il giubileo straordinario del 1858 predicò egli personalmente gli esercizi per otto giorni nel penitenziario della Giudecca
dove erano rinchiusi più di ottocento detenuti comuni: «sin dai
primi giorni nacque in tutti il desiderio di riconciliarsi con Dio nel
sacramento della confessione». Fu quindi preoccupazione del pa37
triarca provvedere che venti sacerdoti si recassero al penitenziario
per confessare, mentre egli ascoltava quelli che chiesero di confessarsi con lui, dedicando a questo ministero le ore della notte. Nel
1860 fu la volta del penitenziario femminile, dove egli si recava
spesso, commosso dalla sorte di quelle infelici che scontavano colpe commesse più per ignoranza e per miseria che per malvagità
d’animo.
Nel 1860 aveva iniziato la predicazione anche nella Casa delle
Penitenti sempre alla Giudecca , ma un incidente con la gondola
gli impedì di portare a termine queste visite e si fece sostituire da
uno dei suoi «preti di famiglia» che lo avevano seguito anche a
Venezia.
Il 26 febbraio 1861 l’imperatore aveva nominato mons.
Ramazzotti deputato della camera dei signori del Consiglio dell’imperatore; tale nomina comportò un suo viaggio a Vienna per
assistere al Consiglio dell’impero; parlava perfettamente il tedesco fin dai tempi dell’università e fu quindi in grado di far sentire
la sua voce in Consiglio, dove aveva diritto di voto, perché aveva
saputo che l’imperatore voleva ritoccare il Concordato con la Santa
Sede, specie su quanto riguardava il matrimonio. In tale occasione
chiese ed ottenne la liberazione di alcuni sacerdoti detenuti politici a Venezia.
Sul finire del 1859 l’imperatore d’Austria, per mezzo del suo
ambasciatore presso la S. Sede, avanzò la proposta che mons.
Ramazzotti fosse elevato al cardinalato; il ministro del Culto lo suggerì al card. Antonelli e questi al papa. Per la situazione politica la
decisione venne rimandata a tempi più tranquilli, così solo il 10
agosto 1861 il card. Antonelli informò il patriarca della decisione di
Pio IX di elevarlo alla porpora cardinalizia nel concistoro stabilito
per la metà di settembre. Ma mons. Ramazzotti aveva già lasciato
Venezia, essendosi aggravati i disturbi cardiaci che lo avrebbero
stroncato il 24 settembre successivo. Si trovava nella casa dei nobili
Canal a Crespano del Grappa per sfuggire all’afa della città che non
lo lasciava respirare. Si era deciso a lasciare la città quando le sue
condizioni apparvero disperate, trasferendosi il 14 luglio in casa
Canal perché aveva ceduto al Comune la villa per la villeggiatura
patriarcale di Mirano per erigervi un ospedale militare. Qui, in per38
fetta tranquillità di spirito, sereno ed offrendo le sue ultime sofferenze per il ritorno alla Chiesa dei sacerdoti macolatisti di Pavia, si
spense alle 4 e mezza del mattino del 24 settembre mentre don
Cagliaroli celebrava la messa nell’oratorio predisposto attiguamente
alla sua camera. Morì da povero, tanto che fu il Comune di Venezia
a pagare le spese del trasporto e del funerale; fu rimpianto come
«padre dei poveri e sacerdote santo». Papa Pio IX ne riconobbe le
virtù non comuni e la santità di vita nella lettera che scrisse al clero
veneziano.
Venne sepolto nella basilica di S. Marco a Venezia e traslato, il
3 marzo 1958, nella chiesa di S. Francesco Saverio a Milano su
richiesta del superiore generale del PIME, padre Augusto Lombardi, e per volontà del beato Giovanni XXIII, allora patriarca di
Venezia, che lo aveva preso a modello del suo episcopato e che fin
da allora ne auspicava la beatificazione. Egli infatti ricordava che
già da giovane sacerdote era rimasto colpito dall’iscrizione che
ricordava mons. Ramazzotti presso l’altare dell’Addolorata nel santuario di Rho: «Monsignore Angelo Ramazzotti, missionario di
Rho, vescovo di Pavia, Patriarca di Venezia, designato cardinale,
acclamato santo».
39
MODELLO ECCLESIOLOGICO E REALTÀ
DELLA CHIESA DI MILANO NELL’OTTOCENTO
di Ennio Apeciti
Premessa
A modo di premessa, ci piacerebbe che fosse tenuta sotto gli
occhi la tabella n. 1 che ci indica la progressiva evoluzione della
diocesi di Milano, il suo espandersi numericamente a livello di popolazione ed il suo ristagnare a quello di clero. La sola tabella, crediamo, spingerà a riflettere che la diocesi di Milano si trovò costretta, di fatto, a vivere in stato di missione al suo interno, vivendo così
naturalmente l’afflato missionario, che ha caratterizzato – non a caso
– l’Ottocento, il secolo della missione.
Tabella n. 1 - Stato della diocesi di Milano (da Milano Sacro)
Totale
1815 (Gaisruck)
Abitanti
Parrocchie
1838 (Gaisruck)
Abitanti
Città e Corpi
Santi
Forese
157.850
689.522
Città e Corpi
Santi
Forese
193.000
740.121
847.372
783
933.220
segue
Don Ennio Apeciti è docente di storia della Chiesa presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e di storia della Chiesa antica presso l’Istituto
superiore di scienze religiose di Milano. Inoltre è responsabile dell’Ufficio
delle cause dei santi della diocesi di Milano e superiore degli Oblati diocesani
dei SS. Ambrogio e Carlo.
40
Parrocchie
Città e Corpi
Santi
Forese
Canton Ticino
36
674
53
763
1847 (Romilli)
Abitanti
Parrocchie
Preti
Seminaristi
Città e Corpi
Santi
Forese
Città e Corpi
Santi
Forese
Vicariati
Città e Corpi
Santi
Forese
209.421
778.702
36
652
78
718
2.029
988.123
688
2.747
733
1860 (Ballerini)
Abitanti
Parrocchie
Vicariati
Preti secolari
Preti regolari
Seminaristi
Religiose
1.201.043
775
82
2.561
107
565
517
1868 (Calabiana)
Abitanti
Parrocchie
Vicariati
Preti
1.218.237
776
85
2.649
1894 (Ferrari)
Abitanti
Parrocchie
Preti
Città e Corpi
Santi
Forese
Città e Corpi
Santi
Forese
Vicariati
Città e Corpi
Santi
Forese
451.375
1.141.381
42
688
79
532
1.470
1.592.756
730
2.002
41
Tabella 2 - Quadro riassuntivo della diocesi di Milano (anni 18151894)
ANNO
1815
1838
1847
1860
1868
1894
POPOLAZIONE
847.372
933.220
988.123
1.201.043
1.218.237
1.592.756
PRETI
2.747
2.561
2.649
2.002
PARROCCHIE
783
763
688
775
776
730
Ci apprestiamo a dare corpo alla tabella n. 1 ripercorrendo la
storia della diocesi ambrosiana nel secolo XIX e soffermandoci su
ognuno dei vescovi che la ressero in quei decenni turbolenti e fecondi. Speriamo, così, di aiutare ad intuire la complessità della
trama storica che portò alla nascita dell’attuale Pontificio Istituto
Missioni Estere. L’Istituto delle Missioni Estere, nato nel 1850,
non è – non avviene quasi mai nella storia – un fiore germogliato
nel deserto, stupefacente quanto inatteso.
Le sue stesse origini, infatti, si potrebbero collocare a Rho,
presso gli Oblati Missionari, fondati il 4 aprile 1721 dal cardinale
Erba Odescalchi (1712-1737), che da più di un secolo, dunque,
presso il santuario della Madonna Addolorata di Rho accoglievano preti, soprattutto, e laici, per gli esercizi spirituali secondo il
metodo ignaziano. Essi, inoltre, si disperdevano per il territorio
della vasta diocesi a predicare le missioni, quel metodo allora
moderno di pastorale teso a raggiungere le masse, che si erano
scoperte ancora poco formate cristianamente, tanto che c’era chi
paragonava le campagne alle terre di missione e chi parlava
dell’«India Italia». Di questi Oblati Missionari nella prima metà
dell’Ottocento fu membro di spicco mons. Angelo Ramazzotti.
Non possiamo pensare, dunque, all’Istituto delle Missioni Estere
senza ricordare questi Oblati.
Essi erano gli eredi della congregazione fondata da san Carlo
per realizzare tra i suoi preti l’ideale sacerdotale proposto dal
Concilio di Trento, preti santi e zelanti, vale a dire intensamente
impegnati nel ministero, nel servizio del loro popolo, tanto che le
stesse parrocchie ne risentirono nella determinazione dei loro con42
fini: esse dovevano essere vaste – si diceva con un po’ d’effetto –
quanto l’ombra del campanile della chiesa, che n’era il cuore. Per
avere l’intuizione di quest’ideale basterebbe leggere anche solo
un passo dello stupendo discorso tenuto da san Carlo durante il
suo ultimo sinodo (1584) e che è un poco il suo testamento:
Hai il mandato di predicare e di insegnare? Studia e attendi a ciò che
ti è necessario per svolgere pienamente questo incarico. Da’ sempre
buon esempio e cerca di essere il primo in ogni cosa. Predica soprattutto con la vita ed i costumi, perché [non avvenga che] vedendoti
dire una cosa e farne un’altra, deridendo le tue parole, scuotano il
capo. Sei in cura d’anime? Non trascurare per questo te stesso e non
darti agli altri tanto generosamente che non rimanga nulla di te a te
stesso. Infatti è certo doveroso che tu abbia a ricordarti delle anime
alle quali presiedi, non tuttavia in modo tale da dimenticarti di te 1.
Forse non meno affascinante sarebbe il discorso tenuto agli
ordinandi il 24 maggio 1578, quasi a metà del suo ministero
episcopale:
Siate santi nel vostro cuore, nelle parole, nelle opere; perfetti sotto
ogni aspetto, per ricevere degnamente il Santissimo Sacramento dell’Ordine ed essere colmati dei doni dello Spirito Santo, per grazia
divina. Non accontentatevi di progredire soltanto voi, nel Signore,
sulla strada della virtù; fate in modo che anche le altre persone si
santifichino per mezzo del vostro esempio e della vostra parola 2.
San Carlo fu divorato da quest’ansia pastorale e desiderò consumarne ogni suo presbitero: dal servizio (o dalla destinazione)
all’altare discendeva per lui la necessità della santità sacerdotale,
la quale era – ed è – la condizione necessaria per una vera, autentica, feconda attività pastorale. E la trilogia potrebbe essere detta
anche in senso inverso. Perché un sacerdote sia zelante, utile –
Acta Ecclesiae Mediolanesis, 3, ed. Achille Ratti, Mediolani 1892, p. 882. La
traduzione è nostra.
2
SAN CARLO BORROMEO, Omelie sull’eucaristia e sul sacerdozio, Edizioni
Paoline, Roma 1984, p. 306.
1
43
cioè – al bene delle anime, deve essere santo, di quella santità che
discende (riceve, cioè, e si nutre) dai sacramenti, che egli celebra
efficacemente, poiché agisce in persona Christi: egli, il sacerdote, è
colui (o Colui?) che celebra.
In quest’anelito apostolico si colloca l’intuizione degli Oblati,
preti che avrebbero dovuto condividere l’ideale sacerdotale di san
Carlo; preti che si sarebbero dati totalmente al ministero nel primato dato all’amore di Cristo e dei fratelli, della contemplazione e
della pastorale, inseparabili l’una dall’altra, perché solo stando così
simbioticamente unite potevano – e possono – conservare fedele e
felice la vita del prete.
San Carlo li sognava così: liberi da ogni attaccamento mondano; dediti solo al servizio delle anime nella collaborazione sincera
e fraterna del presbiterio, tra loro con il loro vescovo.
Questo chiese al papa Gregorio XVI, che li riconobbe il 26
aprile 1578. Questo ricordò loro, consegnando gli Statuti della
Congregazione (13 settembre 1581): «Vi abbiamo fondato per il
bene di tutta la Chiesa milanese, così che tutti riconoscano che
essa è sostenuta dagli esempi delle vostre virtù, è adornata dal
vostro progresso spirituale, è resa più grande e splendida dalle
vostre buone azioni, che sono sempre presenti in voi, per consolidarla, una santa volontà unita ad ardente zelo, prontezza nell’obbedire e compimento esatto del vostro dovere» 3.
Questo coinvolgimento totale con il proprio vescovo aveva la
forma del voto di obbedienza, che è rimasto anche oggi come legame con un passato che tocca a noi rendere ancora attuale nei
suoi valori autentici. Quel voto per un prete di quel tempo comportava la rinuncia ad ogni beneficio parrocchiale o di altro tipo e
la totale dipendenza economica dall’arcivescovo. E questo significava una scelta di povertà radicale, apostolica. Comportava la rinuncia ad ogni carrierismo (perché non si partecipava ai concorsi
di vario tipo a posti prestigiosi) e la disponibilità radicale ad assumere quei compiti che nessuno voleva per sé. Era, dunque, scelta
SAN CARLO BORROMEO, Statuti degli Oblati di S. Ambrogio, a cura di PIER
FRANCESCO FUMAGALLI, NED, Milano 1984, p. 93.
3
44
di nascondimento e di umiltà. Comportava la collaborazione con
i confratelli, che condividevano l’identico ideale (quello del vescovo): non avendo parrocchia personale, si abitava dove il vescovo voleva e, nel caso, nelle abitazioni messe a disposizione del vescovo, di qui partendo per svolgere gli incarichi ricevuti e qui tornando al loro compimento. L’oblazione, dunque, significava scelta di fraternità sacerdotale, con vera vita comune. Comportava
dare il primato alla pastorale del vescovo, alla comunione di intenti e non alle proprie intuizioni o sperimentazioni. Era, in altre
parole, la scelta della diocesanità, della progettazione comune, di
itinerari educativi precisi, di collaborazione pastorale. Era la scelta del primato della missione e del servizio.
Non a caso gli Oblati furono subito destinati da san Carlo e
dai suoi successori a formare i futuri preti nei seminari e la gioventù ambrosiana nelle scuole della Dottrina Cristiana; ad animare la
spiritualità degli adulti nelle confraternite e stimolare la vita dei
fedeli, riformando le parrocchie.
Non è, dunque, un caso che alcuni preti milanesi, giovani e
pieni di zelo, appassionati e pronti ad ogni sacrificio per amore
del Vangelo e dei fratelli, scegliessero di fare vita comune in patria
– a Milano – in vista della missione in terre lontane. Era quasi
inevitabile che nel contesto dello sviluppo dell’ideale missionario,
che è uno dei tratti caratteristici dell’Ottocento, alcuni preti ambrosiani scegliessero questa forma di ministero: era nel solco della
tradizione sacerdotale che li aveva preparati. Come gli Oblati del
tempo di san Carlo e quelli missionari di Rho erano stati la risposta appropriata a ciò che lo Spirito suscitava nella Chiesa del loro
tempo; così i missionari di Saronno e poi di San Calocero furono
un modo di rispondere a ciò che lo Spirito faceva sentire alla Chiesa
nell’Ottocento. La Chiesa ambrosiana, ovviamente, condivideva
questa vocazione missionaria che lo Spirito suscitava: l’Istituto delle
Missioni Estere ne è espressione.
Potremmo, però, anche affermare che l’Istituto delle Missioni
Estere nacque a Saronno. Qui prese corpo e vita la piccola comunità primitiva. Lo fece presso un convento riscattato da uno dei
tanti laici che si impegnarono con coraggio ed energia, rimettendoci di persona (anche economicamente) per difendere gelosa45
mente la loro Chiesa ambrosiana, che da tempo li andava educando ad un impegno personale, coraggioso ed intelligente; che li
impegnava ad essere capaci di porsi nel difficile contesto politico
e sociale, in modo da saper rendere «ragione della speranza che
era in loro» (cfr. 1Pt 3,15).
Anche questo era espressione dello spirito della Chiesa ambrosiana, che nel suo stesso nome si caratterizza per un richiamo ad
un tempo significativo della sua storia, quello del suo Parentem
maximum, come lo canta nella sua solenne memoria liturgica il 7
dicembre.
Non è questo il luogo di trattarne. Basti ricordare, comunque,
che la Chiesa di Milano si sentì talmente segnata dall’impronta di
questo vescovo da assumerne il nome. Ambrogio fu il campione
della missione, colui che impegnò tutte le sue energie e quelle della sua comunità nel plasmare con i valori del Vangelo il volto della
società del suo tempo, pur in mezzo alle difficoltà ed incomprensioni che il tempo dimentica. Non fu facile per la Chiesa del tempo di Ambrogio testimoniare il primato del Vangelo e la sua capacità di dare senso e stile al vivere sociale, politico, civile. Eppure ci
riuscì. Questo impegno a dare sapore alla vita della società, ad
esserne fermento che fa lievitare e sale che brucia e purifica insieme accompagnò la comunità ambrosiana anche nei momenti più
bui della sua storia, anche quando fu tentata di omologarsi all’andazzo comune. Ma l’impronta ricevuta, la costringeva a ritornare
alle sue radici. Avvenne anche nella prima metà dell’Ottocento: di
fronte all’ondata rivoluzionaria francese ed alla restaurazione riformatrice degli austriaci, si pose una comunità che sentiva fortemente il legame con le sue tradizioni; che era stata abituata da
secoli a vivere coinvolgendo le sue diverse componenti, anche
quelle laicali. Si pensi ancora una volta alle scuole della Dottrina
Cristiana: esse avevano un animatore (assistente) ecclesiastico, ma
erano completamente gestite dai laici che, assumendo quell’impegno, sceglievano un esigente tipo di vita spirituale personale e si
impegnavano nel loro ambiente a testimoniare le loro scelte. I
maestri e tutti gli altri operatori pastorali sapevano di impegnarsi
non solo per un’ora la settimana, ma di assumere uno stile di testimonianza nel loro ambiente, fosse il piccolo paese o il quartiere di
46
Milano. Sarebbe qui da tracciare la grande saga degli oratori, cui
accenneremo. Basterebbe pensare all’entusiasmo che avevano i cosiddetti Giovani della Madonna, che si riunivano presso il duomo.
Ma si potrebbero ricordare i giovani che con Luigi Monti fondarono la Compagnia dei Frati a Bovisio Masciago (Milano). Tutti
questi giovani si trovavano la sera, dopo il loro faticoso lavoro, e
pregavano, leggevano le vite dei santi, cantavano, discutevano di
quello che era successo durante il giorno. Da questo ritrovo comune conseguivano concrete scelte operative, dalle corali per animare la messa domenicale alle rappresentazioni teatrali, alle forme che oggi diremmo di volontariato, aiutando chiunque fosse
nel bisogno. Il fine non era solo quello di passare qualche bella
serata insieme, ma di aiutarsi ad essere testimoni autentici durante il giorno. Essi, infatti, si proponevano di far rifiorire cristianamente gli ambienti in cui vivevano, mostrando a molti compagni
di lavoro o parenti quanto fosse bello e quanta gioia donasse l’essere cristiani. E ci riuscirono, anche in mezzo alle prove ed alle
incomprensioni.
Non è, allora, senza significato che la Compagnia dei Frati del
venerabile padre Monti fosse nata dall’incontro che quel giovane
diciassettenne ebbe con i Padri Oblati Missionari di Rho ed in
particolare con padre Angelo Ramazzotti: in quei giovani riviveva
lo stile della loro Chiesa, l’anelito missionario mai domo. Basti
solo questo, per far intuire che il terreno in cui poté attecchire il
futuro PIME era reso adatto anche dalla testimonianza di molti
laici: quello che fece – per usare solo un nome – Marcello Candia
era nel solco della tradizione laicale ambrosiana. La presenza dell’Istituto delle Missioni Estere a Milano fu, dunque, preziosa per
la stessa Chiesa milanese: stimolò il suo spirito missionario e ne
impedì la rassegnazione, che sempre insidia le cose degli uomini.
Forse la vivacità della Chiesa ambrosiana attuale deve molto a
quest’istituto, nato dalla sua stessa tradizionale attenzione ad incarnare il Vangelo.
Lo stesso mondo religioso dell’Ottocento milanese esprime e
raccoglie l’anelito missionario, che fece germogliare il PIME. Pensiamo – solo per cenni – ai numerosi istituti religiosi nati nella
diocesi ambrosiana, e che più sotto indicheremo. La congregazio47
ne delle Suore Marcelline nacque dall’intuizione di mons. Luigi
Biraghi, che non a caso scopriamo come animatore dell’ideale
missionario dei chierici del seminario, ove era direttore spirituale.
Ambedue – i giovani missionari per l’estero e le giovani ragazze
per la buona borghesia ambrosiana – esprimevano l’identico ideale: non era più tempo di stare nelle sacrestie e tanto un buon prete
quanto una ragazza generosa andavano a portare il Vangelo con
entusiasmo, dove il bisogno era maggiore. In quegli anni la borghesia lombarda era percorsa da correnti di agnosticismo – accanto a testimonianze eccezionali di fede – che facevano pensare, s’è
già detto, che non ci fosse molta differenza fra alcune zone di Milano e della Micronesia.
Anche per questo motivo, oltre che per la tradizione tipica del
tempo, i primi missionari, rientrando dalla missione, si inserivano
con lo stesso ardore nell’attività pastorale. È il caso, anche qui
usato come esempio per tutti, di don Carlo Salerio che, riprese le
forze consumate in Oceania, fu attivissimo fondatore di case di
accoglienza e di formazione, affidate alla congregazione religiosa
delle Suore della Riparazione: fu il suo entusiasmo a sostenere i
primi passi della loro fondatrice, Carolina Orsenigo.
Anche il mondo dei religiosi e delle religiose dell’Ottocento
ambrosiano, pertanto, si presenta caratterizzato dagli stessi ideali
missionari che si coagularono nell’Istituto delle Missioni Estere. Esso
poté radicarsi in questo humus, ove si univano consacrazione a Dio
e servizio dei fratelli nella carità e nella formazione spirituale e culturale; donarsi agli ultimi o ai meno formati, per portare a tutti la
piena realizzazione umana di cui il Vangelo è custode. Dall’altra
parte, la presenza stessa dei preti del futuro PIME – fossero in formazione o di ritorno – stimolava la stessa vita dei consacrati e li
permeava degli stessi valori. Anche di questo, forse, dovremmo tenere conto. La Chiesa di Milano ha saputo affrontare sfide epocali
anche – noi crediamo – perché si è presentata all’appuntamento
con una vivacità di intenti e una capacità di dialogo con i cosiddetti
lontani, che le venivano da un secolo, l’Ottocento, durante il quale
il vento ed il profumo della missionarietà avevano svegliato gli
assonnati, rincuorato gli incerti, entusiasmato quelli che sentivano
che il Vangelo ha un segreto strano: è sempre attuale; sa sempre dire
48
parole nuove ad ogni nuova generazione; se non è accolto è semplicemente perché non è stato sentito, perché in quel luogo o momento nessuno ne ha parlato. Non a caso il Signore Gesù fa udire i sordi
e parlare i muti: sino a che ci sarà – e ci sarà sempre – chi ne parli, ci
sarà qualcuno che ascolterà e a sua volta ne parlerà.
Come comincia il secolo XIX nella diocesi di Milano?
a) Il vescovo e le sue vicende: G.B. Montecuccoli Caprara (18021810)
La nostra storia comincia con il cardinale Giovanni Battista
Montecuccoli Caprara, un uomo controverso 4, arrivato alla porpora quasi per liberare la nunziatura di Vienna (1792), ma recuperato nel 1801, quando, per il suo noto atteggiamento favorevole
ad un accordo della Santa Sede con i rivoluzionari francesi, fu
inviato come legato a latere a Parigi, per l’esecuzione del Concordato. Egli interpretò in modo talmente favorevole ai francesi le
clausole dell’accordo, che ottenne come premio da Napoleone l’arcivescovado di Milano (25 maggio 1802). In forza di questo titolo
garantì ogni controllo francese sulla diocesi; organizzò splendidamente l’incoronazione di Napoleone ad imperatore dei francesi (2
dicembre 1804) ed a re d’Italia in Milano (26 maggio 1805): visita
dolorosa, perché Napoleone approfittò dell’occasione per scegliere
il progetto della facciata del duomo 5. Fu questa la seconda – ed
ultima – occasione, che vide il cardinale Caprara nella sua sede
episcopale 6. Forse a sua difesa vale la massima della sua vita, così
GIOVANNI PIGNATELLI, Caprara Montecuccoli Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIX, 1976, pp. 180-186.
5
Fu scelto il progetto meno costoso e fu stabilito che a pagarlo sarebbero
stati i milanesi stessi: si ordinò alla Fabbrica del Duomo di vendere i suoi beni,
che passarono nel giro di mesi da 2.500.000 a 92.000 e si impose una tassa speciale alla popolazione.
6
Era sceso a Milano la prima volta il 21 agosto 1802, per prendere possesso
della sede.
4
49
come la riferiva il cardinale Consalvi, che non gli era propriamente amico: «Non vi è che la condiscendenza [...] Bisogna restare in
piedi ad ogni costo, perché se si cade una volta, non si risorge
più».
Le cose, in ogni caso, non andavano meglio prima della nomina del Caprara. Conviene farne cenno.
Inizialmente la Chiesa milanese era stata contraria alla Rivoluzione francese, anche se in seguito l’ostilità diminuì, senza arrivare
mai, però, all’estremo del prevosto di Varese, don Felice Lattuada,
che dall’appoggio alla rivoluzione passò alla «rivoluzione della dottrina morale» ed al rifiuto della religione come superstizione 7.
Purtroppo, l’arrivo dei rivoluzionari – ed in particolare di Napoleone – si trasformò da speranza in stolto saccheggio. Se all’arrivo di Napoleone in città si cantò il Te Deum, ben presto si rimase
colpiti dalla protervia francese: furono richiesti 20 milioni di lire
tornesi alle province lombarde; furono confiscati tutti i beni dei
conventi, compresi i rivestimenti in rame delle cupole ed i materassi; fu saccheggiata la Pinacoteca Ambrosiana e furono portati a
Parigi le Madonne del Luini, di Rubens, di Bruegel, il cartone
della Scuola di Atene di Raffaello, tredici volumi di disegni e scritture di Leonardo 8.
Le manifestazioni di dissenso furono represse duramente, anche quando venivano dal clero: il 4 giugno 1796 cadde sotto i colpi del plotone d’esecuzione don Paolo Bianchi, parroco di S. Francesco di Paola, una delle parrocchie centrali di Milano (tra via
Montenapoleone e via Manzoni) e il 30 giugno fu fucilato don
Giuseppe Pacciarini, parroco anziano del duomo.
Quando la popolazione cominciò a ribellarsi, Napoleone ne
accusò il clero, ritenuto da sempre vicino alla popolazione e suo
istigatore. E questo è un dato da conservare.
Il Francese poté così piegare l’arcivescovo Filippo Visconti
(1783-1801) a pubblicare una lettera pastorale sull’obbedienza. La
Nel 1796 lasciò infine il sacerdozio.
Ne fu restituito uno solo nel 1816. Al saccheggio si devono aggiungere la
Coronazione di spine di Tiziano, asportata da S. Maria delle Grazie e il S. Sebastiano del Procaccini da S. Celso.
7
8
50
popolazione si sentì tradita ed uccise l’arciprete della metropoli,
Giuseppe Ordogno de Rosales, mentre l’arcivescovo dovette fuggire da Milano e rifugiarsi a Gorla Minore 9.
La situazione pastorale si aggravò con l’estensione alla Repubblica Cisalpina delle norme ecclesiastiche deliberate in Francia con la Costituzione civile del clero: il 1° dicembre 1797 si
stabilì che i parroci fossero eletti dai cittadini e il 17 dello stesso
mese si proibì la raccolta di offerte e la celebrazione di atti di
culto fuori delle chiese, mentre il viatico doveva essere portato
in incognito. Inoltre, tutte le immagini sacre dipinte sui muri
esterni delle case dovevano essere coperte con calce, mentre venne scalpellato dalla facciata del duomo lo stemma di Pio VI e
furono distrutte le insegne dei sepolcri dei cardinali milanesi (alcune pietre tombali furono invece semplicemente rivoltate). Infine, nel 1798 furono soppressi i capitoli del duomo e di tutte le
collegiate e furono requisiti il seminario, i conventi ed i monasteri (quello di S. Ambrogio fu trasformato in ospedale).
Particolarmente odiosa, in ogni caso, rimaneva la clausola obbligatoria prima di assumere ogni incarico o beneficio ecclesiastico, che ritornò anche nei successivi concordati e che non ha bisogno di molti commenti:
Io giuro e prometto a Dio sui santi Vangeli di prestare obbedienza e
fedeltà al Governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica francese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza, di non assistere ad alcun conciliabolo, di non mantenere alcuna lega, sia all’interno
sia all’estero, che sia contraria alla tranquillità pubblica; e se nella
mia diocesi ed altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pregiudizio dello Stato, io lo farò sapere al Governo.
Era in fondo, se applicato, un giuramento di delazione che
lasciava imprecisato il rapporto con il segreto confessionale.
Eppure, così facendo, Napoleone favorì la Chiesa: il popolo
non capiva questo accanimento contro il clero che, dai tempi di
9
In seguito passò a Padova.
51
Maria Teresa d’Austria, era giuridicamente trattato, comprese le
tasse, come qualsiasi altro cittadino.
Si può capire il tripudio con cui fu accolto il ritorno degli austriaci. Essi, purtroppo, si abbandonarono a veri atti di vendetta
perdendo così, nei 13 mesi in cui rimasero, il capitale di consenso
che li aveva accolti.
Intanto Napoleone aveva imparato la lezione se, come si narra, confidò al Talleyrand: «Per vivere in pace col popolo italiano, è
necessario rispettare ed andare d’accordo col clero». Infatti, al
suo ritorno in Milano (2 giugno 1800) convocò i parroci della città
e tenne loro un discorso conciliante. Ma durò poco: l’arcivescovo
Visconti, appena rientrato da Padova, dovette pagare una multa
di 2 milioni di lire italiane in nome di tutto il clero per l’appoggio
dato agli austriaci e, quando le resistenze ripresero, l’arcivescovo
Visconti provò le traversie di Pio VI e Pio VII: fu convocato a
Lione nonostante i suoi 80 anni.
È in questa difficile situazione che operò – o si barcamenò – il
Caprara.
Tra gli altri, uno degli atti che ci possono interessare fu quello
compiuto nell’ottobre 1806, quando l’arcivescovo di Milano promulgò su ordine imperiale e contro la volontà della Santa Sede il
Catechismo imperiale o napoleonico che, in forza dell’approvazione ambrosiana, fu esteso ai regni italiani satelliti dell’imperatore 10. Val la pena di leggerne la famosa Lezione settima, riguardante il quarto comandamento:
D.: Quali sono i doveri dei Cristiani verso i Principi che li governano; e quali sono in particolare i nostri doveri verso Napoleone I,
Imperatore e Re nostro?
Catechismo ad uso di tutte le Chiese del Regno d’Italia. Edizione originale
ed autentica, Stamperia Reale, Milano 1807. Sul Catechismo imperiale vedi: ANDRÈ
LATREILLE, Le catéchisme impérial de 1806. Études et documents pour servir à
l’histoire des rapports de Napoléon et du clergé concordataire, Les Belles Lettres,
Paris 1935; ROSA PESCINI, “La polemica sul Catechismo napoleonico e una
confutazione romana di esso”, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 17
(1963), pp. 406-412; FRANCESCO PISTOIA, “Nota sul Catechismo imperiale del
1806”, in «Rivista di Letteratura e di Storia Ecclesiastica», 8 (1976), pp. 299-313.
10
52
R.: I Cristiani debbono ai Principi, da cui sono governati e noi in
particolare a Napoleone I, Imperatore e Re nostro, amore, rispetto, obbedienza, fedeltà, il servizio militare, le imposizioni
ordinate per la conservazione e difesa del trono: noi gli dobbiamo ancora fervorose preghiere per la di lui salute, e per la prosperità spirituale e temporale dello Stato.
D.: Per qual ragione siamo obbligati a questi doveri nei confronti
del nostro imperatore?
R.: In primo luogo perché Dio, che crea gli imperi e li distribuisce
secondo il suo volere, ricolmando il nostro imperatore di doni,
tanto in pace quanto in guerra, lo ha costituito nostro sovrano,
lo ha reso ministro della sua potenza, e sua immagine sopra la
terra. Onorare e servire il nostro imperatore è dunque onorare e
servire Dio stesso. In secondo luogo perché nostro Signore Gesù
Cristo, colla sua dottrina e coi suoi esempi, ci ha egli stesso insegnato quello che noi dobbiamo al nostro sovrano: è nato mentre
si obbediva all’editto di Cesare Augusto; ha pagato la tassa prescritta; e come ha ordinato di rendere a Dio quel che appartiene
a Dio, così ha ordinato di rendere a Cesare quel che appartiene a
Cesare.
D.: Vi sono motivi particolari, per i quali dobbiamo essere più fortemente attaccati a Napoleone I, nostro imperatore?
R.: Sì, perché egli è colui che Dio ha suscitato in circostanze difficili
al fine di ristabilire il culto pubblico della santa religione dei
nostri padri, e di esserne il protettore. Con la sua profonda ed
attiva saggezza egli ha ristabilito l’ordine pubblico e lo ha conservato; col suo braccio potente difende lo Stato; è diventato
l’Unto del Signore per la consacrazione che ha ricevuta dal Sommo Pontefice, Capo della Chiesa universale, come Imperatore, e
dall’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo di Milano, come Re
d’Italia.
D.: Che cosa si deve pensare di coloro che mancassero ai loro doveri
verso l’imperatore?
R.: Secondo l’apostolo s. Paolo essi resisterebbero all’ordine stabilito da Dio stesso e si renderebbero degni della dannazione
eterna.
Anche in questo caso, riteniamo inutile ogni commento. Piuttosto vale la pena osservare che questo catechismo avrebbe dovuto sostituire tutti quelli precedenti ed in parte lo fece. Ma,
53
essendo durato lo spazio dell’impero napoleonico, ne seguì la
sorte. Alla fine, tramontato l’astro di Napoleone, rimase alla diocesi di Milano ed in genere all’Italia ed alla Francia un vuoto
formativo proprio a livello di catechesi: mancava un testo unico,
preciso, comune a tutta una regione, il che permetteva alla popolazione, spesso in movimento, di inserirsi nel nuovo domicilio, anche ecclesiale, senza eccessive difficoltà e senza lacune formative. Credo sia un elemento di cui non si tiene sempre conto:
per tutto l’Ottocento ci fu un’atomizzazione della catechesi, di
cui noi, forse, abbiamo visto gli effetti – solo i primi! – nel XX
secolo.
La situazione pastorale si aggravò, se pensiamo che il cardinale Caprara ordinò ai professori del seminario di prestare giuramento di fedeltà all’impero e soppresse le confraternite, tranne
quelle del SS. Sacramento. Anche in questo modo, egli danneggiò
la vita pastorale. Basterebbe pensare a cosa significassero in realtà
le confraternite, a cosa comportava l’essere confratello. Oltre che
a coltivare e a sostenere una spiritualità eucaristica – il confratello
era tenuto alla comunione almeno mensile – lo stesso confratello
era chiamato a curare la spiritualità familiare, poiché era sua la
responsabilità primaria dell’educazione dei figli alla fede e, per
farlo degnamente, gli era richiesta l’esemplarità. Di qui l’educazione costante ad una corretta condotta quotidiana, fedele ai propri doveri, all’educazione del carattere, all’educazione propria delle
virtù umane, all’importanza della carità (o attenzione ai poveri),
alla collaborazione all’interno della confraternita e della comunità
parrocchiale cui essa apparteneva. Vi era, quindi, insita una prima
assunzione di responsabilità, una prima forma di spiritualità laicale, prima animazione della società 11.
Lo stesso discorso si dovrebbe fare – e rivelerebbe un singolare
interesse – anche per le confraternite femminili, dedicate soprattutto alla Madonna. Esse permettevano, oltre a quanto detto per quelle maschili, di coltivare la spiritualità mariana alla maniera di san
11
AMBROGIO PALESTRA, Le antiche confraternite del SS. Sacramento della diocesi di Milano, in Ricerche Storiche della Chiesa ambrosiana, vol. XI (= Archivio
Ambrosiano 45), Milano 1982, pp. 169-207.
54
Carlo e dunque erano sentite come ambrosiane. Esse permettevano
poi di educare ad un certo modello di famiglia, che non dovremmo
dimenticare e che ritroveremo sviluppato lungo il secolo XIX.
Se poi ricordiamo le confraternite dedicate a San Giovanni
Decollato, potremmo allargare il nostro discorso all’ambito della
carità. Queste confraternite si dedicavano all’assistenza dei carcerati, compresi i condannati a morte, per alleviarne le pene del carcere e l’orrore dei momenti estremi. Esse sono sulla linea dell’impegno di carità che aveva segnato la Chiesa ambrosiana. Non si
dimentichi che, già al tempo di san Carlo, su 560.000 abitanti della diocesi circa 100.000 erano assistiti dalla comunità ecclesiale.
Intanto Napoleone con leggi imperiali aveva soppresso alcune
parrocchie, soprattutto nel centro di Milano, riducendole a 23 (22
giugno 1805). Ciò significò indebolire quel principio tipicamente
ambrosiano e carolino – nel senso che era un retaggio delle riforme di san Carlo consegnato alla diocesi –, che si basava sulla capillarità delle parrocchie, secondo un adagio tradizionale: la parrocchia doveva essere vasta quanto l’estendersi dell’ombra del campanile. Era un principio che aveva fino ad allora garantito quella
vicinanza tra pastore e popolo che faceva sentire il «signor curato» uno di casa, partecipe delle vicende e delle attese di ognuno,
spesso compagno nel cammino della vita, dalla culla – o meglio
dal fonte battesimale – alla tomba.
Cosa ancora più importante fu la soppressione nel 1810 di tutti
gli ordini religiosi tranne i Fatebenefratelli e le Suore di Carità. Poiché spingeva sulla strada dell’impegno, della vita attiva, questa soppressione selettiva non fu tutto sommato un male: accentuò il carisma
della carità, proprio della consacrazione, chiedendo di coniugare
l’elemento contemplativo – proprio di ogni consacrazione a Dio –
con quello attivo, secondo la sintesi di san Giovanni, per cui non
può dire di amare Dio che non vede colui che non ama il fratello
che vede. Era una costrizione ad uscire dal chiuso delle mura dei
conventi, e delle sacrestie, per avviarsi sulle strade del mondo fermandosi, come facevano gli istituti di carità, presso i più bisognosi.
Che fosse non tanto un’intuizione di alcuni, ma un desiderio dello
Spirito, che voleva sospingere la Chiesa su questa strada, potrebbe
essere confermato dal semplice scorrere l’elenco degli ordini reli55
giosi nati nel secolo XIX e agli inizi del XX, con l’indicazione carismatica della carità. (Si veda la tabella n. 3, con l’opportuno commento).
Tabella n. 3 - Ordini religiosi fondati tra il 1802 e il 1918
ANNO
1802
1808
1814
1815
1816
1817
1821
1822
1824
1828
1830
1831
1832
1833
1834
NOME
LUOGO
(E FONDATORE)
Scuole della carità
Fratelli Cavanis
Missionari di Francia (o Pre- Francia
ti della Misericordia)
Figlie della Carità o Serve Canossiane
dei Poveri
Congregazione di Picpus
Missionari del Preziosissimo Roma (Gaspare
Sangue
del Bufalo)
Oblati di Maria Immacolata Provenza
Oblati di Maria Vergine di
Pio Lanteri
Marianisti - Società di Maria
Adoratrici Perpetue del SS. Monza
Sacramento
Maristi
Orsoline di San Carlo
Milano
Suore della Carità dell’Imma- Ivrea
colata Concezione
Compagnia di Maria
CARATTERISTICA
Carità-istruzione
Missioni
Carità
Missioni
Missioni popolari
Missioni
Missioni
Missioni
Istruzione
Carità
Sordomuti (carità)
Figlie del Sacro Cuore
Bergamo
Carità
Suore della Carità (Maria Lovere, Bergamo Carità
Bambina)
Suore di S. Giuseppe
Torino
Carceri-carità
Figlie della Presentazione di
Istruzione-carità
Maria SS. al Tempio
Missionari dei Sacri Cuori di Secondigliano,
Gesù e di Maria
Napoli
Torino (marche- Carità
Suore di Sant’Anna
sa Barolo)
segue
56
ANNO
1838
1845
1846
1847
1848
1849
1850
1854
1855
1856
1857
1859
1860
1864
1867
1868
1871
NOME
LUOGO
(E FONDATORE)
Suore di Santa Marcellina
Milano
Missionari di S. Francesco di Francia
Sales
Agostiniani dell’Assunzione Spagna
Suore del Bambin Gesù
Inghilterra
Pavoniani
Brescia
Padri dello Spirito Santo
(CSSp)
Missionari dell’Immacolata Lourdes
Concezione
Missionari Figli del Cuore
Immacolato di Maria (Claretiani)
Missioni Estere di Milano
Missionari del Sacro Cuore Francia
di Gesù
Missionari del Sacro Cuore
Insegnanti di Maria Immacolata (Claretiane)
Società Missioni Africane
(SMA)
Fratelli Ospitalieri o Figli del- Roma (p. Luigi
l’Immacolata Concezione
Monti)
Frati della Carità (Frati Bigi)
Figlie della Carità (Ancelle Montreal, Canada
dei Poveri)
Figlie di Maria S. Immacolata
Suore della Santa Famiglia
Istituto Missioni Africane Comboniani - Figli del Sacro Cuore
Missionari d’Africa (Padri
Bianchi)
Sacerdoti del SS. Sacramento Spagna
Ancelle del SS. Sacramento Spagna
Figlie di Bethlem
Milano
CARATTERISTICA
Istruzione
Missioni popolari
Carità
Per i convertiti
Carità
Missioni
Missioni popolari
Missioni
Missioni
Missioni
Missioni
Missioni
Carità
Carità
Carità
Convitti per operaie
Missioni
Missioni
Carità
segue
57
ANNO
NOME
1872
Comboniane - Madri della
Nigrizia
Figlie di Maria Ausiliatrice
Pontificio Istituto SS. Pietro
e Paolo
Società del Verbo Divino
(Verbiti)
Suore del Preziosissimo Sangue
Missionarie del Sacro Cuore
di Gesù
Missionari dell’Immacolata
Concezione
Padri del Cuore Immacolato
di Maria di Scheut
Istituto Artigianelli
Sacra Famiglia di Nazareth
1874
1875
1876
1880
1885
1886
1887
1888
1889
1890
1894
1895
1899
1900
LUOGO
(E FONDATORE)
CARATTERISTICA
Missioni
Educazione
Missioni
Germania
Missioni
Monza
Istruzione
(F.S. Cabrini)
Emigrati
S. Armengol (Spagna)
Belgio
Missioni
Giovanni Piamarra Educazione-carità
Orfani e abbandonati
Umili Serve del Signore
Missionari di San Carlo (Scalabriniani)
Suore della Sacra Famiglia
del Sacro Cuore di Gesù
Sacerdoti Missionari di San Germania
Paolo (Paulisti)
Opera di San Pietro Apostolo
Missionari dei Sacri Cuori di Randa, Spagna
Gesù e di Maria
Missionari di San Giuseppe Mill Hill (Gran
Bretagna)
Pia Società di San Francesco Parma (Italia)
Saverio (Saveriani)
Istituto di San Francesco Sa- (Spagna, Burgos)
verio
Istituto della Consolata
Piemonte (Italia)
Emigrati
Carità
Per i convertiti
Missioni
Carità
Missioni
Missioni
Missioni
Missioni
segue
58
ANNO
1903
1907
1908
1911
1917
1918
NOME
LUOGO
CARATTERISTICA
(E FONDATORE)
Piccola Opera della Divina Tortona
(don Carità
Provvidenza
Orione)
Piccola Missione per i Sor- Fratelli Lanteri
Per i sordomuti
domuti
Poveri Servi della Divina Prov- Verona (don Ca- Carità
videnza
labria)
Como
(don Gua- Carità
Servi della carità
nella)
Società di Maryknoll
Missioni
Povere Serve della Divina Verona (don Ca- Carità
Provvidenza
labria)
Figlie di S. Maria della Prov- Como (don Gua- Carità
videnza
nella)
Congregazione dei Figli del- Parigi
Per gli operai
la Carità
Premettiamo che la distinzione dei compiti (carismi) è difficile
da farsi: ogni ordine o congregazione ne vive insieme parecchi e la
sottolineatura di uno di loro è spesso funzionale al distinguersi da
un istituto simile. C’è in questa differenziazione la manifestazione
di una grande fantasia e libertà, di un grande rispetto reciproco
(che si coniugava, ovviamente, ad una sana e reciproca emulazione).
Possiamo in ogni caso individuare, per comodità di studio, tre
caratteristiche carismatiche e tre caratteristiche spirituali che ci possono permettere di conoscere un po’ più complessamente il volto
della Chiesa della prima metà del secolo XIX.
Le caratteristiche carismatiche sono: l’intenso afflato missionario; il primato dato alla carità verso i più bisognosi in ogni senso; la cura quasi eroica della formazione soprattutto delle giovani
generazioni.
Torniamo ora alla diocesi ambrosiana e alla soppressione, tra
gli altri, della congregazione degli Oblati, quei preti raccolti dal
tempo di san Carlo in una scelta di vita e di fraternità che richiedeva la rinuncia nelle mani del vescovo (= oblazione) dei propri
benefici parrocchiali, per mettersi al suo immediato servizio nelle
scelte pastorali che egli avesse ritenuto più necessarie, senza ri59
compensa o vantaggio economico: per gli Oblati era la scelta del
primato del ministero pastorale e dello stile di povertà vissuto con
un impegno di fraternità. Essi, inoltre, avevano formato quel gruppo specializzato che erano i Padri Missionari di Rho, cui fu proibita la predicazione perché ritenuti troppo fedeli alla Santa Sede e
troppo «carolini», anche se ufficialmente la motivazione fu la loro
formazione, non più «all’altezza dei tempi».
Ma anche in questo modo si introdusse un principio devastante per la vita della diocesi cancellando, almeno formalmente, quel
principio che aveva caratterizzato il clero diocesano ambrosiano e
che era testimoniato proprio dagli Oblati: l’importanza, se non il
primato, dell’obbedienza dei sacerdoti al loro vescovo, che era il
vero cuore, il vero centro propulsivo della diocesi. In realtà, Napoleone favorì il diffondersi proprio di questo ideale, poiché i preti
oblati, abbandonate le loro case ed i compiti cui erano stati deputati – e che, di fatto, erano quelli di fiducia da parte dell’arcivescovo e di responsabilità, con i connessi onori –, si diffusero per le
parrocchie della diocesi e permearono tutto il presbiterio di questa aspirazione alla comunione con il proprio pastore, sancita dal
primato dell’obbedienza: preti pronti ad obbedire, poiché l’essenziale era servire il proprio popolo, poiché a questo ci si era
educati.
Conseguentemente, potremmo affermare che si diffuse, se ce
n’era bisogno, tra il clero ambrosiano un rinnovato impulso missionario, insito nello stesso ministero presbiterale. Tali erano i preti
oblati, deputati da sempre alla conduzione ed all’animazione delle scuole della Dottrina Cristiana, con il compito di formazione
dei laici e dei maestri, coinvolti in queste scuole. Missionari, in
particolare, erano quegli Oblati che avevano assunto anche il nome
di «Oblati Missionari» e che risiedevano presso il santuario mariano
di Rho per predicare le missioni nelle campagne e guidare gli esercizi spirituali dei presbiteri. Ora, la persecuzione di questa congregazione di preti secolari ne determinò per un certo verso la
diaspora, ma per un altro verso permise la diffusione degli ideali
che la animavano: l’anelito missionario di raggiungere i lontani –
fossero quelli compresi nei confini della diocesi o oltre – divenne
comune patrimonio ambrosiano.
60
b) Quale tipo di clero, laici, religiosi?
Per illustrare meglio questa caratteristica ambrosiana, complessa come si è visto, potremmo accostare due figure sacerdotali, una
reale e una letteraria.
Quella reale è la figura di don Serafino Morazzone (1747-1822),
parroco di Chiuso, un piccolo paese alla periferia di Lecco. Il suo
processo di canonizzazione è in fase avanzata presso la Congregazione delle Cause dei Santi.
Per conoscere questo prete, sarebbe bello leggere quanto scrisse
Alessandro Manzoni nella prima stesura dei Promessi Sposi, Fermo e Lucia (1821-1823), pochi mesi dopo la morte di don Serafino,
di cui l’artista conservava fresco e personale ricordo:
Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una memoria illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini.
Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue
opere: l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento
abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del
dovere era tutto il bene possibile. [...] Sento un rammarico di non
possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno
splendore perpetuo di fama a queste parole: prete Serafino Morazzone curato di Chiuso 12.
Cosa ammirarono in don Serafino, Alessandro Manzoni ed i
contemporanei? Se scorriamo le testimonianze sulla sua vita, leggiamo che fu un prete innamorato del confessionale («le confessioni erano affollatissime e la notte lo sussidiava nel disimpegnarle»), della Madonna, del SS. Sacramento. Basti leggere la preghiera probabilmente composta da lui stesso e che insegnava ai suoi
parrocchiani: «O Sangue preziosissimo di vita eterna, mercede e
riscatto di tutto l’universo, bevanda e lavacro delle anime nostre
che proteggete continuamente la causa degli uomini presso il trono della suprema misericordia! Ah! io profondamente vi adoro e
vorrei, per quanto mi è possibile, compensarvi delle ingiurie e degli strapazzi che voi ricevete di continuo».
12
ALESSANDRO MANZONI, Fermo e Lucia, Bergamo 1984, pp. 333-334.
61
Ma don Serafino fu anche – e non meno – uomo della catechesi,
che curò con tutte le sue forze: «Spiegava tutte le feste la dottrina
cristiana al popolo». Fu vicino con tutto il suo zelo alla gioventù.
Un testimone, ricordando quando era un ragazzino, dichiarò: «Aveva
moltissima cura dei fanciulli. Tutti i giorni verso sera ci conduceva
all’oratorio di S. Giovanni esercitandoci in pratiche divote e religiose anche nel ritorno». Infatti la sera era l’unico momento per offrire
loro un po’ di svago, essendo impegnati nei lavori dei campi fin
dalla più tenera età. Vi è qui, in nuce, l’oratorio ambrosiano, che
proprio in quegli anni decollava – o si riprendeva – per opera di un
laico, un giovane barbiere di San Babila in Milano, Giuseppe Figino. In questo ambito anche don Serafino maturò e dalla primitiva
severità, richiesta dai sistemi educativi di quel tempo, passò ad uno
stile pieno di «dolcezza», forse ricordando l’insegnamento di sant’Ambrogio, che scriveva a sua sorella Marcellina: «Gesù Cristo,
nostro Signore, ha ritenuto che gli uomini possano essere obbligati
e stimolati a fare il bene, più con la benevolenza che con la paura; e
che, per farli emendare, l’amore è più efficace del timore». Pastore
zelante, don Serafino curò gli ammalati e i poveri e non mandava
mai via nessuno che venisse a cercare soccorso da lui, senza fargli la
carità. Era assiduo al letto degli infermi «visitandoli tutti immancabilmente almeno una volta al giorno».
A quali virtù don Serafino ispirò il suo agire quotidiano? Quale lo stile del suo ministero? Egli fu un uomo umile, mite: «Se
avesse potuto nascondere il bene che faceva, lo avrebbe fatto volentieri». Fu un uomo povero: d’altra parte, mostrandosi libero e
staccato, voleva «insegnare che il religioso deve avere unicamente
il Signore per sua eredità». Così don Serafino non temette di percorrere – con gioia – l’erto sentiero dell’ascesi, dal cilicio alle quotidiane rinunce: «In ozio non lo si trovava mai, sempre occupato o
nelle cure del ministero o nella preghiera».
Don Serafino, dunque, con reale umiltà e spirito di verità credette nel modello spirituale che gli era stato consegnato dalla tradizione della sua Chiesa; prese sul serio la formazione che aveva
ricevuto e vi ispirò il suo quotidiano ministero.
Quanti furono i preti come lui? Noi risponderemmo: tutti quelli
che presero sul serio la loro formazione al sacerdozio, mentre oggi
62
parleremo della loro formazione seminaristica. Questa spiritualità
essi consegnarono ai preti che servirono la Chiesa ambrosiana lungo
l’Ottocento.
La seconda pagina che vorremmo citare, per fare esperienza
del modello di prete che veniva proposto nella prima metà dell’Ottocento, è quella scritta da un laico, Carlo Ravizza, in Un curato di campagna 13. Con stile autobiografico, l’autore descrive il suo
soggiorno in Brianza e la conoscenza che ebbe del curato del luogo. Era, questi, un prete che non si limitava al sacro, alla preghiera, ai sacramenti, ma era non meno sollecito dello sviluppo integrale delle persone tra le quali era stato mandato. Nessuno degli
aspetti della vita quotidiana dei suoi fedeli gli sfuggiva e per tutti
si faceva maestro e testimone e profeta, cioè stimolatore. Egli pertanto si occupava dello sviluppo agricolo, dell’istruzione dei fanciulli, della tutela del lavoro, della giustizia sociale, della cultura
personale (e non disdegnava letture profane, cioè scientifiche, «per
applicarle al bene dei suoi»). Il tutto soffuso di una religiosità ottimista, fiduciosa di sé, perché «la fede sta per se stessa nel cuore
umano», ma nello stesso tempo ha un’inevitabile rilevanza sociale, poiché «si tolga la religione agli uomini [...] e nessuna istituzione potrà mai riempire l’orribile vuoto che resterà nel mondo». Da
questa incrollabile fiducia in Dio scaturiva quella nel progresso,
nonostante le difficoltà del tempo. Significativa, anzi commovente, la pagina conclusiva che Ravizza mette in bocca al vecchio Parini, quasi suo testamento:
Il secolo che non vuole nella società inciampi al suo naturale progresso
e aspira a pareggiare tutte le condizioni, ha tolto al clero quei privilegi
che parevano da mille anni dargli una potenza senza contrasti e senza
eccezioni. Ora poi che s’è accorto che quei principii sono un comodo
pretesto per far denaro, ha incominciato a venderne i possedimenti, e
chi sa quando e dove finirà, Tu che sei giovine vedrai anche questi
fraticelli snidati, raminghi destare le risa del mondo, di cui non conoscono le usanze. Continueranno quei soli che sono evidentemente attivi ed utili, perché il secolo non avrà il coraggio di far valere contro essi
13
CARLO RAVIZZA, Un curato di campagna, Bernardoni, Milano 1842.
63
i suoi pretesti. Fate sinceramente del bene, e l’avvenire vi rispetterà
[...] Tu, figlio, presto sarai prete. Che tu possa non dimenticare giammai la tua tremenda missione! Il campo è più che mai aperto e sgombro, e bisogna entrarvi spogli e colle sole armi della carità e della fede,
e l’amore e la venerazione de’ popoli dovrete conquistarli colle azioni.
Non ingerirti nei piccoli affari del mondo per non perdere l’influenza
vera nelle cose più importanti: ma non ritirarti pusillanime quando
sono in pericolo la verità e la giustizia. La vostra missione è combattere
per i più santi principii; e perché dovremo calare agli accordi quando si
presenta il nemico? Non vi ha per noi interessi temporali che possono
farci parer difficile il dovere. La famiglia nostra è il genere umano. Le
nostre speranze e i nostri timori non sono di questo mondo. Il mondo sa
troppo bene che la nostra carità non deve aver limiti, e se vede in noi
un’esuberanza di forze e di agi la guarda con occhio incredulo e derisorio, quasi avanzasse al dovere che abbiamo verso gli altri. Studia, perché
bisogna fare vedere che i preti non hanno paura del progresso e della
verità, e dobbiamo giovare agli altri con tutti i mezzi che l’incivilimento
ossia Dio medesimo ci porge. Ma soprattutto ama, ama sinceramente, e
allora tutti i doveri ti diverranno facili. Cerca un’occupazione utile e santa, e a preferenza scegli la cura delle anime. Essa obbligandoti ad essere
guida ed esempio, ti sarà un salutare ritegno sulla via del bene, ti darà
l’amore e la forza per giovare agli altri 14.
Possiamo, pertanto, comprendere il giudizio lusinghiero rilasciato dal cancelliere di Giuseppe II, Kaunitz, a proposito dei parroci di Milano, che difende contro la riduzione del loro numero,
desiderata dall’imperatore austriaco nel suo zelo riformistico:
[Sono] rispettabili per la loro condotta, hanno la riputazione di prestare con particolare bontà e sollecitudine la loro assistenza agli ammalati [...] Sono mediatori nelle frequenti discordie dei cittadini;
impediscono le risse, prevengono alterchi e liti con la loro autorità,
invigilando, per quanto possono, alla condotta morale dei loro parrocchiani. Questi reali vantaggi per la società mi parevano meritare
che l’attuale numero dei parrochi, quand’anche ecceda il loro bisogno, non debba essere considerato inutile 15.
14
15
64
Ibid., pp. 280-281.
ANGELO MAJO, Storia della Chiesa ambrosiana, 3, NED, Milano 1984, p. 133.
A preti così, viventi o vagheggiati, dobbiamo accostare i laici.
Essi meritano una considerazione attenta nella storia della Chiesa
ambrosiana.
Basterebbe considerare la figura di Giuseppe Figino (1747-1802),
un umile barbiere, il quale trasformò la sua bottega in un primo
luogo di esperienza apostolica, insegnandovi con entusiasmo il catechismo. A lui dobbiamo la ripresa esemplare – scriviamo così per
non dare l’idea che egli sia stato il solo – dell’oratorio, così come lo
ha conosciuto la diocesi ambrosiana sino a qualche anno fa 16. Con
lui assistiamo alla progressiva presenza di laici coinvolti in prima
persona nell’animazione, nell’educazione e nella collaborazione con
il clero, anzi nella sollecitazione dello stesso clero ad iniziative nuove e profetiche di pastorale. C’è in quest’umile barbiere ed in quelli
che lo imitarono il segno di una sensibilità missionaria, che agitava –
ci sembra di poter dire – anche il laicato.
c) Prima conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?
Se ritroviamo lo stesso spirito nel clero, dobbiamo concludere
che fosse uno stile di Chiesa; che fosse generato dallo Spirito, il
quale spingeva i suoi figli su sentieri nuovi di fedeltà e di servizio.
Una Chiesa, dunque, che ci appare da una parte sotto le pressioni del gallicanesimo, una Chiesa soggetta allo Stato, agognata non
solo da Napoleone ma da tutti i sovrani del tempo. Contro questa
tentazione operarono come antitossine le forti tradizioni ambrosiane,
l’impronta di san Carlo e dei suoi successori che, pur secondo le
diverse stature personali, lo avevano tenuto e proposto come modello. Un’aspirazione, quella della libertà della Chiesa dallo Stato,
che appartiene alla sua natura profonda e che, infatti, riscontriamo
– sia pure con maggiori tensioni – anche nelle altre Chiese locali.
ENNIO APECITI, “L’Oratorio Ambrosiano da san Carlo a fine Ottocento”,
in «La Scuola Cattolica», 122 (1994), pp. 511-584; ID., “L’Oratorio Ambrosiano
dal Cardinale Ferrari ai nostri giorni”, in «La Scuola Cattolica», 122 (1994), pp.
735-854. Oggi raccolti in ID., L’Oratorio ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri,
Ancora, Milano 1998.
16
65
Una Chiesa, allo stesso tempo, attenta alle «novità» straniere,
a quelle d’oltralpe soprattutto. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la Rivoluzione francese con la sua appendice napoleonica
fu portatrice di nuovi ed alti ideali cui forse essa stessa non fu
fedele e con cui non fu coerente – si pensi solo alla proclamazione
della libertà e dell’uguaglianza ed alla violenta persecuzione della
religione e della Chiesa – ma che certamente furono un punto di
riferimento e di speranza, qualcosa che scosse le antiche tradizioni e gli antichi costumi e che costrinse tutto l’Occidente a percorrere sentieri nuovi, dei quali solo in questi recenti decenni abbiamo visto la fine. Gli ideali dell’illuminismo e della rivoluzione ci
hanno condotti sul sentiero della montagna di cui abbiamo in questi
anni visto la cima, per accorgerci che oltre c’è un altro monte da
salire; che la vetta è ancora lontana.
Proprio per questa attenzione alle voci nuove e di rinnovamento – che furono non solo quelle rivoluzionarie e francesi, ma anche
quelle dell’imperatrice Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe II – la
Chiesa ambrosiana si affacciò all’Ottocento molto attenta alla dignità dell’uomo ed alla catechesi, che è il luogo in cui l’uomo, scoprendo il disegno di Dio, ne intuisce il progetto su di sé: una vera
catechesi, svelando il volto di Dio all’uomo, permette di cogliere lo
stesso volto dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio.
Il ritorno austriaco in diocesi: primo momento
a) Il vescovo e le sue vicende: Carlo Gaetano Gaisruck (1818-1846)
Il secondo momento della nostra riflessione si incentra sul successore del cardinale Montecuccoli Caprara, Gaetano Gaisruck (18181846), di origini austriache, ma che realizzò un’autonomia intelligente nei confronti del governo austriaco, riuscendo a farsi amare dalla
diocesi ambrosiana, anche se il suo episcopato venne a concludersi
quasi a ridosso degli anni più intensi del Risorgimento italiano 17.
17
MARCO PIPPIONE, L’età di Gaisruck, NED, Milano 1984; ID., Gaisruck Carlo Gaetano, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. II, NED, Milano 1988,
pp. 1303-1307.
66
Conviene una premessa. Gaisruck fu eletto dopo otto anni di
sede vacante: Caprara era morto il 21 giugno 1810 ed egli fu eletto
dall’imperatore il 16 marzo 1818 e fece il suo ingresso il 26 luglio
dello stesso anno.
Nei lunghi anni di sede vacante la diocesi fu amministrata dal
vicario capitolare, mons. Carlo Sozzi, che dovette limitarsi alla gestione corrente; non poté attuare particolari iniziative. In particolare egli non poté agire contro il clero vagante per l’Europa, accresciutosi di numero dopo le secolarizzazioni e le soppressioni
degli ordini religiosi; un clero non sempre obbediente né zelante.
Si pensi in particolare ai riflessi che questa assenza del vescovo
determinò nella vita parrocchiale: molte parrocchie non ebbero
un pastore legittimo. Ma, contro ogni pessimismo, si ricordi che
tra il clero disperso c’erano anche i preti oblati, che assunsero la
cura di molte parrocchie, in attesa che tornasse la normalità giuridica ed amministrativa. Essi si resero disponibili ad incarichi che
non garantivano sicurezza né prebende, ma li esponevano all’allontanamento nel momento stesso in cui fosse stato nominato il
legittimo titolare. Erano, in altre parole, preti che vivevano avendo di mira il primato della pastorale, accettando la precarietà come
compagna di vita. Col tempo, durante quel secolo travagliato, diventeranno una nuova famiglia della Congregazione degli Oblati,
quella degli Oblati Vicari, giuridicamente costituita nel 1875. Questi preti fanno riferimento ai loro confratelli cui è ancora permesso di esistere, ai missionari di Rho – ricostituiti da Gaisruck nel
1839 – e, potremmo dire, ne diffondono lo spirito a livello parrocchiale, locale: primato della formazione (e, dunque, attenzione alla
cultura); cura della catechesi e della confessione (intesa come direzione spirituale); cura della regolare vita spirituale, secondo il
modello gesuitico. Certo, non possiamo né dobbiamo pretendere
che abbiano proposto stili o pratiche diversi da quelli diffusi nel
loro tempo: essi però non temettero di annunciare con fedeltà e
coraggio il Vangelo, pur vivendo in condizioni difficili, quasi da
terra di missione.
L’arcivescovo Gaisruck si rese conto di questa situazione e non
a caso, come si disse, «evangelizzare fu il suo ideale». Lo fece prima di tutto rinnovando profondamente le strutture e la metodolo67
gia educativa del seminario: concentrò, infatti, gli alunni in tre
grandi sedi – San Pietro a Seveso per i ginnasiali, Monza per i
liceali, Milano per i teologi – e propose il programma di studi delle
scuole di Stato e delle facoltà teologiche austriache. Il risultato
della riforma fu un clero di alto profilo culturale e contemporaneamente fedele alle sue tradizioni spirituali: non a caso Gaisruck
aveva assunto come secondo nome quello di Carlo, il suo più famoso predecessore.
Per conoscere lo spirito di questo vescovo, si potrebbe leggere
quanto egli raccomandò ai seminaristi in uno dei suoi primi messaggi (15 gennaio 1819):
Percorrendo voi la carriera che conduce nel Santuario, è d’uopo che,
sin dai teneri anni, usiate la massima sollecitudine nell’adornarvi d’ogni
virtù, affinché siate un qualche giorno ministri di quel Dio che è la
stessa Santità, e la luce delle vostre buone opere, risplendendo agli
occhi de’ fedeli, ne sia glorificato il Padre celeste. La religione, la
pietà, lo studio debbono formare le vostre delizie, memori che, fatti
sacerdoti, dovete essere i modelli ed i maestri dei popoli, che alle
vostre cure saranno affidati. Se non crescerete nella pietà e nella dottrina, che sono i due fini principali per cui siete educati nei seminari,
sarete piante sterili ed infruttuose, e voi ben sapete che il buon agricoltore leva dal suo campo le piante che occupano inutilmente il terreno 18.
Il desiderio di Gaisruck e del suo tempo era che attraverso il
seminario crescesse un prete colto, aperto alle scienze, anche
quelle profane, che lo rendessero capace di dialogare e consigliare i suoi parrocchiani non solo nel campo spirituale ma anche in quello delle attività quotidiane, del lavoro, fosse quello
dei campi, della semina, degli incroci botanici o dell’allevamento dei bachi da seta: tutto era funzionale a fare uscire il prete
dalla canonica. O, se vogliamo, a rinnovare quella caratteristica
ambrosiana, già indicata, che era la vicinanza dei preti alla loro
gente, vicinanza anche fisica, abitativa. Lo apprezzò anche An18
68
Archivio Storico Arcidiocesi di Milano, Sezione XIV, Manoscritti, 241.
tonio Rosmini, che proprio in quegli anni soggiornò a Milano:
«Questa città – egli scrive – mi piace appunto sopra quante ne
vidi, nell’essere, cioè, singolarmente divota e di una divozione solida e direi quasi robusta. Dappertutto si vedono le grandi opere
di san Carlo, non solo ne’ sontuosi edifizi, di cui ha abbellito l’esteriore della città, ma (quello che è più) ne’ grandi e magnifici sentimenti sparsi nel popolo suo e nel suo clero e tramandati, quale
eredità preziosissima, di padre in figlio, co’ quali sentimenti sublimi ha edificato una città interiore, ha eretto magnifici edifizi nella
celeste Gerusalemme» 19.
E questo è l’elogio fatto – non è certo un caso – da un martire
d’eccezione, don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore, chiamato da Radetzky ad esprimere una valutazione comparativa tra il
clero lombardo e quello veneto:
Il clero lombardo tiene conto degli insegnamenti di san Paolo che
vuole ragionevole il nostro ossequio [...] si antepongono i suggerimenti della ragione agli aforismi delle scuole e alle opinioni dettate
dai Dottori, e di ogni verità si ricerca il carattere persuadente e
l’applicabilità agli studi della vita [...] Così il clero lombardo raggiunse una coltura che gli ha guadagnato la stima e l’amore del popolo; la sua parola non è sdegnata nemmeno dalle menti più distinte tra
i laici ed intimi legami si sono messi tra i due ordini. Questa intimità
importa che i preti conoscano a fondo i bisogni del popolo e i gemiti
che egli emette. Qual meraviglia che essi vi prendano parte e se ne
addolorino e facciano voti perché la pubblica cosa migliori? 20.
È il prete che entusiasmò gli animi più aperti dell’Ottocento e
che creò, o mantenne, intorno al clero ed alla Chiesa quel consenso e quella stima che permisero di attraversare un secolo turbinoso. È l’ideale di prete che amo sempre descrivere attraverso una
bella citazione di Alessandro Manzoni (1807-1881) nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica:
19
Ma si legga il testo completo in PIETRO RUSCONI, Rosmini a Milano, Cogliati,
Milano 1897, p. 8.
20
Ibid., p. 456.
69
Sì, ci sono dei preti che disprezzano quelle ricchezze delle quali
annunziano la vanità e il pericolo: dei preti che avrebbero orrore di
ricevere i doni del povero, e che si spogliano invece per soccorrerlo;
che ricevono dal ricco con un nobile pudore, e con un interno senso
di ripugnanza e, stendendo la mano, si consolano solo col pensare
che presto l’apriranno per rimettere al povero quella moneta che è
tanto lungi dal compensare agli occhi loro un ministero, il quale non
ha altro prezzo degno che la carità. Essi passano in mezzo al mondo,
e sentono i suoi scherni sull’ingordigia dei preti; li sentono, e potrebbero alzare la voce e mostrare le loro mani pure, e il loro cuore desideroso solamente di quel tesoro che la ruggine non consuma (Mt 6,
20), avaro solo della salvezza dei loro fratelli; ma tacciono, ma divorano le beffe del mondo, ma si rallegrano di essere fatti degni di patire
contumelia per il nome di Cristo (At 5,41) 21.
Un’altra cosa ci preme dire: questo ideale di alto profilo – così
lo abbiamo indicato – fu perseguito affidando la formazione dei
giovani seminaristi ad uomini degni ed eminenti per intelligenza e
virtù. Basterebbe citare tre campioni di quegli anni: Giovanni Battista Vegezzi (1789-1858), che propose un intelligente rinnovamento della teologia morale; Nazaro Vitali (1806-1886), che aggiornò gli studi filosofici e che, trasferito alla vita parrocchiale,
contribuì al deciso rinnovamento della pastorale diocesana: a lui
dobbiamo non solo la nuova filosofia del seminario, ma anche le
scuole serali, per i ragazzi poveri, cui abbiamo accennato sopra.
Terzo viene Luigi Biraghi, insegnante (1824-1833) e direttore spirituale (1833-1848) nonché fondatore delle suore Marcelline, dedite in modo specifico alla formazione ed all’insegnamento delle
ragazze di buona famiglia, ma della cui formazione ci si preoccupava poco 22. Biraghi intuì che la trasformazione della società sa21
ALESSANDRO MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, SEI, Torino 1919,
p. 274.
22
È difficile riassumere la bibliografia su Biraghi. Ricordiamo CARLO CASTIGLIONI, Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi
(1859-1893), Ancora, Milano 1942, p. 179. Rimandando alla scheda bibliografica di ANTONIO RIMOLDI, “Mons. Luigi Biraghi”, in «Civiltà Ambrosiana», 5 (1988),
pp. 303-304, tra le opere più recenti scegliamo: MARY FERRAGATTA, Monsignor
Luigi Biraghi Fondatore delle Marcelline, Queriniana, Brescia 1979, con una nota
70
rebbe passata per la famiglia e che occorreva formare ragazze convinte della loro fede e ricche di virtù, perché fossero un giorno
madri cristiane, capaci di trasmettere le loro virtù (cristiane) ai
loro figli e di irradiarle in famiglia, sugli stessi mariti.
Era in fondo uno zelo missionario, se si tiene conto della difficile situazione sociale. Lo stesso incitamento ad osare, a non rimanere chiusi nelle sacrestie come ancorati a tempi definitivamente
fuggiti, lo guidò nella formazione dei seminaristi. Basti, al riguardo, citare un passo del suo Saluto ai giovani ormai prossimi alla
loro ordinazione presbiterale:
La dottrina, la sapienza, la verità sono affidate a voi, a voi commessi
i misteri del regno e le vostre labbra custodiranno la scienza e la diffonderanno in nome di Dio sui popoli. E tale è la grazia conceduta
alle vostre labbra che alla parola vostra obbedirà Dio, si aprirà il cielo, si chiuderà l’inferno. Si diffonderanno tutte intorno le grazie sul
popolo fedele, tanto che si potrà dire anche di voi in senso spirituale:
chi è costui che comanda al mare e i venti obbediscono a lui? [...]
Combattete, ma non per levare alto la vostra fortuna, non per procacciarvi preminenze fastose, non a far valere capricci o private soddisfazioni, sì bene per la verità e la giustizia. Tal è la guerra del Sacerdote: combattere a favore della verità e della giustizia per mezzo della verità, per virtù di sofferenze, vincere colla mansuetudine, trionfare colla pazienza, venir ad avere corona col patire. Le nostre armi
sono la parola di Dio, le lagrime e l’orazione e la nostra gloria la croce
di Gesù Cristo e tutta la nostra scienza e provvisione: Gesù e Gesù
Crocifisso [...] Il sacerdozio non è stato di ozio, ma di fatica, non
officio di comparsa, ma impegno di occupazione, non tanto divisa di
gloria, quanto onore di travaglio. Con quei mezzi che sembrano i più
disutili al mondo: e appunto modo mirabile è quello di vincere col
patire. [...] Fate cuore adunque e rinfrancatevi ed escite pure fuori
bibliografica ampia ed aggiornata; “Nel primo Centenario della morte del Servo
di Dio Mons. Luigi Biraghi”, numero unico di «Conoscerci. Periodico dell’Istituto Internazionale delle Suore di Santa Marcellina, dicembre 1979», Milano
1979; ANTONIO RIMOLDI, “Mons. Luigi Biraghi (1801-1879) educatore delle giovani della borghesia milanese”, in «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni
Milanesi» 6 (1986) pp. 32-58; GIOVANNI SPINELLI, Biraghi Luigi, in Bibliotheca
Sanctorum. Prima Appendice, Città Nuova, Roma 1987, pp. 185-186.
71
nel campo del mondo: giacché il sacerdozio si esercita nel mondo
[...] Solo vi ricordi che virga aequitatis virga regni tui. Il vostro potere
è tutto di conciliazione, di pace: regit qui corrigit, Sacerdos qui santificat. Ma come sarete voi reggitori di equità? Santificatevi. [...] Tutto
santo è un tanto ministero. E santo deve essere un tale ministro. Tanto più idoneo sarà ad intercedere pel popolo quanto più sarà egli
santo. [...] Sacerdozio è cosa sacra e cosa sacra e cosa santa è poi la
medesima cosa 23.
Come si noterà, il perno del discorso, la sua chiave di volta era
la santità: non c’è altra parola adeguata a dare la sintesi del ministero sacerdotale e della stessa vita cristiana battesimale.
Un altro aspetto della formazione di Luigi Biraghi deve essere
indicato. Già nel 1839 don Biraghi, direttore spirituale, aveva pensato ad un seminario missionario o meglio un «istituto di sacerdoti, i quali si dedicherebbero alle missioni tra gli infedeli». Dal 1845,
poi, erano diventate regolari le visite dei seminaristi – almeno di
alcuni gruppi – alla certosa di Pavia, dove abitava padre Lorenzo
Marcello Supriès, missionario delle Missioni Estere di Parigi in
India: ne ascoltavano i racconti e ne raccoglievano l’ancora indomito desiderio di missione.
Il frutto di questi formatori fu un clero che non temo di definire eccezionale e che vorrei presentare anche solo a mo’ di carrellata
secondo il criterio cronologico. Quali furono, dunque, i discepoli
di don Luigi Biraghi?
Il primo è don Giuseppe Marinoni (1810-1891), cui dobbiamo il vero radicarsi dell’Istituto per le Missioni Estere 24. C’è poi
padre Luigi Villoresi (1814-1883), divenuto barnabita e fondatore
dell’Oratorio Villoresi, una delle più preziose realtà ambrosiane
del XIX secolo 25. Seguono Giuseppe Spreafico (1817-1882), catecheta e fondatore delle Scuole notturne di carità, Biagio Verri
Archivio Generale delle Suore Marcelline, Milano, Autografi, 4b e 8.
PIERO GHEDDO, Marinoni Giuseppe, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana,
vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2075-2077.
25
ANGELO RECALCATI, Un educatore del clero ambrosiano: Padre Luigi M. Villoresi
(= Archivio Ambrosiano 47), NED, Milano 1983; ID., Villoresi, Luigi Maria, in
Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, pp. 3917-3919.
23
24
72
(1819-1884), fondatore dell’Opera per il riscatto delle morette 26,
Serafino Allievi (1819-1891), animatore degli oratori San Carlo,
San Luigi e del loro primo Regolamento, che vale la pena leggere
in qualche passo per cogliere l’animo di un prete, esempio di com’erano moltissimi altri:
S’accorgono i tristi che bisogna seguire la gioventù e questa non potendo avere tutta in massa perché la maggior parte applicata a mestieri,
così prende quella che può nelle scuole. Quindi esclusi i preti ed i
parrochi dalle scuole, una smorfia di catechismo insegna il maestro,
talvolta valdese o peggio e corrompe il senso morale. Qualche rimedio
a tanto danno si può opporre attivando gli oratori feriali degli studenti.
In essi, aiutandoli al disimpegno degli scolastici doveri, e dando loro
tempi di sollazzarsi si può ottenere molto assai massime coi ginnasiali.
S’istruiscono nella dottrina, si premuniscono contro gli errori, si dispongono a ricevere i Sacramenti, si tengono lontani dagli scandali che
trovano scioperandosi per le strade fuori città. [...] È da questa istituzione che nacquero tante vocazioni al sacerdozio, alla vita religiosa e
che nasceranno ancora se Iddio inspirerà qualche pio opulento a farsi
protettore. [...] L’opera del tanto benemerito don Bosco di Torino nacque da questi principii ed ha questo fine, salvare gli studenti e coltivare
le vocazioni. Quanti poveri giovanetti hanno talento e virtù e devono
dire piangendo hominem non habeo! 27.
C’è, poi, Giovanni Battista Avignone (1821-1864), patriota ed
autore di un appassionato Appello al papa e al clero per sollecitare
ad abbracciare con entusiasmo la causa dell’unità nazionale, rinunciando al potere temporale:
Lasciate, lasciate ch’egli [il potere temporale] muoia, e trascini con
sé la causa di tanti disastri: appigliatevi lealmente, seriamente alla
26
CARLO CASTIGLIONI, Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942, pp. 181-182; ID., Candidati
lombardi alla gloria degli altari, in Memorie Storiche della Diocesi di Milano, vol. IV,
Biblioteca Ambrosiana, Milano 1957, pp. 22-33; CARLO CAMINADA, Don Biagio
Verri, apostolo delle Morette, Varese 1951; PIETRO GINI, Verri Biagio, in Bibliotheca
Sanctorum. Prima Appendice, Città Nuova, Roma 1987, pp. 1429-1430.
27
Archivio Storico della Diocesi di Milano, CU 518.
73
libertà: appigliatevi solo a voi stessi e a Dio, e troverete d’esser più
forti di quello che vi reputaste sinora: lasciate la politica, appoggiatevi alla croce e non alla spada, benedite l’Italia e la libertà, e i trionfi
della Chiesa veramente incominceranno. O vegliardo che posi in Vaticano, non a caso Iddio ha protetto così a lungo il corso dei tuoi
giorni: tu colla tua amnistia desti il primo impulso alla risurrezione
d’Italia; compila ora con la tua Benedizione! [...] Benedici la caduta
di quel potere, che, malgrado opposte apparenze, fu l’alleato che compromise la forza e il trionfo della Chiesa; benedici col regno della
libertà l’avvenimento che prepara il risveglio della forza morale della
sposa di Gesù Cristo e con esso la ripresa delle antiche conquiste 28.
Dovremmo poi ricordare Giulio Tarra (1832-1889), fondatore
dell’Istituto per i sordomuti, che ispirò la sua infaticabile opera ad
un principio elaborato ancora da seminarista: «Io farò il missionario dei poveri selvaggi della mia patria, perché Dio me li consegna» 29.
Dovremmo anche ricordare Carlo Salerio (1827-1870), uno dei
primi missionari dell’Istituto Missioni Estere, partito con il beato
Giovanni Mazzucconi e tornato sfiancato in Italia, sfiancato ma indomito, per cui fondò la Casa di Nazareth, un’unione di pie signore
dedite alla rieducazione delle giovani sordomute o «pericolanti» 30.
28
GIOVANNI BATTISTA AVIGNONE, La Chiesa senza il potere temporale, Milano
1870. Sull’Avignone è fondamentale ormai la voce di FRANCESCO TRANIELLO,
Avignone, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. IV, Fondazione Treccani,
Roma 1962, pp. 679-681. Ad illustrare con sintesi precisa gli articoli dell’Avignone
su «Il Conciliatore», vedi MICHELE BERTAZZOLI, “I conciliatoristi milanesi e il
problema dei rapporti fra Stato e Chiesa nel 1860-1861”, in «La Scuola Cattolica», 90 (1962), pp. 307-330; ID., “I riformisti milanesi del Carroccio (1863-1864)”,
in «La Scuola Cattolica», 92 (1964), pp. 123-153.
29
ANGELO RECALCATI, Tarra, Giulio, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana,
vol. VI, NED, Milano 1993, 3632-3633.
30
LUIGI PEDRAGLIO, Il Padre Carlo Salerio, PIME, Milano 1923; GIOVANNI
BATTISTA TRAGELLA, Carlo Salerio Apostolo della fede e della «Riparazione». 18271870, Istituto della Riparazione - PIME, Milano 1947; VITTORIA PAPA, La Casa di
Nazareth per la rieducazione delle giovani di Padre Carlo Salerio, in Preti ambrosiani
al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 25-35;
GRAZIELLA CAUZZI, Salerio, Carlo, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. V,
NED, Milano 1992, pp. 3159-3160.
74
Tutte queste figure non possono che farci riflettere: c’è nel clero milanese una forte sensibilità alla dimensione missionaria, legata certamente al movimento transalpino, di cui fu espressione
l’Opera della Propagazione della Fede, fondata a Lione nel 1822
da una laica, Pauline Jaricot 31.
Non possiamo, dunque, parlare del clero senza considerare
l’importanza del laicato.
b) Quale tipo di laico emerge?
Accanto a simili preti trovarono spazio sempre maggiore ed
offrirono collaborazione sempre più cordiale i laici. Non parliamo
solo di quel laicato parrocchiale cui forse siamo abituati a pensare
oggi, ma soprattutto di quel laicato appartenente alle classi dirigenti, alla nobiltà, alla grande imprenditoria milanese, che professava con sincerità e con entusiasmo la sua fede e che adoperò le
sue ingenti sostanze per sostenere le nuove forme di pastorale,
soprattutto nel campo educativo giovanile, cui abbiamo già accennato. A uomini come il conte Giacomo Mellerio (1777-1847) 32
La Jaricot nel 1822 fondò a Lione l’associazione Propagazione della Fede,
che si diffuse rapidamente in Europa e nelle Americhe, favorita dal carattere popolare della proposta: si invitava a dare un «soldino settimanale alle missioni»; si
proponeva il rosario comunitario (allora si diceva: vivente) con intenzione missionaria; si diffondevano attraverso le zelatrici i bollettini missionari, come «Lettere
edificanti e curiose» (fr.: «Choix des Lettres edifiantes et curieuses») dei missionari gesuiti di Parigi, e gli «Annali della propagazione della fede» (fr.: «Annales de
l’Association de la Propagation de la Foi»), fondate nello stesso anno e tradotte in
italiano dal 1828, sino a che nel 1868 fu fondato il settimanale «Les Missions
Catholiques». L’Italia stessa ne fu contagiata e ne riprese le iniziative: a partire dal
Congresso di Vienna sino al 1860 dal solo Regno di Sardegna erano partiti 600
missionari! Su Pauline Jaricot, la cui vita merita attenta considerazione: CECILIA
GIACOVELLI, La donna delle due lampade, Roma 1999 (edizione fuori commercio).
32
GIAN FRANCO RADICE, Mellerio Giacomo, in Dizionario della Chiesa
Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2157-2160. Un estratto del suo
testamento, che può illuminarci sulla sua generosità verso tutti gli oratori, ed in
particolare quelli da lui fondati, è stato pubblicato in «Eco degli Oratori», 9
(1968), pp. 754–760.
31
75
dobbiamo non solo la prima casa delle Suore di Carità, le Canossiane, a Milano, ma anche le sedi di alcuni prestigiosi oratori, quali il San Carlo ed il San Luigi. Accanto a lui potremmo ricordare
un altro personaggio, questa volta nel campo accademico, Gabrio
Piola (1794-1850) 33, che fu insieme illustre matematico-fisico –
tanto che gli è dedicata una delle piazze e delle stazioni della metropolitana milanese – e prefetto dell’oratorio che guidò, con intelligenza, sagacia e quel sano umorismo che è un prezioso carisma educativo. Ancora, Gabrio Casati (1798-1873), prefetto d’oratorio, podestà di Milano e Ministro della Pubblica Istruzione italiana, cui dobbiamo una delle prime e fondamentali riforme della
scuola del Regno d’Italia 34.
c) Quale tipo di religioso emerge?
A indicare la vivacità della Chiesa ambrosiana in quegli anni,
preziosi per lo stesso discorso della nascita dell’attuale Pontificio
Istituto per le Missioni Estere, occorre accennare almeno metodologicamente alla preferenza data da Gaisruck agli istituti o congregazioni di vita attiva, quali i Fatebenefratelli ed i Barnabiti,
mentre osteggiò la ricostituzione degli Oblati e il ritorno dei Gesuiti, dei Francescani e dei Cappuccini. Appoggiò con simpatia,
invece, la diffusione nella diocesi delle nuove fondazioni, spesso
ancora quando esse erano appena agli inizi, ramoscelli teneri e
fragili, come ad esempio le Canossiane o Serve dei Poveri – attualmente Figlie della Carità –, nate nel 1808 e riconosciute nel 1828,
ma già presenti a Milano nel 1823. O come le Suore di Maria Bam33
Dopo aver studiato matematica e fisica presso l’Università di Pavia, rifiutò
la cattedra, che gli veniva offerta nella stessa università, per darsi alla ricerca ed
all’insegnamento privato. Fu maestro di uomini illustri: tra essi si ricorda Francesco Brioschi, fondatore del Politecnico di Milano. Su di lui recentemente: GIUSEPPE BARZAGHI, “Gabrio Piola (1794-1850). Un cristiano impegnato per i tempi
nuovi”, in «Civiltà Ambrosiana», 10 (1993) pp. 293-299.
34
LUIGI AMBROSOLI, Casati Gabrio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol.
XXI, 1978, pp. 244-249. Una più antica eppure completa biografia: ACHILLE MAURI,
Conte Gabrio Casati, in Scritti biografici, Le Monnier, Firenze 1878, pp. 131-147.
76
bina o Suore di Carità, nate nel 1832 e già diffuse a Milano nel
1842. Ad esse potremmo aggiungere le Orsoline di San Carlo, riconosciute nel 1824, le Marcelline (1838) e l’Istituto del Buon Pastore (1845), ecc.
Il segnale che Gaisruck voleva dare era evidente ed è quello
ben radicato oggi in ogni cristiano, e potremmo esprimerlo con
una frase di papa Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, Redemptor hominis (4 marzo 1979): «L’uomo è la prima strada che la
Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è
la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo
stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione» (n. 14).
d) Seconda conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?
Possiamo affermare, dunque, che nel secondo momento della
vita della Chiesa ambrosiana nell’Ottocento, quello caratterizzato
dall’episcopato del cardinale Gaisruck e che copre buona parte
della prima metà del secolo, si consolidò fortemente l’apporto
laicale; maturò una Chiesa fortemente capace di dialogo interno,
insieme gelosa della sua autonomia dal potere imperiale e molto
aperta alle sollecitazioni del rinnovamento, sia quello missionario
d’oltralpe, sia quello originato dalla forte sensibilità romantica e
dallo storicismo, che ricercava le origini del proprio risorgimento
e spingeva, pertanto, a sottolineare gli elementi propri della Chiesa ambrosiana, vista come parte della Chiesa cattolica, che trovava il suo radicamento nel papato romano.
Una Chiesa, quella ambrosiana, che riscopriva – trasformava,
attualizzava – la dimensione della carità, sia attraverso le scelte di
nuovi ordini religiosi, sia attraverso l’insistita proposta di un prete
che fosse amico e conoscente di tutti, consigliere agricolo in campagna e dotto professore in città, capace di suscitare strutture rispondenti ai bisogni, quelli dei poveri soprattutto, per promuovere la dignità dell’uomo.
In questo stile si vede anche un’antropologia: ogni essere umano è degno di stima; tutti siamo fratelli e sorelle, per la comune
77
origine divina ed il comune battesimo, per cui non c’è nessuno
che possa ritenersi superiore all’altro; a tutti deve essere data la
possibilità di riuscire, di trafficare – parlando evangelicamente – i
talenti ricevuti da Dio. Nella Chiesa dell’Ottocento c’erano, dunque, fermenti di progresso sociale molto più numerosi e vivaci di
quanto sia affermato dalla pubblicistica comune. E forse più di
quanto noi stessi credenti e figli di questa Chiesa sappiamo. Un
fermento di progresso e di attenzione all’essere umano che si coniugava con lo spirito tipico dell’Ottocento, avventuroso, ricercatore, romantico e con quello che è il patrimonio genetico insito
nella stessa natura dell’uomo, la carità, quella che lo fa essere simile a Dio, il suo creatore.
Il ritorno austriaco in diocesi: secondo momento
a) Il vescovo e le sue vicende: Bartolomeo Carlo Romilli (1847-1859)
Il terzo momento del nostro cammino è segnato dal nuovo
arcivescovo, Bartolomeo Carlo Romilli 35. Egli era atteso come il
ritorno di un italiano: era il segno delle aspirazioni all’unità nazionale, ormai incontenibili. Il segno fu l’entusiasmo della popolazione alla notizia della nomina: Cesare Cantù scrisse che «si giubilò come d’un trionfo nazionale» 36. Purtroppo tanta attesa suscitò la reazione sospettosa del governo austriaco e la tensione degenerò proprio in occasione del suo ingresso in diocesi (8 settembre
1847). La polizia cercò di disperdere un gruppo di giovani che in
piazza del duomo si era messo a cantare l’inno di Pio IX: sul terreno rimase una vittima. Il peggio, comunque, si ebbe il giorno seguente, quando si dovevano svolgere i funerali: la truppa disperse
la folla e requisì la bara, che fu sotterrata nottetempo. Erano solo
i prodromi di quanto si verificò nella primavera seguente, le famose «Cinque giornate» di Milano (18-22 marzo 1848). Esse videro
35
LAURA VANZULLI, Bartolomeo Carlo Romilli arcivescovo di Milano. Un profilo politico-religioso (1847-1859), NED, Milano 1997.
36
CESARE CANTÙ, Storia del popolo e pel popolo, Agnelli, Milano 1871, pp. 325.
78
in prima linea anche la comunità cristiana. Anche il seminario, o
meglio i suoi giovani ed entusiasti seminaristi. È noto che la più
resistente delle barricate opposte alle truppe austriache, quella che
bloccò l’attuale corso Venezia, fu costruita dai seminaristi teologi
usando le panche della loro cappella. Purtroppo fu un seminarista, Giambattista Zaffaroni, a colpire a morte il primo soldato austriaco, cui aveva strappato il fucile. Non è certo cosa di cui un
prete, o chi si prepara ad esserlo, debba gloriarsi, ma esprime ancora una volta il coinvolgimento profondo del clero ambrosiano
con la vita dei propri fratelli. E, in effetti, nei giorni seguenti l’opera dei seminaristi si concentrò nel rifocillare i combattenti e nel
costruire i famosi palloni aerostatici (progettati dal chierico Antonio Stoppani), che permisero alla città presidiata di comunicare
con i paesi vicini e, così, favorire il diffondersi dell’insurrezione
nella Brianza e nella zona di Como. Tra questi seminaristi meritano un ricordo Carlo Salerio e Giovanni Mazzucconi: nell’amore
di patria e nella carità verso i feriti, maturarono la loro coscienza
ad un servizio generoso, senza paura delle difficoltà.
In questi frangenti, non c’era molto spazio per le novità. Piuttosto si determinarono situazioni di ulteriore controllo e pressione da parte del governo austriaco. Romilli cercò di custodire le
tradizioni della Chiesa ambrosiana e di rispettare i decreti del governo. Così costituì una Consulta ecclesiastica, una specie di piccolo consiglio episcopale, della quale fecero parte in particolare
Giovanni Battista Vegezzi e Luigi Biraghi: tramite i loro consigli
egli riuscì a custodire quello spirito che abbiamo descritto sopra.
Il prezzo da pagare al governo, comunque, fu alto. Egli dovette
ricostituire gli Oblati diocesani (1853) e affidare loro la conduzione del seminario, con lo scopo dichiarato di «combattere i nemici
della Chiesa». Non era certo un bel biglietto di presentazione per
la stessa congregazione degli Oblati, e da allora essa fu circondata
da sospetto e da critiche. D’altra parte il primo compito che dovette assolvere fu una pratica epurazione del seminario (1854): 13
professori furono allontanati, anche se l’arcivescovo Romilli fece
in modo di dare loro importanti destinazioni. Questa ricerca di
unità e di rispetto delle diverse modalità di pensiero spinse Romilli e con lui i vescovi lombardi a custodire e privilegiare il legame
79
con la Santa Sede, accogliendone le sollecitazioni. Forse era un
modo di sottrarsi autorevolmente alle pressioni austriache; forse
era un modo di coordinare le forze dell’episcopato lombardo in
modo da realizzare a livello ecclesiale quello che si stava verificando a livello politico. Sta di fatto che proprio all’interno di questa
polarità si può collocare la nascita dell’Istituto per le Missioni Estere. Mi sembra che lo illustri sufficientemente la proposta di alcune Massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere, inviata ai
vescovi lombardi e da essi approvata temporaneamente in attesa
del giudizio di Propaganda Fide. In essa si leggono le seguenti parole, che sembrano anticipare lo spirito missionario del Concilio
Vaticano II:
L’arcivescovo di Milano e i Vescovi Comprovinciali, non trattenuti
dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; considerato il compenso che devono attendere le loro Chiese dal Signore; considerando che gli splendidi esempi di distacco e di sacrificio
sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere fruttuoso
alla diocesi non meno il Missionario, il quale parte per un altro emisfero, che il Sacerdote rimasto ad operare fra i suoi; che anzi, spingendo in alcuni individui la vocazione ecclesiastica al suo pieno sviluppo, viensi a suscitarla e meglio maturarla in altri; ma più di tutto
considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione
della Chiesa universale, e che ciascuna diocesi è in qualche modo
tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica, pensarono di dover favorire e tener cura delle vocazioni al
ministero delle Estere Missioni con non minor zelo di quello che usino per la buona educazione del Clero destinato alla diocesi.
Da allora il volto della Chiesa ambrosiana cambiò. E forse si
complicò, almeno al momento: si creavano nuovi modelli di formazione presbiterale; si acuiva l’anelito a non rimanere chiusi
nell’hortus conclusus della parrocchia tradizionale; si cominciava
con radicalità maggiore a pensare in termini di Chiesa universale,
appunto cattolica, e ci si liberava così dalla mentalità della collaborazione tra trono ed altare, che di fatto era sudditanza del secondo al primo. Ma rimanevano le persone formatesi ad altre scuole; educate ad un’altra pastorale; forse lente ad accettare che il
80
«dare a Cesare» ed il «dare a Dio» non chiedevano che ci fosse
sempre sintonia tra le due realtà, e che il Vangelo non si proclama
con l’appoggio dello Stato e delle sue strutture ma con la forza ad
esso interna. Il Concilio Vaticano II ce lo ha richiamato e papa
Giovanni Paolo II lo ha proposto nel cammino di preparazione al
Grande Giubileo del 2000: «La verità non si impone che in forza
della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore» 37.
Su tutte queste aspirazioni venne a calare il colpo apoplettico
che colpì l’arcivescovo Romilli il 21 dicembre 1857 e che lo costrinse ad affidare la conduzione della diocesi al suo fidato vicario
generale, mons. Paolo Angelo Ballerini, sino a che non venne a
morte il 7 maggio 1859. Il momento era politicamente drammatico, poiché si era nel pieno della seconda guerra d’indipendenza. Il
vicario generale e con lui la diocesi pagarono un prezzo elevato.
b) Un vescovo mancato: Paolo Angelo Ballerini (1859-1867)
Il 7 giugno 1859, tre giorni dopo la battaglia di Magenta, Francesco Giuseppe usò del suo diritto di nomina per indicare al papa
il proprio candidato alla sede arcivescovile di Milano: Paolo Angelo Ballerini 38. Era l’ultimo suo gesto di autorità sulla Lombardia, poiché il giorno dopo (8 giugno) Napoleone III e Vittorio
Emanuele II entravano solennemente in Milano, accolti dall’entusiasmo della popolazione che con un rapido plebiscito votò l’annessione al Regno di Sardegna, primo nucleo del Regno d’Italia
che si andò costituendo in pochi mesi.
Sarebbe stato prudente non confermare la designazione imperiale, ma Pio IX era rispettoso del diritto e, poiché la nuova situazione territoriale della Lombardia fu decisa solo l’11 luglio con l’armistizio di Villafranca, confermò la nomina del nuovo arcivescovo
37
CONC. ECUM VAT. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 1;
GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. Tertio millennio adveniente, n. 35.
38
CARLO CATTANEO, Mons. Paolo Angelo Ballerini. L’uomo e il Vescovo in
documenti inediti, NED, Milano 1988.
81
nel concistoro del 20 giugno 1859. Forse c’era stata un poco di fretta da parte del papa; forse si inanellarono quelle coincidenze, che
sembrano fatte apposta per creare danni, come ad esempio il fatto
che il concistoro fosse già fissato e che non conveniva ritardare ulteriormente la nomina di un pastore per Milano, proprio a causa della
difficile situazione politica. Sta di fatto che il nuovo governo italiano non accettò – come avrebbe potuto? – il fatto compiuto e affermò che gli competevano i diritti, anche quelli ecclesiastici, del precedente governo austriaco. Forse non era tanto la persona di Ballerini che non era gradita: era il desiderio di esercitare un diritto che
si riteneva violato; forse il governo italiano avrebbe accettato Ballerini, se esso stesso avesse potuto indicarlo alla Santa Sede.
Sta di fatto che il papa fu irremovibile e la situazione si aggravò quando Ballerini fu ordinato segretamente nella certosa di Pavia
da un solo vescovo nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1859. Il governo lo ignorò e pretese che anche il capitolo metropolitano lo
facesse, rifiutandosi – o meglio sottraendosi al momento opportuno – di ricevere le bolle di nomina pontificie.
Per superare l’impasse il capitolo, con il consenso del governo,
e Ballerini nominarono un identico vicario, l’unico che fosse già
vescovo e risiedesse in diocesi, mons. Carlo Caccia Dominioni,
che resse la diocesi dal 1859 al 1866 39. Solo che il capitolo ed il
governo lo ritenevano vicario capitolare poiché per loro la sede era
vacante, mentre Ballerini lo guidava come suo generale, essendo
per lui la sede impedita. C’è solo da immaginare come la situazione pastorale potesse essere drammatica e continuamente tesa. Si
Per le tristi vicende di questo pover’uomo, vedi [LUIGI VITALI], Le piaghe
della Chiesa milanese, Brigola, Milano 1863; CARLO BONACINA, Monsignor Carlo
Caccia e i suoi tempi. Memorie storiche. 1802-1866, San Giuseppe, Milano 1906;
CARLO CASTIGLIONI, Società ecclesiastica in Milano (1860-1863), in Memorie storiche della diocesi di Milano, vol. IX, Biblioteca Ambrosiana, Milano 1962, pp. 939; G. COLOMBO, La società ecclesiastica di Milano (1860-1862), in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana (= Archivio Ambrosiano 21), vol. II, NED, Milano
1971, pp. 295-364; Ibid., (= Archivio Ambrosiano 23), vol. III, NED, Milano
1972, pp. 144-202; Il Capitolo Metropolitano e monsignor vicario Caccia vescovo
di Famagosta, Brigola, Milano 1862; [DEMOFILO LOMBARDO], Il Seminario di Milano e gli Oblati, Brigola, Milano 1862.
39
82
pensi ad esempio al rifiuto dei canonici di obbedire a Ballerini,
che aveva ingiunto di non cantare il Te Deum per la festa dello
Statuto (1861). Colpevole venne ritenuto il suo sfortunato vicario,
che più volte fu convocato a Torino per chiarimenti e che alla fine
si rifugiò, per sottrarsi alle angherie, nel Seminario Liceale di
Monza, ove stette sino alla morte (1866). La situazione paradossale si trascinò fino al 1867: in questo anno – a causa del blocco delle
nomine dei parroci – si contavano 150 parrocchie vacanti (su 775).
c) Quale la situazione del clero?
Eppure non tutto fu negativo. Proprio in questi anni lo spirito
conciliante di mons. Caccia Dominioni permise la nascita del Seminario del Villoresi (1862) o Istituto dei Chierici Poveri. Esso
nacque per intuizione e col permesso di mons. Caccia nel 1862, in
seguito a un dialogo con il suo confessore, appunto padre Luigi
Villoresi, che – lo abbiamo detto sopra – aveva studiato nel Seminario di Milano, prima di passare tra i Barnabiti, che lo destinarono a Monza. Qui – già nel 1845 – aveva fondato un oratorio per i
giovani più poveri e abbandonati di Monza, andando e mandando
a reclutare gli sbandati che trovava per le strade della città. Col
tempo di trasformò ed accolse in modo permanente, a mo’ di un
convitto, quei ragazzi poveri che aspiravano al sacerdozio ma non
potevano frequentare il Seminario diocesano soprattutto per motivi economici. Già nel 1863 diciannove ragazzi indossarono la
veste talare e nel 1866 i chierici ammontavano a 162. Il suo successo era dovuto certamente alle novità educative sia nel campo
culturale 40 sia in quello spirituale 41. La stessa vita quotidiana ave-
40
Al Villoresi si facevano sei ore di scuola ogni giorno della settimana (compreso il giovedì) e due ore di scuola, più due di studio, nelle vacanze autunnali.
41
Presso il Seminario diocesano vigeva la netta separazione dei fori (disciplina, studio, vita spirituale); all’Istituto di Monza, invece, padre Villoresi era ad un
tempo rettore, confessore ed insegnante. Un solo esempio, la devozione eucaristica:
per un villoresino la comunione quotidiana era normale, mentre nel Seminario teologico si praticava ogni quindici giorni e quella settimanale era appena tollerata.
83
va uno stile più familiare che non nel Seminario diocesano, forse
anche i professori erano tutti volontari ed i ragazzi sapevano che
avrebbero dovuto sostenere un esame d’ammissione al Seminario
teologico. Certamente il clima era, però, reso più familiare dal
coinvolgimento degli studenti. Essi, infatti, nel tempo libero dallo
studio si dedicavano all’oratorio annesso all’istituto, organizzando giochi, rappresentazioni teatrali, concerti e concorsi musicali;
si prestavano per il catechismo, la scuola elementare serale e quella festiva per gli adulti. Era un’ottima preparazione all’impegno
pastorale, con un aspetto di missionarietà che non va sottovalutato e che spiega il motivo per cui padre Villoresi nel 1874 contattò,
senza giungere però ad alcun risultato, mons. Marinoni, cofondatore dell’Istituto per le Missioni Estere di S. Calocero, per fondere (almeno giuridicamente) i due istituti.
Come si vede, una forma di preparazione moderna, intelligente, provocante, missionaria, ma foriera di inevitabili attriti per i
confronti tra i due modelli educativi – quello diocesano e quello
villoresino – che accentuarono anche la tensione con la formazione dell’Istituto per le Missioni Estere. Ci fu chi ritenne che si andasse delineando un’anarchia formativa; che si stesse perdendo la
tipicità del prete ambrosiano.
Si agitavano, infatti, diverse anime tra il clero ambrosiano: la
più conciliatorista era definita spesso superficialmente come liberale. Essa si organizzò anche in un’associazione che avrebbe dovuto favorire la riflessione all’interno del clero, facendo crescere
un clima di fraternità e di comunione di intenti che anticipa per
certi versi quella concezione di ordo presbiterorum che sarà limpidamente proposta dal Concilio Vaticano II. Purtroppo, la Società
Ecclesiastica – così si chiamava – e il giornale cui essa diede vita,
«Il Conciliatore», ebbero vita breve (1860-1862) e furono sciolti
d’autorità. Lo spirito, comunque, non può essere soffocato neppure dall’autorità: al massimo può ritardarne l’esplosione.
A questo gruppo si contrapponevano quei preti che si trovavano rappresentati dal quotidiano intransigente «L’Osservatore Cattolico» (1864). Illuminante circa la linea editoriale il motto che lo
caratterizzò: «Col Papa e per il Papa». Esso era stato fondato con
l’intenzione da una parte di aiutare a conoscere la vita della Chie84
sa e le sue novità, per colmare quello che già allora compariva
come un tacito ostracismo a ciò che di religioso caratterizzava la
società italiana; dall’altra parte intendeva anche nel nome porsi
sul solco romano, sottolineare il legame con il papa, in quei momenti travagliati della storia ecclesiale, soprattutto italiana. Questa fedeltà al papa e questo taglio culturale spinsero inizialmente
gli stessi vescovi lombardi a sostenere il giornale e a raccomandarlo al clero, salvo poi prenderne le distanze quando prevalse il tono
polemico ed intransigente che venne assumendo in particolare dal
1869, con l’arrivo in redazione di don Davide Albertario (18461902) 42, uno dei più brillanti esponenti del giornalismo cattolico
e tenace campione dell’intransigenza. Alla fine (1872) gli stessi
fondatori del quotidiano, mons. Giuseppe Marinoni e don Felice
Vittadini, si ritirarono, lasciando nelle mani di tre sacerdoti (Enrico Massara, Davide Albertario, Carlo Locatelli) la direzione e la
proprietà del giornale.
Vale la pena annotare che a fondarlo fu colui che voleva rinnovare la preparazione culturale del clero ambrosiano, in modo che
fosse all’altezza dei tempi nuovi e colui che aveva preso sulle spalle la pratica concretizzazione dell’Istituto per le Missioni Estere,
che mons. Ramazzotti aveva dovuto lasciare proprio al momento
della nascita per assumere l’episcopato di Pavia. Possiamo dunque ritenere che «L’Osservatore Cattolico» si inscriva nello spirito
missionario della diocesi, missione vista come impegno sia in patria sia in terre lontane per difendere e diffondere il Vangelo e la
Dopo la voce stesa da Fonzi (FAUSTO FONZI, Albertario Davide, in Dizionario Bibliografico degli Italiani, vol. I, Treccani, Roma 1960, pp. 669-671, la nota
bibliografica più aggiornata su Davide Albertario ci sembra quella di ALFREDO
CANAVERO, Albertario e «L’Osservatore Cattolico», Studium, Roma 1988, pp. 255259. Ad essa si possono aggiungere gli articoli (tutti abbastanza puntuali) comparsi successivamente: CARLO MARCORA, “L’Osservatore Cattolico: un’intransigenza contestata”, in «Diocesi di Milano - Terra Ambrosiana» n. 2, 29 (1988),
pp. 53-59; PIERANGELO GIOVANETTI, “L’‘Osservatore Cattolico’ di Milano: i perché del successo di un giornale cattolico”, in «Civiltà Ambrosiana», 6 (1989),
pp. 99-110; ANGELO MAJO, “L’esilio napoletano di don Albertario in documenti
inediti”, ibid., pp. 111-131; PAOLO LIZZI, “Un dissidio tra ‘confratelli’ intransigenti: Milano e Roma a confronto”, ibid., pp. 132-142.
42
85
Chiesa. Un segno di questo scambio tra i due volti della missione
si potrebbe ritrovare nel passo di una lettera di mons. Giuseppe
Marinoni a mons. Luigi Biraghi (18-26 maggio - 6 giugno 1839):
Carissimo mio Padre in Cristo, [...] Il disegno che ella ha per la
mente non è cosa di cui io possa giudicare: se io posso tuttavia dire
quel che mi vien suggerito, in tanto bisogno che stanno le missioni
estere di operai evangelici, con tante e sì proprie occasioni che il
Signore presenta di esercitare fruttuosamente il santo ministero, mi
parrebbe ottima cosa il consacrarsi nel ritiro, nell’orazione e nello
studio a questa grande impresa della Propagazione della Fede.
Parvuli petierunt panem et non fuit qui frangeret eis; specialmente
ove si rifletta l’attitudine grande che ha lei così pei lunghi pellegrinaggi come pel farsi tutto a tutti e comunicare i doni della mente e
del cuore ricevuti da Dio. Quando tale fosse il suo pensiero, ne
troverebbe forse più preparata la via, perocché si sta concertando
l’erezione di un ritiro per ecclesiastici che vogliono consacrarsi, lungi
dagli impicci di famiglia, al ministero apostolico nelle parti cattoliche, ed un Collegio di missioni per quelli che amassero di portare
in paesi esteri la santa fede.
È, dunque, in questo contesto caratterizzato dall’incertezza
nella guida della diocesi ed insieme dall’esperienza concreta di
come fosse faticoso annunciare il Vangelo in Italia, ed in particolare in Lombardia, che forse si può capire da un lato come potesse trovare accoglienza tra i giovani preti l’idea di un istituto
sacerdotale missionario e dall’altro lato il suo faticoso affermarsi. Da una parte, infatti, poteva essere normale pensare che accanto ai preti poveri, che uscivano dal Seminario del Villoresi,
potessero esserci altri preti che sentivano il bisogno di puntualizzare con maggiore precisione il loro carisma pastorale, il loro
modo di essere preti. La nascita degli Oblati Vicari che si va
preparando in quegli stessi anni si inserirebbe in questo solco:
nel desiderio di precisare tra le mille possibilità offerte il proprio
desiderio di servizio del Vangelo e della Chiesa. Dall’altra parte
proprio quel senso carolino o ambrosiano di prete, che abbiamo
delineato sopra, e quel primato della parrocchia, così profondamente radicato nel clero ambrosiano, possono spiegare per qua86
le motivo non si ebbe mai più di un manipolo di candidati all’Istituto Missioni Estere: i bisogni erano molti ed urgenti anche
a Milano, che appariva terra di missione capace di assorbire le
energie generose, quando ci fossero.
Una prova di questo sarebbero le altre figure di prete che potremmo presentare e che vanno affermandosi in questa seconda
metà del secolo XIX. È ancora un clero profondamente dedito
alla carità. Si pensi a mons. Luigi Vitali (1836-1919), che fondò
l’Istituto per i ciechi, un monumentale complesso ancor oggi esistente 43. Si pensi a mons. Domenico Pogliani (1838-1921), fondatore dell’Ospizio Sacra Famiglia per gli Incurabili di Cesano Boscone 44; a don Carlo San Martino (1844-1919) che, bruciato dal desiderio di farsi missionario – pensò anch’egli di entrare nel PIME –,
intuì che poteva esserlo qui tra i derelitti e, dopo aver retto il Riformatorio di Parabiago (popolato da 400 ragazzi), fondò l’Istituto per la Fanciullezza Abbandonata (o Figli della Provvidenza)
per attuare un’educazione più mirata alle reali condizioni dei ragazzi 45.
E, accanto a questi preti di frontiera, ancora una volta dovremmo ricordare i mille e mille dediti alla cura dei ragazzi e dei giovani negli oratori della città e della provincia. Un segnale: in quegli
anni si contavano nella sola città di Milano trenta oratori maschili.
Ed abbiamo già accennato a quale fosse il loro stile: la collaborazione faticosa e feconda tra sacerdoti e laici, chiamati spesso a
43
CARLO CASTIGLIONI, Mons. Luigi Vitali animatore dell’Istituto dei ciechi, in
Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano
1981, pp. 7-12.
44
PIETRO RAMPI, L’Ospizio Sacra Famiglia per gli Incurabili fondato dai sacerdoti D. Pogliani e L. Moneta, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di
VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 69-80; GUIDO VIGNA, Dalla parte degli
ultimi. Vita e opere di un parroco di campagna: don Domenico Pogliani, Istituto
Sacra Famiglia, Cesano Boscone 1988.
45
UBERTO PESTALOZZA, Don Carlo San Martino, Tip. dell’Istituto, Milano 1920;
ACHILLE MARAZZA, Don Carlo San Martino, padre della Fanciullezza abbandonata,
in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano
1981, pp. 37-53; RAFFAELLA BEANANTI CAGLIERI, “San Martino, Carlo”, in «Civiltà Ambrosiana», 3 (1986), pp. 58-60.
87
prendere posizione di fronte alle autorità governative, in luogo ed
a nome dei preti.
d) Terza conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?
In conclusione di questo terzo momento della vita della diocesi ambrosiana, possiamo dire che essa è caratterizzata da una
forte sottolineatura della fedeltà al papa e del legame con Roma,
ed insieme da una preferenza per la scelta della fine del potere
temporale, vista come occasione storica – o provvidenziale – per
allargare l’attenzione alla dimensione pastorale ed universale della
Chiesa.
In quest’epoca ed in quest’ottica, la Chiesa ambrosiana ritorna
a sottolineare – forse premuta dalle contingenze politiche – il forte senso dell’obbedienza al vescovo, espresso in modo particolare
dal ritorno degli Oblati per volontà dell’Austria e dall’incarico loro
affidato di formare il futuro clero nel seminario. La conseguenza
fu che, accanto alla centralità del vescovo e del senso di comune
appartenenza alla Chiesa, si posero le nuove prospettive pastorali,
protette dalla stessa incertezza del governo ecclesiale. Tutte, in
fondo, miravano ad un comune ideale: un clero capace di uscire
dalle sacrestie, capace di stare tra la gente e di parlare con ed alla
gente. In certo senso: un clero che riscopriva la dimensione missionaria del suo ministero, in sintonia con l’esplosione del fenomeno missionario in tutta la Chiesa ed in sintonia con l’appoggio
dato alle missioni da Gregorio XVI e poi da Pio IX; il primo era
stato prefetto di Propaganda Fide prima di salire al soglio pontificio, il secondo aveva seguito il desiderio di essere missionario andando – sia pure come segretario di una delle prime missioni diplomatiche in America Latina – in Cile. Il clero di Milano, nella
sua fedeltà al papa sostenuta da «L’Osservatore Cattolico», non
poteva che essere sensibile a queste dimensioni ed a queste sollecitazioni.
Era, d’altra parte, un clero abituato ad un vivace dibattito
intraecclesiale, ad una forte coscienza della dignità del ministero
di parroco. Anzi nella riflessione comune si affermava con forza
88
che i parroci appartengono al secondo grado ecclesiastico e sono
più importanti dei vescovi; che i vescovi hanno potere di giurisdizione, mentre i preti (identificati con i parroci) sono di diritto divino per l’ordinazione. Basterebbe leggere anche solo l’incipit di un
libro che circolò nella diocesi ambrosiana in vista del Concilio
Ecumenico Vaticano I, l’Appello ai Parochi 46, che rivela una visione di Chiesa per certi versi profetica, più vicina all’ecclesiologia
del secondo che a quella del primo Concilio Vaticano: «La Chiesa
non è costituita de’ soli Vescovi, Cardinali e Papa; né de’ soli Preti
del II ordine, né de’ soli Laici: è il popolo fedele sparso per tutto il
mondo» 47.
Proprio per questo motivo gli estensori dell’Appello pretendono di partecipare al Vaticano I; parlano di «collegialità»
all’interno della Chiesa; richiamano l’immagine della Chiesa
apostolica (At 2,42-46); ricordano che la Chiesa non è gerarchica (una piramide retta da competenze giurisdizionali) ma è
un popolo, in cui ogni membro ha un ruolo e il vescovo deve
coordinare la sintesi. In ultima analisi: una Chiesa apostolica
con un connaturale istinto missionario. Una Chiesa in cui trovava posto naturale e ben voluto anche un istituto di preti che
si dedicassero in modo specifico alla missione tra le genti «sparse
in tutto il mondo».
Era una ricchezza di stimoli e di immagini sacerdotali che, però,
custodiva nel suo seno un principio di anarchia, la tentazione –
sempre ricorrente – di confrontarsi e di contrapporsi, di giudicare
l’altro con severità e non con simpatia per la diversità che lo caratterizzava. È la tentazione di sempre nella Chiesa e nella società,
quella che è all’origine delle stesse eresie, degli scismi e delle divisioni che hanno lacerato la Chiesa. È la conseguenza della divisione che si incunea tra verità e carità. Esse, invece, sono come sorelle siamesi: l’una non sta senza l’altra e, separata, ognuna si smarrisce, lasciando divisione, lacrime e tristezza.
46
Per il XX. Concilio Ecumenico MDCCCLXIX. Appello ai Parrochi, Canonici, Professori e Moderatori dei Seminari, e Sacerdoti Italiani, Treves, Milano 1869.
47
Ibid., p. 5.
89
Fu, forse, quello che ricadde su colui che dovette assumere la
pesante eredità di ricucire il tessuto della comunione, mons. Luigi
Nazari di Calabiana.
Milano nel Regno d’Italia
a) Il vescovo e le sue vicende: Luigi Nazari di Calabiana (18671893)
Dopo otto anni di reciproche incomprensioni venne finalmente
il momento della comune saggezza e Pio IX da una parte ed il governo italiano dall’altra riuscirono in un faticoso accordo per la nomina ad un certo numero di sedi episcopali, tra cui quella di Milano 48. L’accordo si realizzò promuovendo l’arcivescovo eletto, mons.
Ballerini, a patriarca di Alessandria d’Egitto, in partibus infidelium
come si diceva allora, e trasferendo a Milano l’anziano vescovo di
Casale, mons. Luigi Nazari di Calabiana, la cui bontà e mitezza,
unite alla cura della catechesi e alla moderazione, erano note. Egli,
poi, era senatore del regno e dunque poteva essere ponte di dialogo
tra le due realtà italiane, il governo e la Chiesa romana 49.
48
Già nel 1865 erano iniziate le laboriose trattative fra la Santa Sede ed il
governo italiano per provvedere di titolari le molte sedi episcopali vacanti. Fallita la missione del ministro Francesco Saverio Vegezzi, le trattative vennero riprese dal consigliere di Stato Michelangelo Tonello nel 1866 e portate a termine tra
mille difficoltà. Una delle vertenze più faticosamente risolte fu quella che interessava la sede arcivescovile di Milano. Fra i candidati a succedere al Ballerini
venne dapprima nuovamente escluso il card. Piero De Silvestri, prelato di curia:
la scelta di un cardinale per Milano poteva significare eccessiva deferenza verso
il governo. Pio IX caldeggiò fortemente – si disse – la candidatura dell’arcivescovo di Lucca, mons. Giulio Arrigoni, ma gli si oppose il netto rifiuto del ministro
degli Esteri Bettino Ricasoli. Non rimanevano che i tre vescovi senatori del Regno: il lombardo mons. Giovanni Corti, vescovo di Mantova; i piemontesi mons.
Alessandro d’Angennes, arcivescovo di Vercelli, e il vescovo di Casale mons.
Luigi Nazari di Calabiana, elemosiniere di Sua Maestà. La scelta anche per motivi di età cadde su quest’ultimo.
49
CARLO CASTIGLIONI, Monsignor Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942; ENNIO APECITI,
90
Preconizzato arcivescovo di Milano nel concistoro del 27 marzo 1867, mons. Luigi Nazari dei conti di Calabiana fece un ingresso modesto in diocesi, a causa dell’incipiente epidemia di colera, il
23 giugno, rimanendovi fino alla morte avvenuta il 22 ottobre 1893.
Sin dall’inizio fu evidente e neppure celata la scarsa stima che Pio
IX aveva per il vescovo, che aveva dovuto designare obtorto collo.
Su questo stato d’animo – tutto sommato personale – si innescò la
dolorosa propaganda de «L’Osservatore Cattolico», che non perse occasione per umiliare l’arcivescovo e chi prendeva posizione
per lui.
Di queste fatiche Calabiana fu esperto sin dai primi giorni.
Nel suo discorso pronunciato in duomo nel giorno del suo ingresso, disse: «Desidero che cessi fra voi ogni rancore, ogni contesa di
partiti, ogni vendetta [...] Desidero che su tutta quanta la mia novella spirituale famiglia risplenda perpetuo il sole della verità, della giustizia, della pace» 50.
Egli applicò un principio che gli era caro, un motto di sant’Agostino: «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus
charitas». Lo applicò sempre. Lo applicò di fronte allo stesso
papa, nei confronti della società milanese, verso la sua Chiesa
ambrosiana.
Nei confronti del papa, Calabiana coltivò sincera devozione e
sicura fedeltà alla tradizione della Chiesa che gli era stata affidata.
Lo si vide bene durante il Concilio Vaticano I, quando egli chiese,
con altri 54 vescovi della minoranza, di lasciare Roma per non
pronunciare il proprio non placet sul dogma dell’infallibilità «palam
et in facie Patris» 51. Lo fece perché le posizioni dei docenti del
Alcuni aspetti dell’episcopato di Luigi Nazari di Calabiana Arcivescovo di Milano
(1867-1893). Vicende della Chiesa ambrosiana nella seconda metà del 1800 (=
Archivio Ambrosiano 66), NED, Milano 1992.
50
LUIGI NAZARI DI CALABIANA, Discorso pronunciato in Duomo nel suo solenne ingresso in Milano, Milano, 23 giugno 1867.
51
La coerenza del gesto va sottolineata, se si considera che del già piccolo
gruppo degli anti-infallibilisti italiani firmarono solo, oltre a Calabiana, i vescovi
Montixi di Iglesias, Moreno di Ivrea, Sala di Nizza: mons. Biale di Albenga era
morto poco prima di Pasqua, mons. Renaldi di Pinerolo era già da tempo assente per motivi di salute, mons. Riccardi di Torino era rientrato ammalato in dioce-
91
suo seminario erano per la non opportunità, in quelle circostanze,
della definizione dogmatica ed egli non voleva sconfessare gli
educatori dei suoi futuri preti. Fu un segnale di fiducia nei loro
confronti, che pagò a caro prezzo perché fu oggetto di una sorda
e denigratoria campagna di stampa. Ma nella stessa vicenda egli
mostrò la sua devozione al papa, poiché aderì solennemente al
dogma nella prima solenne celebrazione successiva alla definizione, durante il pontificale dell’8 settembre, festa della Natività di
Maria, cui è dedicato il duomo.
Non meno faticoso ed insieme sincero il rapporto con le autorità civili. Il motto episcopale scelto da Calabiana era stato «Ognun
mi sente». Era la volontà del dialogo in tutti i modi possibili alla
carità. Non a caso il motto era in italiano, e non in latino secondo
la tradizione: occorreva che cominciasse a farsi capire anche da
quella sola frase. Sempre nel suo discorso nel duomo di Milano in
occasione del suo ingresso, aveva detto: «Il mio linguaggio con voi
non sarà mai che quello del cuore. Charitas Christi urget nos... Ad
ogni chiamata, dovunque si estenda il mio ministero, io mi terrò
pronto [...] si allargherà il mio cuore se mi avverrà di poter dire:
oh Signore, grazia vostra, ho potuto oggi fare qualche poco di
bene ai miei figli! Grazia vostra, non fu inutile oggi la mia missione» 52.
Per questo si era dimostrato disponibile ad un ingresso in diocesi in forma semplice, richiesto dal prefetto ufficialmente per evitare i pericoli del contagio da colera, allora serpeggiante in città.
Per questo andò subito a visitare la truppa militare ed insieme gli
ospedali della diocesi, per dimostrare lealtà allo Stato e prossimità
ai sofferenti ed ai bisognosi. Non a caso mons. Luigi Biraghi scrisse: «Accoglie da mane a sera clero, signori e popolo, per le rispetsi a Pasqua e non era tornato a Roma, limitandosi alla fine di giugno a pubblicare
una dichiarazione sull’infallibilità, che non brillava per chiarezza di contenuto e
di impegno, mons. Losanna di Biella aveva abbandonato Roma dopo la votazione del 13 luglio, incaricando Calabiana di rinnovare il suo non placet nella votazione solenne del 18 luglio.
52
LUIGI NAZARI DI CALABIANA, Discorso pronunciato in Duomo nel suo solenne ingresso in Milano, Milano, 23 giugno 1867.
92
tive occorrenze. La soddisfazione di chi tratta con lui, non esclusi
i meno conciliabili, è universale» 53.
Eppure non gli furono risparmiate umiliazioni, che egli affrontò
con equilibrio e dignità, fiducioso nel primato della fede e nel suo
radicarsi nel cuore delle persone. Un momento significativo di
questo stile furono, per esempio, le feste per il centenario dell’elezione episcopale di sant’Ambrogio nel 1874. Pochi anni prima
erano state ritrovate le reliquie del santo sotto l’altare dell’omonima basilica e sembrò ben giusto caratterizzare il centenario portando in duomo l’urna delle reliquie per un triduo di preghiere,
concluso da una solenne processione che avrebbe riportato il santo nella sua basilica.
Avvicinandosi il momento, concordato anche con le autorità
politiche, si scatenò una violenta campagna di stampa, in cui si
distinse il quotidiano «Il Secolo», che presentò l’imminente processione come un pietoso tentativo di «risuscitare il Medio Evo
colle sue superstizioni». Poiché la processione si sarebbe svolta il
13 maggio, giorno della nascita di Pio IX, si volle vedere nella sua
scelta un’intenzione politica: «l’occasione per fare una dimostrazione a favore del Papa-Re [per] festeggia[re] il più acerrimo nemico della libertà d’Italia» 54.
La cosa fu portata in parlamento, dove il deputato Felice
Cavallotti «con un profluvio di bestemmie e d’insulti alla religione cattolica, e di lazzi schifosi contro le reliquie dei SS. Martiri e
del S. Dottore Ambrogio fece al Cantelli, ministro per gli affari
interni, un’interpellanza contro la divisata processione» 55.
Così alla vigilia del trasporto delle reliquie in duomo, il 10
maggio, il prefetto, «considerato che ci sono fondate ragioni per
temere che nell’occasione della processione per le feste di S.
Ambrogio venga turbata la dignità dei riti religiosi ed il sentimento morale di ogni onesto cittadino» 56, vietava la processione.
Archivio Generale Suore Marcelline, Epistolario I, n. 1086.
Ibid., 156.
55
«La Civiltà Cattolica», 21 (1874), serie 9, vol. 2, p. 619.
56
Ripreso da «La Gazzetta di Milano», 10 maggio 1874. La posizione fieramente avversa alle feste santambrosiane da parte della «Gazzetta di Milano»
53
54
93
Calabiana si piegò al decreto prefettizio ed alle quattro della
notte tra l’11 e il 12 maggio accolse le spoglie di Ambrogio, di
Gervaso e di Protaso, che giunsero coperte da tela cerata per evitare ogni curiosità. Esse furono venerate nei giorni seguenti da un
numero straordinario di persone.
Ma più impressionante fu ciò che avvenne quando si trattò di
riportare le reliquie in S. Ambrogio. Ancora una volta, secondo gli
ordini dell’autorità civile, si sarebbero dovute trasportare nella notte del 15 maggio. Nell’attesa del momento piazza del Duomo si
andò affollando di devoti e di guardie travestite per timore di disordini. Alle due e mezza di notte si aprirono le porte del duomo e ne
uscirono le urne, coperte come all’arrivo, e seguite da alcuni membri del capitolo metropolitano e dal Calabiana. Nel buio della notte, rapidamente la piazza cominciò ad illuminarsi: erano le candele
che alcuni fedeli avevano portato e dividevano fra tutti i presenti,
calcolati in alcune migliaia. Si formò così uno spontaneo e lungo
corteo: alla testa i corpi dei santi, seguiti dal piccolo corteo di Calabiana e, dietro, lo snodarsi di questo fiume di fioca luce dal quale
salivano sommesse preghiere. Giunti nei pressi della basilica di S.
Ambrogio i giovani del circolo omonimo intonarono il Te Deum,
che fu ripreso dal popolo. Con questo inno di trionfo, le spoglie dei
tre santi rientrarono nella loro basilica. Calabiana celebrò la messa,
accompagnata dal canto del popolo e tutti attesero l’alba: solo allora la folla cominciò a sciogliersi lentamente per far posto ai pellegrini, che continuarono ad arrivare ininterrotti per più di un mese.
Non fu l’unico momento di contrasto che Calabiana dovette
gestire. Bisognerebbe ricordare la tenace ed astiosa polemica della Massoneria, che nel Milanese in tutti i modi combatté l’educazione cristiana, sia quella impartita nelle scuole sia quella degli
oratori.
A dare un’idea del clima di molte scuole – non si dimentichi
l’importanza che avevano le maestre ed i maestri a livello locale –
andrebbe studiata. Già nel n. 116 di domenica 26 aprile 1874 aveva tuonato in
prima pagina contro il «Carnevale di Maggio», come definiva la processione, e
non meno offensiva era stata all’interno del giornale, ove parlava di «medioevale
baldoria organizzata dai vescovi d’accordo colle autorità».
94
potrebbe servire un passo di un libro di Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita:
La storia mi fa aborrire i preti: non una piccola offesa fatta a me da
un miserabile, che poteva ancora non essere prete, ma diciotto secoli
di delitti, di rapine, di sangue, ma i roghi ed i tormenti, ma un immenso cumulo di mali, di corruzione, d’ignoranza, di ferocia, ma la
servitù della mia patria, e di tante contrade della terra, mi fanno ribollire l’anima nel pensare al prete, che è stato, ed è cagione di tutte
le umane miserie 57.
Contro gli oratori, poi, si giunse ad istituire degli sfortunati –
nel senso letterale dato che non ebbero fortuna – ricreatori laici 58.
Gli oratori infatti, scriveva la Massoneria, non erano «solo un male
per il futuro», ma anche «un pericolo presente e immediato»:
Con seimila fanciulli negli oratori i preti esercitano un’influenza non
indifferente sopra seimila famiglie della città. Questi fanciulli a loro
insaputa irradiano nelle famiglie a cui appartengono buona parte dei
sentimenti e delle dottrine che assorbono per opera dell’educazione
clericale. Essi possono venir adoperati per conoscere segreti domestici, per servir da messaggeri fra la chiesa e la casa e perfino in una
lotta politica per distribuire, poniamo, nelle rispettive famiglie un
proclama, una scheda elettorale, per ridestare fors’anche in caso di
conflitto il fanatismo delle moltitudini ignoranti 59.
Proprio per evitare questi perniciosi influssi, la Massoneria
proponeva di contrapporre agli oratori dei «ricreatori o come si
voglian chiamare, con carattere prettamente liberale, destinati a
raccogliere, educare e sollazzare i giovanetti nei giorni festivi» 60.
In fondo questa opposizione massonica fu utile: dimostrò la
vivacità delle strutture ecclesiali, la loro capacità di coinvolgere la
LUIGI SETTEMBRINI, Ricordanze della mia vita, Morano, Napoli 1892, p. 167.
Rimando al mio libro: ENNIO APECITI, L’Oratorio ambrosiano da san Carlo
ai nostri giorni, Ancora, Milano 1998, pp. 78-87, 104-107.
59
[D. NULLI], Gli oratori cattolici a Milano. Relazione ad una Società Filantropica, Giuseppe Civelli, Milano 1877, pp. 6-7.
60
Ibid., p. 7.
57
58
95
gioventù e le famiglie, cioè la società, non quella «legale» ma quella «reale», secondo un effato divenuto ormai classico.
Questa vivacità ecclesiale era quanto mai necessaria ed anche
sollecitata dalle circostanze. Basterebbe ricordare che ben più feconda per il futuro della stessa storia milanese fu la presenza del
socialismo. A Milano, infatti, nacque il primo Partito Operaio
(1882) e qui fu eletto al parlamento il primo deputato socialista,
Andrea Costa, e si organizzò la Camera del Lavoro (1890).
Calabiana non si lasciò mai scoraggiare, e continuò a raccomandare il dialogo ed il rispetto ed insieme a difendere la libertà
della sua Chiesa ed a incoraggiare preti e fedeli sulla via della concordia e della verità. Neppure in questo fu sempre capito e sostenuto. Abbiamo già citato le pagine de «L’Osservatore Cattolico»,
sempre pronto a polemizzare, in modi talvolta disgustosi, come
avvenne nel 1878 in un articolo sulla morte di Vittorio Emanuele
II, di cui basti leggere l’incipit: «A Roma siamo, a Roma resteremo! E a Roma restò come egli aveva profetizzato; ma vi resta cadavere in un palazzo papale!» 61. Calabiana rimase disgustato e
con lui il clero liberale – circa 150 sacerdoti – che sottoscrisse una
Dichiarazione di biasimo per i toni del giornale intransigente e di
solidarietà con l’arcivescovo, che aveva decretato celebrazioni di
suffragio per il re e che veniva così, almeno implicitamente, criticato da «L’Osservatore». Purtroppo la Dichiarazione, che doveva
rimanere riservata, fu divulgata dalla stampa. «L’Osservatore» per
tutta risposta si mise a pubblicare articoli nei quali si dichiarava
«figlio di ubbidienza [...] dolente d’averlo comecchessia amareggiato» [l’arcivescovo]62. Ma contemporaneamente (con perfidia?)
riportava encomi, congratulazioni ed applausi per ciò che aveva
pubblicato e di cui si dichiarava dolente nei confronti del suo vescovo. La tensione, che andava inevitabilmente crescendo, fu placata ancora una volta dal papa il quale, pur anch’egli vicino alla
morte, rinnovò l’umiliazione di Calabiana inviando un nuovo Breve di encomio che lasciò sconcertati anche perché vi si poteva co61
“In morte di Vittorio Emanuele: A Roma siamo, a Roma resteremo”, in
«L’Osservatore Cattolico», 10-11 gennaio 1878, p. 1.
62
«L’Osservatore Cattolico», anno 15, n. 14, giovedì-venerdì 18-19 gennaio
1878, p. 2.
96
gliere una censura all’arcivescovo: «[Biasimiamo] coloro che col
pretesto della prudenza e della carità fantasticano assurde ed impossibili conciliazioni» 63.
Ci fermiamo qui. Ci sembra di aver illustrato sufficientemente
il clima teso della diocesi, l’incrociarsi di diverse tensioni. In fondo a Milano si viveva la stessa questione romana, la fatica di costruire una nuova nazione, che custodisse la grande tradizione cristiana, che fa singolare – anzi unica nel mondo – l’Italia. Purtroppo, una minoranza faziosa ed arrogante – radicale nei suoi due
estremi, quello massonico e quello ultraclericale – ed una maggioranza troppo remissiva permisero quello che in questi casi succede: il degenerare dell’unità e della concordia, il prevalere dell’ingiustizia e della mediocrità.
Volendo fermarci ad un’analisi più approfondita dobbiamo ora
sostare brevemente – secondo lo schema che abbiamo adottato –
sulla condizione del laicato, dei religiosi, del clero.
b) Quale la situazione del laicato?
Ci sembra di poter dire che il laicato della diocesi di Milano
nella seconda parte dell’Ottocento presentava caratteristiche di vivacità singolari. Si pensi al Circolo giovanile cattolico Sant’Ambrogio di Milano (6 marzo 1873), che possiamo considerare l’antesignano della Gioventù di Azione Cattolica. Ricordiamo, poi, l’apporto dato dall’Opera dei Congressi sin dal I congresso di Venezia
(12-16 giugno 1874), mentre l’Unione Cattolica per gli studi sociali
(29 dicembre 1889), di cui fu presidente Giuseppe Toniolo 64, diede
Archivio Segreto Vaticano, Ep. ad Princ., Reg. 285 (1878) 9,4. Datato il 17
gennaio 1878. Fu pubblicato con la traduzione, che abbiamo ripreso, ne «L’Osservatore Cattolico», 23-24 gennaio 1878, p. 1.
64
Per un’introduzione esauriente: PAOLO PECORARI, Toniolo Giuseppe, in
Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980. I protagonisti, vol.
II, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 636-644. Si veda anche la commemorazione di DALMAZIO MINORETTI, “Il professor Toniolo”, in «La Scuola Cattolica», 46 (1918/2), pp. 337-343.
63
97
singolare contributo agli studi conclusivi dell’enciclica Rerum Novarum (15 maggio 1891).
Un laicato impegnato nella vita sociale, ed insieme caratterizzato da una fede profonda anche se tradizionale, legato alle devozioni che ancor oggi diciamo popolari, quella al rosario per esempio: il solo Leone XIII nel suo pontificato scrisse undici encicliche
per raccomandare la recita del rosario, soprattutto nel mese di
ottobre. Esso voleva essere una preghiera familiare, atta a raccogliere la famiglia in preghiera ed a sostenere la sua spiritualità.
Potremmo allora parlare di cura della spiritualità familiare, insidiata com’era (s’è visto) dall’insistente propaganda per il divorzio 65. In quest’ottica s’inseriscono l’istituzione della Festa della
Famiglia (1893) e la diffusione delle immaginette con Giuseppe
falegname aiutato dal fanciullo Gesù, sotto l’occhio materno di
Maria che cuce: l’esempio della Sacra Famiglia è indicativo dell’importanza della vita quotidiana, delle cose di ogni giorno come
via alla santità; gli affetti familiari richiamano all’attenzione, alla
bontà ed alla misericordia. Il frutto fu una rivisitazione teologica
del sacramento del matrimonio ed una predicazione che pose al
centro della sua attenzione la famiglia e i suoi valori, e la sua importanza nel cammino della santità.
65
Il 1° giugno 1879 Leone XIII intervenne con una durissima lettera, intitolata Ci siamo grandemente, ai vescovi del Piemonte e della Liguria, per condannare
il progetto di legge, approvato dalla Camera dei Deputati il 19 maggio 1879 – con
153 voti a favore e 101 contro – che avrebbe dovuto rendere «reato» la celebrazione del matrimonio religioso prima di quello civile. Le proteste che si levarono, non
solo da parte cattolica, spinsero a non presentare il progetto di legge al Senato, e
pertanto decadde. Il papa intervenne poi più ampiamente il 10 febbraio 1880 con
l’enciclica Arcanum Divinae, a difesa della famiglia e del sacramento del matrimonio. Ma il governo italiano non si rassegnò e nel 1892 di nuovo propose la legge
che imponeva la precedenza del matrimonio civile su quello religioso. Ancora una
volta il papa intervenne pubblicamente con una lettera al vescovo di Verona, cardinale di Canossa, dal titolo Il divisamento (8 febbraio 1893), in cui bollava come
«sacrilega usurpazione» la proposta di legge. Il testo delle lettere e dell’enciclica
in: UGO BELLOCCHI, Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal
1740, V/1 [Leone XIII (1878-1891)], Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana,
1996, pp. 49-52 (la lettera del 1879); pp. 76-92 (l’enciclica del 1880); ibid., V/2
[Leone XIII (1892-1903)], 1997, pp. 44-49 (per la lettera del 1893).
98
Non meno importante fu la devozione al Sacro Cuore 66, che
trovò la sua sanzione nella Consacrazione del genere umano al Sacro Cuore, fatta da Leone XIII a coronamento dell’Anno Santo
del 1900, il primo dopo quello avvenuto in sordina nel 1825 67. Il
Sacro Cuore, poi, ci rimanda all’importanza progressiva che assunse nella spiritualità ottocentesca la devozione all’Eucaristia. Essa
era vista come uno stimolo alla carità, un simbolo della concordia,
una cena comunitaria. Vi sono qui i prodromi del grande sviluppo
che l’Eucaristia prenderà nel Novecento e gli elementi che danno
vita alle numerose confraternite di carità che crebbero in quel periodo.
Il primo Congresso Eucaristico italiano si tenne a Napoli nel
1891 e fu occasione per un’approfondita ricerca dei mezzi per la
diffusione delle verità eucaristiche, il più efficace dei quali era senza
dubbio il catechismo 68.
66
Una buona introduzione anche storica in FRANCESCA MARIETTI, Il Cuore di
Gesù. Culto, devozione, spiritualità, Ancora, Milano 1991. La devozione al Sacro
Cuore deve molto all’opera dei Gesuiti ed alle confraternite fondate da Giovanni
Eudes, Grignon de Monfort. San Paolo della Croce e Alfonso Maria de’ Liguori,
che compose una Novena al Sacro Cuore, ne sostennero la diffusione presso papa
Clemente XIII, come mezzo per arginare il giansenismo e le sue esagerazioni. Purtroppo la devozione al Sacro Cuore risentì della polemica antigesuitica e della
soppressione della Compagnia. Essa però continuò a diffondersi tra il popolo e
trovò la sua conferma nella stessa ricostituzione della Compagnia: si pensi
all’Apostolato della Preghiera, sorto per opera del gesuita F. X. Gautrelet nel 1844
Durante il concilio Vaticano I circa 225 padri indirizzarono un voto a Pio IX,
perché sostenesse la consacrazione al Sacro Cuore, cosa che il papa fece approvando la formula della Consacrazione per l’Anno Santo (mancato) del 1875.
67
Lett. Enc. Annum Sacrum, 25 maggio 1899. È la prima enciclica pontificia
dedicata al Sacro Cuore. In essa il papa disponeva che in preparazione alla festa
del Sacro Cuore (11 giugno), si consacrasse l’umanità al Sacro Cuore. Con la
stessa enciclica Leone XIII riconobbe le Litanie del Sacro Cuore. A questo documento seguirono: Pio XI, Miserentissimus Redemptor (1928); Pio XII, Haurietis
aquas (1956); Paolo VI, Investigabiles divitias Christi (1965).
68
ANTONIO RIMOLDI, Profilo storico dei Congressi Eucaristici Nazionali, Centro Direttivo 20° CEN, Milano 1981; ACHILLE ZAMBARBIERI - ANTONIO OCCHIONI
- ENRICO CATTANEO, I Congressi eucaristici nella Chiesa e nella società italiana,
Milano 1983.
99
Di qui, comunque, il cammino inarrestabile con un’accentuazione della valenza sociale dello stesso culto eucaristico, che si
espresse attraverso i congressi eucaristici, iniziati a Lille nel 1881 69
e rapidamente diffusi anche in Italia. Essi volevano essere anche
un modo di testimoniare la propria fede cristiana nella società,
come ha scritto Enrico Cattaneo a proposito del quinto Congresso Eucaristico, tenutosi a Milano nel 1895, che fu «un magnifico e
fervente atto di omaggio all’Eucaristia, ma anche un continuo grido di protesta contro le leggi italiane che vietavano le pubbliche
manifestazioni religiose ed un invito accorato a fare dell’Eucaristia la forza unitiva dei cattolici italiani» 70.
Il sacramento eucaristico veniva così ad assumere un nuovo
carattere, divenendo forza sociale e simbolo d’unità fra le diverse
classi per affermare i valori religiosi nella società e per il rinnovamento spirituale dei fedeli.
Si comprendono, pertanto, le parole con cui l’arcivescovo di
Torino terminava il suo discorso al Congresso Eucaristico milanese:
Il popolo aprirà maggiormente gli occhi e vedrà altre cose; non vedrà
solamente i mali che affliggono la società e gli ordini materiali e gli
ordini civili e tutte le pertinenze sociali; vedrà qualche cosa di più.
Esso che [...] nel fondo del suo cuore sente... il bisogno di Gesù Cristo, sentirà pure che Gesù Cristo non è ancora al suo posto; e con il
popolo apriranno pure gli occhi tanti cattolici e capiranno ciò che
69
Dovremmo qui ricordare prima la figura di Pietro Giuliano Eymard (18111868), che fondò nel 1856 la Congregazione dei Sacerdoti del SS.mo Sacramento e
nel 1863 quella delle Ancelle del SS.mo Sacramento. Tra queste entrò nel 1865
Maria Marta Emilia Tamisier (1834-1910), che fu l’ispiratrice vera e propria dei
congressi eucaristici. Alla sua azione si dovettero i primi solenni pellegrinaggi
eucaristici francesi, che poi spinsero a fondare l’Opera dei Congressi Eucaristici
Internazionali. Il primo si tenne a Lille il 28-30 giugno 1881. Seguirono quelli di
Friburgo (1885) e di Tolosa (1886). Già al primo congresso parteciparono anche
gli italiani, che proposero di ospitare il Congresso Eucaristico Internazionale a
Torino, la «città del SS. Sacramento». Non fu possibile per l’opposizione del governo (il primo si poté fare solo nel 1905). Maturò allora l’idea di fare dei congressi
eucaristici nazionali, a partire da quello di Napoli (19-22 novembre 1891).
70
ENRICO CATTANEO, “Le Quarantore ieri e oggi”, in «Ambrosius», 43 (1967),
pp. 238.
100
molti e molti di essi ancora purtroppo non sanno intendere; vedranno Gesù Cristo prigioniero nel suo Vicario, ed allora per tutta Italia i
cuori si ridesteranno 71.
La devozione all’Eucaristia era, dunque, un modo di sostenere
l’ottimismo, la fiducia, il coraggio, che permettevano concretamente un rinnovato impegno di animazione, di annuncio. Questo
ritorno alla centralità dell’Eucaristia non a caso scandisce il secolo
XIX ed il suo spirito missionario. In altre parole, ci domandiamo
se lo stesso diffondersi della devozione eucaristica e della pratica
della comunione quotidiana, dell’Adorazione Riparatrice delle
Nazioni Cattoliche e delle Quarant’ore non sia in linea – frutto ed
insieme causa – del rinnovato impegno missionario che è, poi, il
desiderio che tutti i popoli credano nel Signore Gesù e nel suo
amore appassionato per ogni essere umano. Allora non parrà strano notare che le Quarant’ore ebbero un incremento impressionante nella diocesi ambrosiana, in concomitanza anche con la canonizzazione di sant’Antonio Maria Zaccaria. Non parrà strano
che in questa diocesi accanto al prorompente sviluppo del socialismo si ponesse un vivacissimo laicato cattolico: ovunque c’è bisogno di annunciare il Vangelo, lì c’è missione.
c) Quale la situazione dei religiosi?
Lo stesso prorompente fiorire si ebbe nel campo dei nuovi
ordini religiosi, che Calabiana approvò o accolse con lungimiranza nella diocesi. Nuovi ordini che meritano di essere perlomeno
ricordati sono le Suore del Preziosissimo Sangue, dette comunemente Preziosine, riconosciute nel 1876; la Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, fondata da madre Laura Baraggia nel 1880; i Figli
dell’Immacolata Concezione, fondati nel 1857 da padre Luigi Monti, originario della diocesi ambrosiana, condotto a maturare la sua
scelta dalle prediche infiammate dei padri di Rho, tra cui ricordava sempre padre Angelo Ramazzotti: era dunque il ritorno di un
71
Ibid., p. 239.
101
figlio quello del 1886, quando il nuovo istituto aprì una casa a
Saronno. Non meno preziose, poi, le Suore Misericordine, fondate da mons. Luigi Talamoni (1891). Mi sembra che lo spirito che
animò questi nuovi istituti possa proprio essere esplicitato da un
passo di quest’ultimo:
Aiutare caritatevolmente e materialmente gli ammalati, per curare
santamente e spiritualmente le loro anime e procurare la loro salvezza. Ma, cogli ammalati, giovare anche ai sani, portando nelle loro
case l’amore di Gesù Cristo, l’osservanza delle sue leggi e dei precetti
della sua Chiesa, l’amore vicendevole, il rispetto ai capi di casa,
l’aborrimento al vizio, l’amore e lo stimolo alla virtù. Per arrivare a
ciò non bisogna guardare a sacrifici, a bassezza di uffici, a privazioni,
a dicerie, a disprezzi, a invidie; è a ben più caro prezzo che il nostro
Divin Salvatore ci ha ricomprati dalla schiavitù del peccato. E noi,
che vogliamo farci Sue seguaci nella salvezza delle anime coll’aiutare
i corpi, ci ritireremo dal soffrire?
Padre Monti dopo gli ammalati accolse gli orfani e gli sventurati, per provvedere alla loro formazione in vista di un loro riuscito inserimento sociale. Le suore di madre Baraggia si impegnarono nelle parrocchie, proprio per raggiungere gli strati più umili
della popolazione, quelli più bisognosi e quelli che cementano una
parrocchia: gli ammalati, visitare i quali era uno dei massimi punti
d’onore per i parroci ambrosiani. Le Preziosine erano invece dedite alla formazione delle fanciulle del circondario di Milano –
nacquero a Monza – quasi a completare la scelta di mons. Biraghi
con le Marcelline: se queste si dedicavano alle ragazze della borghesia medio-alta, quelle – le Preziosine – si sarebbero dedicate a
quelle del ceto più popolare. Tutti questi nuovi ordini, si sarà notato, avevano tra i loro carismi un forte senso di carità, una forte
esigenza di pastoralità e un forte desiderio di formazione dei loro
contemporanei. C’era in essi un forte desiderio di evangelizzazione, di missione. Non ci stupirà, dunque, trovare le Preziosine in
Brasile, con le Marcelline ed i Figli di padre Monti: la missione ad
gentes era nel loro sangue, come lo era nell’humus della diocesi
che li aveva accolti.
102
d) Quale la situazione del clero?
Alla luce di quanto abbiamo detto sopra, crediamo di aver delineato sufficientemente il volto del clero ambrosiano nell’ultima
parte del secolo XIX sotto l’episcopato di Calabiana. Permane,
dunque, una singolare attenzione ed una nuova ripresa dello spirito missionario-pastorale, di cui ci è testimone la costituzione giuridica degli Oblati Vicari (4 novembre 1875). Essi avrebbero provveduto alla vita delle comunità prive del parroco, pronti a lasciare
tutto appena il governo avesse approvato la nomina del pastore
legittimo. Allora, con la stessa prontezza con cui erano arrivati ed
avevano vissuto della carità dei fedeli (non potevano toccare il
beneficio), lasciavano il posto che avevano servito con la dedizione di chi sapeva che era lì per coprire un’emergenza, facendo come
il servo del Vangelo, che sa di essere prezioso ed inutile insieme. I
Vicari Oblati, nella loro scelta di insicurezza economica e di primato del ministero pastorale, vennero destinati normalmente alle
parrocchie più abbandonate o difficili, a quelle – in altre parole –
più vicine alla frontiera della missione. Non a caso mons. Calabiana curò la fondazione di nuove parrocchie proprio nella periferia
di quella che andava divenendo la grande città (si pensi alle parrocchie di S. Luigi e di S. Gioachimo) e permise il ritorno discreto
dei Gesuiti, purché si stabilissero nelle zone periferiche: scelta
preferenziale che fu continuata dal cardinale Ferrari, che permise
l’arrivo in diocesi dei Salesiani, purché si stabilissero nella periferia di allora, l’attuale zona della Stazione centrale.
Era una scelta che impegnava anche il futuro della diocesi, noi
diremmo: una strategia pastorale di Calabiana. Egli volle preparare
un clero in cui convivessero libertà personale e attenzione privilegiata alla pastorale, cioè all’annuncio efficace, proposto secondo le
categorie culturali più comprensibili all’uomo del suo tempo. Era,
in fondo, la scelta fatta da Paolo sin dal discorso paradigmatico ai
sapienti dell’Areopago di Atene. Modernizzare gli studi seminaristici fu, pertanto, un’altra scelta, che segnò il volto del prete diocesano. Calabiana volle che fossero adottati i programmi statali per gli
studi del ginnasio-liceo. Il motivo? Nel caso i ragazzi avessero lasciato il seminario durante il cammino di formazione, non avrebbe103
ro perso tutti i loro studi e le loro fatiche; nel caso invece fossero
divenuti sacerdoti, essi avrebbero avuto una cultura pari a quella
delle menti migliori dell’epoca – basti ricordare cosa volesse dire,
soprattutto a quel tempo, frequentare il liceo classico –, una cultura
raffinata, capace di un fecondo dialogo con gli uomini e le donne,
capace di rispondere alle domande più profonde e complesse che
fossero nate nel cuore dei loro fedeli. Se poi si tiene conto del contesto sociale e dell’ostilità della cultura ufficiale verso tutto ciò che
apparteneva alla sfera religiosa ed ecclesiale, la scelta di preparare i
futuri sacerdoti secondo i programmi statali – e del liceo-ginnasio –
era indirizzata a permettere al clero di dialogare con quel ceto sociale che, prevedibilmente, avrebbe retto le sorti della società civile:
a questi compiti, infatti, arrivavano tradizionalmente gli studenti
del ginnasio-liceo. Un prete, dunque, formato sin da giovane a saper «rendere ragione della sua speranza» (cfr. 1 Pt 3,17); un prete
tendenzialmente missionario, che trovava logico incontrare sul suo
cammino anche forme di ministero presbiterale specificamente preparate ad gentes. Di qui l’appoggio incondizionato che Calabiana
diede sia al Seminario Villoresi, di cui abbiamo già parlato, sia alla
comunità dei preti di S. Calocero.
Una pluralità di presenze che rese la Chiesa milanese vivace e
impegnata. Accanto ai molti preti già presentati ed ancora sulla breccia nel momento storico che stiamo descrivendo, dobbiamo porre
ora don Luigi Talamoni (1848-1926), che fu a lungo docente nei seminari di Milano, confessore e predicatore ricercato, consigliere comunale di Monza finché il fascismo non gli chiuse la bocca 72. Egli
esprime quel desiderio di impegno nella vita politica italiana che è
poco conosciuto. Si parla molto di non expedit e di indifferenza conseguente dei cattolici allo Stato unitario italiano. Non è precisamente
ANGELO RECALCATI, Documenti e appunti per la biografia di Monsignor Luigi
Talamoni, Monza 1980; ID., Mons. Luigi Talamoni e l’assistenza dei malati a domicilio, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, NED, Milano 1981, pp. 55-68; ID.,
Talamoni Luigi (1848-1926), in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED,
Milano 1993, pp. 3629-3630; ID. Le lettere di mons. Luigi Talamoni alle Suore
Misericordine, Monza 1986. Accanto a questi studi potremmo porre: GIOVANNI
COLOMBO, Mons. Luigi Talamoni, in Maestri di vita, NED, Milano 1985, pp. 151166; ANGELO MAJO, Monsignor Luigi Talamoni e il suo tempo, NED, Milano 1988.
72
104
così. Il non expedit valeva a livello di elezioni politiche generali per
entrare in Parlamento, e può addirittura avere una giustificazione storica, almeno all’inizio. Meno noto è che a livello locale invece i cattolici furono addirittura sollecitati a farsi presenti, poiché qui era effettivamente possibile operare e salvaguardare i valori propri del cristianesimo, che può a buon diritto essere fermento della società, della
sua giustizia e del suo progresso. Mons. Talamoni è uno dei tanti,
anche preti, che sentirono come loro dovere pastorale animare la società ed educarono le giovani generazioni ad assumersi le responsabilità della vita civile. Personalmente credo siano stati questi mille e
mille sconosciuti consiglieri comunali o provinciali che hanno custodito in Italia quel tesoro prezioso che è la fede.
Un’attenzione non improvvisata, piuttosto preparata da studi
specifici. Se nella prima parte dell’Ottocento ai parroci era chiesto di conoscere le tecniche agricole e di impollinazione poiché
essi servivano comunità a grande maggioranza dedite all’agricoltura, adesso, in tempi di vivace sviluppo pre-industriale, occorreva che ci fossero preti capaci di saper affrontare la questione operaia. È per questo motivo che troviamo emergente tra il clero del
tempo don Dalmazio Minoretti, che divenne poi arcivescovo di
Genova 73. Egli fu incaricato di insegnare dottrina sociale nel Seminario di Milano, succedendo al suo maestro Giuseppe Toniolo.
Per un’introduzione vedi: DANILO VENERUSO, Minoretti Carlo Dalmazio, in
Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia 1860-1980. II. I protagonisti,
Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 391-394; CARLO CATTANEO, Minoretti Carlo Dalmazio, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990,
pp. 2250-2252; ANTONIO RIMOLDI, Il movimento cattolico nel milanese (18671915). Appunti, in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana, vol. V, Milano 1975,
pp. 366-378; ERNESTO COMBI, “Carlo Dalmazio Minoretti e l’insegnamento di
economia sociale”, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 22 (1987), pp. 226-287; FEDERICO MANDELLI, Ricordo del
cardinal Minoretti, in Profili di preti ambrosiani del Novecento, NED, Milano
1987, pp. 58-68; ERNESTO COMBI, “Aspetti inediti del prete ‘sociale’ ambrosiano
C. D. Minoretti. Il carteggio con Toniolo (1899-1980)”, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 34 (1999), pp. 195249. Per le fonti: CARLO DALMAZIO MINORETTI, Omelie, discorsi, panegirici. Volume I (1909-1929), SEI, Torino 1934; CARLO DALMAZIO MINORETTI, Omelie, discorsi, panegirici. Volume II (1930-1933), SEI, Torino 1934; CARLO DALMAZIO
MINORETTI, Ideali umani, a cura di LORENZO CABOARA, Paideia, Brescia 1963.
73
105
Vale la pena soffermarci su alcune sue pagine, poiché delineano l’immagine del prete consegnato al secolo XX per la diocesi di
Milano.
Sono rimasto affascinato dalla lettura del primo breve articolo,
scritto da don Carlo Dalmazio Minoretti sul fascicolo di settembreottobre 1900 de «La Scuola Cattolica», la prestigiosa rivista del Seminario di Milano, ben più che centenaria (nacque nel 1873):
Dobbiamo prendere il popolo là dove si trova stipato nelle afose officine o disperso sui sudati campi, non immaginarcelo diverso da
quello che è, prenderlo colle sue tendenze legittime, prenderlo come
è insidiato dai suoi nemici, ed organizzarlo. Vogliamo condurlo al
cielo questo caro popolo, ma non abbiamo il diritto noi di infliggergli come condizione e passaporto per la felicità il certificato di
miserabilità e di servitù 74.
In quello stesso mese don Minoretti teneva la prolusione del
nuovo anno scolastico del Seminario di Milano, al sorgere del nuovo secolo. Il titolo era significativo: La missione scientifica e pratica
del clero agli inizi del secolo XX 75. L’analisi storica era lucida:
È convinzione diffusa nei cattolici più insigni per studii sociali, che
sia imminente un’ultima aspra e decisiva lotta fra il principio cristiano ed il principio razionalista e materialista [...] Sia che la Chiesa per
l’azione concorde e generosa del clero e dei cattolici riesca vincitrice
in questo tremendo cozzo di forze avverse e ci scampi dal pericolo di
cadere in una società ridivenuta pagana e barbara, sia che per mancata obbedienza ai reiterati inviti della Chiesa, a questa non sia riservato che l’ufficio di ripigliare l’azione dei primi secoli di fronte all’umanità abbrutita, sempre è vero che un ciclo storico sta per chiudersi ed
un altro per aprirsi; l’uno di civiltà ed ordinamento materialistico,
l’altro di civiltà cristiana 76.
CARLO DALMAZIO MINORETTI, Il XVII Congresso..., in «La Scuola Cattolica», 10 (1900), pp. 248-250.
75
CARLO DALMAZIO MINORETTI, La missione scientifica e pratica del clero agli
inizi del secolo XX, in «La Scuola Cattolica», 10 (1900), pp. 406-421.
76
Ibid., p. 407.
74
106
Vale la pena sottolineare l’altra valenza del discorso di don
Minoretti: se l’analisi era impietosa, lo sguardo verso il futuro era
carico di speranza.
E la Chiesa che non ha mai odiato il popolo, che l’ha raccolto disperso, sollevato abbrutito, che insieme alla grazia lo ha educato alle virtù
civili, volete oggi lo lasci in balìa dei nemici del nome cristiano e della
società, oggi che le sorti della civiltà cristiana sono nelle sue mani?
[...] Perciò la Chiesa non si accontenta di aprire i battenti dei suoi
templi, di far echeggiare nell’aria i gravi suoni dei sacri bronzi, ma
corre al popolo là dove si trova, disperso nei campi, stipato nelle
officine, parla un linguaggio sensibile che può essere inteso, lo aiuta
nella sue giuste rivendicazioni, non gl’impone come condizione e
passaporto pel cielo la servitù e miserabilità in terra. Ecco se non erro
la posizione che all’aprirsi del nuovo secolo prende la Chiesa, in questi ultimi tempi. Essa discende al popolo, all’ordine economico, e di
qui coll’organizzazione, colla giustizia intende risalire le radiose vette
di una integrale civiltà cristiana 77.
Questo, però, richiedeva nel pastore alcune condizioni precise:
Ma perché questa nuova ed urgente missione del clero abbia un esito
felice sono necessarie condizioni ch’io mi permetto di enumerare: scienza, amore, fede integra, condotta santa. In mezzo ad una società materialmente progredita, religiosamente regredita, con un diffuso spirito
di investigazione e disputa, il sacerdote non può presentarsi rispettato
ed ascoltato se non fornito a dovizia di un’ampia coltura teologica ed
economica; con questa a nessuno sarà secondo nell’aiutare il popolo;
con quella saprà difendere e diffondere le ragioni della Chiesa e della
fede. È stato detto che la soluzione della questione sociale non si avrà
che attraverso ad inondazione di sangue, od inondazione d’amore. La
seconda è il nostro ideale, le fonti donde deve sgorgare tale fiumana
irrompente incoercibile di carità sono i cuori dei sacerdoti. Amatelo, o
sacerdoti, il popolo, memori che i più di voi sono del popolo, amatelo,
memori che fu amato da G.C. dalla Chiesa, amatelo nonostante la ruvidezza delle forme e dei tratti, amatelo poiché sotto rozze spoglie batte un cuore e rivela uno spirito che educato forse sarebbe più pregevo77
Ibid., pp. 417-418.
107
le del nostro, e ad ogni modo tiene un’anima cara a Dio. Mosè diede
mano alla liberazione del popolo dopo avere accostato il roveto ardente; s’accinse a dirigere le mobili volontà del popolo dopo avere riportato dal colloquio con Dio sul monte due luminosi raggi in fronte. Uscite
dal tempio ma dopo esservi stati, dopo aver accostato il roveto ardente
che è il Cuore di Cristo, riportandone impressi e manifesti i raggi della
carità e della scienza divina 78.
In altre parole, per don Minoretti il prete deve animare la società con la sua santità. Questo era l’ideale costantemente proposto al clero ambrosiano. Un ideale sempre lontano, o meglio sempre oltre la meta raggiunta da un prete: la santità, che è l’unica
condizione di fecondità pastorale, è come un cammino la cui meta
viene costantemente spostata da Dio verso di Sé, poiché la santità
sta nell’essere immersi nell’oceano d’amore di Dio.
e) Quarta conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?
Possiamo dire che l’azione pastorale di Calabiana, ispirata all’assioma agostiniano «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in
omnibus caritas», seppur osteggiata da diverse parti permise la
maturazione del «dialogo» con la società, anche se essa era pregiudizialmente ostile alla Chiesa. Calabiana chiese alla sua comunità ecclesiale di praticare il suo motto episcopale «Ognun mi sente»; di essere una Chiesa più aperta e pronta a farsi carico delle
relazioni con il mondo.
Era, in fondo, quello che Giovanni XXIII, figlio dell’Ottocento,
propose con il suo discorso in apertura del Concilio Vaticano II:
Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso
[la dottrina], come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità,
ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la
nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la Chiesa compie
da quasi venti secoli. [...] Lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico
del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione
78
108
Ibid., pp. 420-421.
dottrinale e una penetrazione delle coscienze; è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede,
vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la
forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata [...] Al tempo presente, la Sposa
di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto
che della severità; ritiene che si debba andare incontro alle necessità
odierne esponendo più efficacemente il valore della dottrina piuttosto che condannando [...] La Chiesa cattolica, innalzando con questo
concilio la fiaccola della verità religiosa, vuole mostrarsi madre
amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e
bontà verso i figli da lei separati 79.
Mons. Calabiana condusse così la sua comunità a maturare
una coscienza ecclesiale più alta, più convinta dell’importanza della
comunione, della fraternità, della concordia, dell’unità; più convinta – almeno come tensione ideale – dell’importanza della dimensione fraterna, della comunione tra i diversi carismi ecclesiali,
sia laicali che religiosi che presbiterali, più convinta dei carismi
diversi che possono essere seminati da Dio anche all’interno delle
diverse compagini ecclesiali, dei diversi ordines: in quanti modi si
può vivere la comune vocazione al laicato, al sacerdozio, alla vita
consacrata? Quando la nostra fantasia di uomini avrà esaurito le
possibilità di pensarli, sarà ben lungi dall’essere esaurita l’infinita
fantasia di Dio al riguardo.
La Chiesa ambrosiana verso la fine dell’Ottocento continua a
manifestare una vivace e primaria attenzione per la dimensione
della carità vista sia come attenzione ai bisogni immediati degli
ultimi, dei poveri, degli emarginati, sia come concreta attenzione
alla dimensione politica e sociale, per affrontare con progettualità
di soluzione il dramma dell’ingiustizia e della povertà. Nel fare
79
Su questo discorso: Fede, tradizione, profezia, Brescia 1984. Contiene la
sinossi delle varie redazioni ed un commento di Giuseppe Alberigo. Si veda anche: VINCENZO CARBONE, Il Concilio Vaticano II (= Quaderni de «L’Osservatore
Romano» 42), Città del Vaticano 1998, pp. 29-39.
109
questo, dunque, si mostra una Chiesa non gelosa delle sue iniziative e – anche se non sempre – non in polemica organizzativa con la
realtà civile, quasi a dimostrare che «noi siamo più bravi», come
spesso sembrava dire don Davide Albertario nel suo esaltare le
iniziative ecclesiali e denigrare quelle governative. Era, piuttosto,
un sincero desiderio di vivere ciò che è un proprium della Chiesa
quanto il Vangelo, la dimensione caritativa e sociale, poiché «l’uomo è la via della Chiesa».
Ma, allora, la Chiesa ambrosiana di fine Ottocento sembra anticipare quei fermenti che ritroveremo splendidamente espressi
nell’enciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam Suam (6 agosto 1964), che era uno splendido invito al dialogo, e che non a
caso si deve alla consulenza operosa di don Carlo Colombo:
Gesù Cristo ha fondato la sua chiesa, perché sia nello stesso tempo
madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza. [...]
Nessuno è estraneo al suo cuore materno. Nessuno è indifferente per
il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo.
Non a caso si dice cattolica; non a caso è incaricata di promuovere
nel mondo l’unità, l’amore, la pace.
La Chiesa non ignora le formidabili dimensioni d’una tale missione;
conosce le sproporzioni delle statistiche fra ciò che essa è e ciò che è
la popolazione della terra; conosce i limiti delle sue forze; conosce
perfino le proprie umane debolezze, i propri falli; conosce anche che
l’accoglimento del Vangelo non dipende, alla fine, da alcuno suo sforzo
apostolico, da alcuna favorevole circostanza d’ordine temporale: la
fede è dono di Dio; e Dio solo segna nel mondo le linee e le ore della
sua salvezza 80.
Paolo VI, che fu vescovo di questa Chiesa ambrosiana, sospingeva tutta la Chiesa su questo sentiero: egli per lei non desiderava
altro che si facesse «ancella dell’umanità per servire l’uomo in ogni
sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità».
80
Enchiridion Vaticanum, 2, Dehoniane, Bologna 1981, pp. 163-210. Su di
essa si può leggere: «Ecclesiam suam». Première lettre encyclique de Paul VI.
Colloque international (Rome 24-26 octobre 1980) (= Pubblicazioni dell’Istituto
Paolo VI 2), Istituto Paolo VI - Studium, Brescia-Roma 1982.
110
Considerazioni conclusive
Possiamo, in conclusione, affermare che il volto della Chiesa
ambrosiana dell’Ottocento è ancora quello tridentino, non ben
definito se non attraverso la prassi consolidatasi nel corso dei due
secoli precedenti e testimoniata dall’insegnamento del Catechismo cosiddetto tridentino. Lo si vede bene se si considera la figura dell’episcopato, che è letto ancora soprattutto nel primato di
giurisdizione, sino al caso limite di Giovanni Montecuccoli Caprara,
che apre il secolo da noi considerato.
Accanto a questa immagine episcopale, dobbiamo riconoscere la singolare importanza del presbiterato e la sua radicale autonomia nei confronti del vescovo, come testimoniato dal testo –
certo estremo – dell’Appello ai Parochi.
All’interno del clero, poi, riscontriamo per tutto il secolo una
presenza sinfonica di figure diverse di formazione e di esercizio
del ministero presbiterale, che sebbene manifesti una non omogeneità, permette anche un arricchimento, sia pure vivace e talvolta
polemico, di stili pastorali, tutti tesi – nella reciproca e tensiva
sollecitazione – a sottolineare con progressiva urgenza la dimensione pastorale, missionaria, sintetizzabile nella frase tipica del cardinale Ferrari, sin dal suo primo sinodo diocesano (1902): «Dobbiamo uscire dalle case nostre, poiché tocca al pastore cercare le
pecorelle e chi vuole fare più abbondante pesca ascolta le parole
del Salvatore, non sta in casa, ma va al mare».
Nella Chiesa ambrosiana dell’Ottocento riconosciamo una
notevole importanza del laicato: esso è pienamente coinvolto nella vita pastorale ed ecclesiale, un coinvolgimento forse non tematizzato teologicamente – l’Apostolicam actuositatem è ancora lontana – ma convintamente praticato.
Una comunità ecclesiale così vivace da arrivare a forti tensioni
polemiche porta in progressiva emergenza i temi della missione,
della carità, del dialogo culturale con il mondo coevo.
Volendo ulteriormente precisare, potremmo sinteticamente affermare quanto segue:
1. Il punto di partenza è quello di una Chiesa che ha forti tradizioni caroline, almeno formalmente; che vive la tentazione del
111
gallicanesimo, di una Chiesa, cioè, soggetta allo Stato e che insieme è rivolta alle «novità» straniere, d’oltralpe; che è fortemente
attenta alla dignità dell’uomo ed alla catechesi.
2. Questo si realizza attraverso (o determina) un forte coinvolgimento laicale, una Chiesa assolutamente capace di dialogo interno, una Chiesa gelosa della sua autonomia dal potere imperiale
e regio, sia esso napoleonico, austriaco, sabaudo.
3. Una Chiesa che riscopre (trasforma, attualizza) la dimensione
della carità sia attraverso le soppressioni degli ordini non utili (scelta mantenuta da Gaisruck), sia attraverso lo stile del prete ambrosiano tradizionale, che mira ad una parrocchia vasta quanto l’ombra del campanile sulle case; con un parroco amico e conoscente di
tutti e consigliere agricolo in campagna e dotto professore in città.
4. Il prosieguo delle vicende complesse e delle tensioni, favorito dalle stesse scelte austriache, determina un volto di Chiesa ambrosiana che sottolinea fortemente la fedeltà al papa e il legame
con Roma, la preferenza per la scelta della fine del potere temporale, vista come occasione di attenzione alla dimensione pastorale
ed universale della Chiesa. Un’attenzione al papato romano che si
coniuga con un tradizionale e forte senso dell’obbedienza al Vescovo, secondo l’assioma ripreso e divulgato da Nazari di Calabiana: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia Mediolanensis», che si può leggere
sottolineando volta a volta la prima parte o la seconda...
5. La permanenza di un vivace dibattito intraecclesiale determina una dottrina vicina al Concilio Vaticano II, che passa attraverso l’importanza del presbiterio, che trascina con sé la maturazione di un volto di Chiesa dialogante e fraterno e, attraverso questo, la maturazione del «dialogo» con la società, anche quando
fosse ostile, così come determina una Chiesa più aperta e pronta a
farsi carico delle relazioni con il mondo, con tutto il mondo, tesa
ad essere fedele al mandato del suo Signore: «Andando, battezzate tutti gli uomini, fino all’estremità della terra» (cfr. Mt 28,19).
6. In ultimo: una Chiesa, quella ambrosiana, che sentì naturale, anzi suo bene prezioso, avere dei figli da destinare alla missione.
112
NUOVI IDEALI MISSIONARI:
ROSMINI, LUQUET, RAMAZZOTTI
di Fulvio De Giorgi
Figura e importanza di Rosmini
Dopo la profonda crisi che le missioni cattoliche avevano attraversato dal Settecento al primo Ottocento, la ripresa cominciò
con la nomina – il 2 ottobre 1826 – del card. Mauro Cappellari,
camaldolese, a prefetto della Congregazione di Propaganda Fide.
Egli fu il primo prefetto a fissare la propria residenza nel palazzo
di Propaganda e a creare un circolo di collaboratori ed amici che,
condividendo le sue idee culturali e spirituali – che possono definirsi ispirate a uno zelantismo riformatore –, rilanciassero nello
stesso tempo la tradizionale linea missionologica e pastorale di
Propaganda Fide.
Insieme ed accanto a Cappellari vi furono, dunque, il suo confratello card. Zurla, che era stato prefetto degli studi nel Collegio
Urbano di Propaganda, mons. Castruccio Castracane degli Alteminelli, segretario della Congregazione dal 15 dicembre 1828 (fino
al 1833), il laico Gaetano Moroni, segretario personale del Cappellari, dal quale ebbe l’incarico di trascrivere il registro dei documenti d’archivio di Propaganda e che fu poi autore del notissimo,
enciclopedico Dizionario di erudizione ecclesiastica. Minutante di
Propaganda Fide era poi don Gaspare del Bufalo, il fondatore dei
Fulvio De Giorgi insegna storia contemporanea presso l’Università
Cattolica di Brescia. Si occupa di storia della cultura e dell’educazione nell’età contemporanea, con particolare riferimento alla storia religiosa e della
spiritualità. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La scienza del cuore, spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini; Cattolici ed educazione
tra Restaurazione e Risorgimento. Inoltre ha curato il volume Daniele
Comboni tra Africa ed Europa.
113
Missionari del Preziosissimo Sangue, che nel 1826 fu incaricato di
stendere la bozza di due lettere che il papa avrebbe inviato l’una ai
vescovi dello Stato Pontificio affinché promuovessero vocazioni
missionarie nel loro clero, l’altra a tutti i sacerdoti e regolari cattolici invitandoli a prendere in considerazione la possibilità di diventare missionari di Propaganda Fide. A Roma giungeva poi, alla
fine del 1828, per restarvi fino al 1830, Antonio Rosmini, che già
era stato nell’Urbe, ma per poco tempo, nel 1823 (aveva, in quell’occasione, conosciuto di persona sia Zurla sia Cappellari, con il
quale peraltro era in contatto epistolare fin dal 1821). Ritornando
a Roma nel 1828, dunque, il Roveretano riprendeva stretti contatti con il prefetto di Propaganda Fide e con il circolo che attorno a
lui si riuniva. Proprio a Roma, nel 1830, Rosmini pubblicò due
sue opere fondamentali: le Massime di perfezione cristiana e il Nuovo
saggio sull’origine delle idee. Esse ebbero un notevole successo,
furono accolte favorevolmente dal Cappellari e da altri prelati ed
intellettuali e diedero grande fama e lustro al Roveretano.
Le prime due massime di perfezione cristiana erano: «I. Desiderare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto. II. Rivolgere tutti i propri pensieri ed azioni all’incremento e alla gloria della Chiesa di Gesù Cristo». Spiegando la
seconda massima, Rosmini chiariva che il cristiano non si poteva
mai sbagliare se rivolgeva il suo pensiero, il suo affetto, il suo impegno a tutta la Chiesa (la stessa sicurezza, invece, non vi poteva
essere nel caso si dovesse trattare di una sola parte, non essenziale
– nella sua particolarità – alla Chiesa universale):
Se dunque il cristiano che si propone di secondare la sua vocazione e
seguire la sua perfezione, non ha tolto a far altro che a cercar in tutte
le cose la gloria di Gesù Cristo, la sua professione consiste per necessaria conseguenza nell’occupare le sue forze a servire unicamente alla
Santa Chiesa: a questa, in qualunque modo egli può, dee pensare, e
per questa desiderare di logorar le sue forze, e di versare il suo sangue, ad imitazione di Gesù Cristo e de’ martiri. [...] Come adunque
egli dee aver sempre presente la celeste gloria, così pure egli dee aver
sempre presente in tutte le sue operazioni la caducità di tutte le altre
cose, il loro repentino transito, e la morte, come mezzo all’ultimo
celeste riposo. Camminerà adunque in questa vita, come se ogni gior-
114
no dovesse abbandonare tutto, come se dovesse morire ad ogni istante,
senza far per sé lunghi provvedimenti.
Nel Nuovo saggio sull’origine delle idee, che fu certo una delle
più importanti e profonde opere filosofiche del primo Ottocento
europeo, Rosmini affermava come in ogni uomo vi fosse il lume
della ragione, che non è Dio ma è il divino nell’uomo (e ciò spiega
pure perché, sul piano spirituale e pastorale, egli insistesse sull’amore
che il cristiano deve avere per ogni uomo, anche se non fa parte
della Chiesa). In ogni uomo, inoltre, secondo Rosmini, era innata
l’idea dell’essere, fondamento del pensiero umano e della conoscenza. La dottrina tradizionale del pensiero cristiano era, dunque, ripresa con originalità dal Roveretano e temprata nel fecondo rapporto critico con la filosofia moderna. L’universalità della verità,
fondamento implicito dell’azione missionaria, era pertanto giustificata teoricamente con un’argomentazione robusta ed aggiornata.
A Roma e negli ambienti di Propaganda, Rosmini inoltre conobbe alcune personalità che gli rimasero sempre affezionate, dimostrandogli stima sincera e apprezzando il suo lavoro filosofico.
Paolo Barola, lettore di filosofia morale nel Collegio Urbano di
Propaganda, fu un suo caldo ammiratore, ebbe con lui un intenso
carteggio, divenne seguace delle sue dottrine e ne sostenne l’ortodossia fino alla morte (nel 1863).
Rosmini conobbe pure due giovani veronesi, Giovanni Battista Giuliari e Ludovico De Besi. Giuliari giunse a Roma nel novembre 1829, si iscrisse alla Gregoriana ma frequentò pure alcuni
corsi al Collegio Urbano. Qualche tempo dopo lo seguì De Besi,
accolto come alunno del Collegio di Propaganda Fide. I due veronesi, che si incoraggiavano vicendevolmente all’impegno missionario, conobbero Rosmini e gli rimasero poi sempre affezionati,
tanto da essere fra coloro che gli testimoniarono per iscritto la
loro immutata amicizia dopo la messa all’Indice, nel 1849, delle
Cinque piaghe della Santa Chiesa. Entrambi, incoraggiati da Cappellari, coltivarono progetti missionari, ma con esiti diversi. Giuliari, ordinato sacerdote a Verona nel 1834, tornò a Roma e frequentò i corsi di teologia di Propaganda Fide. Nonostante il suo
forte desiderio non riuscì però a partire per le missioni e infine,
115
consigliato dallo stesso Rosmini, rimase a Verona, dove fu bibliotecario della Capitolare. De Besi, alunno – come si è detto – del
Collegio Urbano, fu in intima relazione col Cappellari che gli confidò tra l’altro la sua meraviglia per la mancanza in Italia di un
seminario per le missioni estere. Egli fu poi missionario in Cina,
vicario apostolico di Shan-Tong. Rimase sempre in contatto, oltre
che col Cappellari, con Rosmini e con Giuliari, ma fu anche amico
di Ramazzotti. In realtà l’indirizzo missionario del De Besi era
piuttosto tradizionale e rimase sostanzialmente distinto dalle posizioni rosminiane.
Tuttavia Giuliari e De Besi ebbero una notevole importanza
nell’impulso dato all’ambiente veronese e dunque nel ruolo di
primo piano giocato da Verona nella storia del movimento missionario. Essi stabilirono un legame significativo con Roma e con
Propaganda Fide. Furono vicini a don Nicola Mazza, al suo istituto e ad alcuni mazziani come don Francesco Oliboni, don Luigi Dusi, don Angelo Vinco, più sensibili alla vocazione missionaria e che poi in effetti partirono per le missioni. Ma la loro vicinanza a Rosmini fece partecipi Giuliani e, sia pure in modo più
mediato, De Besi anche dello svilupparsi delle simpatie rosminiane a Verona. Ancora una volta fu importante l’ambito dell’Istituto Mazziano, a partire dallo stesso Mazza – che aveva ricevuto una decisiva influenza da parte del filippino Antonio
Cesari, molto legato a Rosmini – ma poi pure di altri membri
dell’istituto, come Alessandro Aldegheri e, soprattutto, Francesco Angeleri.
Si andava così profilando, in Verona, un indirizzo spirituale,
culturale e missionario sostanzialmente diverso da quello, di matrice filogesuitica, rappresentato da Gaspare Bertoni e dalla Congregazione degli Stimmatini. Mazza manteneva buoni rapporti con
i religiosi delle Sacre Stimmate, ma la sua posizione era autonoma
e nel suo istituto, come si è visto, cresceva l’influenza rosminiana,
tanto da pesare negativamente, in un momento successivo, sui rapporti dei mazziani con Roma. Nel 1853, infatti, dopo che Mazza
aveva nominato Angeleri vicesuperiore per le opere maschili e vicerettore dell’Istituto fondamentale e Aldegheri rettore dell’Istituto fondamentale, don Tommaso Toffaloni – responsabile vero116
nese dell’Opera della Propagazione della Fede e vicino agli Stimmatini – scriveva a Propaganda Fide, denunciando l’influenza del
rosminianesimo sull’Istituto Mazziano, implicitamente assumendolo come screditante sul piano dell’iniziativa missionaria. Circostanze non chiare portarono poi nel 1856 all’abbandono dell’istituto da parte di Aldegheri e di Angeleri, pur rimasti in buoni rapporti col Mazza. Tuttavia il sospetto di rosminianesimo doveva
permanere a lungo sull’ambiente mazziano. Soltanto molto tempo dopo, col Comboni, questa «frattura veronese» sarebbe stata
in un certo senso superata.
L’importanza di Rosmini, peraltro, era anche propriamente
interna all’ambito missionario: nel 1828, prima di recarsi a
Roma, egli aveva steso le Costituzioni dell’Istituto della Carità,
che aveva sottoposto all’attenzione del Cappellari. La nuova
congregazione religiosa cominciava a svilupparsi, assumendo
subito una fisionomia missionaria peculiare: nel 1835, infatti,
l’Istituto della Carità iniziava una missione in Inghilterra. Alla
fine del 1838 si aveva poi l’approvazione romana delle Costituzioni. Nella sua struttura l’Istituto della Carità prevedeva un
quarto voto di speciale obbedienza al papa, «in modo da essere
disposti ad andare immediatamente ovunque gli piaccia di mandarli, tra i Fedeli o gli Infedeli, anche senza sussidio di viaggio,
e a servire alacremente alla Chiesa di Dio, anche col dare la
propria vita, a quel modo che prescriverà lo stesso Pontefice,
in tutto quello che si degnerà di loro comandare» 1. Il tema delle missioni era affrontato specificamente nel capo V della parte
VIII delle Costituzioni. Tra l’altro Rosmini stabiliva: «chi sarà
designato dal Sommo Pontefice a recarsi in qualche luogo, si
offra generosamente senza chiedere né da sé né per mezzo d’altri
nulla per il viaggio, ed anzi sia mandato dal Sommo Pontefice
nel modo che Sua Santità, non tenendo in ciò alcun conto di
altra cosa, giudicherà dover riuscire al maggior ossequio di Dio
1
A. ROSMINI, Costituzioni dell’Istituto della Carità [d’ora in poi Cost.], StresaTrento 1974, n. 7.
117
e della Sede Apostolica» 2. In altri termini Rosmini voleva che i
suoi missionari si abbandonassero completamente alla volontà
della Santa Sede, rimettendosi in tutto alle sue istruzioni 3 e, dunque, lasciando a Roma anche l’indicazione specifica dell’indirizzo
missionario da seguire: «se uno fosse mandato a una missione,
dovrebbe essere avvisato, oltre il resto, se debba andare a guisa
dei poveri, senza veicolo o giumento, e senza denaro, o con maggiore comodità; e così pure se debba servirsi di lettere di presentazione, ecc.» 4.
Luquet e la Neminem Profecto
L’ascesa al soglio pontificio del Cappellari nel 1831 dava un
notevole impulso all’impegno romano per le missioni. Con Gregorio XVI, per la prima volta, un prefetto di Propaganda Fide
diveniva papa. Sempre nel 1831, Angelo Mai – che dal 1828 era
anche rettore del Collegio Urbano – scoprì nella Biblioteca Vaticana, dove era primo scrittore, il manoscritto di Nicola Forteguerri che descriveva le missioni cattoliche. Nel pubblicarlo, il Mai
invitava a seguire l’esempio del Forteguerri, suggeriva di tracciare
una descrizione aggiornata delle missioni e anche proponeva
un’opera originale. Egli infatti auspicava: «Un’altra lodevole opera, da trarsi similmente dai registri della Propaganda, sarebbe l’episcopologio cattolico nelle regioni di eterodossi o d’infedeli; ed una
quasi geografia cattolica romana de’ nostri tempi: il quale progetto mi risveglia il desiderio di altra opera assai maggiore e di estesissima utilità, cioè dell’orbis christianus, ossia episcopologio universale» 5. Appare estremamente significativa questa sensibilità del
Mai rispetto all’episcopato, in prospettiva missionaria. Del resto
Cost., n. 586.
Cost., n. 589 (cfr. anche n. 714 D.).
4
Cost., n. 727 D.
5
[A. MAI], Memorie intorno alle missioni di Africa, di Asia e di America,
estratte dall’Archivio di Propaganda Fide d’ordine della santa memoria di Clemente XI dal celebre Nicolò Forteguerri che fu segretario della medesima Propaganda,
Roma 1831, p. 2.
2
3
118
nel 1833 Angelo Mai divenne segretario di Propaganda Fide –
subentrando al Castracane – e tenne questo ufficio fino al 1839
quando divenne cardinale.
Nel dare un più forte impulso allo slancio missionario cattolico, Gregorio XVI operò secondo due indirizzi: una linea che si
potrebbe dire di restaurazione e una invece di innovazione. Per
quanto riguarda la prima, essa si espresse nell’esortare la Compagnia di Gesù a riprendere su vasta scala il suo antico impegno
missionario. In effetti nel 1833, a seguito della circolare del padre
generale Roothaan, De missionum esterarum desiderio excitando
et favendo, si ebbe un progressivo aumento del numero dei Gesuiti impegnati nelle missioni.
D’altra parte, Gregorio XVI, convinto assertore dell’ideale
zelante della libertas Ecclesiae e dunque ostile all’ingerenza del
potere temporale, si impegnò per separare l’opera di evangelizzazione dalle forme di controllo politico coloniale. Ciò, in particolare, portò a un rapido e talvolta traumatico superamento del secolare istituto del Patronato, tanto rispetto alla monarchia spagnola
quanto a quella portoghese.
Di grande importanza ideale fu poi, il 3 dicembre 1839, la lettera apostolica In Supremo, fermamente antischiavista, dunque con
una chiara condanna della tratta dei neri e, soprattutto, dell’ideologia razzista che ne costituiva il presupposto. Papa Cappellari
sottolineava l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini. Se tale solenne pronunciamento non ebbe forse subito, nel mondo cattolico italiano, la diffusione che meritava (perfino riviste missionarie
non vi fecero cenno), esso fu invece accolto con vivo consenso in
quegli ambienti che, come si è visto, erano in qualche modo collegati a Rosmini: fu il caso, per esempio, di don Mazza e dei mazziani a Verona. Del resto fu proprio Rosmini, nella sua Filosofia del
diritto, a dimostrare, sulla base del riconoscimento della dignità
della persona, l’insostenibilità teorica della schiavitù, che pertanto doveva essere – a suo parere – immediatamente e totalmente
abolita ovunque.
Il 15 agosto 1840 Gregorio XVI emanò poi la Probe Nostis, la
prima enciclica pontificia esplicitamente e unicamente dedicata
alle missioni. Anche in questo documento i toni tradizionali si in119
trecciavano a registri innovativi: se le missioni erano viste, con
toni bellicosi e trionfalisti, collegate a un impegno «civilizzatore»,
tuttavia l’insistenza era sull’evangelizzazione svolta senza sostegni
umani e con una disponibilità al martirio che il papa collegava
esplicitamente all’esempio della «prima età della Chiesa». Gregorio XVI invitava i vescovi cattolici a sostenere l’Opera della Propagazione della Fede e altre istituzioni simili, come la viennese
Società Leopoldina. Ricordava pure, con approvazione e soddisfazione, quelle altre società – come l’Istituto della Carità 6 – «le
quali, sotto l’autorità della stessa Chiesa, ciascuna a proprio modo,
contribuiscono con l’unione delle forze ai doveri di carità, all’istruzione dei fedeli e alla diffusione della fede».
Ma, ancor più significativa dell’enciclica Probe Nostis, fu
l’istruzione Neminem Profecto, indirizzata il 23 novembre 1845
da Propaganda Fide a tutti i capi di missioni. Con tale istruzione
si voleva promuovere la moltiplicazione delle Chiese locali nei
territori evangelizzati, attraverso la creazione di vescovati 7. A
questo scopo si insisteva sulla creazione del clero indigeno. Inoltre si osservava come i missionari dovessero occuparsi, in primo
luogo, dell’educazione dei giovani per puntare all’autopromozione dei popoli evangelizzati, e dunque alla loro autonomia e
non alla loro dipendenza dagli europei. L’istruzione riprendeva
e rilanciava quella che era sempre stata la linea di Propaganda
Fide, a favore della creazione del clero indigeno: una linea che
era stata più volte e in vari modi osteggiata e disattesa, ma che
non era mai stata abbandonata. Peraltro proprio in questo spirito era stata fondata, verso la metà del XVII secolo, la Società per
le Missioni Estere di Parigi la quale, del resto, negli anni ’20 e
’30 dell’Ottocento conosceva un significativo avvio di una nuova fioritura.
Fu dunque proprio un membro delle Missioni Estere di Pari-
6
Che non era citato, ma che certo era compreso in tale indicazione: del resto
le sue Costituzioni erano state appena approvate da Roma.
7
In effetti, durante il suo pontificato, Gregorio XVI creò circa una settantina tra vescovati, vicariati e prefetture di missione.
120
gi, Jean-Félix-Onésime Luquet, a provocare con il suo appassionato impegno la Neminem Profecto. Nato nel 1810 in Francia,
Luquet era entrato dapprima nel Seminario di S. Sulpizio e poi,
dal 19 luglio 1841, nel Seminario delle Missioni Estere di Parigi.
Dopo essere stato ordinato sacerdote, partì il 21 dicembre 1842
per la missione di Pondichéry, un immenso vicariato dell’India
meridionale 8. Qui, in seguito alla celebrazione di un sinodo nel
gennaio 1844, il vescovo Clément Bonnand, personalità di grande
rilievo, decise di inviare Luquet a Roma per far approvare le deliberazioni sinodali, in particolare per l’auspicato stabilimento della gerarchia cattolica in India.
Un osservatore privilegiato, Gaetano Moroni, ben addentro –
come si è visto – alle questioni di Propaganda Fide e segretario
personale del papa, così dava conto degli avvenimenti, nel volume
XXXIV del suo Dizionario di erudizione, pubblicato proprio nel
1845, alla voce Indie Orientali:
Il principale scopo del Sinodo che si è tenuto in Pondichery nel mese
di gennaio 1844, fu di provvedere ai mezzi efficaci di formare un
buon clero indiano, secondo il fine della Santa Sede, quando stabilì
la congregazione ossia il seminario delle missioni estere di Parigi. In
questo sinodo, che farà certamente epoca nella storia ecclesiastica
dell’Indostan, si trattò dell’importanza del clero indigeno in generale, e della necessità di un tal clero nell’Indostan particolarmente. Poi
si discusse sopra i mezzi più adatti per stabilire con frutto i seminari
per gli studi di teologia, altre scienze e belle lettere. Ma siccome la
gioventù senza avere ricevuta una educazione buona nella prima età,
di raro può perfettamente adattarsi poi agli studi ed anche alle virtù
necessarie allo stato ecclesiastico, e siccome la necessità dell’istruzione si sente vivamente per tutta la popolazione indiana tanto per gli
uomini che per le donne, così il sinodo ha fatto della questione delle
L’India meridionale, sotto il nome di Missione del Malabar, era stata affidata alla Società per le Missioni Estere di Parigi nel 1776, in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù. Dopo il ristabilimento dei Gesuiti e il loro rinnovato impegno missionario, la Compagnia di Gesù riprese il Madura, ma il
vicariato di Pondichéry rimase ai missionari delle Missioni Estere di Parigi.
8
121
scuole in generale il soggetto delle sue più importanti deliberazioni,
dopo quelle riguardanti al clero indigeno. Le altre deliberazioni del
sinodo spettarono a diversi punti di disciplina.
Dopo aver riassunto i lavori e le deliberazioni del Sinodo di Pondichéry, Moroni proseguiva dando conto degli sviluppi romani:
In seguito dallo stesso sinodo fu mandato in Roma il sacerdote francese Giovanni F.O. Luquet di Langres, del seminario delle missioni
estere di Parigi, zelante missionario di Pondichéry, coll’incarico di
umiliare alla Santa Sede le deliberazioni dell’assemblea, insieme con
diversi progetti importanti per l’incremento e maggior stabilità della
regione cattolica in queste parti dell’Indie. Il pontefice Gregorio XVI,
e la sacra congregazione di Propaganda Fide hanno accolto questi
progetti con favore, facendo concepire le più belle speranze ai missionari e benemerito vicario apostolico di Pondichery. Gli atti di suddetto Sinodo, dopo la presentazione di un importante memoriale scritto dal sacerdote Luquet sotto questo titolo: Eclaircissements sur le
Synode de Pondichéry, furono approvati dalla congregazione di propaganda. Quindi sulla proposizione dei cardinali della medesima, fu
proposta una istruzione generale per tutti i vescovi e missionari del
mondo per raccomandar loro l’applicazione dei principii esposti negli Eclaircissements. In una adunanza dei cardinali di Propaganda
Fide, la suddetta istruzione fu da loro esaminata e approvata, quindi
sottomessa alla suprema sanzione del Papa.
Sempre nello stesso volume del Dizionario di erudizione, alla voce
Indigeno Clero, Moroni citava ancora il sinodo di Pondichéry e l’istruzione Neminem Profecto, ma soprattutto, sulla scorta dell’opera di
Luquet Lettres à Mgr. l’Evêque de Langres sur la Congrégation des
Missions Etrangères (Paris 1843), ricostruiva l’impegno di Propaganda Fide a favore della costituzione di un clero indigeno.
I cardinali che avevano esaminato la Ponenza, estratta dallo scritto di Luquet, proposero al papa che il religioso fosse nominato coadiutore del vicario apostolico mons. Bonnand. Gregorio XVI approvò il suggerimento della congregazione e il Luquet, nominato
vescovo di Hesebon in partibus, fu consacrato nella chiesa di S. Maria in Vallicella, dei Filippini, dal card. Giacomo Filippo Fransoni,
prefetto di Propaganda Fide, il 7 settembre 1845. Tuttavia sia l’istru122
zione Neminem Profecto sia la nomina di Luquet a coadiutore di
Bonnand trovarono opposizioni di vario tipo, così che il Luquet nel
1851 fu costretto a dimettersi dalla coadiutoria e si ritirò nel Seminario francese di Roma, dove morì il 3 settembre 1858.
Il sinodo di Pondichéry
La presenza di Luquet in Italia dal 1845 al 1858 fu comunque
significativa, sia per la sua opera di scrittore impegnato – anche se
non unicamente – a favore della causa del clero indigeno, sia per
la rete di contatti personali che riuscì a stabilire. Tra l’altro egli fu
amico di Rosmini (il quale ne condivideva gli ideali missionari) ed
ebbe anche un ruolo importante nella nascita del Seminario Lombardo per le Missioni Estere.
Nel 1843 Luquet inviò a Rosmini, che evidentemente già stimava ed apprezzava, il suo volume di lettere che illustravano la
storia delle Missioni Estere di Parigi. Il 31 marzo dello stesso anno
Rosmini gli rispondeva:
L’istruzione e la consolazione spirituale che m’arrecò la lettura delle
vostre lettere a Mr. Vescovo di Langres sulla Congregazione delle
Missioni Straniere, non mi concede di tenere in me la gratitudine che
Vi porto pel dono del vostro libro, e mi muove a manifestarvela, porgendovi in iscritto i miei più vivi ringraziamenti. Oltre quell’accesa
pietà e zelo per la diffusione del Vangelo, che spira da un capo all’altro questo vostro erudito lavoro; vi ho trovato ben sovente de’ sentimenti così conformi ai miei, che ho dovuto concepire, insieme colla
stima, uno speciale affetto in Gesù Cristo al suo autore. Io mi propongo di far leggere le vostre lettere ai Sacerdoti del minimo nostro
Istituto, ai quali son certo che non potrà che comunicare dello Spirito, e crescere via più il loro ardore per le Missioni fra gl’infedeli, alle
quali debbono trovarsi sempre pronti, secondo lo spirito della loro
vocazione, e l’impegno che ne hanno preso entrandovi.
Rosmini, dunque, fin d’allora segnalava una profonda sintonia
col Luquet e con gli indirizzi missionari (ma forse anche spirituali) delle Missioni Estere di Parigi. E concludeva la sua lettera: «Id123
dio benedica e fecondi le vostre fatiche! Benedica e fecondi quelle
de’ zelanti vostri confratelli! Faccia egli ancora che alle vostre fatiche apostoliche possiamo aggiunger le nostre, e non solo le fatiche, ma ancora il sangue!» 9.
Il 29 febbraio 1844 Luquet rispondeva a Rosmini, dall’India,
chiamandolo «Reverendissimo e (lo dirò benché non ne abbia il
diritto) amatissimo Padre in Cristo Gesù». Il francese dimostrava
di aver compreso benissimo il punto fondamentale in cui il pensiero missionario rosminiano si incontrava col suo e con la tradizione della sua congregazione: la questione del clero indigeno.
Luquet scriveva infatti al roveretano:
Con massimo piacere e vera riconoscenza ho ricevuto la sua
onoratissima lettera nei primi mesi del mio soggiorno in questa celebre vigna del Signore, nella quale vedo gran lavoro ed assai pochi
lavoratori. La detta lettera, che conserverò preziosamente per memoria della sua benevolenza verso di me, mi ha fatto conoscere che
lei voleva stabilire le sue missioni future sul vero principio che la
Santa Chiesa ha ricevuto da N.S. e dagli apostoli. Di tutto cuore mio
ne ringrazio la bontà di Dio! Faccia questo Padre benedetto delle
misericordie che quanto prima i missionari dell’Istituto della Carità
possieno lavorare fra gl’infedeli alla formazione di questi boni e santi
sacerdoti indiani, chinesi, ecc. che tutti noi desideriamo tanto. Poiché, senza di tali sacerdoti, la santa Chiesa romana nostra carissima
madre, non vedrà mai la religione fondata in queste regioni di modo
che non sia più possibile di distruggerla per le persecuzioni e le altre
calamità che vengono spesso contra il Regno di Cristo 10.
Il sinodo di Pondichéry si era concluso da appena quindici
giorni e Luquet dunque ne scriveva a Rosmini con entusiasmo:
Son certo che lei saprà con massima consolazione, che, nel mese di
Gennaro passato, noi abbiamo celebrato il primo sinodo che sia sta9
Archivio Storico dell’Istituto della Carità - Stresa [d’ora in poi ASIC], A. 1,
XVIII, 1843, 523 (394); cfr. A. ROSMINI, Epistolario Ascetico [d’ora in poi EA],
III, Roma 1912, p. 23.
10
ASIC, A. 1, XIX, A-M, 1844, 846 r (589).
124
to mai tenuto in Pondichéry. Il reverendissimo ed illustrissimo vescovo di Drusipara nostro tanto degno Vicario Apostolico ci ha tutti
convocati, francesi o indiani missionari per quella venerabile assemblea, e tutti (25 francesi e 5 indiani) venirono. [...] Prima di tutto,
abbiamo stabilito di una voce solenne ed unanime che d’or innanzi,
la perfetta educazione del clero indiano sarebbe più che mai l’oggetto delle nostre prime cure e più particolari lavori. Appena due settimane son passate dal tempo che fu terminato il sinodo, e la bontà
pietosa di N.S. ci ha dato le grazie più abbondanti per l’esecuzione
dei nostri progetti. In questo momento abbiamo ottanta scolari nel
collegio nostro di Pondichéry; fra i quali trenta mostrano belle disposizioni per lo stato ecclesiastico 11.
Luquet si augurava che tutti i vicari apostolici di quelle regioni
asiatiche seguissero l’esempio di mons. Bonnand, anche se ricordava le parole di un vicario apostolico inglese in India che aveva
giurato di non ordinare mai un indigeno. Il sacerdote francese si
augurava infine di vedere missionari dell’Istituto della Carità lavorare alla formazione del clero indiano.
Quando dunque nel 1845 Luquet fu a Roma, egli prese contatto
con i religiosi rosminiani. Fece avere a Rosmini, tramite Carlo Gilardi, la sua Memoria sul sinodo presentata a Propaganda Fide. Nel
luglio dello stesso anno, inoltre, scrisse al Roveretano per metterlo a
parte dell’approvazione della Ponenza, decisa dalla congregazione,
ma comunicandogli pure i tentativi messi in atto dalle «persone che
voi sapete» per ridurre la portata di tale decisione e raccontando
anche i problemi avuti con alcuni Gesuiti 12. Il 23 luglio Rosmini gli
rispondeva, accennando subito al testo della Ponenza:
Io la trascorsi con infinito mio piacere, perché lo posso ben assicurare che quelle sono sempre state le cose che mi vennero in mente fin
dal principio ch’io presi a pensare all’opera delle missioni. Io non
sapevo (saranno almeno vent’anni fa) come s’intendesse la cosa a
Roma, e andavo meco stesso maravigliato a veder come quasi per tre
secoli le missioni s’affidassero a semplici religiosi senza pensiero di
Vescovi e di clero indigeno; che mi parevano [cose] sì chiare e co11
12
Ibid., 846 r-v.
ASIC, A. 1, XX, 1845, 717-718 (504).
125
stantemente praticate da tutta la sacra antichità. La sua bella esposizione alla S.C. giustifica a pieno colla storia a mano la Santa Sede; la
quale non mancò di fare degli sforzi per conseguire que’ due importantissimi oggetti, benché fosse contrariata dalle circostanze e il saper questo, il saperlo comprovato di fatti e di documenti positivi, mi
recò grandissima consolazione: perché io mi consolo di tutto ciò che
torni in onore della Santa Sede, e del contrario mi contristo. La ringrazio dunque oltremodo del prezioso regalo, che tengo carissimo
come un importante monumento da giovarsene a buon tempo 13.
In effetti nell’archivio dell’Istituto della Carità si conserva la copertina del Ristretto con Sommario e Schiarimenti sulle deliberazioni del Sinodo tenuto in Pondichéry etc. in addizione alla Ponenza
analoga, contenente gli atti suddetti: ha l’intestazione della Sacra
Congregazione di Propaganda Fide, è datato maggio 1845 e il ponente è il card. Angelo Mai. Su tale copertina, Rosmini aveva annotato di suo pugno: «Conformità colle nostre massime. 1 Vescovi. 2
Clero indigeno» 14. Peraltro è significativo che al n. 791 delle Costituzioni dell’Istituto della Carità, Rosmini avesse stabilito: «È sommamente desiderabile che alcuno di coloro che sono deputati alle
missioni degli infedeli sia consacrato Vescovo. I nostri missionari
poi devono aver somma cura che i Vescovi non manchino alle nuove Cristianità e che in esse a poco a poco si educhi un clero indigeno» 15.
Successivamente, Luquet inviò a Rosmini l’edizione degli atti
del sinodo di Pondichéry, corredati dai documenti di Propaganda
Fide. Il Roveretano gli rispose per ringraziarlo e per felicitarsi per
la sua promozione all’episcopato. Nella lettera, del 30 marzo 1846,
egli dunque scriveva al francese alludendo alla Neminem Profecto:
«L’Istruzione da Lei provocata ed ottenuta sarà memorabile nella
Storia delle Missioni a’ popoli infedeli, e gloria immortale del Corpo, a cui Ella appartiene. I due principij del Clero indigeno e dell’Episcopato saranno d’ora in avanti regole immutabili, e le Missioni si estenderanno così allo stesso modo, nel quale le estesero e
ASIC, A. 1, XX, 1845718 v (505).
ASIC, A. G. 2, 627 r.
15
Cost., n. 791.
13
14
126
diffusero gli Apostoli. Da gran tempo io era venuto meco stesso
desiderando, che la Santa Sede facesse de’ nuovi sforzi per incamminar le Missioni su questa via; ma vedendo gli ostacoli (colpa la
mia poca fede) appena osava sperarlo» 16. Qualche mese più tardi,
il 5 maggio 1846, Rosmini – in una lettera a un chierico trentino –
esprimeva i suoi convincimenti circa l’adeguata preparazione, necessaria all’apostolato missionario: «Primieramente l’opera delle
sacre missioni è santissima, ed è somma grazia, se Iddio chiama a
sì sublime ministero. In secondo luogo, è anche sommamente ardua e pericolosa, e perciò esige tre condizioni: la prima, che sia
ben accertata la vocazione; la seconda, che chi è chiamato si prepari ad essa colla santità della vita; la terza, che nella maniera di
dar mano a tant’opera si usi di ogni prudenza per cautelarsi contro i pericoli spirituali e per poter raccogliere frutto più copioso
delle proprie fatiche» 17.
Il clero indigeno e i riti orientali
Il tema della seria preparazione, che Rosmini riteneva necessaria per intraprendere l’apostolato missionario, ritornava nella lettera del 10 giugno 1846 che il Roveretano scrisse al Luquet, in
risposta a una lettera – del 30 maggio – del francese e a proposito
di un diretto impegno nelle missioni ad gentes dell’Istituto della
Carità. In particolare Luquet accennava a due realtà nelle quali lo
stabilimento della gerarchia locale e il lavoro per la formazione
del clero indigeno apparivano necessari e urgenti: Ceylon – dove,
come altrove in India, si risentivano ancora gli effetti del breve
Multa praeclare del 1838 che aveva abolito le diocesi di patronato
in India e in Indocina affidandone i territori ai vicari apostolici e
provocando reazioni ostili nel clero favorevole al patronato (rispetto a questo clero mons. Bonnand, il vicario apostolico di Pon-
16
17
ASIC, A. 1, XXII, 1846, 1015 (763).
EA, III, p. 300.
127
dichéry, aveva subito raccomandato a Propaganda Fide un atteggiamento mite e conciliante) – e l’Oregon, negli USA, dove proprio nel 1846 fu costituita una nuova provincia ecclesiastica, con
Oregon City per metropoli. Gli rispondeva dunque Rosmini:
Ciò che Le è stato detto, che l’Istituto della Carità non accetterebbe
al presente una Missione nell’Oregon, o a Ceijlon, è del tutto vero.
Avanti qualche anno [cioè nel 1840] Sua Em.za il Card. Franzoni
ebbe la degnazione di offerirci la Missione di Filippopoli. Ma professandomi sempre disposto ad ubbidire a quanto la S.S. si compiacesse
di comandarci, ho creduto da parte mia di dovergli rispettosamente
dichiarare, che non credevo fosse ancora venuto il momento d’assumere un’opera di tanto rilievo. L’Istituto della Carità è fatto, si può
dire, in particolar modo per la grand’opera di annunziare il Vangelo
agl’Infedeli, ma sente in pari tempo tutto il bisogno di premettere
una lunga e seria preparazione. Benché io abbia poca esperienza, ed
anzi appunto per questo, sono intimamente convinto, che il prendere Missioni straniere leggermente si è di grave danno a quelli che si
mandano, ed alla stessa causa del Vangelo. Sono ancora persuaso che
se i missionarii già spediti fra le nazioni infedeli fossero in numero
minori e maggiori in virtù, si raccoglierebbe una messe assai più abbondante. L’Istituto della Carità presentemente ha una colonia in
Inghilterra, dove la messe già biancheggia; ed è mia intenzione di
non disperdere troppo i missionari, ma di tenerli piuttosto uniti. Onde
venendomi dimandati da quell’Isola importante sempre nuovi operai, preferisco per ora di mandare colà quelli che mi avanzano delle
case nostre in Italia. E tuttavia non creda, Monsignore, che non volga
il pensiero ed il desiderio alle nazioni infedeli. Sospiro il tempo, in
cui io possa stabilire un apposito Collegio, in cui quelli che saranno
chiamati da Dio possano educarsi alla vita apostolica e ricevervi un’accomodata istituzione 18.
Nella sua lettera del 30 maggio, poi, il Luquet, che era in contatto con i rosminiani residenti a Roma, Gilardi e Setti, accennava
ai problemi personali che gli erano occorsi a causa dei nemici dell’istituzione del clero indigeno nelle missioni. Inoltre egli deplora-
18
128
ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 287 r-v (234); cfr. EA, III, pp. 306-307.
va l’opera antigesuitica di Gioberti e si diceva d’accordo col Rosmini che ne aveva proibito la lettura ai suoi religiosi 19. Rispondendogli, il Roveretano osservava:
Ella mi dice nella vener.ma Sua del 30 Maggio, che io mi sarò ben
pensato che il sapientissimo Decreto della S.C. de Propaganda sullo
stabilimento della Gerarchia e del Clero indigeno nelle Missioni dell’Indie avrebbe trovato nella sua esecuzione gli oppositori antichi.
No, Monsignore, non ho pensato mai questo; anzi ho ringraziato il
Signore di tutto cuore che avesse condotta la S. Sede a finire una
questione così vitale per l’incremento della Chiesa, e mi persuasi che
tutti i Missionari indistintamente avrebbero d’ora in poi data mano
con piena concordia all’effettuazione di quelle due gran massime camminando fedelmente sulla via tracciata dal Capo della Chiesa. Ora
sento con dolore e maraviglia dalla lettera Sua, che l’opposizione continua, benché oggimai non possa più essere di buona fede. Ma quello
che m’indignerebbe, se convenisse indignarsi di ciò che permette Iddio
pe’ suoi altissimi fini, si è la maniera vile e disonesta, colla quale procedono quegli oppositori, di cui Ella mi ragiona, facendo uso della
calunnia. Il Signore, dandole questa prova assai grave alla natura,
intende sicuramente a perfezionarla, giacché una delle più belle e
necessarie virtù apostoliche si è appunto quella di sopportare con
animo forte e confidenza in Dio le calunniose imputazioni, opponendo la semplicità all’astuzia, la veracità al falsiloquio, la benevolenza
all’odio, la mansuetudine alla prepotenza ed alla violenza. Sì, vuole il
Signore anche da Lei, come il volle da S. Paolo, che lo serva per
infamiam et per bonam famam; e, ciò che forse non ha sperimentato
fra gl’infedeli, vuole che sperimenti fra cattolici, il gaudio di chi è
fatto degno pro nomine Jesu contumeliam pati 20.
Rosmini aveva già sperimentato quel «gaudio» e ancora lo
avrebbe sperimentato. Tuttavia le preoccupazioni di Luquet erano realistiche e fondate: solo nel 1919 con la Maximum Illud di
Benedetto XV furono effettivamente avviate tutte le missioni cattoliche sulla strada dello stabilimento di una gerarchia e di un clero indigeni.
19
20
ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 285-286 (233).
ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 287 r (234); cfr. EA, III, PP. 305-306.
129
Luquet scrisse ancora a Rosmini, da Roma, il 25 novembre
1846, di aver saputo da Newman dei progressi dell’Istituto della
Carità in Inghilterra 21. Il riferimento è significativo: una rete di
legami spirituali e culturali – di alto livello intellettuale e di profondo sentimento religioso – collegava Luquet, Newman, Rosmini e altri. Rispondendo al francese infatti, il 7 dicembre, Rosmini
scriveva: «Io spero che vedrò il sig. Newman ch’Ella menziona
nella venerata Sua lettera al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi
recò la lettera di Filipps [Phillipps] che me lo raccomandava, qui
a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di preparargli
qualche servigio da queste parti» 22. A Luquet e a Rosmini si avvicinavano dunque Newman e Ambrogio M. Phillipps (poi noto
con lo pseudonimo di Phillipps de Lisle) che era vicino a Wiseman, il quale era sia un ammiratore dell’Istituto della Carità (ne
divenne un ascritto), sia un fautore del ristabilimento della gerarchia cattolica in Inghilterra. Newman, Wiseman e Phillipps coltivavano prospettive unioniste tra anglicani e cattolici: Phillipps
avrebbe poi aderito, nel 1857, all’Association for the Promotion
of the Union of Christendom (APUC), promossa da alcuni ecclesiastici anglicani favorevoli alla «corporate reunion» (cioè alla riunione con Roma di tutta la Chiesa d’Inghilterra e non solo di singoli «convertiti») condannata da Pio IX nel 1864 23. Rosmini, nella lettera, riprendeva pure un apprezzamento di Luquet per il fatto che l’Istituto della Carità fosse sottoposto all’ordine gerarchico
della Chiesa e cioè al ministero episcopale. Affrontava poi, sempre su richiesta di Luquet, la grave questione dei riti orientali,
richiamando significativamente le disposizioni di Benedetto XIV
e dimostrando di essere d’accordo, anche su ciò, con Luquet:
Venendo ora al discorso de’ riti orientali, che è il principale oggetto
della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua
ASIC, A. 1, XXI, P. 1, 1846, 229 r (173).
ASIC, A. 1, XXI, P. 1, 1846, 231 r (174); cfr. EA, III, p. 334.
23
Phillipps si sottomise a Roma. Wiseman avrebbe forse tentato di rendere
meno severo il decreto di condanna, ma Manning – che ammetteva solo conversioni individuali – lo dissuase. Cfr. J. BIVORT DE LA SAUDÈE, Anglicani e cattolici. Il
problema dell’unione anglo-romana (1833-1933), trad. it., Milano 1954.
21
22
130
prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual è. L’attaccamento de’ varii popoli ai loro riti è così grande, e se mi permette
di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell’Oriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni
sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito che mutar di fede.
L’attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a’ missionarij che i riti orientali fossero rispettati: Ella
conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque
questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie di popoli orientali; posto altresì l’efficacia del pubblico culto sul sentimento
religioso; io credo, che una delle principali massime della Chiesa
Cattolica nell’opera d’invitare a sé que’ Cristiani che sono fuori del
suo seno debbe essere e sia di mantenere o restituire a que’ riti tutta
la dignità che possono aver perduta agli occhi dell’Occidente, com’Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, l’introdurre i diversi riti fra i membri
delle congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionarj e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all’Istituto della Carità
basta il nome che porta a far risposta alla Sua dimanda, basta il motto
che la caratterizza Omnibus Omnia. Ma acciocché non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero costituire Collegii di
Missionarj per ciascun rito, ciascun de’ quali Collegii educasse i
Missionarj destinati a vantaggio di que’ popoli che professan quel
rito. E l’Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli
vuole dividere i suoi membri in altrettanti Collegii, quante sono le
opere principali di carità ch’egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta
conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v’avesse, poniamo,
un Collegio di Missionarj pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni,
e così discorrendo, per le diverse chiese scismatiche di rito diverso 24.
24
ASIC, A.1, XXI, 1846, 231v-232r (174); cfr. EA, III, pp. 335-336. Rispetto
al motto Omnibus Omnia, si può ricordare ciò che Rosmini, fin dal 1835, scriveva ai suoi religiosi in Inghilterra. In una lettera dell’8 novembre di quell’anno,
diretta a don Luigi Gentili, ma rivolta anche a don Antonio Rey e al chierico
Emilio Belisy, Rosmini affermava: «Raccomando a tutti e tre di rendervi un poco
alla volta inglesi in tutte le cose dove non ci sia peccato, poiché così pratichere-
131
La questione dei riti orientali assumeva in quel momento una
grande importanza, che riguardava il mondo missionario perché
degli affari ecclesiastici orientali si occupava Propaganda Fide fin
dalla sua costituzione. Luquet era un caldo fautore dell’unione della Chiesa latina con le Chiese orientali 25, sulla base del rispetto dei
riti e della disciplina orientali: una prospettiva che, come si è accennato, aveva avuto l’importante sanzione di Benedetto XIV (si veda
in particolare l’enciclica Allatae sunt del 26 luglio 1755) e che, anche per questo, trovava il pieno consenso di Rosmini. Pure Pio IX
avrebbe coltivato aspirazioni unioniste, espresse nell’enciclica In
suprema Petri del 6 gennaio 1848 (che però, per i toni utilizzati, urtò
gli orientali e riaccese le polemiche). In realtà le prospettive che si
seguirono furono – all’opposto di quanto speravano Luquet e Rosmini – nel senso di un’opera, aperta o dissimulata, di latinizzazione. L’indirizzo di assimilazione e latinizzazione fu sostenuto in generale dai Gesuiti francesi che operavano in Medio Oriente, dai
Cappuccini e dai Francescani (in particolare i custodi dei luoghi
santi). Tra i fautori della centralizzazione e uniformizzazione latinizzatrice vi furono don Guéranger, che esercitava una notevole
influenza sull’opinione pubblica cattolica in Francia, il cappuccino Angelo di Fazio delle Pianelle, delegato apostolico in Siria dal
1836 al 1839, ma in particolare mons. Giuseppe Valerga, missionario a Mossul dal 1841 e divenuto patriarca latino di Gerusalemme, dopo il ripristino del patriarcato da parte di Pio IX in
accordo col sultano, il 23 luglio 1847 26. Valerga, che era anche
mo quello di S. Paolo: Omnia Omnibus factus sum. In tutte le cose dove non c’è
peccato, non giova contraddire: ogni nazione ha i suoi costumi, e sono buoni agli
occhi suoi. Voi dovete avere quelli della nazione in cui vi trovate, e devono essere
buoni agli occhi della vostra Carità. L’essere tropo attaccato ai costumi italiani, o
romani, o francesi, è difetto grande ne’ servi di Dio, pei quali la vera patria è il
cielo».
25
Cfr. R. ROUSSEL, Un précurseur. Mgr Luquet (1810-1858), Langres 1960.
26
Cfr. A. POSSETTO, Il Patriarcato latino di Gerusalemme, Milano 1938; J.
HAJJAR, L’apostolat des missionnaires latins dans le Proche-Orient selon les directives
romaines, Gerusalemme (Giordania) 1956; ID., L’Europe et les destinées du ProcheOrient, Paris 1970.
132
delegato apostolico in Siria, fu aiutato nel suo impegno latinizzatore dal prodelegato apostolico, il gesuita francese Benoît Planchet. Un momento di forte tensione si ebbe in occasione degli
attacchi che, a Roma, mons. Valerga e il gesuita C. van Overbroeck portarono alle risoluzioni del sinodo «nazionale» del patriarcato cattolico greco-melchita, svolto nel 1848 sotto la guida del
patriarca Maximos III Mazloum, una personalità di notevole livello, che era stato molto stimato da Gregorio XVI ma che ora
veniva accusato, dai latinizzatori, di essere un «foziano mascherato» per il suo attaccamento alla tradizione orientale 27.
Si può dunque affermare che si realizzava una significativa
convergenza su una serie di questioni cruciali per la vita delle missioni (stabilimento di una gerarchia locale, clero indigeno, impegno missionario dei vescovi cattolici, adeguata preparazione dei
missionari, rispetto dei riti orientali, importanza dell’educazione
del clero) tra Rosmini, cioè tra il rappresentante forse più qualificato della cultura cattolica e della filosofia italiana in quel momento, e Luquet, interprete autentico e generoso della tradizione
delle Missioni Estere di Parigi e dei loro indirizzi missionari, sostanzialmente omogenei a quelli di Propaganda Fide.
Emblematico era pure il già citato richiamo, contenuto in una
lettera di Luquet, alla polemica antigesuitica di Gioberti, che
tanto Rosmini quanto Luquet deprecavano, ma che in realtà divideva e infiammava gli animi nella seconda metà degli anni ’40
del secolo XIX. Si può dire che, in ambito missionario, Rosmini
e Luquet non accettassero quello che, nonostante le polemiche,
appariva il tratto comune ai Gesuiti e a Gioberti: l’idea, cioè, di
una prevalente azione civilizzatrice della Chiesa che accompagnando l’evangelizzazione portasse di fatto a un’assimilazione di
popoli, culture e civiltà da parte della civiltà europea e del cattolicesimo romano.
Riprendendo la nota distinzione rosminiana della triplice carità, si può dire che l’indirizzo missionario di Rosmini (ma anche di
Cfr. J. HAJJAR, Un lutteur infatigable, le patriarche Maximos III Mazloum,
Harissa (Libano) 1957.
27
133
Luquet) fosse caratterizzato: sul piano della carità corporale, da
un impegno antischiavistico e di difesa della dignità della persona
umana; sul piano della carità intellettuale, da una prioritaria opera di educazione, sia come formazione di missionari capaci di assumere in profondità le culture locali, sia come preparazione di
un clero indigeno, sia come istruzione delle popolazioni per renderle autonome e non dipendenti dagli europei; sul piano, infine,
della carità spirituale, da un’azione di evangelizzazione, condotta
in particolare da vescovi, in grado di fondare nelle diverse terre la
gerarchia locale e le Chiese locali, sull’esempio di quanto fecero
gli Apostoli.
L’influenza di Luquet su Ramazzotti
Nel 1847 soggiornò a Roma per qualche tempo un altro religioso francese delle Missioni Estere di Parigi, Emmanuel-JeanFrançois Verrolles, vicario apostolico nella Manciuria cinese. Egli,
dopo un’udienza pontificia, indirizzò a Propaganda Fide un interessante memoriale per perorare l’istituzione della gerarchia
ecclesiastica ordinaria in Cina, in Giappone, in Corea e in Indocina. Il memoriale fu discusso nella congregazione particolare
dell’11 maggio 1848 ma non portò a risoluzioni specifiche. Fu
invece promossa una consultazione conoscitiva dei vicari apostolici, che però non diede i risultati sperati perché molti dei
vescovi missionari dell’Estremo Oriente ritenevano la costituzione di una gerarchia ecclesiastica locale prematura, inutile o
perfino dannosa 28.
Ancora nel 1847, intanto, diventava sempre più delicata la situazione svizzera, dove i sette cantoni cattolici fin dal 1845 avevano deciso di costituire il Sonderbund, cioè una confederazione separata. Gli animi si erano ancor più riscaldati per l’arrivo dei Gesuiti a Lucerna. Ne avevano approfittato i radicali che, con la loro
Cfr. J. METZLER, La Santa Sede e le Missioni, in J. METZLER (a cura), Dalle
Missioni alle Chiese locali (1846-1965), Cinisello Balsamo 1990, pp. 54-57.
28
134
campagna antigesuitica, ottennero, nella primavera del 1847, la
maggioranza alla dieta federale. Il 1° luglio Pio IX indirizzò una
lettera agli svizzeri, invocando la pacificazione. Ma il 20 luglio la
dieta dichiarava illegale il Sonderbund e pertanto ne intimava lo
scioglimento. Il 3 settembre, poi, la dieta ordinava l’espulsione
dei Gesuiti dalla Svizzera. Questa situazione, com’è noto, sarebbe
ben presto precipitata, provocando la «guerra del Sonderbund».
Intanto, però, nel novembre 1847 Pio IX faceva un ultimo tentativo di pacificazione religiosa inviando in Svizzera in sua rappresentanza, per una missione straordinaria ed ufficiosa, mons. Luquet
come delegato apostolico.
Nel suo viaggio da Roma in Svizzera, Luquet ebbe modo di
passare per la Lombardia e di trattare questioni anche di argomento missionario. Nel novembre 1847, dunque, Luquet si recò a
Milano per parlare con mons. Carlo Bartolomeo Romilli, divenuto arcivescovo della diocesi ambrosiana giusto qualche mese prima. Non trovandolo nel palazzo episcopale, saputo che il Romilli
era in ritiro per gli esercizi spirituali nel Collegio degli Oblati di
Rho, Luquet vi si recò. Era allora superiore del collegio (elettovi il
10 settembre 1847 per la terza volta) Angelo Ramazzotti. Luquet
parlò all’arcivescovo alla presenza di Ramazzotti e gli comunicò il
desiderio di Pio IX per l’apertura di un seminario di missioni estere con il concorso dei vescovi. Gli parlò pure della necessità di
diffondere l’Opera della Propagazione della Fede – che non era
ben vista dal governo austriaco, che preferiva la viennese Società
Leopoldina – e della necessità di collegarla al centro di Lione.
Romilli si dichiarò disponibile a fare il possibile. Ma fu soprattutto Ramazzotti ad accogliere con convinzione le proposte del
Luquet: il desiderio pontificio, infatti, poteva dare un’autorevole
e solenne sanzione ai deboli e velleitari tentativi fino ad allora messi
in atto in Lombardia. Progetti in questo senso infatti erano stati
ideati da don Carlo Strazza, collaboratore del direttore diocesano
milanese dell’Opera della Propagazione della Fede e professore
per alcuni anni nei seminari ambrosiani, e da don Luigi Biraghi,
anch’egli insegnante nel seminario e fondatore della Congregazione delle Marcelline. In modi diversi sia Strazzi sia Biraghi appartenevano a quella parte del clero ambrosiano che conosceva e ap135
prezzava Rosmini. Tra il 1845 e il 1846, inoltre, un gruppo di chierici del Seminario di Milano e di giovani sacerdoti di Milano e di
Lodi aveva vagheggiato la fondazione di un istituto missionario
lombardo, ricevendo un sostegno significativo dal francese padre
Lorenzo Marcello Supriès, che allora si trovava alla certosa di Pavia in qualità di vicario, ma che dal 1829 al 1838 era stato membro
della Società per le Missioni Estere di Parigi ed era stato in missione a Pondichéry.
Ramazzotti conosceva questi tentativi falliti e si sentiva personalmente attratto dalla vocazione missionaria. Per questo le parole di Luquet ebbero un’eco profonda nel suo animo. Nel 1851, in
un articolo sull’«Amico Cattolico», don Giuseppe Marinoni, antico discepolo di Biraghi e principale collaboratore di Ramazzotti
nella fondazione del Seminario delle Missioni Estere in Lombardia, scriveva:
Il primo pensiero di questo Seminario si deve al Vicario di Gesù
Cristo, il regnante Sommo Pontefice, il quale abbracciando nella
sua paterna carità tutti i popoli della terra, e la sorte infelice commiserando di tante nazioni ancora sedenti nelle ombre della morte,
sin dal principio del suo pontificato, per mezzo del suo delegato
straordinario il Vescovo di Esebon [cioè Luquet], che trovavasi qui
di passaggio, faceva sentire quanto caro gli sarebbe tornato che il
clero numeroso di queste province non tardo al certo alle Sante
imprese, e quella eletta schiera di buoni d’ogni ceto e condizione
che tanto onorano la patria nostra, prendessero parte ad un’opera
di tanta pietà qual si è la conversione degl’infedeli. Le parole del
delegato apostolico facevano alta impressione nell’animo del P.
Angelo Ramazzotti allora missionario nel collegio di Rho, ora
meritatamente elevato alla sede episcopale di Pavia, uomo di quel
cuore e di quello zelo che a tutti è noto, e risvegliavano in lui una
sua antica idea vagheggiata lungamente negli anni più verdi, l’idea
di consacrarsi alla grand’opera delle estere missioni: se non più con
la persona, almeno con tutti quei mezzi che fossero in sua disposizione. Medita egli, prega, consulta, e finalmente risolve 29.
G. MARINONI, «Il nuovo Seminario delle Missioni Estere in Lombardia»,
in «L’Amico Cattolico», novembre 1851, p. 651.
29
136
Ramazzotti non poté immediatamente dare corso ai disegni missionari, poiché ne fu impedito dalle «cinque giornate» di Milano,
dagli eventi della rivoluzione e dalla guerra del 1848-1849. In questo frangente egli si distinse, insieme al confratello padre Angelo
Taglioretti, per un’opera di pacificazione sociale, richiestagli dal
governo provvisorio con il consenso di Romilli. Ramazzotti inoltre,
sempre su richiesta del governo provvisorio, che gliene fu grato,
accolse nel suo orfanotrofio di Saronno i figli – rimasti a Milano –
degli ufficiali austriaci che, nella fuga, non avevano potuto condurli
con sé. Dopo la restaurazione austriaca, peraltro, Ramazzotti ricevette anche, il 7 febbraio 1849, il ringraziamento e la lode del governo imperiale. L’imperatore Francesco Giuseppe, inoltre, lo preconizzò l’11 novembre 1849 vescovo di Pavia e ricevette l’incarico da
Pio IX nel concistoro del 20 maggio 1850. Fu poi consacrato a Roma,
il 30 giugno, proprio prefetto di Propaganda Fide card. Franzoni.
Mons. Ramazzotti non abbandonò infatti i suoi piani missionari e nel luglio 1850 fondò, nella sua casa di Saronno, il Seminario Lombardo per le Missioni Estere. Tra coloro che contribuirono all’avviamento del seminario, le Memorie dell’Istituto, redatte
da don Giacomo Scurati, ricordano: «M.R.P. Angiolo Taglioretti,
oblato di Rho, M.R.P. Taddeo Supriès, Priore della Certosa di Pavia,
M.R.P. Vandoni, barnabita, M.R.D. Luigi Biraghi, Dottore della
Biblioteca Ambrosiana, M.R.D. Pietro Tacconi, Preposto di Vimercate». Supriès, come si è visto, portò l’esperienza delle Missioni Estere di Parigi e del suo apostolato a Pondichéry. Biraghi
rafforzò le simpatie filorosminiane.
Il principale collaboratore di Ramazzotti fu tuttavia don Giuseppe Marinoni, direttore del Seminario per le Missioni Estere.
Egli era stato alunno di Biraghi nel seminario milanese, si era poi
recato a Roma e, dopo tentativi falliti di farsi prima gesuita e poi
pallottino, fu parroco a Roma e, per tutti gli anni ’40, fu legato al
card. Antonio Tosti, estimatore ed amico di Rosmini.
Il 2 maggio 1850 Ramazzotti aveva scritto, a nome di Romilli,
un Promemoria per il luogotenente generale di Lombardia, nel
quale – presentando il nuovo istituto e chiedendo l’approvazione
governativa – si affermava:
137
Si tratta di iniziare un’associazione di Sacerdoti secolari per le Missioni Estere a propagazione della fede cristiana. La novità e affatto
speciale importanza di siffatta impresa consiste in ciò che si avrebbe
una casa diocesana di Missionarj dipendente dal proprio Vescovo.
Non sarebbero quindi alcuni Sacerdoti (come avveniva in passato)
che per dedicarsi alle missioni estere si staccano dalla propria Diocesi e dal paese proprio, cercando altrove l’educazione a sì sublime
ministero, ed aggregandosi perciò a qualche famiglia, o a qualche
altro estero Istituto; ma si tenterebbe invece di stabilire tra noi stessi
una casa di Missioni Estere, nella quale potessero raccogliersi quei
Sacerdoti che sentissero la spinta a tale vocazione e dove potrebbero
provarla ed abilitarsi cogli esercizi dello studio e della pietà senza
bisogno d’abbandonare a tale effetto la propria patria e Diocesi.
Si capisce da questo approccio che l’esperienza alla quale si
guardava era quella della Società per le Missioni Estere di Parigi.
Ciò è ancora più evidente nelle regole elaborate da Ramazzotti
con la collaborazione di Marinoni e di Taglioretti. Infatti dopo
l’approvazione governativa, che giunse (nonostante i timori per le
simpatie guelfe e rosminiane dei sacerdoti dell’istituto) il 30 agosto 1850, era cominciato il lavoro di stesura delle regole. Nell’ottobre fu inviata ai vescovi lombardi una Proposta di alcune massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere. Emendata e approvata, essa costituì il testo delle regole dell’istituto, che fu ufficialmente e formalmente eretto il 1 dicembre 1850 dall’arcivescovo
di Milano e dagli altri presuli lombardi, i vescovi di Como, Crema,
Lodi, Mantova, Cremona, Pavia e Brescia.
Nella avvertenza preliminare della Proposta si affermava, dunque:
L’Arcivescovo di Milano e i Vescovi Comprovinciali, non rattenuti
dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; considerando il compenso che devono attendere le loro Chiese dal Signore; considerando che gli splendidi esempi di distaccamento e di
sacrificio sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere
fruttuoso alla Diocesi non meno il Missionario, il quale parte per un
altro emisfero, che il sacerdote rimasto ad operare fra i suoi; che anzi,
spingendo in alcuni individui la vocazione ecclesiastica al suo pieno
sviluppo, viensi a suscitarla e meglio maturarla in altrui; ma più che
tutto considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dila-
138
tazione della Chiesa universale, e che ciascuna delle Diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di
milizia apostolica, pensarono di dover favorire e tener cura delle vocazioni al ministero delle estere Missioni con non minor zelo di quello che usino per la buona educazione del Clero destinato alla Diocesi. [...] Di più queste spedizioni diocesane e provinciali stabilirebbero un vincolo tra le Chiese native dei Missionari e quelle che il loro
zelo benedetto da Dio verrebbe a formare nelle popolazioni convertite, e dovrebbe risultare un impegno delle nostre Diocesi e provincie a proteggere gli interessi di quelle Chiese, le quali si raccomanderebbero a noi coi dolci titoli di una quasi parentela spirituale 30.
Anche se non si parlava, dunque, di formazione di clero indigeno, l’ottica era tutta rivolta alla costituzione di Chiese locali.
Esplicito e centrale era poi l’inserimento dell’apostolato missionario all’interno del ministero episcopale.
Nel trattare delle discipline ordinate a coltivare lo spirito e le
virtù degli aspiranti alle missioni, le regole insistevano per una
«vita di spirito e di fede». Il missionario doveva essere mosso dalla
«pura vista di Dio», non preoccupandosi di raccogliere il frutto
delle proprie fatiche: «Anzi quest’anima non cerca a Dio le ragioni della missione da Lui ricevuta, ed opera sulla sua parola, e su
quella de’ suoi rappresentanti, come strumento docile, della adorabile volontà, e in ogni evento ripete con gioia e profonda convinzione: servi inutiles sumus: quod debuimus facere, fecimus (Luc.
c. XVII, v. 10)» 31. Ciò che importava dunque era che gli allievi del
Seminario Missionario avessero disposizioni solide di schietto zelo,
di puro amore e timor di Dio, nonché sicura padronanza delle
proprie passioni: «A tale intento si procura primieramente, che
nella Casa, mantenuta pur sempre la semplicità, l’ilarità, anche un
cotal grado di vivacità, domini potentemente il fervore per le cose
spirituali, e lo studio della vita interiore e della perfezione. [...]
Non saranno trascurati, ad aiuto della pietà e dello spirito, gli eser-
30
Proposta di alcune massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere (Settembre 1851), Roma 1961, pp. 14-15 e 17.
31
Ibid., p. 45.
139
cizi della mortificazione esteriore, sebbene sia necessario, trattandosi massime di giovani recenti dal seminario, procedere con discrezione [...] Quel che più importa è che queste pratiche di pietà
e di mortificazione si abbia cura di non lasciarle diventare coll’abitudine una formalità materiale» 32.
Le virtù più coltivate perché ritenute necessarie all’apostolato
missionario erano la castità, la carità e soprattutto lo spirito di
sacrificio. La disposizione al sacrificio appariva «essenzialissima»
agli alunni della missione: «Se la formino col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente e procurando di
intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce
per le anime nostre. Non è a dubitarsi che se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, non siano
per esibirsi a perder tutto e morire per Lui e con Lui» 33.
Significativo era poi l’impianto generale dato alla prospettiva
formativa perseguita dal Seminario per le Missioni Estere:
Può forse dirsi che siavi presso alcuni un’opinione esagerata sull’ampiezza delle cognizioni e sulla coltura intellettuale richiesta in un
Missionario. Alcuni nella Casa che lo prepara alle funzioni apostoliche
vorrebbero trovare un Istituto di scienze ed arti, una scuola di tutte
le lingue. Invece il piccolo Seminario non potrà far molto in questo
punto senza perdere perciò la speranza di formare buoni alunni alle
Missioni. E convien che si rimarchi; anzi non solo a togliere la sorpresa di chi si aspettasse dal seminario grande apparato di studi, ma
anche a vieppiù insinuare negli alunni la cura del raccoglimento, dell’umiltà, e migliore indirizzo dello spirito verso quel punto che più
d’ogni altro importa, gioverà che qui sia proclamata la gran massima
del primo e più grande dei Missionari tra gli infedeli, dell’apostolo S.
Paolo: la somma scienza, anzi l’unica veramente necessaria è quella del
Crocifisso. Ben ritenuta però questa massima e presa a norma dello
spirito con cui devono studiare; vigilando sopra sé che talora la
soverchia intensità dell’applicazione agli studi non sottragga il tempo
o inaridisca il cuore agli esercizi della pietà, e la riuscita non lo gonfi;
riferendo al tempo dello studio principalmente la raccomandazione
32
33
140
Ibid., pp. 46-48.
Ibid., p. 54.
delle divote giaculatorie; attenderanno gli alunni a studiare con ogni
sollecitudine 34.
Per una più precisa determinazione del piano di studi la Proposta di alcune massime rimandava a un periodo successivo, quando si sarebbe potuto far tesoro dell’esperienza concreta acquisita nei paesi da evangelizzare. Intanto si stabiliva di rivolgersi agli
studi di prima necessità per l’esercizio pratico del ministero sacerdotale, di fondarsi nelle prove del catechismo, di conoscere –
per poterle confutare – le dottrine dei protestanti, così attivi allora nelle missioni. Tali studi, uniti a quelli della Sacra Scrittura
e della storia ecclesiastica, dovevano costituire la principale occupazione. Per la conoscenza delle lingue ci si limitava a prescrivere uno studio molto impegnato dell’inglese e un esercizio del
francese.
Interessante e originale era invece il metodo di studio proposto, sia perché non si pensava a uno studio contemporaneo e parallelo delle varie discipline, sia perché si suggeriva una sorta di
stile seminariale più che lezioni cattedratiche. Per quanto riguarda il primo punto, si affermava infatti: «Nel metodo di condurre
gli studi si ha questa avvertenza di non frastagliarli dividendo
l’applicazione sopra materie disparate, ma si esauriranno a mano
a mano i trattati principali dedicando ad essi uno studio continuato e completo» 35.
Per il secondo aspetto, invece, si stabiliva:
Ma per rendere questi studi di minor peso ed insieme notabilmente
più impegnati e fruttuosi, si è giudicato di aiutarli con famigliari ma
ben regolate conferenze. Queste sono quotidiane, e procedendosi da
tutti insieme di pari passo, e colla guida di un medesimo autore, ciascuno vi porta il transunto scritto del caso studiato, propone senza
superfluità ed inutili digressioni le difficoltà che ha incontrato in qualche punto, e di cui bramerebbe una più chiara soluzione. Anzi, essendo pure raccomandato che ciascuno secondo la propria capacità
procuri di meglio approfondire la materia massime coll’associare allo
34
35
Ibid., pp. 57-58.
Ibid., p. 61.
141
studio dell’autore adottato per guida la lettura di trattati più ampi e
ben ponderati di altri autori, ciascuno recherà nelle conferenze il frutto
dei suoi studi individuali a comune erudizione e vantaggio 36.
I primi allievi dell’istituto furono alcuni giovani seminaristi
del quarto corso teologico: Giovanni Mazzuconi, Carlo Salerio,
Timoleone Raimondi, Alessandro Mornico. In quegli anni l’influenza rosminiana era stata ben viva nei seminari ambrosiani e
dunque fu probabilmente presente anche nella formazione di
questi giovani che poi si avviarono all’Istituto delle Missioni Estere. In particolare, Carlo Salerio poi missionario in Melanesia e
successivamente fondatore dell’Istituto delle Pie Signore di Nazareth, ebbe come professore di filosofia negli anni del liceo, dal
1844 al 1846, don Alessandro Pestalozza, amico di Rosmini e
convinto assertore del sistema filosofico rosminiano. Ed è significativo che quando don Salerio, inviato a Roma da don Marinoni insieme a don Paolo Reina, fu ricevuto il 21 agosto 1851 da
Pio IX, il pontefice accennasse – in fondo con affetto – proprio
a Rosmini.
Conclusioni
Si può, dunque, concludere che nell’esperienza dell’Istituto
delle Missioni Estere di Milano venissero a incrociarsi e a intrecciarsi, in forme peraltro originali, la linea metodologica tradizionalmente sostenuta dalla Società per le Missioni Estere di Parigi e
la linea spirituale e culturale del rosminianesimo.
Veniva così a delinearsi, nell’ambito della storia italiana del
movimento missionario, una posizione nuova, che si ricollegava
alla tradizione romana di Propaganda Fide ma la innovava significativamente, riproponendola nel nuovo contesto storico di un’Europa che sarebbe presto dovuta passare dai problemi posti dal
nazionalismo e dal colonialismo a quelli posti dall’imperialismo e
dal razzismo.
36
142
Ibid., pp. 60-61.
La nuova posizione missionaria era ben distinta tanto dalla tradizione francescana e cappuccina quanto dalle metodologie missionarie gesuitiche. Nel contesto italiano della seconda metà degli
anni ’40 del secolo XIX, tale innovativa posizione missionaria trovò i suoi interpreti più alti e significativi in Rosmini, Luquet e
Ramazzotti.
Frutti significativi di tale esperienza furono, prima, la fondazione dell’Istituto per le Missioni Estere in Lombardia e, poi, con
l’aggiungersi degli sviluppi dei fermenti veronesi, l’opera di Daniele Comboni e la nascita dell’Istituto Comboniano.
143
LA CHIESA E L’ ORIENTE:
IL DISEGNO MISSIONARIO DI PIO IX
E IL SEMINARIO LOMBARDO PER LE MISSIONI ESTERE
di Agostino Giovagnoli
Pio IX e le missioni
«Il numero di ordini religiosi e di congregazioni maschili e femminili con orientamento missionario fondati nel XIX secolo è tanto elevato che un inventario non può essere fatto con pretese di
completezza», afferma Joseph Metzler. La nascita del futuro PIME
si iscrive nel contesto di generale risveglio dello spirito missionario, dopo la grave crisi del XVIII secolo e le conseguenze della
Rivoluzione francese, ed è preceduta da molte altre iniziative sorte altrove, soprattutto in Francia. Ma mons. Angelo Ramazzotti
non fondò un istituto o una congregazione: la sua iniziativa rappresenta qualcosa di nuovo e diverso nel pur ricco panorama missionario dell’epoca 1.
L’originalità del Seminario Lombardo per le Missioni Estere
emerge già nel complesso iter che portò nel 1850 alla sua fondazione, indubbiamente influenzato anche da vicende esterne, ma
C. SUIGO, Pio IX e la fondazione del primo Istituto per le missioni estere,
PIME, Roma 1976, p. 125.
1
Agostino Giovagnoli ha insegnato nelle università di Bari e di Sassari
ed è ordinario di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano.
Ha condotto studi e ricerche sulla storia dell’Italia contemporanea e su
Chiesa e relazioni internazionali nel XX secolo. Ha pubblicato, fra l’altro,
il volume Roma e Pechino. La svolta extraeuropea di Benedetto XV
(Roma, Studium 1999) e ha in corso di pubblicazione un volume sul pontificato di Pio IX.
145
determinato soprattutto dallo sforzo paziente e tenace di mons.
Ramazzotti di tener conto il più possibile di soggetti diversi e delle
loro differenti prospettive. Egli si adoperò intensamente perché
«questo prospettato collegio [...] lungi dal presentare inconvenienti
d’alcuna sorta, li prevenisse ed offrisse per ogni lato rilevantissimi
vantaggi» da qualunque punto di vista lo si fosse guardato e cioè
se lo «si considerasse in rapporto alla chiesa universale, o [...] in
rapporto ai doveri episcopali, o in relazione al Governo, o nell’interesse dei Missionari medesimi» 2. Le diverse prospettive qui sintetizzate furono effettivamente considerate da mons. Ramazzotti
ed egli ebbe la capacità di armonizzarle e fonderle nel corso dell’attenta opera da lui compiuta per giungere all’apertura del seminario. Il suo disegno infatti, pur articolato e complesso, rivela anche un’ispirazione unitaria e la volontà di mettere sempre al primo posto l’interesse delle missioni attraverso un collegamento costante con le prospettive universali della Chiesa.
In questo senso, la sua azione appare profondamente inserita
nel quadro complessivo dello sforzo missionario perseguito in
quegli anni da Pio IX. Fin dai primi tempi del suo pontificato,
questi mostrò grande interesse per le questioni missionarie, riprendendo l’intensa attività avviata dal suo predecessore, Gregorio XVI, di cui cercò di portare a compimento molti disegni.
Nel novembre ’45, pochi mesi prima del passaggio di pontificato, era stata emanata l’istruzione di Propaganda Fide Neminem
Profecto per la creazione di un clero indigeno, con cui Gregorio
XVI innovava rispetto a numerosi pronunciamenti contrari degli anni precedenti, raccomandando di «dividere i territori in
preparazione allo stabilimento della gerarchia [...] reclutare e
formare un clero indigeno e, a questo scopo, erigere seminari
per condurre il clero indigeno fino all’episcopato [...] non trattare i sacerdoti indigeni come clero ausiliario, ma dare loro precedenze, onori e cariche come agli europei [...] rinunciare alla
tradizione di usare gli indigeni solo come catechisti [...] non
D. COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, EMI,
Bologna 2000, p. 100.
2
146
mescolarsi affatto agli affari politici e profani [...] curarsi di tutto ciò che favorisca il radicarsi della religione nella società» 3.
Come nota Aubert, nel pontificato di Pio IX non ci fu nessun
pronunciamento di carattere generale che possa essere paragonato alla Neminem Profecto: tuttavia questa coraggiosa direttiva,
che rappresentò il punto d’arrivo dell’intenso impegno svolto
dal camaldolese Mauro Cappellari, prima come prefetto di Propaganda e poi come papa, costituì un’importante eredità per il
pontificato del suo successore.
Alla metà dell’Ottocento, per la Chiesa cattolica missione
voleva dire soprattutto Oriente: questo termine, applicato in
senso geografico a un’area molto vasta e indeterminata, indicava anzitutto l’Impero ottomano, che copriva ancora gran parte
dei Balcani, comprendeva tutto il Medio Oriente e si estendeva
fino all’Africa settentrionale. Ciò spiega una certa sovrapposizione tra impegno missionario vero e proprio e rapporto con le
Chiese orientali in un’ottica uniatistica 4. L’Oriente costituì per
Pio IX una preoccupazione rilevante durante tutto il suo pontificato 5. La sua «offensiva orientale» si sviluppò fin dall’inizio
in stretto collegamento con le trasformazioni in corso nel Mediterraneo. Con l’indipendenza greca, la rivolta dell’Egitto, i
tanti movimenti nazionalistici nel contesto di un progressivo
declino del potere centrale, l’Impero ottomano iniziò un lungo
declino a cui corrispose una crescente influenza delle grandi
potenze europee, con l’occupazione francese dell’Algeria, la
penetrazione inglese in Medio Oriente, le pressioni russe sui
Balcani. Tra il 1846 e il 1878, gli anni del pontificato di Pio IX,
la «questione orientale» costituì un problema decisivo nel campo delle relazioni internazionali.
J. LEFLON, Restaurazione e crisi liberale (1975), SAIE, Torino 1984, p. 915.
R. AUBERT, Il pontificato di Pio IX (1846-1878) (1964), Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo 1990, p. 638.
5
Fin dai primi momenti, Pio IX cercò di staccarsi dalle incertezze del suo
predecessore, papa Gregorio XVI. Cfr. G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), Università Gregoriana Editrice, Roma 1974, p. 467. Lo stesso Martina mette però in
rilievo anche l’esistenza di elementi di continuità (ivi, p. 469).
3
4
147
Pur trattandosi di una questione anzitutto politica, Pio IX ne
colse l’importanza anche per la Chiesa cattolica: per la prima volta
dopo secoli, Roma vedeva riaprirsi la porta dell’Oriente. In un certo senso, Pio IX cercò di precedere le potenze europee, prendendo
l’iniziativa indipendentemente e talvolta in contrasto con queste. In
soli due anni, subito dopo l’ascesa al soglio pontificio, egli cercò di
stabilire relazioni diplomatiche con l’Impero ottomano, decise di
istituire un patriarcato latino a Gerusalemme e lanciò un appello
agli ortodossi per il loro «ritorno» a Roma: i primi passi della sua
politica orientale furono addirittura «spettacolari» 6.
Per prima volta dopo secoli, un papa cercava relazioni dirette
con un principe «pagano» staccandosi dalla protezione delle «nazioni cristiane» 7. (Nella stessa prospettiva, nel 1860 Pio IX si sarebbe rivolto direttamente all’imperatore cinese). Appena eletto,
infatti, egli tentò di stabilire rapporti diplomatici con Costantinopoli, ignorando il diritto che la Francia si era assicurata di rappresentare gli interessi cattolici all’interno dell’Impero ottomano (negli stessi anni, la Francia cercava di affermare analoghi diritti anche in Cina) 8. Svincolarsi dal controllo francese e giungere allo
scambio di rappresentanti diplomatici con la Sublime Porta doveva servire, nel disegno di Pio IX, a sviluppare una presenza più
diretta della Chiesa di Roma in Medio Oriente. A questo scopo,
egli procedette anche alla creazione di un patriarcato latino a Gerusalemme, tenendo all’oscuro la diplomazia francese ed impedendo così un intervento della Francia, fortemente contraria anche a questa iniziativa 9. In Terra Santa, la presenza latina era tra6
114.
J. HAJJAR, Le Christianisme en Orient, Librairie du Liban, Beirut 1971, p.
7
J. HAJJAR, L’ Europe et les destinées du Proche-Orient, vol. I, TLASS, Damasco
1988, p. 601.
8
Malgrado la dura opposizione francese – e le contrarietà, diversamente
motivate, di Austria e Russia – Pio IX proseguì su questa strada fino ad inviare,
nel gennaio 1848, mons. Ferrieri a Costantinopoli per accreditare un rappresentante pontificio presso la Sublime Porta. Cfr. A. TAMBORRA, Chiesa cattolica e
ortodossia russa. Due secoli di confronto e dialogo. Dalla Santa Alleanza ai nostri
giorni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, p. 97.
9
Cfr. HAJJAR, L’ Europe, cit., vol. I, pp. 482 segg.
148
dizionalmente affidata alla Custodia francescana 10, la cui opera
però non sembrava più sufficiente per contrastare le crescenti influenze russo-ortodossa e britannico-anglicana, coordinare i missionari cattolici, sviluppare la chiesa locale e creare clero latino
autoctono, come Pio IX avrebbe desiderato. A Roma si sperava
che lo stesso patriarca potesse diventare anche il rappresentate
diplomatico della Santa Sede presso l’Impero ottomano 11. La scelta
cadde su mons. Valerga, un missionario con esperienza mediorientale, cittadino del Regno di Sardegna: anche questa scelta irritò notevolmente i francesi, ostili ai tentativi del Piemonte di sviluppare la propria influenza in Medio Oriente. Il patriarca latino
a Gerusalemme, diventato in seguito il consigliere più ascoltato
dal papa per tutte le questioni orientali, fu tra i concelebranti nell’ordinazione episcopale di mons. Ramazzotti, come annotò quest’ultimo traendone buoni auspici.
Gli storici di cultura francese sono molto critici verso la politica orientale di Pio IX. Hajjar parla di tentativi prematuri, maldestri e velleitari: secondo questo studioso, Pio IX riuscì ad ottenere
qualcosa in Oriente solo grazie a quegli Stati europei di cui cercò
di contrastare l’influenza, come la Francia o l’Austria 12. Anche
Aubert concorda: «in realtà, gli aiuti più utili al cattolicesimo
d’Oriente vennero dall’Austria e dalla Francia» 13. Martina sottolinea invece che, agendo in questo modo, Pio IX si pose esplicitamente l’obiettivo di «liberare la Chiesa da ogni dipendenza dalla
protezione interessata delle potenze» europee 14. È la prospettiva
perseguita da Pio IX anche nei confronti del padroado portoghese: perseguendo con metodi diversi finalità simili a quelle del suo
predecessore, cercò di liberare la Chiesa cattolica dal pesante condizionamento portoghese in India e altrove 15.
A. GIOVANNELLI,
HAJJAR, L’Europe, cit., vol I, p. 501.
12
J. HAJJAR, Les Eglises Orientales Catholiques, in R. AUBERT ET AL., L’Église
dans le monde moderne (1848 à nos jours), Seuil, Paris 1975, pp. 491 segg.
13
R. AUBERT, Pio IX, cit., t. 2, p. 632.
14
G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), cit., pp. 465-466.
15
G. MARTINA, Pio IX (1851-1866), Editrice Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1986, pp. 378, 383-385.
10
11
149
Nei primi giorni del 1848, il papa inviò mons. Valerga e mons.
Ferrieri rispettivamente a Gerusalemme e Costantinopoli – il secondo viaggiò su una nave da guerra sarda, altra coincidenza non
casuale – consegnando loro l’enciclica In Suprema Petri Apostoli
Sede, indirizzata «ad Orientales». Pio IX riprendeva così un’idea
già coltivata da Gregorio XVI 16 e sollecitata da vari protagonisti
del dibattito sull’unione delle Chiese avviato dopo il 1815 e divenuto sempre più intenso: tra gli altri, seppur senza un ruolo di
primo piano, influì in questo dibattito anche Niccolò Tommaseo.
Raccogliendo queste sollecitazioni, Pio IX compì una scelta audace: per la prima volta dopo secoli la Chiesa di Roma si rivolgeva in
modo diretto al mondo ortodosso. Nella sostanza, la lettera esprimeva orientamenti «unionisti»: animata dalla speranza di un «ritorno» in massa degli ortodossi, soprattutto slavi, proponeva il
modello degli uniati, invitando i dissidenti a riconoscere l’autenticità della dottrina custodita dalla Chiesa cattolica e accettando il
primato del papa. Roma però prometteva di rispettare le diverse
tradizioni liturgiche orientali. La reazione ufficiale fu negativa: il
patriarca di Costantinopoli, a nome anche dei patriarchi di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme e di moltissimi vescovi, respinse la proposta del papa. La lettera del papa tuttavia suscitò tra gli
ortodossi anche altre reazioni 17 e soprattutto scatenò all’interno
del mondo cattolico una valanga di progetti per l’unione 18. Tamborra sottolinea «il merito grande di Pio IX di aver aperto o riaperto una strada che si riteneva ormai senza uscita [...] Da questo
primo inizio [...] prenderà l’avvio fra lungo contendere teologico
e dottrinale il colloquio in termini puntuali e moderni fra la Chiesa di Roma e il mondo ortodosso nelle sue varie componenti ed
espressioni» 19.
La politica orientale di Pio IX fu determinante anche sotto il
profilo più specificamente missionario. La Santa Sede, ad esempio, «fu la prima potenza europea che approfittò del varco aperto
MARTINA, Pio IX (1846-1850), cit., p. 470.
TAMBORRA, Chiesa cattolica, cit., pp. 99-111.
18
Ibid., pp. 137-224.
19
Ibid., p. 111.
16
17
150
dagli egiziani per realizzare un insediamento nell’Africa interna» 20.
Malgrado molti pareri contrari, all’inizio del 1846 Propaganda
deliberò l’erezione del vicariato apostolico dell’Africa centrale:
«l’importanza storica di quanto si operò deriva dall’essere stata la
prima circoscrizione ecclesiastica istituita stabilmente sul suolo africano, esclusa la fascia costiera» 21. L’iniziativa romana destò grande interesse nelle potenze europee: la penetrazione in Africa non
avvenne allora con l’aiuto della Francia 22, tradizionale curatrice
degli interessi cattolici in Oriente, mentre Inghilterra ed Austria
sostennero la spedizione missionaria promossa da Propaganda.
Pur tra molte difficoltà, la missione in Africa centrale venne avviata con grande fretta tra il 1846 e il 1847, ma gli eventi del 18481849 fecero venir meno molte speranze e Roma rimase a lungo
incerta sulle prospettive da dare all’impresa africana 23. In questo
contesto, il responsabile della missione, Knoblecher, si rivolse al
governo di Vienna 24, interessato ad accompagnare lo sviluppo della
presenza cattolica in Africa: Propaganda, pur preoccupata per le
possibili reazioni negative della Francia, accettò alla fine il protettorato austriaco e la missione in Sudan poté riprendere.
In campo missionario, dunque, Pio IX cercò di svincolarsi da
protezioni troppo impegnative – come quelle del Portogallo o della
Francia – per assumere un’iniziativa quanto più possibile autonoma: egli ricorse di volta in volta alle varie potenze europee in funzione dei propri disegni. Vari esempi mostrano che Pio IX, nei
primi anni del suo pontificato, puntò su uno stretto collegamento
con il Piemonte per sviluppare iniziative importanti della sua politica orientale: oltre al Medio Oriente, ci fu convergenza anche a
proposito dei Balcani e dell’Europa orientale. È uno dei segni della sua iniziale apertura verso questo Stato, la causa italiana e in
generale il risveglio delle nazionalità, che, almeno in una prima
20
G. ROMANATO, Daniele Comboni. L’ Africa degli esploratori e dei missionari, Rusconi, Milano 1998, p. 72.
21
Ibid., p. 75.
22
Ibid., pp. 79 segg.
23
Ibid., pp. 92 segg.
24
Ibid., pp. 106 segg.
151
fase, Roma ritenne componibile con la propria missione universale. Com’è noto, però, le vicende del 1848-1849 segnarono la fine
di questo tentativo. In genere si tende a vedere la svolta di Pio IX
nei termini di un suo «tradimento» della causa italiana precedentemente sostenuta; tuttavia, gli orientamenti da lui assunti tra il
1848 e il 1849 non si radicano solo negli avvenimenti italiani, ma
furono ispirati dalla più complessiva situazione europea di quegli
anni.
Indubbiamente, Pio IX abbandonò le precedenti convergenze
con il Piemonte e si rivolse all’Austria per ottenerne il sostegno
nella restaurazione del suo potere temporale. Occorre però ricordare che la sconfitta di Novara non riguardò solo il Piemonte:
ebbe infatti importanti ripercussioni nei Balcani e in Europa orientale, contribuendo al ripiegamento degli altri movimenti nazionalisti che avevano sconvolto l’Impero asburgico in quegli anni e
aprendo la strada a una presenza russa in quest’area particolarmente preoccupante agli occhi di Roma. Le vicende del 1848-1849
costituiscono non a caso la premessa della successiva guerra di
Crimea, scoppiata pochi anni dopo. Nel 1849, insomma, la sconfitta della causa nazionale in tutt’Europa aprì la strada a scenari
molto problematici per la Chiesa cattolica, spingendo Pio IX a
cercare altri e più solidi interlocutori. Per il papa divenne quasi
una necessità rivolgersi all’Austria, antico baluardo della cattolicità verso i pericoli che venivano da Oriente – ieri l’espansione Ottomana, a metà ottocento la minaccia russa –, anche se le vicende
successive avrebbero mostrato l’incapacità austriaca di rispondere fino in fondo alle attese di Roma: la stessa restaurazione del
potere temporale avvenne, contrariamente ai desideri di Pio IX,
con il concorso determinante della Francia, con cui i rapporti continuarono peraltro a restare problematici, a causa della politica
ecclesiastica di Napoleone III. Non si può però parlare di totale
appiattimento della Santa Sede sulle posizioni austriache: la svolta
di Pio IX non aveva carattere legittimista, di mero ritorno agli
equilibri pre-quarantotteschi. In quegli anni maturò piuttosto la
scelta intransigente che avrebbe segnato il resto del suo lungo pontificato.
152
Slancio missionario, sentimento nazionale e Chiese particolari
In questo contesto si inserì l’opera missionaria di mons. Ramazzotti. Il suo sforzo paziente e tenace ha radici lontane, anzitutto nella sua stessa personale vocazione missionaria, che egli
non seguì, in obbedienza alla volontà dei superiori, ma che continuò certamente a influire sui suoi orientamenti 25. Questa sua
personale propensione lo rese sensibile ad analoghe vocazioni
missionarie che si manifestarono in giovani sacerdoti della diocesi di Milano, da lui conosciuti personalmente o di cui ebbe
notizia attraverso altri. La presenza di tali vocazioni attesta che
la sensibilità missionaria, sempre più diffusa nel corso del XIX
secolo, era giunta anche in Lombardia e qui si faceva sentire vivacemente, tanto che tra il 1845 e il 1846 «assistiamo ad una
vera ventata di ideale missionario causato [...] da un gruppo di
chierici del seminario di Milano e da alcuni giovani sacerdoti di
Milano e di Lodi» 26. Non si trattava di un caso isolato: erano
allora diffusi lo «zelo d’estendere oltre i mari e nelle più remote
contrade il Regno di Dio» 27, la «carità che si slancia oltre i mari,
oltre quell’emisfero» 28, per usare espressioni allora frequenti 29.
Insomma, come si legge nella Proposta di alcune massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere, scritta nel 1850 durante i
primi mesi di vita del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, «non è cosa nuova né rara tra noi il voto delle Missioni Estere, anzi ogni anno può dirsi che qualche pia e generosa anima,
tra quelle educate nei Seminari di queste nostre Diocesi, facesse
di per sé offerta a Dio, desiderosa di dedicarsi alla dilatazione
del Santo suo Regno colle missioni tra gli infedeli» 30.
Emergeva allora quella che Ramazzotti definì una «universale» aspirazione ad impegnarsi per la missione «fuori dalla Chiesa»
SUIGO, Pio IX, cit., pp. 38-39.
Ibid., p. 19.
27
COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, cit., p. 63.
28
Ibid., p. 68.
29
Ibid., p. 139.
30
Ibid., pp. 137-138.
25
26
153
– l’espressione coincideva in pratica con «fuori dall’Europa», fuori cioè dalla terra della cristianità – tra quelli che venivano chiamati stranieri, infedeli, pagani e talvolta anche selvaggi. Su questo
risveglio di interesse influì certamente l’opera della Propagation
de la Foi e l’esempio delle nuove congregazioni missionarie sorte
in Francia, oltre ad una serie di iniziative – seppure complessivamente sfortunate – maturate in Italia negli anni precedenti. È nota,
inoltre, la particolare importanza rivestita da alcune figure, come
quella di padre Lorenzo Marcello Supriès, già missionario del MEP
a Pondichéry (India). A lui si rivolse un gruppo di giovani sacerdoti lombardi che avrebbero voluto «unirsi in una congregazione
intitolata a San Francesco Saverio», ma che, nell’impossibilità di
fondare a Milano una nuova congregazione, si proponevano comunque di andare in un paese di missione, preferibilmente in Micronesia. Essi speravano in una iniziativa che «possa dirsi missione milanese, oppure lombarda: e ciò per motivi che sembravano a
loro fortissimi, tra i quali l’interessare l’amor della provincia a sostenerla, favorirla e procurarle sempre nuovi aiuti di missionari e
di soccorsi temporali, il che forse non accadrebbe se fossero mescolati a missionari di altre nazioni, oppure se non si tenessero
riuniti nelle stesse contrade». Quei giovani erano anche convinti
che, favorendo la formazione di una comunità missionaria tutta
lombarda e perciò animata da uno spirito di unione e di pace, si
potesse sviluppare «un’attrattiva fortissima per indurre altri lombardi ad unirsi a loro». Anche la preferenza per la Micronesia
aveva qualche legame con quest’ottica lombarda: tale preferenza
nasceva da un suggerimento di padre Supriès, che ricordava tra
l’altro come in Micronesia il milanese padre Cantona avesse conosciuto il martirio nel 1731 31.
Il legame con la Lombardia costituisce dunque un tratto caratterizzante di questo progetto missionario fin dall’inizio. Tale carattere venne accolto ma anche perfezionato da mons. Ramazzotti. Egli infatti rispettò l’intuizione iniziale di realizzare qualcosa di
diverso da una congregazione missionaria e accolse anche l’idea
31
154
Ibid., p. 107.
di radicarla nel contesto milanese e lombardo, ma accentuò il senso ecclesiale di questo legame.
Nelle intenzioni di quei giovani sacerdoti, il carattere lombardo della nuova iniziativa non esprimeva limitatezza di orizzonti o
visuali provinciali, come dimostra proprio l’intenso amore da essi
manifestato per le missioni. Piuttosto, essi riflettevano un clima
culturale e politico intensamente segnato da un senso di nazionalità sempre più diffuso e sempre più rilevante anche sul piano delle relazioni internazionali: pochi anni dopo, il sentimento nazionalistico sarebbe emerso in primo piano in tutt’Europa dando vita
ai noti sconvolgimenti del 1848. Anche la Chiesa dovette in quegli
anni misurarsi con le novità indotte al suo interno dalla «primavera dei popoli»: nel vivace clima di quegli anni, appassionate istanze di rinnovamento religioso si intrecciavano con problemi inediti
nelle relazioni con Stati e opinioni pubbliche e, soprattutto, nei
rapporti tra universalità e particolarità o tra papa e vescovi all’interno dell’istituzione ecclesiastica.
L’atmosfera di quegli anni influì anche in campo missionario:
la diffusione del sentimento nazionale e di spinte patriottiche
accompagnò e favorì il risveglio dello spirito missionario, come
sottolinea Piero Gheddo nel volume sui 150 anni del PIME. Il
legame tra queste due prospettive di natura assai diversa fu talvolta molto stretto e si manifestò anche in numerosi scritti dell’epoca. È il caso ad esempio del noto Primato degli italiani, in
cui Gioberti fondava tale «primato» su basi morali collegandolo
alla presenza di Roma sul suolo italiano, alla funzione universale
del papato e all’azione missionaria coordinata da Propaganda
Fide. Il legame tra sentimento nazionale e spinta missionaria può
apparire oggi piuttosto singolare, ma va considerato in relazione
al desiderio, emergente nella società civile dell’Italia di metà
Ottocento, di realizzare una più esplicita proiezione internazionale della propria identità nazionale. Il sentimento patriottico
che esprimeva tale aspirazione si traduceva anzitutto nel progetto di costruire un nuovo Stato nazionale sovrano, «alla pari» di
altri Stati europei e come questi interessato anche a prospettive
extraeuropee, ma si esprimeva indirettamente anche sul piano
religioso attraverso un più vivo senso delle Chiese particolari –
155
attestato dall’ecclesiologia dell’epoca e presente anche in Rosmini 32 – e favoriva lo slancio missionario di queste Chiese presso popoli lontani. Oggi è difficile immaginarsi collegamenti tra
sentimento nazionale e impegno internazionale o, addirittura,
tra sentimento nazionale e slancio missionario; ma questo sentimento rappresenta una realtà complessa, che cambia nel tempo:
la sua forma prevalente in età romantica aveva caratteristiche
dinamiche e proiezioni assenti nelle sue espressioni più recenti.
A metà Ottocento, tuttavia, il collegamento tra sentimento
patriottico e slancio missionario poneva anche problemi di difficile soluzione: mentre veniva declinando l’antico sistema del padroado – legato alle grandi potenze coloniali del XVII e XVIII secolo,
come Spagna e Portogallo – emergeva un interesse sempre più
accentuato degli Stati nazionali, in particolare della Francia, a sostenere ma anche ad utilizzare le missioni cattoliche in una prospettiva di espansione della propria potenza nel mondo. I problemi che ne scaturivano hanno costituito una delle ragioni più rilevanti, ma forse anche meno indagate, del conflitto che nel XIX
secolo ha opposto la Chiesa – sempre più influenzata da tendenze
ultramontane e sempre più organizzata secondo principi centralistici – alle pretese degli Stati nazionali europei. Si tratta di problemi non facilmente visibili dal punto di vista delle Chiese particolari, presso le quali sentimento nazionale e interessi religiosi potevano apparire più facilmente componibili. Tali problemi, invece,
emergevano con chiarezza a Roma, dove essi venivano considerati
all’interno di un quadro d’insieme sempre più esteso, come attestano l’intenso dibattito su questi temi che si svolse presso la Congregazione di Propaganda Fide e la complessa «politica missionaria» che questa congregazione adottò durante il pontificato di Pio
IX.
L’iniziativa dei giovani sacerdoti milanesi che si recarono da
padre Supriès si collocava nel contesto di una Lombardia sospesa
tra perduranti legami con Vienna e nuove prospettive italiane. È
32
Di Rosmini parlò Pio IX a due giovani sacerdoti del Seminario delle Missioni Estere, sottolineando il pericolo dell’elezione dei vescovi da parte del popolo. Cfr. ibid., p. 139.
156
indubbiamente significativo che tra quanti avvertivano allora l’urgenza dell’impegno missionario e tra coloro che sarebbero poi
entrati per primi nel nuovo Seminario per le Missioni Estere emergessero sentimenti filoitaliani 33: in quest’humus fiorì quell’iniziativa missionaria. Padre Supriès trasmise la richiesta di questi giovani sacerdoti a Propaganda e nel maggio 1846 – ancora regnante
Gregorio XVI – il card. Franzoni rispose consigliando loro di mettersi sotto la guida di un vescovo missionario, non essendo disponibile una missione in Micronesia. Questa risposta però, facendo
venire meno quella caratteristica dimensione «lombarda» che era
a fondamento del progetto, implicava la dispersione del gruppo e
quindi il fallimento dell’iniziativa prima ancora che avesse inizio.
Tale esito mise in evidenza che l’idea avrebbe potuto avere ulteriori sviluppi solo se fosse stata ripresa e mantenuta la dimensione
specificamente lombarda. È quanto intuì mons. Ramazzotti, entrando in contatto con questi giovani che aspiravano ad andare in
missione, come Paolo Reina di Saronno 34.
Dopo il decisivo incontro del novembre 1847 con mons. Luquet,
venuto a Milano per comunicare a mons. Romilli il desiderio di Pio
IX che si creasse il seminario per le Missioni Estere, mons. Ramazzotti decise di impegnarsi concretamente per la realizzazione di questa
iniziativa 35 e in questa prospettiva sviluppò una riflessione sul legame con il contesto milanese e lombardo che questa avrebbe dovuto
avere. Tentando di superare la naturale resistenza dei vescovi e delle diocesi a «perdere» loro sacerdoti, egli approfondì in particolare
l’idea del «debito» missionario di ogni Chiesa particolare. In un
appunto di padre Taglioretti la fondazione del Seminario per le
Missioni Estere viene motivata con l’affermazione che «per la conversione degli infedeli e la propagazione della Fede, ciascuna parte
del mondo Cristiano deve fornire, quasi direbbesi, il suo contingente di milizia apostolica» 36. E nella Proposta di alcune massime e norCfr. SUIGO, Pio IX, cit., pp. 41 segg.
Ibid., p. 40.
35
Ibid., p. 47. Su Luquet, cfr. Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli
Ramazzotti positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis, Roma 1999, p. 107.
36
COLOMBO (a cura), Pime. Documenti, cit., p. 47.
33
34
157
me per l’Istituto delle Missioni Estere si sostiene che «è interesse di
ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale e che
ciascuna delle Diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica» 37.
Questo debito e questo interesse comportavano la responsabilità dei vescovi di favorire vocazioni missionarie tra i sacerdoti
diocesani. Nel promemoria fatto pervenire a Pio IX nel 1850, si
legge che la casa per le missioni estere avrebbe potuto «essere
cagione di moltissimi beni non solo per i gravi bisogni delle straniere Missioni, come altresì per accendere di più vivo zelo gli animi degli ecclesiastici, ai quali si aprirebbe così una nuova via di
perfezionarsi e di sacrificarsi in pro delle anime» 38. In realtà, queste vocazioni si manifestavano già, ma spesso esse non riuscivano
a giungere a buon fine, per l’impreparazione di coloro che si recavano tra gli infedeli o per mancanza di adeguata assistenza. Di
qui, l’obbligo per i vescovi non solo di favorire ma anche di curare
tali vocazioni e di fornire una adeguata preparazione ai missionari: nella citata proposta, il Seminario per le Missioni Estere viene
presentato come iniziativa promossa dai vescovi lombardi per provvedere a tale esigenza 39.
Quest’insieme di considerazioni implicava anche una riflessione specifica sul ruolo dei singoli vescovi e dell’episcopato nel suo
complesso nella missione ad gentes. Nella Proposta di alcune massime e norme per il nascente seminario, è presente il motivo iniziale che aveva spinto i giovani interlocutori di padre Supriès ad enfatizzare il carattere specificamente lombardo della nuova iniziativa. Vi si legge infatti: «queste spedizioni diocesane e provinciali
stabilirebbero un vincolo tra le Chiese native dei Missionari e quelle
che il loro zelo benedetto da Dio verrebbe a formare nelle popolazioni convertite e dovrebbe risultarne un impegno delle nostre
Diocesi e province e proteggere gli interessi di quelle Chiese, le
quali si raccomanderebbero a noi coi dolci titoli di una quasi parentela spirituale».
Ibid., p. 139.
Ibid., p. 74.
39
Ibid., p. 138.
37
38
158
Ma questo motivo appare ora inquadrato all’interno di una argomentazione più vasta. Vi si parla infatti di «santa cospirazione del
nostro Episcopato col Padre Universale dei Fedeli nella grande opera
della conversione delle genti» e di «attiva cooperazione dei Vescovi
alla propagazione del Vangelo» partecipando all’opera del «Supremo Capo» della Chiesa universale, diversa da quella delle «corporazioni religiose» e ancora più importante perché proveniente da
«quelli che sono con Lui e sotto di Lui per divina istituzione più
direttamente incaricati di continuare l’opera affidata agli apostoli,
di istruire nella fede e di convertire le nazioni» 40. La responsabilità
missionaria enfatizza il ruolo dei vescovi nella Chiesa universale, ma
sempre in comunione con il papa e sotto la sua guida, e induce allo
sviluppo di nuove forme di cooperazione episcopale: il Seminario
per le Missioni Estere fu ad esempio motivo di una riunione collegiale dell’episcopato lombardo, di cui Marinoni sottolineò l’importanza 41. Siamo nella prospettiva poi sancita dal Vaticano I, che sul
terreno missionario diede spazio alla dimensione della collegialità
episcopale. Come infatti sottolineò allora il prefetto di Propaganda,
il card. Alessandro Barnabò, «la cura di evangelizzare il mondo intero essendo stata affidata all’intero episcopato, il quale come corpo deve avere un capo, che è il Romano Pontefice, l’episcopato collettivamente preso può a buon diritto interloquire sulle missioni» 42.
Questi principi sono stati poi ripresi e ribaditi, com’è noto, anche
dal Vaticano II 43.
Mons. Ramazzotti, insomma, seppe accogliere ed interpretare
lo spirito del tempo, utilizzando l’apporto positivo che ne poteva
venire per la missione ad gentes. Egli però si preoccupò di collocare la spinta dei tempi entro un quadro totalmente ecclesiale, anche attraverso un’attenta opera di definizione giuridica della fisionomia del nuovo seminario. Il coinvolgimento delle Chiese particolari nella missione ad gentes – un’importante novità nella storia
Ibid., pp. 139-140.
Ibid., p. 203.
42
J. METZLER, Dalle missioni alle Chiese locali (1846-1965), Edizioni Paoline,
Cinisello Balsamo 1990, p. 67.
43
SUIGO, Pio IX, cit., p. 129.
40
41
159
della Chiesa cattolica degli ultimi secoli – fu inoltre da lui strettamente collegato e subordinato alle prospettive missionarie della
Chiesa universale elaborate a Roma.
Il Seminario per le Missioni Estere tra Vienna e Roma
L’ampia visione ecclesiologica che ispirò il progetto di mons.
Ramazzotti non concedeva nulla alle Chiese particolari in termini
di iniziativa missionaria autonoma rispetto alle direttive del papa
e di Propaganda Fide. Nella Proposta del 1850 si legge infatti che
«l’Istituto dipende in primo luogo e di sua natura dev’essere intieramente ed assolutamente subordinato al Sommo Pontefice ed
alla Sacra Congregazione di Propaganda».
Questa netta affermazione riflette l’elaborazione compiuta da
mons. Ramazzotti tra il 1847 e il 1849 mentre, dopo le «cinque
giornate», l’incalzare degli eventi politico-militari gli impediva di
metter mano concretamente al suo progetto. Il primo direttore
del seminario, mons. Marinoni, ha raccontato la missione a Milano di mons. Luquet nel novembre 1847, scrivendo che in quell’occasione Pio IX fece «sentire quanto caro gli sarebbe tornato
che il clero numeroso di queste province [...] e quella eletta schiera di buoni d’ogni ceto e condizione che tanto onorano la patria
nostra, prendessero parte ad un’opera di tanta pietà, qual si è la
conversione degli infedeli» 44. Nel 1847, dunque, almeno secondo
questa ricostruzione, Pio IX puntava sui vescovi e sulle Chiese
particolari sulla Lombardia – forse anche sulle risorse della società lombarda – per sviluppare la missione ad gentes. Fin da allora il
papa intendeva giungere alla realizzazione di un seminario «universale» per le missioni estere, un progetto ripreso più tardi dallo
stesso mons. Ramazzotti e oggetto di uno studio specifico nel
1853 45. Ma, nell’immediato, la visita di mons. Luquet favorì anzitutto la ripresa dei progetti per un’iniziativa specificamente lombarda.
44
45
160
Ibid., p. 49.
Ibid., pp. 51 e 109.
È inoltre significativo che allora, secondo quanto scrisse mons.
Luquet in una lettera del gennaio 1848 ai dirigenti de la Propagation de la Foi, mons. Ramazzotti abbia espresso «non solamente
un grande zelo per l’opera de la Propagation de la Foi in generale,
ma anche la convinzione profonda della necessità di collegarsi a
Lione e di fare un’opera unica come voi desiderate in Francia e
come è intenzione formale degli associati d’Italia, che non ne vogliono sapere di inviare i loro fondi in Austria» 46.
Questa osservazione sembra indicare in Ramazzotti una certa
attenzione verso il ruolo del mondo francese in campo missionario. Dopo le «cinque giornate», tuttavia, il suo comportamento fu
apprezzato dal governo provvisorio di Milano, ma non dispiacque
neanche al governo di Vienna: non si spiegherebbe altrimenti la
sua nomina, alla fine del 1849, a vescovo di Pavia da parte dell’imperatore Francesco Giuseppe 47. Forse, ciò che più interessava allora a Ramazzotti era salvaguardare le «energie lombarde», per
così dire, che si erano messe in movimento, indipendentemente
da quelli che sarebbero potuti essere i destini politici finali di Milano e della Lombardia.
Dopo gli eventi del 1848-1849, la necessità di tener conto della volontà di Vienna divenne evidente. Sono note le attenzioni verso questo governo mostrate da mons. Ramazzotti nel corso della
sua fatica, attenzioni che hanno destato non poca sorpresa in un
uomo generalmente alieno da interessi politici 48 e oltretutto circondato da giovani inclini a sentimenti filoitaliani 49. In realtà, l’attenzione agli interessi austriaci si radica in ragioni più profonde,
collegate alla nuova opera che egli si proponeva di realizzare.
Già il progetto iniziale dei giovani sacerdoti lombardi desiderosi di dedicarsi alle missioni ad gentes escludeva la fondazione di una nuova congregazione missionaria, per il veto posto dalle
autorità politiche 50. In questo senso, si può parlare di un conIbid., p. 50.
Ibid., p. 59.
48
Nel 1848-1849 la sua opera fu apprezzata sia dal Governo provvisorio che
dagli austriaci, ibid., pp. 53-54.
49
Ibid., p. 55.
50
Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio cit., p. 105.
46
47
161
dizionamento iniziale del potere austriaco, che tuttavia svolse a
suo modo una funzione positiva: obbligò infatti a cercare una strada
nuova ed originale. Successivamente, il problema si ripresentò
quando Ramazzotti decise di passare all’azione. Egli sentì inizialmente la mancanza di istituti stranieri e «i pericoli d’una via straordinaria senza straordinario apparecchio» 51 e fu consigliato da
padre Supriès e da altri ad affiliare il nuovo seminario agli Oblati
di Rho 52. L’ipotesi di creare una nuova congregazione missionaria
era in rebus, ma Ramazzotti abbandonò presto quest’ipotesi. Secondo Scurati, ritenne più opportuno non costituire il Seminario
delle Missioni Estere dipendente dagli Oblati per non intristirlo
appena nato 53. Suigo a sua volta scrive che per Ramazzotti la nuova fondazione doveva avere fisionomia propria e previde che sarebbero scaturiti conflitti con Propaganda 54. Ma questo autore
aggiunge anche che egli previde l’opposizione del governo austriaco 55: il peso dell’Austria sulle modalità di attuazione della nuova
iniziativa missionaria venne assunto e in qualche modo utilizzato
da mons. Ramazzotti nell’elaborazione del suo ampio progetto.
Da parte austriaca, si guardò inizialmente con sospetto alla
nuova iniziativa che scaturiva da un mondo, quello della Chiesa
milanese, considerato filoitaliano 56. Ramazzotti si preoccupò di
rimuovere questi sospetti e in una lettera a padre Molteni, superiore degli Oblati di Rho, nel novembre 1849 scriveva: «Il Governo dovrebbe trovare opportuna ai suoi interessi la fondazione di
una Casa per le Missioni estere [...] Mi permetta di presentarne
una prova in ciò che ho letto sulla Storia generale della Chiesa del
Barone Henrion [...]: “Per lo meno è fuori di dubbio che l’Inghilterra vide con una gioia che non si studiò neanche di dissimulare
la sua rivale [la Francia] privarsi da sé dei suoi vantaggi immensi
che ritraeva dalle Missioni dei gesuiti in America e nelle Indie e si
Ibid., p. 106.
SUIGO, Pio IX, cit., pp. 61 e 112.
53
Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 110.
54
SUIGO, Pio IX, cit., p. 88 nota 28.
55
Ibid., p. 114.
56
Ibid., p. 56.
51
52
162
può dire di fatto che dopo rovina delle Missioni la potenza Francese in quelle contrade andò sempre declinando”» 57.
In questa prospettiva, Ramazzotti preparò un testo che poi Romilli trasmise all’autorità austriaca, in cui si sottolineava:
La novità e affatto speciale importanza di siffatta impresa consiste in
ciò, che si avrebbe una casa diocesana di Missionari dipendente dal
proprio Vescovo. Non sarebbero quindi alcuni sacerdoti (come avveniva in passato) che per dedicarsi alle missioni estere si staccano
dalla propria Diocesi e dal paese proprio, cercando altrove l’educazione a sì sublime ministero, ed aggregandosi perciò a qualche famiglia o a qualche estero Istituto [...] senza bisogno di abbandonare la
propria patria e la propria Diocesi. [...] La progettata Casa di Missioni estere [...] presenterebbe anche un grande interesse nei rapporti
politici e asseconderebbe le generose intenzioni dell’Augusto nostro
Sovrano e del suo Eccelso Ministero. Sarebbe infatti questo un principio di Missioni estere nazionali che coprendo in lontane regioni
sotto la protezione della bandiera austriaca la renderebbe anche colà
più rispettosa e cara, dividendosi così colle altre nazioni, e principalmente colla Francese, quell’alta influenza morale-politica che indubbiamente esercitano cotali Missioni 58.
La risposta da parte del luogotenente austriaco manifestava le
perplessità di Radetzky sugli scopi dell’iniziativa e sui legami che
avrebbe avuto con gli Oblati di Rho 59: si temeva che il nuovo istituto fosse un «covo» antiaustriaco 60. La risposta preparata da Ramazzotti insisteva sulla conformità con le intenzioni del papa e di
Propaganda e sottolineava la totale indipendenza del nuovo seminario rispetto agli Oblati di Rho 61. Passato un certo tempo, il governo austriaco diede il suo pieno 62 consenso all’iniziativa: il luogotenente Schwazemberg manifestò «l’assicurazione del più vivo
interesse per il prosperamento dell’Istituto [...] che prometterebCOLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti cit., p. 56.
Ibid., pp. 83-85. Taglioretti critica queste aperture: ibid., p. 91.
59
SUIGO, Pio IX, cit., p. 89.
60
Ibid., p. 106.
61
Ibid., p. 90.
62
Lo sottolinea Marinoni: ivi, p. 108.
57
58
163
be tanto bene per la Chiesa e per lo Stato», esprimendo tra l’altro
la previsione che sarebbero state offerte «ad essa Congregazione
quelle rilevanti somme che ora si spediscono ad altri consimili istituti all’estero» 63.
I cenni agli interessi austriaci sembrano indicare in Ramazzotti
la consapevolezza della situazione creatasi tra il 1848 e il 1849 e
dei gravi problemi che si ponevano allora alla Chiesa cattolica,
condizionata dall’«aiuto» imposto dalla Francia in tanti campi allo
scopo di influenzare l’universalismo cattolico in senso conforme
ai suoi interessi. I vincoli posti dalle autorità austriache contribuirono ad accentuare la scelta di mettere l’istituto alla diretta dipendenza dei vescovi lombardi, escludendo del tutto qualunque
«esenzione» tipica di una congregazione religiosa. Le regole dovevano mettere in chiaro che non si trattava di un ordine religioso
(di qui l’esigenza di non fare voti neanche temporanei 64): i seminaristi restavano incardinati nelle rispettive diocesi 65. Per ogni cosa,
il riferimento era ai vescovi: l’atto formale di erezione fu compiuto da parte dei vescovi lombardi e le regole vennero a loro sottoposte. È significativo che in un documento per il governo austriaco si giunga ad usare l’espressione «appendice del seminario vescovile» per indicare il nuovo Seminario delle Missioni Estere.
Ai vescovi veniva anche affidata la responsabilità di tenere le
relazioni con Roma. Nel promemoria per il papa si parla della
missione assegnata da Propaganda a cui si chiederebbero anche le
norme per i corsi di studio e per la formazione in genere. Si affermava: «faremo più esplicita professione che non vogliamo dare
nulla ai vescovi che sia incompatibile colle attribuzioni dell’Autorità suprema». Il superiore, nominato dai vescovi, doveva essere
approvato da Propaganda e anche la destinazione dei missionari
doveva essere scelta da quest’ultima. L’approvazione del papa comunicata dal card. Fransoni parla di «erezione di un collegio con
la dipendenza e in servizio di Propaganda» 66.
COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti, cit., p. 130.
Ivi, pp. 114 e 115.
65
Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 136.
66
SUIGO, Pio IX, cit., p. 81.
63
64
164
È evidente l’attenzione di mons. Ramazzotti nel curare il collegamento tra dimensione universale del cattolicesimo e concreta
azione missionaria, tra indicazioni romane e Seminario Lombardo per le Missioni Estere. È quanto emerge chiaramente dalla già
citata Proposta. Permettere ai sacerdoti diocesani la scelta missionaria come via di perfezionamento spirituale, suscitare vocazioni
missionarie, curare la loro formazione e assisterli nel loro impegno costituiva per Ramazzotti compito delle Chiese particolari della
Lombardia e in particolare responsabilità dei vescovi; ricevere le
facoltà opportune, sanzionare in via definitiva il regolamento del
seminario, stabilire il luogo di missione e fornire ai missionari le
necessarie «patenti» spettava invece a Propaganda. Il seminario
da lui fondato ha dunque una duplice natura: da una parte diocesana, o meglio provinciale, nel senso di essere al servizio di più
diocesi della stessa provincia ecclesiastica; dall’altra universale.
Mons. Ramazzotti si adoperò con grande sensibilità ecclesiale e
giuridica per armonizzare questa duplice natura e per impedire la
formazione di contrasti.
Era però inevitabile che potessero emergere differenze tra le
diverse volontà che egli aveva cercato di raccogliere in un’unica
realizzazione. È quanto si verifica nella questione della destinazione dei nuovi missionari. La preferenza per la Micronesia, presente
fin dall’inizio, fu riproposta nel momento dell’apertura del seminario a Propaganda 67, a cui fu comunque chiesto di pronunciarsi
perché in base al luogo di destinazione potesse essere meglio organizzata la preparazione dei futuri missionari. Lingua, cultura,
clima ed altro costituiscono infatti variabili decisive, che possono
richiedere tipi di preparazione molto diversi. Propaganda tuttavia
non dette immediata risposta, mentre sollecitava Ramazzotti a procurare uno o due sacerdoti per l’ufficio di procuratore di Propaganda in Hong Kong per le missioni in Cina e di prefetto apostolico dell’isola. Intanto, Marinoni chiedeva ai vescovi di insistere
per la destinazione, con preferenza degli alunni per la Micronesia,
ottenendone l’assenso 68.
67
68
Ibid., p. 91.
Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 135.
165
Nel luglio 1851, per definire operativamente la destinazione,
fu inviata a Roma una delegazione a cui il papa espresse il desiderio di avere in Roma un seminario o collegio per le missioni a sua
piena disposizione, accennando nello stesso contesto all’isola di
Corfù (Grecia). Nello stesso senso si espresse il breve del 30 agosto 69. Nel marzo 1852 il card. Fransoni fissò le prime partenze,
mentre i preparativi del febbraio ’53 furono bloccati da Propaganda 70: i problemi non sono ancora risolti e una sorta di tempesta sembra addensarsi su tutta l’opera 71. Il promemoria del 1853
ribadì però la piena subordinazione alle indicazioni romane e nell’udienza concessa dal papa a mons. Ramazzotti il 29 settembre
’53 tutte le tensioni vennero appianate. Pio IX si accontentò dell’offerta di obbedienza assoluta e rinunciò ad insistere su Corfù: la
via verso l’Oriente era definitivamente aperta.
Ibid., p. 138 e SUIGO, Pio IX, cit., pp. 137, 140 e 141.
Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 140.
71
Ibid., p. 141.
69
70
166
EVOLUZIONE E ATTUALITÀ DEL CARISMA DEL PIME
di Domenico Colombo
Premessa
Il carisma può essere riferito, con significati diversi ma in relazione tra loro, al fondatore, alla fondazione originaria, all’istituto
come si presenta oggi, dopo 150 anni di storia. È chiaro che il
titolo dato a questo capitolo chiama in causa direttamente il terzo
significato, ma esso non può prescindere dagli altri due. Inoltre il
carisma, sia di mons. Angelo Ramazzotti come fondatore, sia quello
originario della fondazione, cioè del Seminario Lombardo per le
Missioni Estere, resta un punto necessario di partenza per comprendere l’evoluzione e l’identità del carisma dell’istituto che dal
1926, in seguito all’unione con il Pontificio Seminario dei Santi
Apostoli Pietro e Paolo di Roma, porta il nome di Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME).
Da aggiungere una motivazione di evidente peso: questo volume è tutto centrato sulla figura e l’opera di mons. Ramazzotti.
Non si può prescindere da lui perciò, e a maggior ragione trattando dell’istituzione che trova alla propria origine la fondazione a
lui dovuta. Così il mio discorso si articolerà nelle seguenti tre
parti:
I. Mons. Ramazzotti come fondatore.
II. Identità della fondazione o carisma originario.
III. Evoluzione e attualità del carisma dell’istituto.
Padre Domenico Colombo è bibliotecario della casa generalizia del PIME
a Roma. Cura le pubblicazioni «Infor-Pime» e «Quaderni di Infor-Pime»,
inoltre collabora con diverse riviste missionarie. Ha recentemente curato la
pubblicazione PIME (1850-2000). Documenti di fondazione.
167
Una precisazione previa richiederebbe pure il termine «carisma» nella sua applicazione agli istituti e ai loro fondatori. Il problema è complesso e oggetto di non poche discussioni in cui emergono opinioni differenti. Al riguardo basti qui ricordare alcuni
punti importanti in connessione al nostro tema.
«Carisma» designa in generale un dono di Dio. L’odierna teologia lo definisce un dono soprannaturale dello Spirito, dato in
vista dell’utilità o comunque dell’edificazione della Chiesa. L’applicazione del termine agli istituti è un fatto piuttosto recente,
avvenuto nel post-concilio. Il Vaticano II, parlando della vita e
delle famiglie religiose, ne attribuisce l’origine all’impulso dello
Spirito, pur non usando il termine «carisma». Un’eccezione si
può vedere nel decreto Ad Gentes n. 23 che, trattando della vocazione degli istituti missionari, ne afferma la provenienza dallo
Spirito «che – dice – distribuisce come vuole i suoi carismi per il
bene delle anime». Ma nel periodo post-conciliare l’uso del termine in riferimento agli istituti è divenuto comune nei documenti
ecclesiali e ha suscitato un’ampia riflessione teologica per approfondirne senso, natura, contenuto, distinzioni e aspetti vari.
Ne farò qualche cenno quando sarà opportuno per il caso nostro 1.
Mons. Ramazzotti come fondatore
a) Il problema
Chiedersi se mons. Angelo Ramazzotti fu fondatore del Seminario Lombardo per le Missioni Estere suona oggi irriverente e
antistorico, dopo gli studi e gli scritti di padre G.B. Tragella. E si
può provare un po’ d’imbarazzo anche quando si parla, non solo
1
Su carisma, fondatori, istituti esiste un’ampia bibliografia. Si veda, fra gli
altri: FABIO CIARDI, I Fondatori, uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma
di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982; ID., In ascolto dello Spirito. Ermeneutica
del carisma dei Fondatori, Città Nuova, Roma 1996.
168
dell’istituzione missionaria lombarda, ma di istituto o di PIME.
La questione merita d’essere presa in considerazione perché aiuta
a capire come mai la figura di Ramazzotti sia stata nel passato
alquanto dimenticata nel nostro stesso istituto.
Nell’agosto del 1956 appariva su «Il Vincolo», la rivista ufficiale interna del PIME, un articolo sul fondatore dell’istituto. L’autore, a firma M.M., pone una serie di obiezioni e difficoltà a chiamare Ramazzotti «fondatore», attingendole dagli stessi eventi e
documenti relativi alla fondazione. In breve: Ramazzotti non fondò da solo il seminario, la cui idea non gli apparteneva in proprio;
verso lo stesso traguardo si muovevano molte personalità di primo piano come Pio IX, l’arcivescovo di Milano Romilli, l’oblato
Taglioretti, il certosino Supriès, il primo direttore mons. Marinoni; il documento di erezione ufficiale porta la firma dei vescovi
lombardi; non va neppure dimenticata la parte che nella fondazione ebbero i primi alunni; inoltre in libri e periodici dell’istituto
si parla spesso di «fondatori» al plurale, ecc. Alla fine, M.M. esprime il desiderio che «venga dichiarato in modo definitivo il nome
del fondatore dell’Istituto».
Padre Tragella risponde che molti vocaboli, come «fondatore», hanno un senso stretto e un senso largo; che nelle imprese
umane parecchie persone possono concorrere in vario modo per
la loro concezione e attuazione, ma conta chi manda a effetto
un’idea, in modo che senza di lui non si sarebbe realizzata, almeno in quel certo tempo e modo. Ramazzotti ha svolto un’azione
propria e specifica che gli merita la qualifica di fondatore in senso
stretto e unico. Ciò è ormai scritto nella storia, e non c’è bisogno
di doverlo dichiarare 2.
Nel numero seguente de «Il Vincolo» un anonimo torna alla
carica, appellandosi anch’egli alla vicenda complessa della nostra
fondazione e alle diverse espressioni dei documenti. E perfino,
possiamo aggiungere, alle lapidi. Sotto il porticato della casa madre di Milano ci sono due lapidi, collocate nel 1956, di cui una
parla di Ramazzotti come «ideatore e iniziatore del primo cenaco2
«Il Vincolo», n. 63, agosto 1956, pp. 14-15.
169
lo missionario italiano», e l’altra esalta Pio IX e Pio XI (sotto cui
avvenne l’unione dei seminari missionari di Milano e di Roma)
come «fondatori e padri» del Pontificio Istituto Missioni Estere 3.
Ancora una volta bisogna distinguere i diversi sensi delle parole e
i diversi oggetti considerati, per cui si può ben dire che il PIME
nasce nel 1926 formalmente, e conta tuttavia 150 anni di vita risalendo alle sue origini.
b) L’opera di fondatore
Ma qual è stata l’azione concreta e propria di mons. Ramazzotti in ordine alla fondazione del Seminario Lombardo per le
Missioni Estere? C’è anzitutto un fatto che l’ha preparato alla
futura impresa. Fin da giovane Ramazzotti sente il desiderio di
consacrarsi alle missioni tra gli «infedeli» e ancora da sacerdote
cerca di soddisfarvi, come nota Scurati. Direttori spirituali e superiori lo dissuadono. «Il buon giovane s’acquietò alla volontà
del Signore; ma il desiderio di questo bene non estinto, fu seme
nascosto sotto terra: quando Dio mandò la pioggia, germinò e
crebbe». Scurati vuol dire che Ramazzotti, il quale era pure un
lettore appassionato degli «Annali della Propagazione della Fede»
e della vita e degli scritti di san Francesco Saverio, cominciò a
pensare di tradurre l’inclinazione personale alle missioni in una
istituzione per preti diocesani missionari, di cui da tempo si sentiva il bisogno 4.
A questa decisione giunse attraverso eventi in cui lesse un’ispirazione di Dio. Il primo chiaro segno arriva nel novembre 1847
con mons. Luquet, già missionario e vescovo in India, inviato da
Pio IX in Svizzera per un’opera di pacificazione, con l’incarico di
far sosta a Milano per esprimere all’arcivescovo Romilli il desiderio del papa di veder sorgere un seminario per le missioni estere
«Il Vincolo», n. 64, gennaio 1957, p. 9.
DOMENICO COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione,
EMI, Bologna 2000, p. 14.
3
4
170
sul tipo di quello di Parigi. Luquet trova l’arcivescovo dagli Oblati di Rho, intento agli esercizi spirituali, e così il suo messaggio
giunge a Ramazzotti, allora superiore del Collegio degli Oblati.
Uno sprazzo di luce. Scurati nota che don Angelo «approfittò dell’occasione per rendere meno ridicola (son sue parole) la premura
di formare questo Seminario» 5.
Gli eventi politici del Lombardo-Veneto e di Roma bloccano
ogni iniziativa per due anni e poi riprendono a ritmo serrato
dall’11 novembre 1849, e il protagonista è proprio Ramazzotti.
A lui Supriès, già missionario MEP e ora vicario della certosa di
Pavia dove i sacerdoti aspiranti alle missioni si danno appuntamento, dice adesso chiaro e tondo che deve assumere la direzione dell’impresa. Lui, spinto da padre Molteni, superiore generale di tutti gli Oblati, e da mons. Romilli, a nome di questi stende
la supplica in cui si parla del «progetto di mons. Ramazzotti Vescovo nominato di Pavia», e che il canonico Bertinelli inoltra a
Pio IX il quale l’approva il 26 febbraio del 1850. È lui che contatta i vescovi lombardi nella primavera dello stesso anno, per
metterli al corrente di questo progetto e ottenerne l’adesione. È
ancora lui che, con molta pazienza e umiltà, convince il card.
Tosti a liberare Marinoni dalla cura di S. Michele a Ripa in Roma.
Lui infine che, autorizzato da Romilli, apre il seminario nella sua
casa di Saronno, il 31 luglio, e ha un ruolo primario nella compilazione della Proposta con le massime e norme per il nascente
istituto. Senza dubbio a Ramazzotti si devono gli stessi documenti, a firma di Romilli, richiesti dal governo per approvare la
fondazione 6.
Certo, in tutto questo Ramazzotti non è solo. È sostenuto e
aiutato dal desiderio di Pio IX, dall’apertura di Romilli, dagli stimoli di Supriès, dal grande apporto del sacerdote oblato Taglioretti chiamato perciò «coistitutore», e altri tra cui gli stessi sacerCOLOMBO (a cura), op. cit., p. 15.
Per tutti questi eventi, a livello di documenti, v. COLOMBO (a cura), op. cit.;
a livello di storia, v. GIOVANNI B. TRAGELLA, Le Missioni Estere di Milano nel
quadro degli avvenimenti contemporanei. I. Dall’erezione dell’Istituto alla morte
del Fondatore, PIME, Milano 1950.
5
6
171
doti primi alunni del seminario. Ma tutti costoro indicano Ramazzotti come «motore, promotore, istitutore» della nuova istituzione. Quando Marinoni invia ai vescovi lombardi una copia della
Proposta, vi unisce una lettera dove si parla di Ramazzotti come di
colui «che primo ideava, promuoveva e iniziava sì bell’opera» 7.
Espressioni del genere si ritrovano nei testi degli altri collaboratori a diverso titolo. Certo, non si legge la parola «fondatore» in tutti
questi documenti. Ma le ragioni sono ovvie. L’impresa è frutto di
un concorso vario di persone e autorità; di proposito si vuol dare
risalto al ruolo dei vescovi nell’erezione formale, per cui sono chiamati anche «istitutori»; e Ramazzotti è il primo a tener conto di
tutto ciò, anche se Marinoni gli scrive, senza tema di smentita, che
il nascente istituto deve a lui «la sua esistenza, la sua vita» 8.
c) Il carisma di fondatore
All’azione di fondatore corrisponde in Ramazzotti un carisma
di fondatore. Cioè, egli opera in forza di un’ispirazione e di una
spinta che gli vengono dall’alto e costituiscono un dono dello Spirito, in concreto un carisma, anche se ai suoi tempi questo termine
non era in uso per indicare tale dimensione soprannaturale. Parliamo inoltre del carisma di fondatore, non del fondatore. Gli studiosi della materia danno differente senso alle due espressioni e
non sono d’accordo sul loro uso. Il carisma del fondatore richiamerebbe una specificità originale in quanto iscritta nella persona
e nell’esperienza concreta del fondatore, esperienza che i membri
dell’istituzione in questione sono chiamati a custodire, vivere, approfondire come discepoli, per cui spesso prendono il nome da
lui, come i Francescani da S. Francesco, i Domenicani da S. Domenico, ecc.
Il carisma di fondatore si limita al dono conferito dallo Spirito a una persona perché possa realizzare una data fondazione.
Questo sembra rispondere al caso nostro. Ramazzotti non pre7
8
172
COLOMBO (a cura), op. cit., p. 183.
Ibid., p. 179.
senta una particolare esperienza dello Spirito che, dopo aver plasmato la sua persona, offra un modello per i membri della sua
istituzione. Ma la sua attività di fondatore, reale pur entro certi
confini, è la risposta a una mozione dello Spirito, un’opera che
non si colloca solo su un piano umano ma è guidata dall’alto.
Ciò appare dalle convinzioni e affermazioni di persone coinvolte
nell’iniziativa, a cominciare dal Ramazzotti stesso. Do alcuni
esempi, pur essendo consapevole che qui occorrerebbe un più
approfondito studio.
Scrivendo a Marinoni il 6 novembre 1850, con uno sguardo
rivolto al percorso complessivo del cammino di fondazione Ramazzotti dice: «Quel Dio che solo ispirava il pensiero di codesta
novella Fondazione, che ne disponeva i mezzi, che vi rimoveva gli
ostacoli, vorrà bene, io spero, anche in avvenire proteggere e benedire l’opera sua» 9. Ma pure parecchi momenti o aspetti di questo cammino sono sentiti da Ramazzotti come una spinta dall’alto,
a dispetto delle difficoltà e incertezze personali. Così l’attrattiva a
far nascere un’istituzione di missioni estere per i sacerdoti, dopo
che la sua non aveva avuto uno sbocco. Scurati sottolinea che,
nell’ottobre 1849, Ramazzotti diresse il ritiro dei Santi Esercizi «a
ottenere dal Signore lumi particolari su quanto andava meditando», cioè la fondazione, e aggiunge: «In esso provò divozione a S.
Carlo assai più viva dell’ordinario, e si trovò confermato nel buon
proposito» 10. Dopo l’incontro col Supriès già ricordato e gli avvenimenti che seguirono, il fondatore si lascia alle spalle ogni dubbio o timore, come uno che sente di dover rispondere a una chiara
ispirazione, a un preciso volere di Dio.
Sulla stessa linea si esprime l’arcivescovo Romilli nella lettera a
Ramazzotti per autorizzare la riunione dei primi candidati: «Il Signore che ha ispirato a Lei, Monsignore, il disegno di questa santa
impresa e che l’aiutò fin qui con sì visibile protezione, degnasi
prosperarla» 11. E pure Marinoni, con molti altri, ritiene che Dio
ha scelto Ramazzotti per progettare, promuovere e portare a comIbid., p. 200.
Ibid., p. 15.
11
Ibid., p. 122.
9
10
173
pimento la fondazione, e giudica questa un’opera di Dio che, dice
Taglioretti, è «segnata di molti contrassegni del divino aggradimento» 12.
In conclusione: Dio ispira, conduce, realizza, attraverso mons.
Ramazzotti, il suo disegno. E Ramazzotti e altri ne hanno piena
coscienza. Così il seminario nasce come un dono dello Spirito da
incarnare nella vita e nella storia di coloro che sono chiamati a
farvi parte.
Identità della fondazione o carisma originario
Dal fondatore passiamo alla fondazione: il Seminario Lombardo per le Missioni Estere. È necessario conoscerne l’identità per
poi parlare di evoluzione e attualità dell’istituto. La fondazione è
qualcosa di diverso dal carisma del fondatore: è il risultato concreto della sua opera, che nel nostro caso si compie attraverso una
larga e varia cooperazione di persone e autorità. Tale concorso
convergente di sforzi ha importanti implicazioni.
Esso non diminuisce in sé il ruolo del fondatore, perché rientra nel suo compito convogliare, con discernimento, ogni apporto
verso il fine. Di fatto, Ramazzotti accoglie e cerca contributi, ma
anche li esamina, li vaglia, lasciandosi guidare dai lumi dell’alto, e
talora prende direzioni diverse da quelle suggerite. È il caso del
legame della fondazione con gli Oblati di Rho, o della futura sede
stabile, cose in cui egli opta per soluzioni diverse da quelle preferite da Taglioretti, volendo che il seminario non abbia legami istituzionali con gli Oblati e si stabilisca in seguito, dopo Saronno, a
Milano e non a Pavia.
Tuttavia, il fatto che la fondazione sia frutto di un concorso di
persone e autorità a diversi livelli risponde già di per sé alla natura
dell’opera progettata: un seminario provinciale, della provincia
ecclesiastica lombarda, per le missioni estere. È solo in un ampio
orizzonte di molteplici volontà che esso può costituirsi nella sua
12
174
Ibid., p. 67.
identità. La fondazione, infatti, non va considerata come un oggetto, una cosa, ma una realtà viva, formata da persone che si sentono spinte a unirsi per determinate finalità e modalità di vita,
onde realizzare un disegno ispirato da Dio. Nell’identità dell’istituzione si traduce ciò che si chiama il carisma originario, distinto
dal carisma d’istituto che ne è il prolungamento nella storia e di
cui diremo. Ma quali sono le componenti essenziali dell’identità
del Seminario Lombardo per le Missioni Estere?
a) Intenzioni e ideali fondanti
Se ci si domanda «perché questa nuova fondazione? a che cosa
mira? su quali basi si vuole stabilirla?», la risposta di fondo non
può che essere data da quell’insieme di valori e ideali che giustificano la fondazione stessa, che costituiscono il nucleo essenziale e
irrinunciabile del carisma originario, che sono causa e modello
della realizzazione concreta, anche se questa non riuscirà mai a
tradurre adeguatamente tutte le esigenze ideali.
Ora, le intenzioni e gli ideali fondanti del seminario iniziato a
Saronno sono raccolte nella Proposta di alcune massime e norme
per l’Istituto delle Missioni Estere 13. Questo testo è la magna charta del nascente istituto, pensata per vari aspetti già nel periodo di
preparazione ed elaborata formalmente nei mesi di agosto e settembre del 1850, subito dopo l’apertura del seminario, a opera di
un gruppo comprendente mons. Ramazzotti, Marinoni, Taglioretti e i primi alunni presenti. Il testo veniva offerto come «proposta» all’approvazione dei vescovi lombardi e di Propaganda Fide,
donde il suo nome. Esso si compone di una «avvertenza preliminare sulla natura e l’ordinamento dell’istituto» e di un corpo in tre
parti dove si tratta ampiamente degli «offici» o compiti dell’istituto verso i suoi membri.
È nell’avvertenza che si trovano le intenzioni e gli ideali fondanti. Eccone una sintesi:
13
Ibid., pp. 133-177.
175
– Il seminario viene fondato come espressione e strumento del
dovere missionario dei vescovi lombardi e delle rispettive Chiese,
«considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale» 14.
– Esso risponde al bisogno concreto di offrire al clero (poi si
specifica che i candidati sono sacerdoti diocesani, chierici prossimi al sacerdozio e anche laici come catechisti), che si sente chiamato alle missioni estere, «l’aiuto di qualche mano potente» 15 che
assicuri la realizzazione di questa vocazione; appunto, una fondazione voluta e sostenuta dall’arcivescovo di Milano e dai vescovi
comprovinciali, che metta in atto quanto si richiede per raggiungere lo scopo.
– La nuova istituzione intende manifestare la «santa cospirazione del nostro Episcopato col Padre universale dei fedeli nella
grande opera della conversione delle genti» 16. Questo pensiero
viene ribadito con energia affermando che «se è permesso in una
Proposta stabilire qualcosa di fisso e immutabile, fisso e immutabile vorrebbe stabilirsi questo principio: [...] che, cioè, sotto gli
auspici e per mano dei vescovi, anzi per commissione loro e loro
autorità, intende l’Istituto offrire umilmente i suoi servigi al Sommo Pontefice e alla Sacra Congregazione di Propaganda» 17.
– Le spedizioni missionarie mirano a creare tra le Chiese d’origine e quelle che nasceranno dall’opera dei missionari, il vincolo
di «una quasi parentela spirituale» 18.
– Ben lungi dal sottrarre forze alle Chiese locali, l’istituzione è
un incentivo per lo sviluppo e la formazione delle vocazioni sacerdotali in patria, dato il risveglio di fede che le vocazioni missionarie suscitano e il fatto che esse costituiscono una chiamata al sacerdozio portata al suo pieno sviluppo.
Questi punti (e non sono tutti) attestano una concezione di
Chiesa, missione e comunione in anticipo di oltre un secolo, perIbid., p. 139.
Ibid., p. 138.
16
Ibid., p. 139.
17
Ibid., pp. 140-141.
18
Ibid., p. 140.
14
15
176
ché questa visione diverrà comune soltanto col Concilio Vaticano
II. Essi sono ordinati nella Proposta a far comprendere in profondità ragioni, finalità e caratteristiche della fondazione. Da essi derivano i tratti essenziali che qualificano il nostro carisma originario. Li presentiamo, ora, distintamente per necessità e chiarezza
di discorso, ma non va dimenticato che sono aspetti connessi di
un tutto.
b) Caratteristiche essenziali
Qui ci serviamo di tutta la Proposta e di altri documenti di
fondazione come fonti, ma senza dilungarci in citazioni. Possiamo
riassumere i tratti che qualificano il nostro carisma originario nei
seguenti tre.
Le missioni estere come finalità esclusiva e totale. È tanto chiara
questa finalità che non si prova neppure il bisogno di spiegarla.
Allora non si correva il rischio di confusioni: fondare un seminario per le missioni estere voleva dire inequivocabilmente avere
come fine «propagare la fede cattolica tra gli infedeli», come
chiarisce la lettera a firma di Romilli, inviata al R.I. luogotenente
della Lombardia per mostrare che non c’erano legami tra la progettata fondazione e gli Oblati del Collegio di Rho; questi facevano missione in patria, gli alunni del nuovo seminario andavano all’estero, tra i non cristiani. Si insiste, se mai, nel desiderio di
vedersi assegnato un campo di lavoro lontano, un terreno vergine o abbandonato, proprio come la Melanesia e Micronesia, tanto sospirate.
Il cosiddetto incidente di Corfù 19 – dove Pio IX avrebbe desiderato mandare i nostri, senza peraltro pronunciarsi con chiarezza in materia – servì a mettere in evidenza la finalità propria per
cui l’istituto era sorto e che lo differenziava, con altri aspetti, dal
Sull’incidente di Corfù v. PIERO GHEDDO, Pime, 150 anni di missione (18502000), EMI, Bologna 2000, pp. 55-57, 80-81.
19
177
futuro Seminario Missionario di Roma (1872), che invierà i suoi
membri anche in paesi cristiani ma scarsi di clero. Del resto tutti
gli «uffici» o compiti dell’istituto erano ordinati a formare apostoli per le missioni estere tra gli «infedeli», impegnando in questo
tutta la loro vita e tutte le loro energie. «Il sacrificio che fanno di
se stessi, gli alunni all’opera delle Missioni, è di sua natura pieno e
irrevocabile» 20.
Istituto di sacerdoti diocesani e laici. È per loro che viene fondato, senza mai trasformarsi in una congregazione religiosa, né accogliere una proposta avanzata poi d’introdurre una qualche forma di voti privati per i membri laici. Del resto, i candidati sacerdoti restano incardinati nelle rispettive diocesi e fanno domanda
di entrare nel seminario missionario sia al direttore sia al proprio vescovo. Come si legge nella Supplica di Marinoni alla Conferenza episcopale lombarda: «Nell’obbedire agli impulsi della
divina vocazione, i Missionari non intendono di separarsi se non
materialmente dai loro venerabili Pastori, né di interrompere
giammai quella dolce corrispondenza d’affetto e di spirituale
parentela che nella sacra Ordinazione hanno con essi contratto» 21.
C’è di più. Non solo i membri, ma anche l’istituto come tale
riveste questa particolare nota di ecclesialità, in quanto espressione del dovere missionario dei vescovi che sono suoi istitutori. Dice
l’Atto di erezione: «Il sottoscritto Arcivescovo di Milano in uno
con tutti i Vescovi suoi Comprovinciali [...] hanno risoluto di istituire come di fatto istituiscono col presente atto il detto Seminario delle estere Missioni» 22. Un fatto nuovo e unico in Italia. Il
futuro Seminario Missionario di Roma dall’inizio incorporerà col
giuramento i suoi membri, solo sacerdoti, all’istituto, che dipenderà unicamente e direttamente dalla Santa Sede.
Il legame ecclesiale a livello di Chiese particolari si combina
col vincolo a livello di Chiesa universale. Nell’ordinamento esterCOLOMBO (a cura), op. cit., p. 171.
Ibid., p. 207.
22
Ibid., p. 213.
20
21
178
no si precisa che l’istituto dipende in primo luogo da e di sua natura è subordinato interamente e assolutamente al Sommo Pontefice e a Propaganda, da cui riceve la missione e le facoltà missionarie. Ma queste relazioni s’intrecciano con l’autorità ecclesiale locale. L’arcivescovo nomina il superiore, d’accordo con i vescovi
comprovinciali; tutti, poi, intrattengono col seminario rapporti
d’informazioni, visite, presenza a cerimonie significative, ecc.
Famiglia di apostoli, o dimensione comunitaria e spirituale. La fondazione è chiamata sia seminario sia istituto, ma sbaglierebbe
senz’altro chi la intendesse come un semplice mezzo per preparare e inviare personale nelle missioni. Essa si vuole, ed è detta, famiglia, famiglia comune, famiglia spirituale. Ha un ordinamento,
uno spirito, una norma. Non intende solo provare con cura le vocazioni, coltivare le disposizioni richieste per le missioni, ma anche e soprattutto assistere i soggetti in partenza, sul campo del
lavoro, e in caso di necessario ritorno. Anzi, viene detto espressamente che quest’ufficio indicato per ultimo in sequenza cronologica, è il primo in ragione di valori a cui gli altri due sono ordinati.
L’istituto è proprio nato perché effettivamente i sacerdoti ma anche i laici, i non religiosi, potessero rispondere alla vocazione missionaria. Ciò esige un seminario o istituto che sia una famiglia vincolata da uno spirito.
In proposito si possono leggere nella Proposta tanti passi che
illustrano necessità, contenuti e frutti della dimensione comunitaria e spirituale, intesa a «creare quella uniformità di metodo, di
spirito, che è la forza degli Istituti» 23. Un brano ci pare meriti
d’essere riportato:
L’aver compagni e una Casa che pensa a ordinarne, legarne e dirigerne stabilmente e autorevolmente l’associazione e i loro comuni intenti; l’aver a capi dell’impresa i Vescovi loro medesimi; il lasciare nella
patria, cui danno addio, chi si rammenta di loro e stende fino ad essi,
per quanto puossi a immense distanze, le cure, le orazioni, i pensieri;
23
Ibid., p. 150.
179
l’entrare sul campo delle funzioni, e l’operarvi colla fiducia e colle
forze non di un individuo, ma d’un Istituto; il poter promettersi nelle
loro intraprese una continuazione di opere e di successori; la stessa
dolce aspettativa di queste nuove spedizioni, o dell’arrivo di Missionari membri di una comune famiglia, questi e altri sono i vantaggi, i
quali formano la sostanza dell’assunto e la condizione necessaria dello stabilimento che viene ad iniziarsi 24.
Evoluzione e attualità del carisma dell’istituto
Dal carisma originario passiamo al carisma dell’istituto, che è
il prolungamento del primo nella storia, senza soluzione di continuità con le origini, ma in fedeltà dinamica, capace di attualizzarlo
e incarnarlo in tempi e situazioni nuovi. Certo niente assicura che
il prolungamento del carisma originario nella storia si mantenga
sempre lineare e in positivo sviluppo. Può e di fatto comporta di
solito incertezze, ambiguità e perfino involuzioni. Lo stesso sforzo di tradurlo in realtà diverse dalle primitive rischia di esporlo a
interpretazioni false o deviate. Non è il caso di trattare qui i criteri
che devono guidare il discernimento e l’attualizzazione del carisma in maniera sana ed efficace. Mi limito a indicare alcuni momenti e aspetti riguardanti lo sviluppo del nostro carisma, e a fare
qualche riflessione sulla sua fisionomia attuale, in riferimento alle
caratteristiche essenziali sopra segnalate.
a) Finalità
L’istituto è nato per le «missioni estere tra gli infedeli». Come
ha proseguito lungo questa linea fondamentale? La risposta interessa due livelli: quello delle norme e quello della prassi.
A livello di norme (regole, costituzioni, ecc.) che si sono succedute dopo la Proposta, dal 1886, in cui esce la prima Regola del24
180
Ibid., p. 167.
l’Istituto Lombardo per le Estere Missioni, a oggi, con le vigenti
Costituzioni e Direttorio Generale approvati nel 1991, il fine rimane sostanzialmente immutato. Solo viene via via riespresso con
formulazioni che si preoccupano di precisarlo e adeguarlo allo
sviluppo della concezione e dell’attività missionaria della Chiesa.
Così, mentre all’inizio viene definito come la predicazione del
Vangelo in terre infedeli, o il lavorare nelle terre infedeli affidateci
dal papa per mezzo di Propaganda, in seguito si sottolinea pure
come obiettivo particolare la preparazione del clero e delle Chiese
locali.
Nelle attuali Costituzioni si riconosce come fine proprio dell’istituto l’attività missionaria qual è descritta dal decreto conciliare Ad Gentes, «e in particolare l’evangelizzazione dei popoli e gruppi non ancora cristiani» 25. In tale contesto si formulano delle priorità, mentre si evidenzia che tutta l’opera nostra missionaria si svolge in un quadro di Chiesa. Risulta chiaro che la finalità rimane
immutata nella sostanza, ma assume la nuova visione che la Chiesa ha della missione ad gentes, in una concezione che vuole rispondere ai successivi approfondimenti dottrinali e cambiamenti
di situazione.
A livello di prassi, il discorso si fa più complesso e complicato.
In 150 anni di storia, l’istituto, divenuto da lombardo italiano,
unitosi nel 1926 col Seminario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo di
Roma, organizzato sempre di più con strutture proprie, ha registrato una grande e svariata crescita di campi missionari, dall’Oceania e Asia all’Africa e Brasile, nonché ad aree nuove nel continente asiatico. In questa espansione di attività, si registrano missioni
assunte per il volere della Santa Sede ma non considerate impegni
d’istituto, come Cartagena in Colombia. Ma il caso più grosso e
discusso, almeno per un certo tempo, è quello che riguarda il Brasile, paese cristiano, dove l’istituto ha inviato dal 1946 in poi, e
tuttora tiene, un elevato numero di missionari. Se però si esamina-
Costituzioni e Direttorio Generale, Pontificio Istituto Missioni Estere, Roma
1991, p. 8.
25
181
no le ragioni di queste spedizioni e soprattutto le aree e situazioni
scelte e il tipo di lavoro compiuto, allora si scopre che si è trattato
di un’opera spesso di prima evangelizzazione, in ogni caso di un
aiuto urgente motivato dall’insufficienza e inadeguatezza dello
sviluppo delle Chiese o comunità locali 26.
Comunque, il capitolo post-conciliare di aggiornamento
(1971-1972) ha dato direttive per un «riorientamento», dove ci
fosse bisogno, di campi e di compiti 27. In conclusione si può dire
che non si sono avute deviazioni di finalità, almeno di rilievo; che
di fronte a dubbi, critiche o semplici allarmi sulla questione, si
sono fatte discussioni e si sono decisi interventi nell’ambito di assemblee regionali e generali. Positivamente, si è operato per adeguarsi alle indicazioni della Chiesa universale e delle Chiese locali,
sviluppando negli ultimi decenni forme nuove di presenza e d’impegno in linea col mutato volto della missione ad gentes, sia in
generale sia negli ambienti particolari.
b) Ecclesialità
Nulla da notare circa la qualità dei membri: sono sempre stati
e sono a tutt’oggi sacerdoti e laici che si consacrano alla missione
ad gentes per tutta la vita. Dopo il citato capitolo d’aggiornamento, si è aperta la via anche a preti e laici «associati». E più recentemente si è costituita l’ALP (Associazione Laici del PIME), i cui
partecipanti assumono impegni temporanei in missione ma non
sono membri; e siamo pure in relazione con la Comunità Missionarie Laiche, in vista di iniziative comuni.
Ma l’interrogativo che nasce riguarda il peculiare carattere ecclesiale che ha contrassegnato le nostre origini, poiché il seminario lombardo fu eretto formalmente dai vescovi e voleva essere
l’espressione diretta del loro dovere missionario. È lecito domandarsi dove sia andata a finire questa caratteristica unica e vista
26
27
182
GHEDDO, op. cit., capp. XVIII e XIX, pp. 813 segg.
Sul Capitolo d’aggiornamento, ibid., cap. VII, p. 233 segg.
come essenziale. La risposta esige obiettività ma anche cautela.
Credo che si possa fare una distinzione.
La Proposta conteneva una concezione e una struttura. La prima costituiva un’intenzione e un ideale fondante; la seconda voleva
essere una traduzione concreta all’interno dello stesso ordinamento
giuridico. Ora, molto presto la struttura si rivelò fragile e irrealistica. I vescovi (a eccezione di Romilli) lesinavano i soggetti per le
missioni, quando non li negavano. Marinoni faticò, con poco successo, di coinvolgerli effettivamente nelle responsabilità che si erano assunti, e fu costretto a chiedere alla Santa Sede di accogliere
candidati senza, e perfino contro, il volere dei vescovi. In questi casi
l’ordinazione veniva data titulo missionis e gli alunni non restavano
più incardinati nelle loro diocesi bensì nell’istituto stesso. Il rapporto giuridico a livello locale scomparve e restò solo quello con Propaganda. Già nella prima Regola dell’Istituto Lombardo (1886), redatta da mons. Marinoni, dopo consultazione di tutti i membri, l’istituto risulta dipendere solo da Propaganda direttamente, senza più
alcun tramite dei vescovi, anche se questi continuano per un certo
tempo, in maggiore o minor misura, a tenere relazioni morali col
seminario missionario. Poi verrà il Codice di diritto canonico (1917)
a imporre a tutti i nuovi membri il giuramento incardinante nell’istituto. Ha così del tutto fine la struttura originaria.
Quanto alla concezione come intenzione e idea fondante, il
discorso può essere alquanto diverso. Proprio come istituto di preti
secolari e laici, non «religiosi», esso ha sempre conservato un particolare riferimento alla Chiesa, quale espressione e strumento della
sua missionarietà. Ciò l’ha sentito, vissuto e anche dichiarato spesso,
considerandosi sempre e solo al servizio della Chiesa. Di qui un
comportamento pratico particolare di ecclesialità sia in patria sia
in missione, e una certa reazione istintiva dei membri quando sembrava che ciò fosse dimenticato. Faceva parte di questo spirito
l’impegno esclusivo di curare lo sviluppo del clero e della Chiesa
locale in missione. In patria, quando il Vaticano II diede chiarezza
e forza al dovere missionario della Chiesa e delle Chiese, il nostro
capitolo d’aggiornamento si propose di recuperare in certo modo
l’antico legame con le Chiese d’origine, ma i tentativi in questo
senso non ebbero successo.
183
Tuttavia, le Costituzioni attuali considerano la nostra attività
come un servizio da compiere in comunione e dipendenza dalle
Chiese particolari, pur conservando le proprie finalità, e danno norme e orientamenti per mettere in pratica questa visione. Lasciano ai
membri la libertà di conservare o chiedere l’incardinazione nelle
diocesi d’origine, restando incorporati all’istituto. Chiedono a tutti,
membri e comunità, di vivere concretamente la comunione ecclesiale, a livello sia universale sia locale. Ma, più di queste e altre direttive, il senso ecclesiale si rivela in un certo spirito che rende attenti a
«sentire» con la Chiesa, a servirla nella causa missionaria, a darle la
preferenza sull’istituto nelle questioni concrete.
c) Famiglia di apostoli
Il seminario fondato da mons. Ramazzotti si proponeva come
un istituto per persone che volevano dedicarsi al «ministero delle
Missioni Estere», non isolatamente ma come «famiglia comune»
di missionari, in unità di metodo e di spirito. In questo senso i
primi candidati hanno vissuto un’esperienza significativa in attesa
di partire e poi sul campo, in Oceania. Un’esperienza comunitaria
e spirituale, dove lo spirito di famiglia era strettamente associato
all’impegno di santità, e ambedue si alimentavano con la dedizione missionaria. Non una comunità fine a se stessa, né una santità
costruita a fianco del servizio apostolico, ma l’una e l’altra intese a
nutrirsi e nutrire mediante l’opera missionaria.
A livello di norme, la dimensione comunitaria e spirituale è
sempre stata riaffermata e anzi, a mio parere, si è venuta sempre
più consolidando. Nel nuovo Codice di diritto canonico (1983),
istituti come il nostro sono riusciti con la loro insistenza e collaborazione a ottenere una categoria nuova per loro, quella delle
«società di vita apostolica», che si costruiscono e vivono in base al
loro specifico fine, per cui cercano nel proprio essere e agire le
ragioni e le vie della santità. Le vigenti Costituzioni nostre lo dicono chiaramente, e descrivono pure il PIME come «famiglia di apostoli», i cui membri vogliono realizzare la propria vocazione in
184
comunione di vita e attività. Con una formulazione anche più ardita dicono che l’istituto «è il luogo dove i carismi dei vari membri
si fondo in armonica unità per un servizio più valido all’attività
missionaria» 28. E perciò i missionari «si riuniscono in comunità
per rispondere meglio alle esigenze oggettive della loro particolare vocazione, rendendo più significativo il servizio al Vangelo» 29.
Sullo spirito apostolico che deve animare la famiglia PIME, le
Costituzioni aprono un capitolo interamente nuovo, ma che evidentemente fa tesoro di tutta la nostra tradizione 30. Eccone in
breve i contenuti: i missionari trovano in Cristo evangelizzatore il
fondamento e modello della loro vita apostolica; ne vivono il mistero della croce e risurrezione in chiave di esperienza e annuncio;
conducono uno stile di vita plasmato su quello di Cristo, primo
missionario, nella rinuncia e povertà, nell’obbedienza e castità celibataria, nella preghiera come elemento essenziale della missione;
considerano la comunione fraterna una testimonianza del Vangelo e un aiuto all’edificazione vicendevole. In questi tratti, su cui si
danno norme pratiche di attuazione, penso che il carisma originario venga non solo conservato ma largamente sviluppato.
A livello di prassi, resta sempre difficile dare un giudizio obiettivo; solo Dio vede nei cuori. Ma non mancano chiari segni dell’impegno di fraternità e santità. Senza dubbio, è cresciuto lo sforzo di tradurre la comunione in comunità o espressioni comunitarie nei più svariati settori di vita e azione, dalla comunicazione agli
incontri, dall’interesse alla corresponsabilità nel cammino di riflessione e decisione, nell’attività missionaria sul campo, come
nell’animazione, formazione e impegno spirituale. Al presente è
in atto un’ampia opera per conoscere meglio la nostra storia, le
grandi figure dei nostri missionari, tra cui 18 hanno versato il sangue per la causa del Vangelo, e per promuovere l’elevazione agli
altari di altri confratelli, oltre il beato Giovanni Mazzucconi e il
santo Alberico Crescitelli.
Costituzioni e Direttorio Generale, cit., C. 11, p. 26.
Ibid., C. 12, p. 28.
30
Ibid., cap. III, pp. 41-61.
28
29
185
Ma c’è pure un’altra novità d’ampia portata che riguarda lo
sviluppo del carisma originario. Il PIME è divenuto un istituto
missionario internazionale, accogliendo vocazioni fuori d’Italia,
in un primo tempo solo nei paesi a maggioranza cristiana, poi anche in aree di giovani Chiese, particolarmente quelle nate dal suo
lavoro missionario. Bisogna dire che quest’apertura ha incontrato
difficoltà proprio nel confronto col carisma originario. È sembrato a taluni che ne fosse una deviazione e perfino una contraddizione. Ma tutto si chiarisce alla luce degli sviluppi della missione, del
significato e delle modalità che riveste l’internazionalità nel PIME.
Dopo 150 anni, non solo le Chiese nelle «terre infedeli» di un
tempo sono nate e cresciute, ma sono passate da puro oggetto di
missione a soggetto di missione. L’internazionalità intende mettere a disposizione di tali Chiese il nostro carisma e la nostra esperienza. Lo scopo primo non è di provvedere un maggior numero
di vocazioni per l’istituto, ma di offrire una via, tra le altre, perché
anche i sacerdoti secolari e i laici delle giovani Chiese possano
realizzare la loro chiamata missionaria, come già un tempo il clero
diocesano e i laici della provincia lombarda, mediante una fondazione che ne garantisca l’identità e provveda alle esigenze di formazione e assistenza. Di più: la modalità di attuazione stabilisce
che l’istituto «accoglie e forma missionari in diversi paesi di modo
che membri di nazionalità diversa operano insieme nei medesimi
compiti di evangelizzazione» 31. Tutti egualmente missionari, come
è invalso dire, «ad gentes, ad vitam, ad extra» e «insieme». Così
l’internazionalità si associa all’interecclesialità e all’interculturalità. Questa apertura, non prevedibile agli albori dell’istituto, non
rinnega ma amplifica il carisma originario lungo le stesse sue linee
fondamentali.
Il PIME non ha perso il carisma originario, ma s’è impegnato a
contestualizzarlo lungo il suo cammino in una fedeltà dinamica.
Sarà sempre necessario tener presente il carisma di Ramazzotti
fondatore e delle origini, muovendosi al passo dei tempi nuovi e
affrontando le attuali sfide della missione, con l’aiuto di Dio. Come
31
186
Ibid., C. 10, p. 22.
scrive mons. Ramazzotti a Marinoni, il 6 novembre 1850, a conclusione del suo giudizio sulla Proposta: «Altro quindi non mi rimane che desiderare e pregare che codesto Istituto proceda sempre con quello stesso spirito di fervore, di fratellanza, di zelo, di
cui durante il mio soggiorno presso Codesta Famiglia, già vidi e
ammirai con vera commozione ed esultanza del mio cuore sì belle
e continue prove» 32.
32
COLOMBO (a cura), op. cit., p. 200.
187
INDICE
Prefazione di Franco Cagnasso .................................. Pag.
7
La figura e la spiritualità di mons. Angelo Ramazzotti
di Francesca Consolini ............................................... »
11
Formazione scolastica e sacerdotale ..........................
Missionario Oblato di Rho ........................................
Vescovo di Pavia ........................................................
Patriarca di Venezia ...................................................
»
»
»
»
13
14
21
31
Modello ecclesiologico e realtà della Chiesa di Milano nell’Ottocento
di Ennio Apeciti ......................................................... »
40
Premessa .....................................................................
40
»
Come comincia il secolo XIX nella diocesi di Milano? .............................................................................. »
a) Il vescovo e le sue vicende: G.B. Montecuccoli
Caprara (1802-1810), 49 – b) Quale tipo di clero,
laici, religiosi?, 61 – c) Prima conclusione: quale
modello ecclesiologico emerge?, 65
Il ritorno austriaco in diocesi: primo momento ........ »
a) Il vescovo e le sue vicende: Carlo Gaetano Gaisruck (1818-1846), 66 – b) Quale tipo di laico
emerge?, 75 – c) Quale tipo di religioso emerge?,
76 – d) Seconda conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 77
49
66
189
Il ritorno austriaco in diocesi: secondo momento .... Pag.
a) Il vescovo e le sue vicende: Bartolomeo Carlo
Romilli (1847-1859), 78 – b) Un vescovo mancato:
Paolo Angelo Ballerini (1859-1867), 81 – c) Quale la situazione del clero?, 83 – d) Terza conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 88
78
Milano nel Regno d’Italia .......................................... »
a) Il vescovo e le sue vicende: Luigi Nazari di Calabiana (1867-1893), 90 – b) Quale la situazione
del laicato?, 97 – c) Quale la situazione dei religiosi?, 101 – d) Quale la situazione del clero?, 103
– e) Quarta conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 108
90
Considerazioni conclusive .........................................
»
111
Nuovi ideali missionari: Rosmini, Luquet, Ramazzotti
di Fulvio De Giorgi .................................................... »
113
Figura e importanza di Rosmini ................................
Luquet e la Neminem Profecto .................................
Il sinodo di Pondichéry .............................................
Il clero indigeno e i riti orientali ................................
L’influenza di Luquet su Ramazzotti .........................
Conclusioni ................................................................
»
»
»
»
»
»
113
118
123
127
134
142
La Chiesa e l’Oriente: il disegno missionario di Pio
IX e il Seminario Lombardo per le Missioni Estere
di Agostino Giovagnoli .............................................. »
145
Pio IX e le missioni .................................................... »
Slancio missionario, sentimento nazionale e Chiese
particolari ................................................................... »
Il Seminario per le Missioni Estere tra Vienna e Roma »
190
145
153
160
Evoluzione e attualità del carisma del PIME
di Domenico Colombo .............................................. Pag.
167
Premessa .....................................................................
»
167
Mons. Ramazzotti come fondatore............................ »
a) Il problema, 168 – b) L’opera di fondatore, 170
– c) Il carisma di fondatore, 172
168
Identità della fondazione o carisma originario ......... »
a) Intenzioni e ideali fondanti, 175 – b) Caratteristiche essenziali, 177
174
Evoluzione e attualità del carisma dell’istituto ......... »
a) Finalità, 180 – b) Ecclesialità, 182 – c) Famiglia
di apostoli, 184
180
191