QUESTIONI IN TEMA DI ISTANZA DI AMMISSIONE AL BENEFICIO

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QUESTIONI IN TEMA DI ISTANZA DI AMMISSIONE AL BENEFICIO
QUESTIONI IN TEMA DI ISTANZA DI AMMISSIONE
AL BENEFICIO DEL PATROCINIO A SPESE DELLO STATO
di Domenico Potetti
SOMMARIO: 1. Sottoscrizione dell’istanza di ammissione al
beneficio e della dichiarazione sostitutiva sul reddito. – 2. Il
concetto di famiglia. – 3. Limiti oggettivi e soggettivi del beneficio (art. 91 lett. A del T.U.). – 4. Competenza a provvedere sull’istanza, in particolare fra Gip e P.M. – 5. L’istanza
per la fase dell’esecuzione penale.
1. Sottoscrizione dell’istanza di ammissione al
beneficio e della dichiarazione sostitutiva sul reddito. – Ai sensi dell’art. 78, comma secondo, del
D.P.A. n. 115 del 2002 (d’ora in avanti T.U.),
l’istanza di ammissione al beneficio è sottoscritta
dall’interessato a pena di inammissibilità.
La sottoscrizione è autenticata dal difensore, ovvero con le modalità di cui all’art. 38, comma 3, del
D.P.R. n. 445 del 2000 (quindi l’istanza può anche
essere sottoscritta dall’interessato alla presenza del
dipendente addetto o può essere sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore).
Prevede inoltre l’art. 79 T.U. che l’istanza deve
contenere, a pena di inammissibilità, fra l’altro, una
dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte
dell’interessato, ai sensi dell’art. 46, comma 1, lettera o), del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione, con specifica
determinazione del reddito complessivo valutabile
a tali fini, determinato secondo le modalità indicate
nell’art. 76 del T.U.
A sua volta, per l’art. 46 cit., viene comprovata
con dichiarazione, anche contestuale all’istanza,
sottoscritta dall’interessato e prodotta in sostituzione delle normali certificazioni, la situazione reddituale o economica, anche ai fini della concessione
dei benefici di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali (come la nostra).
In pratica, per la dichiarazione sostitutiva sul
reddito è richiesta la mera sottoscrizione (diversamente da quanto disposto per le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà dall’art. 47, comma 1,
del D.P.R. n. 445 del 2000, che comunque rinvia
anch’esso alle modalità previste dal precedente art.
38).
Sembra quindi superata quella tesi giurisprudenziale secondo la quale l’autenticazione dell’autocertificazione dell’interessato in ordine alla sussistenza delle prescritte condizioni di reddito,
prevista allora dall’art. 5, comma 1, lett. b), della L.
30 luglio 1990, n. 217, doveva essere effettuata secondo le disposizioni generali di cui all’art. 4 della
L. 4 gennaio 1968, n. 15 e, quindi, soltanto ad opera
di uno dei soggetti ivi indicati, dovendosi escludere, pertanto, che ad essa potesse provvedere il difensore designato, legittimato soltanto, ai sensi
dell’art. 2, comma 2, della citata L. n. 217 del 1990
allora vigente, ad autenticare la sottoscrizione
dell’istanza di ammissione al beneficio; e ciò (si riteneva) senza che in contrario potesse rilevare la
circostanza che l’autocertificazione fosse incorporata in detta istanza (1).
Tuttavia, la dichiarazione sostitutiva deve contenere la «specifica determinazione» del reddito
complessivo valutabile ai fini della concessione del
beneficio, come letteralmente vuole l’art. 79,
comma 1, lett. c), del T.U.
Conseguentemente dovrà essere dichiarata
inammissibile una dichiarazione sostitutiva nella
quale si attesti genericamente di avere un reddito
compreso nel limite previsto per ottenere il beneficio.
Altra questione scaturisce dal testuale contenuto
dell’art. 78 del T.U., il quale prevede che l’istanza
debba essere sottoscritta dall’interessato a pena di
inammissibilità, e che la sottoscrizione debba essere autenticata.
In pratica il legislatore fa chiaro riferimento ad
un’istanza scritta, cioè all’ipotesi più naturale, considerata l’esigenza di inserire nell’istanza anche il
contenuto di dettaglio previsto dall’art. 79, comma
primo, del T.U.
Tuttavia, è stata ritenuta valida anche l’istanza di
ammissione al patrocinio a spese dello Stato presentata in udienza, mediante dichiarazione effettuata direttamente dall’interessato e ritualmente
verbalizzata dal cancelliere, in quanto essa deve
considerarsi equipollente alla sua presentazione in
forma scritta, con sottoscrizione della persona legittimata, essendo comunque garantite l’identificazione del soggetto istante e la certezza della provenienza della richiesta, fatta salva la valutazione
giudiziale del contenuto della dichiarazione e della
sua conformità a quanto prescritto dall’art. 79
D.P.R. n. 115 del 2002 (2).
In effetti, non pare doversi escludere la possibilità di formalizzare oralmente dinanzi al cancelliere, in udienza, un’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, anche se condizione di
ammissibilità della predetta istanza, ai sensi
dell’art. 78, comma 2, del T.U., è la sottoscrizione
dell’istanza (letteralmente non l’autenticazione
della stessa).
Detta sottoscrizione in teoria può avvenire anche
in calce al verbale d’udienza, ma comunque la corretta identificazione del richiedente pare assicurata
dal controllo generale del giudice sulla regolare costituzione delle parti (v. art. 484, comma primo,
c.p.p. per il dibattimento).
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Non è più previsto (v. abrogato art. 5, comma 5,
L. n. 217 del 1990) un termine per integrare la domanda incompleta, che quindi dovrà essere dichiarata inammissibile ex art. 79, comma 1, T.U.
Si pone inoltre la questione dei poteri di autentica del difensore quando il proprio cliente (ad
esempio perché analfabeta, o infortunato) non sia in
grado di sottoscrivere l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
L’art. 110, comma 3, c.p.p. pare essere la norma
di riferimento, quantomeno per analogia.
Quindi, nel caso in cui chi deve firmare non sia
in grado di scrivere, il pubblico ufficiale al quale è
presentato l’atto scritto o che riceve l’atto orale, accertata l’identità della persona, ne fa annotazione in
fine all’atto medesimo.
Tale possibilità pare preclusa al difensore.
Infatti le Sezioni unite ritennero che nella nozione di pubblico ufficiale abilitato, a norma
dell’art. 110, comma terzo, c.p.p., ad annotare, in
fine di un atto scritto, che il suo autore non lo firma
perché non è in grado di scrivere, non è compresa
espressamente, né può farsi rientrare in via di interpretazione, la figura del difensore, a nulla rilevando
che l’art. 39 disp. att. c.p.p. attribuisca ad esso il potere di autenticazione della sottoscrizione di atti per
i quali sia previsto il compimento di tale formalità,
in quanto l’autenticazione è atto con cui il pubblico
ufficiale si limita ad attestare che la sottoscrizione è
stata apposta in sua presenza, mentre l’attestazione
che un anonimo segno di croce proviene da una
certa persona, anziché da qualunque altra, costituisce esercizio di una potestà certificativa non compresa nel potere eccezionalmente riconosciuto al difensore solo in presenza di un atto regolarmente
sottoscritto (3).
Pertanto, nel caso di richiedente il beneficio che
non sia in grado di firmare, o lo stesso comparirà
personalmente in udienza o presso la cancelleria del
magistrato procedente, dando modo al cancelliere di
attestare la propria incapacità a sottoscrivere, oppure la mancata sottoscrizione dovrà essere autenticata da un soggetto (es. notaio) dotato di una potestà certificativa generale.
2. Il concetto di famiglia. – A pena di inammissibilità, l’istanza di ammissione al beneficio deve
contenere le generalità dei componenti la famiglia
anagrafica del richiedente, unitamente ai rispettivi
codici fiscali.
Il riferimento testuale alla famiglia anagrafica
pone il problema di quale sia il concetto di «famiglia» nell’ambito della normativa sul patrocinio a
spese dello Stato.
A tale proposito va detto che il concetto di famiglia di cui ci occupiamo comprende innanzitutto,
appunto, la famiglia anagrafica, e ciò è reso esplicito dalla lettera del testo normativo, posto che proprio l’art. 79, comma 1, lett. b), del T.U. fa espresso
riferimento alla famiglia anagrafica.
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Ulteriori argomenti depongono però per l’adozione, nell’ambito della normativa che ci riguarda,
di un concetto più ampio di famiglia e di familiare,
comprensivo sia della famiglia anagrafica che di
quella di fatto (4).
Infatti, già l’art. 76, comma 2, del T.U. (a proposito della somma dei redditi rilevanti ai fini del
beneficio) fa riferimento al coniuge e altri familiari
conviventi, senza menzionare le risultanze anagrafiche.
Giova però rimarcare che, rispetto all’impostazione letterale originaria della L. n. 217 del 1990, il
concetto di familiare ha perso quasi completamente
la funzione di definire il reddito rilevante ai fini
dell’accesso al beneficio.
Si consideri che l’art. 96 comma 2 del T.U. indica al giudice parametri sostanziali di giudizio, mediante i quali eventualmente accertare la carenza del
requisito della non abbienza.
Essi sono il tenore di vita, le condizioni personali
e familiari, le attività economiche eventualmente
svolte.
La natura di tali parametri conferma l’assunto
per il quale la norma tende al superamento della
prova formale (del quantum di reddito) indicata
nell’art. 76 del D.P.R. cit., e a fornire all’interprete
un concetto di non abbienza che supera in gran parte
lo stesso contenuto dell’art. 76 T.U. (compreso il
concetto di familiare).
È evidente, infatti, che quelli tratti dall’art. 96,
comma 2, del T.U. sono elementi sostanziali e presuntivi dai quali poter eventualmente desumere un
ammontare del reddito superiore a quello cartolare
risultante dalla relativa dichiarazione, e una situazione economica reale diversa da quella apparente.
Resta confermato, quindi, che la prova cartolare
del reddito percepito, di cui all’art. 76 T.U., è oggetto di una presunzione relativa, e come tale superabile quando i suddetti parametri di cui all’art. 96
comma 2 del T.U. consentano di accertare un reddito superiore rispetto a quello formale.
Il concetto di familiare convivente mantiene però
la funzione di elevare il tetto di reddito utile per
l’accesso al beneficio, ai sensi dell’art. 92 del T.U.,
nel presupposto, evidentemente, che la convivenza
comporta una solidarietà (e un onere) fra i conviventi anche di tipo economico.
Si consideri, inoltre, che il riferimento al tenore
di vita e alle condizioni personali e familiari consente al giudice di tenere conto (nella determinazione del reddito del richiedente) anche dei redditi
dei quali il richiedente medesimo comunque disponga (anche se non da lui direttamente percepiti),
come ad esempio i contributi economici provenienti
da parenti non conviventi, e quindi, a maggior ragione, da familiari di fatto.
In altre parole, il reddito rilevante ai fini dell’ammissione al beneficio comprende ogni apporto economico del quale il richiedente disponga, a prescindere dalla natura del rapporto (giuridico o di fatto)
che intercorra fra il richiedente e il terzo che lo finanzi.
Il tenore di vita, infatti, è un dato oggettivo, che
prescinde dal fatto che il terzo vi contribuisca in
adempimento di obblighi giuridici.
Peraltro, quanto alla possibilità, per il giudice, di
tener conto anche di redditi dei quali il richiedente
possa disporre in via di mero fatto, non si tratta di
una novità.
Essa si poteva evincere già dall’art. 5 comma 2
della L. n. 217 del 1990 (comma ora abrogato), laddove si prevedeva che all’istanza di ammissione al
beneficio doveva essere allegata (fra l’altro) una dichiarazione che indicasse analiticamente (per ciascuno dei soggetti il cui reddito doveva essere considerato ai sensi dell’art. 3 della stessa legge) i
redditi diversi da quelli di lavoro di cui l’interessato
avesse, direttamente o indirettamente, la libera disponibilità, o comunque il godimento.
È interessante notare che, sulla scia di tale impostazione, la tendenza ad una valutazione globale
del reddito effettivo del richiedente si era già sviluppata pure in giurisprudenza, prima della riforma
della L. n. 217 del 1990 avvenuta ad opera della L.
n. 134 del 2001.
Sotto tale profilo conviene approfondire la fondamentale sentenza n. 144 del 1992 della Corte
cost. (5), di cui è opportuno ricordare talune essenziali osservazioni.
Ritenne quindi la Corte costituzionale che la
scelta discrezionale del legislatore di fissare la soglia quantitativa della non abbienza non è sindacabile nel merito del limite quantitativo adottato, dal
quale discende una maggiore o minore diffusività
del beneficio.
Nulla impedirebbe al legislatore, affermava la
Corte, di adottare un limite quantitativo maggiormente benevolo per allargare l’area dei potenziali
fruitori del patrocinio a spese dello Stato.
Tuttavia, per rispettare il canone di sorveglianza
delle scelte legislative, le condizioni di spettanza
del beneficio devono essere coerenti con il presupposto della non abbienza, e tali non sarebbero se
l’accertamento di tale stato fosse ingiustificatamente limitato ad alcuni redditi con esclusione di
altri.
Anche se, in linea di massima, deve riconoscersi
nel reddito (inteso in senso essenzialmente economico) il criterio rivelatore più affidabile dello stato
di non abbienza, perché sintomatico della capacità
di spesa e quindi dell’idoneità del suo percettore a
far fronte alle spese del procedimento, occorre tener
conto di tutti i redditi di chi aspira al beneficio
(salvo che non ricorrano giustificate ragioni per
considerare diversamente un determinato reddito).
Tale condizione di coerenza, ad avviso della
Corte, risultava rispettata dagli artt. 3 e 5 della legge
n. 217 del 1990, perché l’articolata enumerazione
dei redditi da dichiarare era orientata verso l’onni-
comprensività di tutto ciò che è reddito in senso
economico.
Una diversa interpretazione che, nell’elencazione fatta dalla due disposizioni, avesse individuato redditi non rilevanti al fine della valutazione
dello stato di non abbienza, sarebbe entrata in conflitto con il suddetto canone della ragionevolezza e
della coerenza, e quindi era da respingere, dovendo
i precetti costituzionali guidare anche l’interpretazione delle leggi.
Proseguiva ancora la Corte chiarendo la (niente
affatto decisiva) rilevanza del reddito dichiarato o
accertato ai fini fiscali.
Osservava infatti la Corte che non vi era nella L.
n. 217 del 1990 (ora ciò si può dire del D.P.R. n.
115 del 2002) una ineludibile corrispondenza biunivoca tra reddito rilevante al fine di accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato e reddito
dichiarato od accertato ai fini fiscali, trattandosi di
accertamenti che hanno finalità diverse, e che possono avere esiti diversi.
D’altra parte, osservava la Corte, mentre in un
caso vi è un soggetto che aspira al patrocinio a
spese dello Stato, e quindi deve sopportare l’onere
di provare il presupposto di reddito al quale la legge
collega lo stato di non abbienza, nell’altro caso è
l’amministrazione finanziaria che fa valere la sua
pretesa fiscale e quindi è su di essa che fa carico
l’onere probatorio di dimostrare l’esistenza
dell’ammontare di un reddito imponibile.
Proprio sulla base di tale diversa incidenza
dell’onere probatorio è coerente ritenere, ad avviso
della Corte, che le difficoltà che l’amministrazione
finanziaria eventualmente incontri nell’accertamento dei redditi dei contribuenti non comportino
un ingiustificato vantaggio, in sede di ammissione
al particolare beneficio del patrocinio a spese dello
Stato, come accadrebbe se il richiedente di fatto non
versi in una situazione di non abbienza economica.
Il fondamentale principio della omnicomprensività del reddito veniva successivamente ribadito
dalla stessa Corte costituzionale (6), in una sentenza nella quale si affermò che il rapporto economico (sotto forma di aiuti, sovvenzioni, contributi)
che eventualmente intercorra tra l’interessato ed altre persone non conviventi non è privo di rilevanza
ai fini dell’ammissione al beneficio in esame, dovendosi nella nozione di reddito, ai detti effetti, ritenere comprese – come già precisato con la sentenza n. 144 del 1992 – le risorse di qualsiasi natura
di cui il richiedente disponga e, quindi, appunto, anche gli aiuti economici (significativi e non saltuari)
in qualsiasi forma a lui prestati da familiari o terzi.
Per cui in definitiva mentre – ragionevolmente –
ai fini indicati, il computo di redditi propri di soggetti diversi dall’istante è legato al criterio oggettivo della convivenza (7), non è comunque esclusa
la computabilità, come redditi direttamente imputabili all’interessato richiedente, di contributi (economicamente apprezzabili) a lui provenienti anche
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da non conviventi, ove in concreto accertati con gli
ordinari mezzi di prova, tra cui le presunzioni semplici previste all’art. 2729 c.c., quali il tenore di vita
ed altri fatti di emersione della percezione di redditi
(si noti la sostanziale anticipazione rispetto al futuro
art. 96, comma 2, del T.U.).
In coerenza con tale tendenza «sostanziale»,
nella giurisprudenza di legittimità si è ritenuto che,
ai sensi dell’allora art. 3, comma 2, della stessa L.
n. 217 del 1990, per la individuazione del reddito rilevante, nella nozione di familiari convivente dovevano considerarsi non solo i parenti legati da vincolo di sangue, ma anche il convivente more uxorio
(8).
Ancora in relazione al requisito della convivenza
si è ritenuto che il divorzio fa venir meno quella presunzione di convivenza dei coniugi cui è correlata la
cumulabilità dei relativi redditi, salvo che, tuttavia,
nonostante la sentenza di divorzio, risulti che i coniugi siano tuttora conviventi (9).
In conclusione, anche grazie (prima al comma 9
bis dell’art. 1 della L. n. 217, ed oggi) all’art. 96,
comma 2 del T.U., il principio di onnicomprensività
del reddito, coniugato con la possibilità di ricostruire il reddito stesso mediante criteri presuntivi, consentiranno al giudice di respingere l’istanza di ammissione al beneficio anche oltre le risultanze
cartolari e apparenti (come le risultanze anagrafiche), in coerenza con gli insegnamenti della Corte
costituzionale sopra enunciati.
Ne risulta in gran parte depotenziato il concetto
di famiglia (nel cui ambito i redditi vanno sommati
ai sensi dell’art. 76 T.U.), perché il suddetto principio di onnicomprensività del reddito consente di
computare gli apporti non occasionali anche di
estranei non conviventi, e quindi a maggior ragione
anche gli apporti provenienti da familiari di fatto.
3. Limiti oggettivi e soggettivi del beneficio (art.
91, lett. A, del T.U.). – Permangono, ad avviso di
chi scrive, i dubbi di costituzionalità dell’art. 91,
lett. a), del T.U. n. 115 del 2002, il quale esclude dal
beneficio «l’indagato, l’imputato o il condannato di
reati commessi in violazione delle norme per la
repressione dell’evasione in materia di imposte sui
redditi e sul valore aggiunto».
Può ipotizzarsi la violazione dell’art. 3 Cost., per
la disparità di trattamento che la norma produce tra
accusati dei suddetti reati di natura finanziaria e/o
tributaria (esclusi dal beneficio), e chi fosse invece
accusato di reati non appartenenti a quella categoria,
e tuttavia di eguale o maggiore gravità, che potrebbe
invece avervi diritto.
Può inoltre ipotizzarsi la violazione dell’art. 24
Cost., perché il pieno esercizio del diritto di difesa
sarebbe assicurato solo per imputazioni che non abbiano ad oggetto i suddetti reati di natura tributaria
e/o finanziaria.
Soprattutto sembra palese la violazione dell’art.
27, secondo comma, Cost., per lesione del principio
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di non colpevolezza sino alla decisione definitiva,
poiché la mera ed anche non formale contestazione
dei suddetti reati di natura tributaria e/o finanziaria
(«indagato», è anche scritto nel comma 1, lett. a,
dell’art. 91 del T.U., ad indicare la mancanza di
un’imputazione in senso tecnico), imporrebbe
l’esclusione dal beneficio, a prescindere dalla valutazione nel merito della fondatezza delle accuse, ed
anche laddove, addirittura, intervenisse in seguito
una decisione favorevole all’accusato (10).
Poco chiara e convincente appare, in tal senso, la
tesi secondo la quale la ratio dell’esclusione di cui
si tratta sarebbe dettata dall’esigenza di non riconoscere il beneficio del patrocinio a spese dello Stato
limitatamente a una categoria di reati (quelli concernenti l’evasione delle imposte sui redditi e sul
valore aggiunto) la cui realizzazione comporterebbe
l’impossibilità di verifica delle condizioni economiche dell’autore (11), dato che la presunzione di non
colpevolezza vieta proprio di ritenere realizzato
quel presupposto (cioè la realizzazione di quei reati).
Fra l’altro, non si vede nemmeno il fondamento
di tale asserita impossibilità di accertare il reddito
per quei reati considerati ostativi, date le penetranti
possibilità di indagine previste dall’art. 96 commi 23 del T.U., e l’onere della prova che grava comunque sul richiedente il beneficio (e funge da garanzia
per l’erario).
Passando ora ad altro tema, si osserva che il
comma 1 dell’art. 91, lett. a), del T.U. non risolve
la questione di quale sia il procedimento rispetto al
quale decidere se sussista la qualità soggettiva ostativa al beneficio, indicata dalla norma.
La Cassazione ha però ritenuto che è illegittima
la revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio disposta per un reato non ostativo, sul semplice presupposto che il richiedente sia stato in passato condannato per un reato in materia di evasione
dell’imposta sul valore aggiunto, giacché, anche
dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n. 115 del 2002
la ratio dell’esclusione è riferita ai reati oggetto del
procedimento per il quale è chiesta l’ammissione al
patrocinio (12).
Anche secondo la Corte costituzionale (13),
l’esclusione di cui all’art. 91, comma 1, lett. a) del
D.P.R. n. 115 del 2002 opera solo in relazione ai
procedimenti direttamente concernenti uno dei reati
specificamente indicati, e non con riferimento alla
condizione soggettiva di chi, indagato, imputato o
condannato in altri procedimenti per uno di tali reati, assuma la qualità di indagato, imputato o condannato per reati diversi.
Si è poi posta la questione di come decidere sui
casi in cui si proceda congiuntamente per reati ostativi e non.
Si è ritenuto, in senso negativo per l’interessato,
che l’esclusione dal patrocinio a spese dello Stato
per chi debba rispondere di reati che attentano alle
sue finanze opera anche con riferimento a quei reati
non ostativi all’ammissione al beneficio, per i quali
si proceda congiuntamente a reati ostativi, non essendo prevista la separazione del procedimento per
motivi attinenti al patrocinio a spese dello Stato
(14).
Si tratta di una soluzione comoda dal punto di vista pratico, ma priva di fondamento normativo, perché finisce per estendere l’esclusione dal beneficio
oltre i confini dettati dal legislatore.
La lettera dell’art. 91 del T.U. vuole invece che
rimangano a carico dell’erario le prestazioni relative ai reati non oggetto dell’esclusione normativa.
Il relativo conteggio potrà non essere semplice;
in particolare occorre considerare che il patrocinio
a spese dello Stato risponde a un imperativo costituzionale (art. 24 comma 3 Cost.), che non può essere quindi disatteso solo perché una determinata
prestazione del difensore si riferisce in modo inscindibile sia al reato escluso dal beneficio che ad
altro non escluso.
In senso contrario alla suddetta giurisprudenza
(ma più fedele alla lettera e all’intenzione dell’art.
91 lett. A del T.U.) si è ritenuto che è illegittima la
revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio disposta in relazione a reato diverso da quelli commessi in violazione delle norme per la repressione
dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul
valore aggiunto, a nulla rilevando che esso sia oggetto dello stesso procedimento relativo a reati rientranti in quest’ultima categoria (15).
Si è anche ritenuto che è illegittima la revoca del
provvedimento di ammissione al patrocinio a spese
dello Stato, disposta in relazione a reato diverso da
quelli di evasione delle imposte sui redditi o di
quelli sul valore aggiunto per i quali la norma di cui
(allora) all’art. 1, comma 9, della legge n. 217 del
1990 non consente il gratuito patrocinio, in quanto
tale disposizione, dettando deroghe al principio generale di concessione del patrocinio ai non abbienti,
ha carattere eccezionale e, come tale, non è estensibile per analogia al di fuori dei casi tassativamente previsti (16).
Per prossimità di argomento ricordiamo anche
che, secondo la Cassazione (17), non è ammissibile
la richiesta formulata in via autonoma per l’assistenza legale da chi debba essere sottoposto
all’esame di persona imputata in procedimento connesso (art. 210 c.p.p.; l’insegnamento appare estensibile al soggetto previsto dall’art. 197 bis c.p.p.), in
quanto l’ammissione al gratuito patrocinio può essere disposta solo per il procedimento in cui il soggetto sia indagato o imputato, o altro avente diritto
ai sensi (allora) dell’art. 1, comma 1, della L. 30 luglio 1990, n. 217 (ora art. 74, comma 1, del T.U.),
e tale originario provvedimento può avere l’effetto
estensivo alle procedure derivate ed accidentali comunque connesse, ai sensi del comma 3 del citato
articolo (ora art. 75, comma 1, T.U.), senza che sia
invece possibile attivare singolarmente una nuova
richiesta per ogni procedimento connesso.
Tale soluzione appare ineccepibile, dato che
l’art. 74, comma 1, del T.U. non prevede un’autonoma (rispetto al procedimento originario) legittimazione di tali soggetti.
Giova anche ricordare che, salvo eccezioni soprattutto in tema di esercizio dell’azione civile nel
processo penale (v. art. 74, comma 1, T.U.), è preclusa l’applicazione del beneficio del patrocinio a
spese dello Stato a soggetti diversi dalle persone fisiche, poiché la disciplina di settore mostra univocamente di riferirsi alle persone fisiche quali uniche
destinatarie del beneficio (18), come quando tratta,
ad esempio, dei familiari (es. artt. 76, 79, 92 del
T.U.).
4. Competenza a provvedere sull’istanza, in particolare fra Gip e P.M. – Prevede l’art. 93, comma
1, del T.U. che l’istanza è presentata (esclusivamente dall’interessato o dal difensore), ovvero inviata, a mezzo raccomandata, all’ufficio del magistrato innanzi al quale pende il processo (se procede
la Corte di Cassazione, l’istanza è presentata
all’ufficio del magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato).
Conforme è il disposto dell’art. 96, comma 1, del
T.U.
La questione della competenza a provvedere è
stata oggetto di una sentenza delle Sezioni unite
(19).
Il dubbio scaturisce dalla formulazione degli
artt. 93, 96 e 97, comma 1 del T.U. (che si riferiscono al «magistrato»), in relazione alla definizione
di «magistrato» contenuta nel precedente art. 3, lett.
a) del T.U., potendosi indifferentemente con tale
termine intendere tanto il Gip che il P.M.
In sintesi, la questione è stata risolta valorizzando il disposto dell’art. 99, comma 1, del T.U.,
secondo cui il ricorso avverso il provvedimento di
rigetto dell’istanza va proposto «davanti al presidente del tribunale o al presidente della corte di appello ai quali appartiene il magistrato che ha
emesso il decreto di rigetto», sembrando maggiormente plausibile che tale appartenenza debba essere
intesa nel senso di organico inserimento del magistrato decidente in uno degli uffici giudiziari indicati, piuttosto che nel senso di una sua mera collocazione territoriale nell’ambito di una
circoscrizione giudiziaria e che, pertanto, l’ambivalenza del termine «magistrato» debba risolversi
nella sua identificazione in un giudice anziché in un
rappresentante dell’ufficio del pubblico ministero.
Nello stesso senso depongono inoltre, secondo
le Sezioni unite, la previsione dell’art. 79, comma
3, T.U., che parla espressamente di «giudice procedente» come organo legittimato a richiedere la
produzione di documentazione atta a comprovare la
veridicità di quanto dichiarato dall’istante, e quella
del successivo art. 93, comma 2 circa la possibilità
di presentare l’istanza all’udienza, nel qual caso sarebbe incongruo ritenere che essa non debba essere
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presentata all’organo giudicante o che possa indifferentemente essere presentata al giudice od al
P.M.; ed altrettanto incongrua appare l’ipotesi di
una competenza ripartita a seconda che l’istanza
venga o meno presentata in udienza, così conferendosi all’interessato la facoltà di arbitrariamente determinare la competenza dell’autorità chiamata a
decidere.
Nello stesso senso si deve inoltre considerare il
disposto dell’art. 105 T.U., che demanda al Gip la
liquidazione del compenso al difensore ed agli altri
soggetti ivi indicati, anche se l’azione penale non è
stata esercitata, sembrando coerente che alla liquidazione provveda lo stesso organo che ha deciso
sull’istanza.
Altro argomento in tal senso è stato ravvisato
nell’art. 82, comma 3, del T.U., che impone all’autorità giudiziaria di comunicare anche al pubblico
ministero il decreto di pagamento al difensore degli
onorari e delle spese.
Il definitivo supporto alla tesi delle Sezioni unite
deriva comunque, ad avviso di chi scrive, dalla giurisprudenza costituzionale in materia, che ha evidenziato come nel decidere se spetti il patrocinio a
spese dello Stato, il giudice esercita appieno una
funzione giurisdizionale avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza di un diritto, peraltro dotato di fondamento costituzionale, sicché i provvedimenti nei quali si esprime tale funzione hanno il
regime proprio degli atti di giurisdizione (20).
Convince, quindi, l’evidente incongruenza ed
asistematicità di una soluzione che attribuisse ad
una parte processuale, per quanto pubblica, anziché
ad un organo giurisdizionale terzo ed imparziale,
decisioni che incidono sull’esercizio di un diritto
garantito dalla Costituzione, e si impone la doverosità di un’interpretazione della disciplina in esame
che privilegi l’unica opzione ermeneutica costituzionalmente compatibile.
5. L’istanza per la fase dell’esecuzione penale. –
L’originario art. 1 della L. n. 217 del 1990, al
comma terzo, prevedeva che nei procedimenti
penali l’ammissione al patrocinio a spese dello
Stato giovava per tutti i gradi del procedimento.
In proposito si era quindi ritenuto che l’ammissione al gratuito patrocinio disposta per il giudizio
di cognizione (nella specie per la fase delle indagini
preliminari) non operava nel procedimento di esecuzione, in quanto l’art. 1 comma 3 cit. stabiliva,
appunto, che essa giovava per tutti i gradi del procedimento, ma nulla prevedeva per fasi diverse,
mentre quella esecutiva è, appunto, una fase diversa, e non un grado diverso (21).
Diversamente prevede ora l’art. 75, comma
primo, del T.U. che l’ammissione al patrocinio è valida «per ogni grado e per ogni fase del processo e
per tutte le eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse».
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ARCH. NUOVA PROC. PEN. 04/2008
Nonostante tale diversa formulazione letterale la
Cassazione sembra essere rimasta sulla sua posizione (22), con una motivazione che mi sembra convincente.
Ha osservato infatti la Suprema Corte che il
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 75, nel suo testuale dettato, differenzia l’ammissione al patrocinio a spese
dello Stato nel corso del giudizio (prevista nel primo
comma «per ogni grado e per ogni fase del processo»), dall’ammissione prevista nel comma 2, nel
quale sono previsti autonomamente altri tipi di procedimento (fra i quali la fase dell’esecuzione).
Poiché non può ritenersi che la disposizione di
cui al secondo comma sia stata legislativamente
inutiliter data, se ne deve inferire che l’ammissione
al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, disposta per il giudizio, esaurisce i suoi effetti
nell’ambito del giudizio medesimo, ancorché si
estenda alle «eventuali procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse», da intendersi però
(tali procedure) sempre in rapporto alla perdurante
fase del giudizio.
Quando il giudizio si sia esaurito, subentra, invece, la fase dell’esecuzione, ben distinta e diversa
da quella della cognizione, ed a questa (fase
dell’esecuzione) fa espresso riferimento la separata
previsione di cui al secondo comma dell’art. 75
T.U.
Dalla separata considerazione (da parte del legislatore) delle fasi di cognizione e di esecuzione, di
cui ai commi primo e secondo dell’art. 75 del T.U.,
consegue che l’ammissione al beneficio disposta
nella fase di cognizione cessa di produrre effetti
quando questa fase sia a sua volta cessata.
Giova precisare che l’inciso «fase dell’esecuzione» (contenuto nel comma secondo dell’art. 75
T.U.) sta a comprendere l’intervento di tutti gli organi della giurisdizione penale chiamati a compiere,
oggettivamente, attività di esecuzione (23).
(1) Sez. I, 25 settembre 1997, Lufino, in CED Cass.,
n. 209464 (ma contra già sez. III, 9 maggio 2001, Vellani,
ivi n. 219968). Non sembra quindi fondata la riproposizione della tesi della sentenza Lufino effettuata (anche vigente il nuovo D.P.R. n. 115 del 2002) da sez. IV, 11 giugno 2003, n. 34914, Caltagirone, in Diritto e Giustizia
2003, n. 38, p. 65, e in CED Cass., n. 226396.
(2) Sez. I, 19 febbraio 2004, n. 11060, Franco, in CED
Cass., n. 227521.
(3) Sez. un., 25 novembre 1998, Velletri, in Cass. pen.
1999, p. 2093.
(4) In tal senso v. infatti sez. IV, 26 ottobre 2005, Curatolo, in CED Cass., n. 232787.
(5) V. Corte cost., 30 marzo 1992, n. 144, in Cass.
pen., 1992, p. 2903.
(6) Corte cost., 25 luglio 1995, n. 382, in Arch. n.
proc. pen., 1995, p. 794.
(7) Il concetto di convivenza deve essere inteso in senso stretto per sez. IV, 7 aprile 2005, D’Agostino, in CED
Cass., n. 231791, e cioè come stretta coabitazione. Però,
per sez. IV, 17 gennaio 2006, Conte ed altro, in CED
Cass., n. 233957, il rapporto di convivenza familiare, essendo caratterizzato da continuativi rapporti di affetto, da
costante comunanza di interessi, da comuni responsabilità, e dunque da un legame stabile e duraturo, prescinde
dalla coabitazione fisica, e non può ritenersi escluso dallo
stato di detenzione, pur protratto nel tempo, di uno dei
componenti del nucleo familiare.
(8) V. sez. VI, 31 ottobre 1997, Scaburri, in Cass.
pen., 2000, p. 665; per la rilevanza della convivenza more
uxorio v. anche sez. IV, 26 ottobre 2005, Curatolo, in
CED Cass., n. 232787; sez. IV, 17 febbraio 2005, Capri,
ivi n. 231357; sez. IV, 28 gennaio 2004, Zen, ivi n.
228035.
(9) Sez. IV, 13 gennaio 2006, De Marco ed altro, in
CED Cass., n. 234027.
(10) Nella sostanza sono i dubbi proposti dal Tribunale di Roma con ordinanza (eccezione di illegittimità
costituzionale) del 6 maggio 2004, ma non risolti per motivi formali da Corte cost., 14 dicembre 2005, n. 482, in
Corriere Tributario, 2006, n. 6, p. 465, con nota di
CORSO, La Consulta evita di pronunciarsi sul divieto di
«patrocinio gratuito» nei procedimenti penaltributari.
(11) In tal senso sez. I, 11 giugno 2004, Geri, in CED
Cass., n. 229309 (in motivazione); sez. I, 17 marzo 2000,
Sinisi, ivi n. 215924. Questa tesi è stata fatta propria, sia
pure fugacemente, da Corte cost., 20 giugno 2005, n. 251,
in CED Cass., 0029489, secondo la quale la norma impugnata, nell’escludere il beneficio del patrocinio a spese
dello Stato limitatamente ad una particolare categoria di
reati, presume, non irragionevolmente, l’impossibilità di
verifica delle condizioni economiche dell’autore sulla
sola base documentale.
(12) Sez. I, 11 giugno 2004, Geri, in CED Cass., n.
229309.
(13) Corte cost., 12 marzo 2004, n. 94, in Giust. pen.,
2004, I, c. 201.
(14) V. sez. IV, 30 marzo 2004, Corsano ed altro, in
CED Cass., n. 229659; conf. sez. III, 15 febbraio 2000,
Fabiano, ivi n. 216340, ma sulla base di argomenti letterali superati.
(15) Sez. I, 17 marzo 2000, Sinisi, in CED Cass., n.
215924.
(16) Sez. I, 15 gennaio 2003, Esposito, in CED Cass.,
n. 223451; Sez. I, 17 marzo 2000, Sinisi, cit.
(17) Sez. III, 11 giugno 2002, Viti, in CED Cass., n.
222129. Comunque anche l’assistenza resa dal difensore
in sede di escussione ex artt. 210 c.p.p. (o 197 bis c.p.p.,
aggiungo) è compresa nel beneficio del patrocinio a spese
dello Stato (in tal senso pare anche sez. III, 11 gennaio
2002, Galati, in CED Cass., n. 221691, in un caso di 210
c.p.p.), data l’estensione del beneficio a tutte le eventuali
procedure, derivate ed accidentali, comunque connesse,
ai sensi dell’art. 75, comma 1, T.U.
(18) In tal senso v. sez. I, 25 gennaio 2001, Fallimento, in CED Cass., n. 219562 (secondo cui l’amministrazione fallimentare è esclusa dal beneficio del patrocinio
dei non abbienti); conf. sez. IV, 14 gennaio 2005, WWF,
in CED Cass., n. 231143, che però ammette che il beneficio possa essere concesso per l’esercizio dell’azione civile nel processo penale. Anche sez. I, 14 luglio 2004, Paglianti, in CED Cass., n. 230093, ammette la possibilità
di accedere al patrocinio a spese dello Stato per il fallimento che agisca come parte civile nel processo penale,
ritenendo che l’art. 144 del T.U. rappresenta un’eccezione alla regola generale per cui solo le persone fisiche hanno la possibilità di accedere, nel processo penale, al patrocinio a spese dello Stato.
(19) Sez. un., 25 febbraio 2004, Lustri, in CED Cass.,
n. 227356.
(20) V., soprattutto, Corte cost., ord. 22 aprile 1999,
n. 144, in Giur. cost., 1999, p. 1156; in senso analogo v.
Sez. un., 24 novembre 1999, Di Dona, in CED Cass., n.
214693-4.
(21) Sez. I, 6 dicembre 1999, Neirotti, in CED Cass.,
n. 215223; conf. sez. I, 4 aprile 2000, Lantino, ivi n.
216038.
(22) V. sez. IV, 1 marzo 2006, n. 20784, Gambiraso,
in Guida dir., 2006, n. 33, p. 76.
(23) Sez. IV, 4 maggio 2006, Martinelli ed altro, in
CED Cass., n. 234415. Per sez. I, 3 luglio 2003, Foresta,
in CED Cass., n. 225118, l’ambito delle attività difensive
relativamente alle quali può trovare applicazione, ai sensi
dell’art. 75, comma 2, del T.U., l’istituto del patrocinio
dei non abbienti, comprende, per identità di ratio, anche
la difesa dei collaboratori di giustizia, alla quale si riferisce l’art. 115 del medesimo T.U. Viceversa, secondo
sez. IV, 16 dicembre 2003, Foresta ed altro, in CED
Cass., n. 228200, l’art. 75, comma 2, del T.U. (che, nei
procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza, come in quelli di esecuzione, di revisione e di applicazione di misure di sicurezza, limita l’applicazione della
disciplina del patrocinio a spese dello Stato alle ipotesi in
cui l’interessato «debba o possa essere assistito da un difensore»), non si applica con riguardo alla difesa dei collaboratori di giustizia, differente essendo la ratio tra i due
istituti, dal momento che la normativa sui collaboratori
tende ad offrire una tutela onnicomprensiva all’interessato.
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