28 febbraio 2016 - L`Agenzia Culturale
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28 febbraio 2016 - L`Agenzia Culturale
244 os tr a Milano - Basilica di Sant’Ambrogio con il patrocinio di La n Rassegna Stampa 28 febbraio 2016 A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano” Con sede in Milano, via Locatelli, 4 www.agenziaculturale.it Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it Estratti da: Ciclostilato in proprio 23/2/2016 SMONTARE I PATIBOLI di MARCO IMPAGLIAZZO Il Papa ha lanciato un nuovo e importante appello. Non è la prima volta che Francesco parla della necessità di giungere all'abolizione della pena di morte nel mondo, ma quello di ieri all'Angelus suona come un programma per tutti coloro che desiderano un mondo più vivibile e umano. A partire dai cristiani. Non a caso, proponendo la moratoria per le pene capitali, si è rivolto prima di tutto ai governanti cattolici e ha inserito il suo appello all'interno del Giubileo della Misericordia. Il discorso del Papa, però, ha un carattere universale e riguarda l'intera umanità. Ha parlato di «segni di speranza» in un'opinione pubblica sempre più contraria, nel mondo, alla pratica della pena di morte e ha ricordato che «le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l'ha commesso la possibilità di redimersi». Si tratta di parole che fanno pensare a come si possa giungere, in un giorno che speriamo vicino, all'abolizione della pena capitale nel mondo, a livello legale, così come si giunse nell'Ottocento a quella della schiavitù. Oggi l'Europa vanta, de iure e de facto, il primato di avere archiviato la pena capitale, e molti segnali positivi giungono anche dall'Africa, che potrebbe a breve diventare il secondo continente a essere liberato da questa odiosa pratica. Ma anche, più in generale, si registra la diminuzione, anno dopo anno, del numero dei Paesi mantenitori e di quello dei condannati a morte al termine di una procedura ufficialmente legale. L'ultimo voto, nel 2014, alla III Commissione delle Nazioni Unite, sulla proposta di moratoria universale della pena di morte è stato un successo, con 117 Stati favorevoli alla mozione, tre in più rispetto al voto precedente. Il convegno internazionale 'Per un mondo senza pena di morte' promosso dalla Comunità di Sant'Egidio - che il Papa ha salutato domenica durante l'Angelus, augurandosi che «possa dare un nuovo impulso all'impegno per l'abolizione della pena capitale» - si inserisce in questa campagna: ministri della Giustizia e L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 rappresentanti di 30 Paesi in una conferenza che vede raccolti, in modo inedito, in una stessa riflessione, Paesi abolizionisti e Paesi mantenitori: la strada per difendere la vita si può cercare e trovare insieme se ci si apre al dialogo. Ministri ricevuti poi dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha rilanciato l'appello per un mondo senza pena capitale. Sono campagne preziose per tutti perché sentono, e diffondono, il dovere morale di non retrocedere mai di fronte alla paura che è sempre cattiva consigliera. Se la crescita di un sentimento di allarme è giustificato da tanti episodi violenti cui abbiamo assistito in Europa, in Medio Oriente e in Africa, siamo però convinti che non possa e non debba riaprire la strada a pericolose marce indietro: fare il male per ricavarne il bene può sembrare un pensiero proporzionato, ma non è né giusto né efficace. Fa solo il gioco di chi semina violenza. Perché è proprio la paura la principale arma del terrore. Il sogno di giungere al superamento della pena di morte nel mondo è realizzabile e si fa sempre più concreto. Allo stesso tempo occorre non abbassare mai la guardia. In Asia e negli Stati Uniti, ma non solo, c'è da conquistare molte istituzioni alle ragioni della vita e dell'umanità. E occorre guarire i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se è vero che, anche quando diminuiscono le esecuzioni, troppo frequenti sono ancora, in alcune zone del mondo, le uccisioni extragiudiziali e i linciaggi, soprattutto in America Latina e inAfrica. Lottare contro la pena di morte è anche lottare per una società in cui il livello di violenza diffusa sia il più basso possibile. Uno dei risultati dell'abolizione della pena capitale è infatti quella di inviare a tutti un potente messaggio: aggiungere violenza a violenza - anche se istituzionalizzata non solo non risolve, ma soprattutto avvelena il clima generale, genera sentimenti deleteri tra le persone, ingabbia in una forma di 'retribuzione' feroce. La campagna mondiale fa compiere un salto di qualità nella cultura generale del mondo: la vita è la cosa più importante. RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 2 24/2/2016 L'industria incontra il santo padre Fare impresa per creare valori di GIANFRANCO RAVASI Il seminario «Fare insieme» in Vaticano In vista del seminario di Confindustria «Fare insieme» in programma per venerdì 26 febbraio in Vaticano (Centro Congressi Augustinianum) pubblichiamo l'articolo di Gianfranco Ravasi. «Viviamo in un'epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l'atrofia dei fini». Lapidaria ma incontestabile, questa asserzione del filosofo francese Paul Ricoeur delinea uno dei rischi maggiori della società contemporanea. Da un lato, infatti, mai come oggi abbiamo a disposizione un paniere sterminato di informazioni e di dati attraverso la comunicazione digitale. Mai come ora la scienza, accompagnata dalla tecnologia, ci offre una strumentazione efficace nella ricerca fisica, medica, industriale. Mai come in questo tempo la finanza stende una rete, spesso impalpabile, avvolgendo e talora strangolando il nostro globo. Mai come ai nostri giorni le distanze s'accorciano e persino svaniscono, permettendo un rimescolamento di etnie e culture. D'altro lato, però, a questa indubbia e pur importante "bulimia" operativa corrisponde un'anoressia di valori, di interiorità, di significato, di etica. La massa delle risposte strumentali non riesce a evadere le domande esistenziali che, purtroppo, si affievoliscono nelle coscienze fino a estinguersi. Un altro filosofo, il danese Soeren Kierkegaard, già nell'Ottocento rappresentava simbolicamente questa situazione: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani». L'apparente ottimismo versato a piene mani dalla scienza e dalla comunicazione di massa non riesce, comunque, a nascondere il groviglio di contraddizioni in cui ci dibattiamo. Il sudario di sangue delle guerre, la disperazione degli esodi di massa, la devastazione ambientale, il colossale divario tra ricchi e poveri, l'anelito dei popoli affamati, le ingiustizie sociali sempre più marcate, l'impennata della disoccupazione, gli squilibri culturali, i fondamentalismi religiosi continuano, infatti, ad artigliare le coscienze e le esistenze personali e comunitarie, distratte e superficiali, e riescono a interpellare tutta la piramide della società, dal vertice politico ed economico fino alla base popolare. Per questo l'impresa italiana ha voluto consacrare una giornata di studio e di testimonianza nel tentativo di risvegliare e rinvigorire l'impegno comune ad opporsi a questa turbolenza che agita il nostro pianeta sempre più globalizzato eppure altrettanto frazionato. Gli imperativi per edificare un ethos comune che affronti questo orizzonte complesso e complicato sono quelli di sempre ma devono essere declinati con nuovi accenti, liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti: la giustizia, la libertà, la dignità della L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 persona, la solidarietà, la conoscenza e l'istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale. Queste e altre parole di vita sono state annodate sotto un denominatore comune che ha dato il titolo al convegno, il fare insieme. Ora, questo verbo, che in quasi tutte le civiltà è il più generico per classificare ogni tipologia di azione, nella nostra lingua è basato su una radice indoeuropea che significa "mettere, fondare, posare" e rimanda quindi a una costruzione. Il verbo "fare" è, poi, contenuto in molti altri termini italiani, tra i quali brillano l'"affetto" e il "difetto". Sono un po' i due volti estremi del "fare", quello luminoso e appassionato della dedizione e quello del limite e dell'imperfezione: le mani che operano possono, infatti, stringersi e procedere "insieme", ma possono anche rinchiudersi a pugni. Ecco perché è necessario coniugare il verbo "fare" con l'avverbio "insieme" che ha etimologicamente alla base l'aggettivo "simile". È, quindi, la riscoperta della comune umanità e fraternità, l'essere tutti "figli di Adamo", prima che essere segnati da altri connotati etnici, storici, culturali e sociali. Dobbiamo ribadire, come suggeriva un altro filosofo francese, Emmanuel Lévinas, l'importanza del volto, dello sguardo reciproco, del dialogo. Visto da lontano un altro può sembrarci una bestia o un predatore; di fronte rivela, invece, quella costante umanità che tutti ci unisce per cui, come dice un proverbio orientale, il boia non guarda mai negli occhi la sua vittima. Ora, nel "fare", un aspetto capitale è certamente quello del lavoro. Lo afferma in modo radicale la stessa Bibbia, che è pur sempre "il grande codice" della nostra civiltà occidentale: «Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15). Certo, come diceva Pavese, «lavorare stanca»: non per nulla il latino labor, da cui deriva il nostro "lavoro", significa "fatica" e "dolore", e in francese e spagnolo il "lavoro" è travail e trabajo. Tuttavia l'uomo che è inerte o paralizzato o disoccupato sente una ferita nell'anima. Per questo "fare insieme" è costruire un mondo diverso nella giustizia e nella fraternità ma è anche creare concretamente le condizioni perché tutti possano operare con le loro mani e la mente, "coltivare e custodire" il mondo e sviluppare la loro stessa esistenza personale e sociale. Per questo affidiamo l'ultima considerazione a Primo Levi, uno scrittore che al lavoro operaio ha dedicato un romanzo dal titolo emblematico, La chiave a stella (1978), e che così ci esorta: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono». © RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 3 21/2/2016 La lezione della nuova guerra in Siria (e Libia) È TEMPO DI BUTTARE LA «LOGICA BIPOLARE» di RICCARDO REDAELLI «L'amico del mio amico è mio amico. L'amico del mio nemico è mio nemico. Il nemico del mio nemico è mio amico». Per decenni questo scioglilingua ha rappresentato il solido, banale, cinico criterio di analisi interpretativa della Guerra Fredda. Sfortunatamente per noi, continua a essere utilizzato spesso inconsciamente - anche nel mondo postbipolare. Causando drammatici errori di prospettiva e spingendo i decisori politici a scelte sbagliate. Lo aveva ben capito lo studioso italoamericano di Geopolitica, Ciro Zoppo, allorché sottolineò il pericolo insito nel rimanere ancorati alle vecchie percezioni strategiche quando lo scenario muta radicalmente. La guerra che divampa nel Vicino Oriente lo dimostra: anni di guerra civile insensata, di bombardamenti, stragi, interferenze straniere, con intere popolazioni costrette alla fuga, senza alcun piano credibile per fermare le violenze. Ed è soprattutto l'Occidente a essere finito nella trappola dell'uso delle lenti interpretative della Guerra Fredda: fin dall'inizio della rivolta in Siria - sono passati quasi cinque anni - i criteri di analisi appena ricordati hanno infatti indotto a macroscopici errori di valutazione (e va detto che questo giornale lo ha sempre segnalato, spesso 'remando controcorrente'). Il tiranno Assad era un nemico non tanto perché tiranno, ma perché alleato cruciale per Russia e Iran. Dato che l'Iran era nemico dei nostri alleati sauditi e di Israele, allora era giocoforza nostro avversario. Mentre i nemici diAssad diventavano nostri alleati. È seguendo questa logica che abbiamo sostenuto quel mix indigeribile di oppositori fra cui spiccavano - per capacità militari - i pericolosi gruppi salafiti e le milizie jihadiste. Ma per quale stolida incapacità di analisi si è dovuto attendere l'estate 2014, l'anno cioè in cui il califfo alBaghdadi a proclamato il suo sanguinoso califfato terrorista, per capire che le milizie jihadiste di Daesh che combattevamo in Iraq non potevano essere a noi utili in Siria? E per quanto tempo abbiamo negato a parole quando avveniva nei fatti, ossia che in Iraq , per difendere il governo di Baghdad da noi sostenuto, dovevamo affidarci al nemico giurato degli Stati Uniti, L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 ossia alla Repubblica islamica dell'Iran, mentre i nostri alleati regionali, Turchia e Arabia Saudita hanno direttamente o indirettamente - aiutato forze che ci sono ostili? Si dirà, 'è la Realpolitik, bellezza!'. E invece no, neppure quella. Il presidente russo Putin, con il suo ben noto cinismo, la applica brutalmente sul campo di battaglia siriano, travolgendo come uno schiacciasassi oppositori e civili per difender i propri interessi strategici. Ma quali sarebbero stati i nostri obiettivi di Realpolitik nel Levante? Permettere ai salafiti di cacciare Assad per creare un regime islamista altrettanto violento e con in più l'intento di cancellare tutte le minoranze religiose (minoranze cristiane, in primis)? O permettere all'ambiguo sultano turco - che siede nella Nato e che quindi ci espone tutti nelle sue pericoloso avventure - di espandere la sfera di influenza turca in Medio Oriente? Abbiamo sempre considerato i curdi come amici sicuri dell'Occidente; in questi anni li abbiamo difesi e armati. Ebbene oggi, le forze armate turche bombardano apertamente le milizie curde dei peshmerga, che vengono così spinti sempre più nelle braccia della Russia e dell'Iran. Come può il mio amico (Turchia) essere nemico dell'altro mio amico (Curdi), mentre dimostra amicizia con i nostri peggiori nemici (gli islamisti radicali)? La risposta è semplice: non può essere. Dimostrando che il ragionamento bipolare non ha più alcuna attinenza con il mondo di oggi, caratterizzato da un multipolarismo asimmetrico, in cui le alleanze sono molteplici e contradditorie. Sarebbe come giocare a calcio con cinque o sei squadre in campo. Impossibile seguire con le regole classiche del pallone. Nel Vicino Oriente, ma anche in Libia e altrove, occorre comprendere come le alleanze siano tattiche e debbano essere fatte con chi condivide gli interessi della comunità internazionale, che sono la tutela delle minoranze e la lotta contro il terrorismo jihadista assieme alla difesa dell'integrità di quegli Stati. E se a condividere queste preoccupazioni sono gli avversari dei nostri alleati, Riad e Ankara se ne devono fare una ragione. RIPRODUZIONE RISERVATA. pagina 4 20/2/2016 «I segnali positivi non bastano per trattenere i nostri giovani» Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica Sociale alla Cattolica di Milano, come legge i dati Istat che ci parlano di 100mila italiani emigrati nel corso del 2015? «Se i giovani soprattutto - ma non solo loro fanno fatica a trovare opportunità di lavoro nel nostro paese, si sentono poco valorizzati, cosa devono fare? Possono rimanere in Italia, concludere il loro percorso formativo, non trovare un'occupazione adeguata, e diventare dei Neet, cioè persone che non studiano e non lavorano. Di questa categoria deteniamo il record europeo, Grecia a parte: sono il 26% della fascia tra i 15 e i 29 anni. Oppure, possono provare a giocarsela: dal Sud ci si sposta verso il Nord Italia e l'estero, mentre dal Nord si va soprattutto oltre frontiera. Con l'idea di almeno provare a fare qualche esperienza». anni dice di essere disponibile a valutare un trasferimento all'estero. In altre parole, tra i giovani italiani non ci si domanda più se andarsene, ma se vale la pena di rimanere. Se la realtà resta quella di un Paese che fa fatica a crescere e che non investe adeguatamente sulle nuove generazioni, saranno sempre di più quelli che sceglieranno di emigrare». Eppure il 2015, ci viene detto in tutti i modi, è stato un anno di svolta: il Jobs Act, la ripresina del Pil? «Qualche segnale positivo c'è stato, ma è ancora troppo poco per incoraggiare le giovani generazioni a sentirsi parte di un percorso di crescita che le vede pienamente coinvolte. Nel Rapporto Giovani, la principale indagine sull'universo giovanile che curo con la collaborazione dell'Istituto Toniolo e dell'Università Cattolica, emerge con chiarezza che quelli italiani sono i giovani meno fiduciosi d'Europa nella possibilità di avere un impiego. I tedeschi sono l'esatto contrario. Di più: il 60% dei giovani italiani intervistati nella fascia 18-32 È un discorso che vale anche per i giovani italiani? «Certo. Se si fatica a trovare lavoro e una continuità di reddito, si fatica anche a formare una famiglia, e la scelta di fare figli diventa una 'scelta sospesa'. Nelle giovani generazioni italiane è stata indotta una condizione di tale incertezza del presente, che soffrono nel produrre scelte di investimento positivo per il proprio futuro, nel campo del lavoro come in quello della famiglia. E l'unica scelta che riescono effettivamente a realizzare è quella di andarsene all'estero». [R. GI.] BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 Fa riflettere anche il numero di immigrati stranieri che vengono in Italia per restare, in netto calo. «Se non consideriamo i rifugiati che scappano dalla guerra, gli immigrati 'economici' sono in diminuzione. L'impatto della crisi è stato molto forte, per gli italiani ma anche per gli immigrati. Ne arrivano di meno, quelli che erano qui si spostano in altri paesi, e quelli che restano fanno molti meno figli». pagina 5 21/2/2016 "Ho obbligato l'Europa a guardare Lampedusa e il dramma dei migranti" di ARIANNA FINOS DAL NOSTRO INVIATO BERLINO. «Penso a tutti quelli che hanno attraversato il mare per arrivare a Lampedusa e a quelli che non ce l'hanno fatta». Gianfranco Rosi stringe l'Orso d'oro della Berlinale per Fuocoammare e chiama il medico Pietro Bartolo sul palco: «Mi ha insegnato che Lampedusa è un'isola di pescatori, che accettano tutto quel che viene dal mare. Siamo tutti pescatori e dobbiamo accettare tutti quello che viene dal mare ». La sfida per il regista, già Leone d'oro con Sacro GRA, era «sradicare il bombardamento di immagini quotidiane dei telegiornali, una realtà narrata in termini di cifre a cui siamo assuefatti. Era importante testimoniare la tragedia umana in corso». Tra le immagini più forti del film, in sala dallo scorso giovedì, ci sono quelle dei cadaveri ammassati sotto la stiva di un barcone. Rosi afferra il cellulare e cerca tra le foto. «Ecco». Eccolo in tuta bianca mentre si cala nella botola che sbuca sul pavimento del barcone dipinto di azzurro. In un'altra foto è già sotto, la camera in spalla. «Quelli intorno alla botola sono i bulloni, servono per sbarrare ogni via di uscita alle persone che sono sotto. Il 15 agosto 2015 in quaranta sono morti asfissiati a venti miglia dalla costa della Libia, dopo appena cinque ore di navigazione. Nessuno racconta di loro». Lo ha fatto lei a Berlino, città che ha accolto solo quest'anno 80mila migranti. «In questi anni da Lampedusa sono passate 400 mila persone. Non è mai stato considerato un fenomeno, ma qualcosa che l'Italia doveva risolvere da sola. La scorsa estate tutto è cambiato e l'Europa si è improvvisamente accorta che ci sono masse di persone in movimento. E ha iniziato a reagire, purtroppo non bene. Un mio amico che vive qui da vent'anni mi ha detto che anche la sinistra è terrorizzata, tutti sono contro la Merkel. Mi fa paura anche la manipolazione politica: "Apriamo ai siriani". E tutti gli altri?». In Austria è in vigore il tetto giornaliero e una serie di altre misure anti-immigrati. «Lo trovo vergognoso. Se l'Europa non riesce a fare i conti con una politica europea e non nazionale, sarà la fine di tutto. La cosa che fa più paura non sono i confini fisici, ma quelli mentali. Ciò che è successo a Berlino qualche giorno fa, il pullman assediato dai passanti che si sono accorti dei migranti all'interno, è vergognoso. Il direttore della Berlinale Dieter Kosslick ha giustamente confessato il dolore per qualcosa che lo riporta alla Germania di settant'anni fa». L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 Questo premio al Festival ha un significato politico forte. « Fuocoammare non è un film politico, non consegno giudizi o soluzioni. È un grido di dolore. Ma la sua valenza politica è imprescindibile: perciò era importante mostrarlo qui». Nel film la vita degli abitanti e quella degli immigrati scorrono parallele senza incontrarsi. «Sono arrivato a Lampedusa per raccontare l'identità dell'isola, non volevo che il film fosse solo un collettore di storie legate all'immigrazione. Ho scoperto l'esistenza di due vite parallele. Non esiste un reale incontro tra i pescatori e gli immigrati: Lampedusa non è più l'approdo di chi arrivava e interagiva con gli abitanti. Ora i profughi vengono presi in mare, c'è un controllo medico, un bus che li porta in centro, si fermano lì per la prima identificazione. Ho seguito l'intero viaggio di un gruppo di nigeriani dal soccorso sulla nave militare al trasbordo sulla guardia costiera, lo sbarco a Lampedusa, l'arrivo in centro. È nata così la scena in cui il giovane nigeriano con il suo rap racconta l'orrore del viaggio, il deserto, la prigione in Libia, gli stenti. Quando sono tornato al centro, tre giorni dopo, erano tutti spariti». Qualcuno ha parlato di pornografia, di fronte alle immagini dei corpi nella stiva. «Non avrei mai voluto raccontare i morti, né li ho cercati. La tragedia del barcone mi è arrivata addosso e non ho avuto scelta. Mi sono trovato di fronte a quelle immagini e sarei stato ipocrita a non usarle. Il comandante della nave mi ha spinto: "Devi andare sotto la stiva e filmare. Sarebbe come trovarsi davanti alle camere a gas dell'Olocausto e censurarsi perché le immagini sono troppo forti. Il film è un viaggio emotivo verso quelle immagini necessarie. Nulla è gratuito, nessuno è manipolato». Quali reazioni ha avuto a Berlino? «Un eritreo e un somalo dopo la proiezione sono venuti ad abbracciarmi: "Grazie per aver raccontato il nostro dramma". Sono abituato al fatto che i miei film dividono, stavolta non è successo. Magari c'è qualche voce di dissenso, qualcuno ha urlato "pornografia". Ma la critica e il pubblico l'ha sostenuto e credo che sia anche arrivato l'amore con cui è stato fatto. Spero di aver creato qualcosa che resti e aiuti a creare consapevolezza. Non possiamo più fare finta di non sapere. Siamo tutti responsabili». ©RIPRODUZIONE RISERVATA pagina 6 24/2/2016 Attenti a non minimizzare di GIOVANNI SABBATUCCI Per la seconda volta in due giorni, un professore che insegna all'Università di Bologna, Angelo Panebianco, noto anche per la sua attività di commentatore politico, si è visto interrompere una lezione. Ad interromperla un manipolo di contestatori che non condividevano le sue idee sulla guerra e sulla pace in riferimento all'attuale crisi mediorientale. Era già accaduto qualche mese fa. E nemmeno allora il fatto aveva suscitato reazioni adeguate alla sua gravità, come ci si dovrebbe aspettare quando sia in gioco un diritto violato. Poche volte come in questo momento il tema dei diritti civili (della loro estensione e della loro tutela legislativa) è stato al centro del dibattito pubblico in Italia. «I diritti - lo ricordava ieri un editoriale su Repubblica - sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano la libertà e dignità di ognuno». L'autore dell'articolo, Stefano Rodotà, si riferiva ai diritti che potremmo definire «nuovi», quelli entrati solo in tempi recenti nell'ambito di azione della politica e attinenti alla sfera della vita privata, dell'identità sessuale, dei rapporti familiari. Proprio ieri, però, l'episodio solo apparentemente minore della contestazione a Panebianco ci riportava alle tematiche «classiche» dei diritti fondamentali, primo fra tutti quello di poter professare le proprie idee ed esprimere liberamente il proprio pensiero. La tentazione, in casi come questi, è spesso quella di minimizzare. I contestatori erano pochi, isolati anche fra gli studenti. Hanno solo fatto baccano, ottenendo con poco sforzo il loro scopo: finire sulle pagine dei giornali e sugli schermi della tv. Meglio dunque non dar loro troppo peso, anzi non parlarne proprio. Ma sarebbe un errore L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 grave. E non solo perché i disturbatori hanno replicato la loro performance, quasi a voler trasformare una contestazione isolata in un bando perpetuo. Ma anche perché i precedenti in materia sono inquietanti. Nella stagione del mitico Sessantotto, a molti professori fu impedito fisicamente di tener lezione, ad altri fu imposta la pratica degli esami di gruppo o del sei politico; altri ancora (fra questi Rosario Romeo) furono sequestrati nei loro studi. In quei tempi e in quella atmosfera, nessuno ci fece gran caso. Ma, una decina di anni dopo (1979), nella Padova tenuta in ostaggio dalle frange violente, gli autonomi cercarono di spaccare la testa allo psicologo (ed ex partigiano) Guido Petter e gambizzarono con armi da fuoco lo storico socialista Angelo Ventura. Nel 1988 e poi nel 1991, Renzo De Felice fu rumorosamente contestato nella facoltà di Scienze politiche della Sapienza. Nel febbraio del 1996, quando il biografo di Mussolini era già molto malato e prossimo alla morte, ignoti attentatori lanciarono due bombe molotov sul terrazzo della sua casa. Si trattava evidentemente di dilettanti: le molotov non esplosero e nessuno si fece male. E l'episodio, oggettivamente grave a prescindere dalle sue conseguenze, fu largamente sottovalutato. Non è il caso dunque di ripetere quegli errori. Una democrazia non tollera censure preventive, tanto meno se si manifestano con atti di prepotenza. E meno ancora può tollerarle un'istituzione universitaria, che ha la sua funzione e la sua ragion d'essere non solo nel trasmettere i saperi, ma anche nel consentire e nello sviluppare il libero confronto fra idee diverse. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI. pagina 7 PAPA FRANCESCO ANGELUS Roma - Piazza San Pietro Domenica, 21 febbraio 2016 II Domenica di Quaresima Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La seconda domenica di Quaresima ci presenta il Vangelo della Trasfigurazione di Gesù. Il viaggio apostolico che ho compiuto nei giorni scorsi in Messico è stata un'esperienza di trasfigurazione. Come mai? Perché il Signore ci ha mostrato la luce della sua gloria attraverso il corpo della sua Chiesa, del suo Popolo santo che vive in quella terra. Un corpo tante volte ferito, un Popolo tante volte oppresso, disprezzato, violato nella sua dignità. In effetti, i diversi incontri vissuti in Messico sono stati pieni di luce: la luce della fede che trasfigura i volti e rischiara il cammino. Il “baricentro” spirituale del pellegrinaggio è stato il Santuario della Madonna di Guadalupe. Rimanere in silenzio davanti all'immagine della Madre era ciò che prima di tutto mi proponevo. E ringrazio Dio che me lo ha concesso. Ho contemplato, e mi sono lasciato guardare da Colei che porta impressi nei suoi occhi gli sguardi di tutti i suoi figli, e raccoglie i dolori per le violenze, i rapimenti, le uccisioni, i soprusi a danno di tanta povera gente, di tante donne. Guadalupe è il Santuario mariano più frequentato al mondo. Da tutta l'America vanno a pregare là dove la Virgen Morenita si mostrò all'indio san Juan Diego, dando inizio all'evangelizzazione del continente e alla sua nuova civiltà, frutto dell'incontro tra diverse culture. E questa è proprio l'eredità che il Signore ha consegnato al Messico: custodire la ricchezza della diversità e, nello stesso tempo, manifestare l'armonia della fede comune, una fede schietta e robusta, accompagnata da una grande carica di vitalità e di umanità. Come i miei Predecessori, anch'io sono andato a confermare la fede del popolo messicano, ma contemporaneamente ad esserne confermato; ho raccolto a piene mani questo dono perché vada a beneficio della Chiesa universale. Un esempio luminoso di quanto sto dicendo è dato dalle famiglie: le famiglie messicane mi hanno accolto con gioia come messaggero di Cristo, Pastore L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 8 della Chiesa; ma a loro volta mi hanno donato delle testimonianze limpide e forti, testimonianze di fede vissuta, di fede che trasfigura la vita, e questo a edificazione di tutte le famiglie cristiane del mondo. E lo stesso si può dire per i giovani, per i consacrati, per i sacerdoti, per i lavoratori, per i carcerati. Perciò rendo grazie al Signore e alla Vergine di Guadalupe per il dono di questo pellegrinaggio. Inoltre, ringrazio il Presidente del Messico e le altre Autorità civili per la calorosa accoglienza; ringrazio vivamente i miei fratelli nell'Episcopato, e tutte le persone che in tanti modi hanno collaborato. Una lode speciale eleviamo alla Santissima Trinità per aver voluto che, in questa occasione, avvenisse a Cuba l'incontro tra il Papa e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, il caro fratello Kirill; un incontro tanto desiderato pure dai miei Predecessori. Anche questo evento è una luce profetica di Risurrezione, di cui oggi il mondo ha più che mai bisogno. La Santa Madre di Dio continui a guidarci nel cammino dell'unità. Preghiamo la Madonna di Kazan', di cui il Patriarca Kirill mi ha regalato un'icona. © Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 9 quaderno 3973 9 gennaio 2016 EUROPA E RIFUGIATI: INSIEME PER COSTRUIRE UNA CASA COMUNE Camillo Ripamonti S.I. «I numeri sono impressionanti. Per alcuni, sono spaventosi. Ma questo non è il momento di avere paura. È il momento di una coraggiosa, determinata e concertata azione da parte dell'Unione Europea, delle sue istituzioni e di tutti i suoi Stati membri. Si tratta in primo luogo di una questione di umanità e di dignità umana. E per l'Europa è anche una questione di giustizia storica». Con queste parole, il 9 settembre 2015, il presidente della Commissione europea JeanClaude Juncker, nel suo discorso sullo stato dell'Unione davanti al Parlamento di Strasburgo, ha descritto i massicci arrivi di rifugiati che stanno interessando l'Europa. Ma la paura, invece di diminuire, non fa che crescere, amplificata anche dai fatti recenti: l'aereo della compagnia aerea russa Metrojet partito da Sharm el-Sheikh e diretto a San Pietroburgo, precipitata nella penisola del Sinai il 31 ottobre scorso con 224 persone a bordo; le bombe a Beirut, dello scorso 12 novembre, che sono costate la vita a 41 persone; la strage di Parigi, con 130 morti e oltre 350 feriti, e quella all'Hotel Radisson a Bamako, in Mali, con 19 vittime. La strategia della paura non aiuta a costruire politiche di ampio respiro e certamente non è un presupposto per l'azione concertata invocata dal presidente Juncker. «Trovo pernicioso mettere sullo stesso piano i rifugiati, i migranti, con i terroristi. Ricordiamoci che si tratta di persone che sono obbligate a scappare dal loro Paese per colpa di chi sparge il terrore in Europa», ha ribadito lo stesso Juncker lo scorso 25 novembre, in un altro discorso al Parlamento europeo. Eppure la rinnovata enfasi sulla sicurezza ha avuto come conseguenza immediata un'accelerazione delle politiche di chiusura dei confini che già alcuni Stati membri dell'Europa orientale avevano iniziato a mettere in atto. Germania, Polonia, Francia e Ungheria, ma anche Stati Uniti e Canada, hanno immediatamente dichiarato che l'attacco terroristico di Parigi implica una revisione delle politiche di accoglienza. Le autorità macedoni, insieme a quelle serbe, slovene e croate, hanno deciso di ripristinare i controlli alle frontiere e di lasciare passare i migranti sulla base della loro nazionalità: solo i siriani, gli afghani e gli iracheni possono attraversare il confine, gli altri restano bloccati per giorni, senza un riparo dalla neve e dalle temperature rigide dell'inverno, senza accesso all'acqua e ai servizi. I migranti forzati rischiano di diventare il capro espiatorio in una situazione in cui l'opinione pubblica e le istituzioni sono accomunate da un desiderio spasmodico di controllo. Questo finisce per mettere in secondo piano il fatto che i rifugiati sono le prime vittime del terrorismo, uomini e donne costretti a scappare da conflitti interminabili, alimentati da interessi di cui essi spesso sono ignare vittime, uomini e donne in cerca di pace per sé e per le proprie famiglie, desiderosi di potersi sentire accolti in terra straniera. Occorre allora costruire una casa comune in pace. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 10 quaderno 3973 9 gennaio 2016 Fino a che punto è legittimo parlare di invasione? I rifugiati che arrivano alle porte d'Europa stanno chiaramente aumentando, ma la crisi dei rifugiati è un fenomeno globale che non può che essere letto in una prospettiva ampia. L'ultimo rapporto dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, pubblicato a giugno 2015, si intitolava significativamente World at War (Il mondo in guerra). Dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, le persone in fuga da guerre e persecuzioni non sono mai state così numerose: 42.500 ogni giorno, uno ogni 122 abitanti del pianeta. Non è dunque sorprendente che una percentuale (circa il 14%) di questo popolo immenso arrivi a chiedere protezione nel nostro continente. Le rotte di arrivo si concentrano soprattutto nel Mediterraneo, trasformato purtroppo anche in un immenso cimitero per i molti che non sopravvivono alla pericolosità del viaggio: una strage costante, che ha fatto contare almeno 3.419 vittime nel 2014, e 3.470 nel 2015. Le persone arrivate dall'inizio dell'anno - spontaneamente o soccorse in mare dalle operazioni Triton e Poseidon dell'agenzia europea Frontex - sono invece 820.318, di cui 673.916 nella sola Grecia. L'85% delle persone sbarcate provenivano da uno dei primi dieci Paesi di origine dei rifugiati nel mondo e, in particolare, il 51% dalla Siria. Anche l'Italia naturalmente è stata interessata da questo aumento di arrivi di migranti forzati. Secondo i dati del Ministero dell'Interno, il 2014 è stato l'anno record degli sbarchi: si sono registrati oltre 170.000 arrivi, più della somma dei tre anni precedenti e quasi il triplo del 2011 (anno della cosiddetta «emergenza Nord Africa», creata dai flussi di migranti arrivati in Italia dalla Tunisia e dalla Libia in seguito alle «primavere arabe»). I dati più recenti del 2015, con 143.500 arrivi, mostrano come negli ultimi mesi non si siano avuti ulteriori forti aumenti, pur rimanendo molto elevata l'intensità del fenomeno, che ha interessato pressoché esclusivamente i porti delle regioni meridionali. Tra il 2014 e il 2015 è però mutata la composizione dei flussi. Nel 2014 il Paese di provenienza più rappresentato era la Siria (43.323 persone sbarcate), seguita dall'Eritrea (34.329) e dal Mali (9.908); nel 2015 i dati evidenziano al primo posto l'Eritrea (36.838), seguita dalla Nigeria (18.452) e dalla Somalia (10.605). Poco più di 7.000 i siriani, che attualmente giungono soprattutto in Grecia attraverso la rotta del Mediterraneo orientale e poi proseguono attraverso i Balcani. Un secondo elemento che distingue la situazione italiana rispetto a quella degli altri Paesi dell'Unione Europea è la ridotta presenza di donne (7,6%) e di minori (6,8%). Complessivamente, le richieste di asilo in Europa nel 2014 hanno superato quota 625.000, con un aumento del 44,7% rispetto all'anno precedente, e nei primi 5 mesi del 2015 si è registrato un ulteriore aumento del 68% rispetto allo stesso periodo del 2014. È comunque utile ricordare che alla fine di ottobre 2015 i rifugiati presenti nella sola Turchia erano oltre 2 milioni, e il Libano, il cui territorio equivale a meno della metà della regione Lombardia, ne ospitava 1.075.637. Affrontare con urgenza e maggiore incisività il tema delle migrazioni, e in particolare delle migrazioni forzate, è certamente una priorità. Tuttavia la vastità e la complessità della questione impongono una maggiore chiarezza rispetto agli obiettivi e ai valori che orientano le scelte politiche in materia. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 11 quaderno 3973 9 gennaio 2016 Casa comune e giustizia Secondo un'indagine statistica commissionata dal Parlamento europeo e realizzata nella seconda metà del settembre 2015, il 66% degli europei ritiene che le decisioni sui flussi migratori debbano essere prese prevalentemente a livello regionale e non dai singoli Governi nazionali. I cittadini cercano nell'Europa la risposta a una sfida che li interroga e li impensierisce. Ma che cos'è oggi l'Europa? Quali valori animano la sua azione? In occasione della sua visita a Strasburgo, il 25 novembre 2014, Papa Francesco ha evidenziato i cambiamenti intervenuti, nel continente e nel mondo, dalla visita di Giovanni Paolo II del 1988. Se allora l'auspicio del Pontefice era stato quello di un allargamento dell'Unione fino a raggiungere «le dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora dalla storia», nel 2014 lo sguardo del Papa si soffermava piuttosto sul ruolo dell'Europa in uno scenario globale: «Accanto a un'Unione Europea più ampia, vi è anche un mondo più complesso e fortemente in movimento. Un mondo sempre più interconnesso e globale e perciò sempre meno eurocentrico. A un'Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi l'immagine di un'Europa un po' invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto». L'auspicio del Papa è che «le difficoltà possano diventare promotrici potenti di unità, per vincere tutte le paure che l'Europa - insieme a tutto il mondo - sta attraversando», riportando al centro la fiducia nell'uomo («non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico, ma nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente») e la promozione del bene comune. La costruzione di un'Europa sicura, in questa nostra epoca come alla fine della «guerra fredda», non può che passare attraverso la costruzione di un'Europa capace di essere davvero casa comune. Oggi però la globalizzazione impone una sfida ancora più ambiziosa: l'Europa deve diventare casa comune per chi ci vive, ma anche impegnarsi perché il mondo intero sia casa comune per l'intera famiglia umana. Questa è la vera e più radicale sfida culturale che ci aspetta nei prossimi anni come cittadini europei, ed è l'unico modo per sconfiggere ogni forma di terrorismo. Ricordava Papa Francesco nel suo recente viaggio in Kenya: «Fintanto che le nostre società sperimenteranno le divisioni, siano esse etniche, religiose o economiche, tutti gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a operare per la riconciliazione e la pace, per il perdono e per la guarigione dei cuori. Nell'opera di costruzione di un solido ordine democratico, di rafforzamento della coesione e dell'integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il perseguimento del bene comune dev'essere un obiettivo primario. L'esperienza dimostra che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che nascono dalla povertà e dalla frustrazione». Promuovere una comune responsabilità verso le persone e verso le cose: questa è la via che occorre percorrere con coraggio e senza fermarsi. La sfida della creazione di una casa comune ci impone, come europei, un primo e grande passo: quello di guardare negli occhi le persone che arrivano alle nostre frontiere. Osservava il p. Adolfo Nicolás, Preposito generale della Compagnia di Gesù: «Frontiera viene dal latino frons, che significa volto. Riconciliazione alle frontiere significa restituire un volto umano a coloro che sono stati disumanizzati da esclusioni violente. La violenza disumanizza i volti sia delle vittime, sia degli aggressori; avvelena tutta la società, ponendo in dubbio la fondamentale bontà della natura umana» L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 12 quaderno 3973 9 gennaio 2016 Frontiere come luogo di riconciliazione e di riumanizzazione, frontiere come occasione per guardare alla persona e alla sua storia e per creare relazioni: un'immagine molto distante da quella delle attuali frontiere europee, luoghi dove spesso non si esita a esercitare ulteriore violenza (come più volte denunciato dagli enti di tutela) e dove sempre maggiore enfasi viene posta sulla tempestiva identificazione di chi non ha titolo per restare sul territorio. Non a caso, una delle risposte dell'Unione Europea alla attuale situazione è il cosiddetto «approccio hotspot»: l'Italia e la Grecia sono chiamate a istituire centri dove si provveda all'identificazione e alla fotosegnalazione dei migranti sbarcati, con la collaborazione di funzionari delle agenzie europee Easo, Frontex, Europol ed Eurojust. La finalità dichiarata di tali centri è quella di distinguere tempestivamente chi ha titolo per accedere alla protezione internazionale, in modo da poter provvedere al rapido rimpatrio di tutti gli altri, anche in questo caso con la collaborazione tecnica e finanziaria dell'Unione. Già nel 1992, il documento I rifugiati, una sfida per la solidarietà sottolineava «il rispetto scrupoloso del principio della volontarietà del rimpatrio» come «base non negoziabile per il trattamento dei rifugiati. Nessuno deve essere rimandato in un Paese dove tema azioni discriminatorie o gravi problemi di sopravvivenza. Nel caso che i competenti uffici governativi decidano di non accogliere i richiedenti asilo con l'argomentazione che non si tratta di veri rifugiati, essi sono tenuti ad assicurarsi che altrove sarà loro garantita un'esistenza sicura e libera». Oggi questa attenzione esplicita sembra essere gravemente compromessa da un malinteso legalismo, che subordina la dignità della persona al possesso di titoli di viaggio o di soggiorno. «Migranti e rifugiati non sono pedine nello scacchiere dell'umanità». Con queste parole del messaggio per la 100a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (5 agosto 2013), Papa Francesco ha espresso uno dei punti centrali dell'impegno a fianco dei migranti forzati: accompagnare e servire i rifugiati non può che portarci a indagare sulle cause profonde delle loro sofferenze. «Servire [i rifugiati] significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione», ha sottolineato Papa Francesco, quando, il 10 settembre 2013, ha visitato il Centro Astalli di Roma. Tali percorsi non possono che passare attraverso «politiche corrette, coraggiose e concrete, che aiutino i loro Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni - causa principale di tale fenomeno -, invece delle politiche di interesse, che aumentano e alimentano tali conflitti» Anche nella cooperazione internazionale, da più parti indicata come via privilegiata per contrastare le cause effettive delle migrazioni - «aiutiamoli a casa loro» è divenuta oggi, pur con connotazioni molto diversificate, una sollecitazione fatta propria da una pluralità di partiti politici e di componenti della società civile -, emerge però sempre più chiaramente una tendenza a cercare la collaborazione con i Paesi terzi - per esempio, la Turchia, che pure già accoglie oltre 2 milioni di rifugiati -, più con l'obiettivo di fermare i rifugiati fuori delle frontiere esterne dell'Unione che per un effettivo impegno comune a promuovere la pace e la giustizia. La protezione effettiva dei rifugiati deve essere sempre prioritaria rispetto all'esigenza di contenere i flussi. In questa ottica appare assolutamente urgente un nuovo impulso alle relazioni di collaborazione tra Unione Europea e Stati dell'Africa, che sono state recentemente oggetto del L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 13 quaderno 3973 9 gennaio 2016 Summit a La Valletta. Ma, al di là del lodevole impegno del nostro Governo nel sostenere una piattaforma di confronto tra le due sponde all'insegna dello scambio e della reciprocità, al momento tali relazioni appaiono segnate da molte e gravi contraddizioni. Una particolare attenzione è richiesta inoltre nelle situazioni in cui sono in atto conflitti e serie e sistematiche violazioni dei diritti umani: è il caso, ad esempio, di molti Paesi coinvolti nel cosiddetto «Processo di Khartoum», un ampio programma di collaborazione in tema di migrazioni, focalizzato sul traffico degli esseri umani, da costruire tra l'Unione Europea e i Paesi del Corno d'Africa (Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia e Kenya). La gestione delle migrazioni e il contrasto del traffico di esseri umani deve tener conto del dovere di proteggere le persone, che non può essere delegato a Stati che non possono o non vogliono garantire tale protezione. Gli accordi bilaterali di riammissione fra Stati, infine, non dovrebbero in nessun caso anticipare frettolosamente i tempi della riconciliazione e della sicurezza, a scapito dell'incolumità delle persone costrette al rimpatrio. Riportare la persona al centro della casa comune Europa Nei vertici europei che si susseguono sul tema della crisi dei rifugiati, continua a mancare una risposta chiara a una domanda essenziale, che peraltro raramente viene formulata: quali vie legali per chiedere asilo in Europa? Oggi chi fugge da guerre e persecuzioni e legittimamente vuole esercitare il proprio diritto di chiedere protezione negli Stati dell'Unione non ha alternative al traffico di esseri umani. La timida proposta europea per un programma di reinsediamento, assolutamente sproporzionata rispetto al bisogno, ha tempi di attuazione estremamente lenti, che dicono molto dello scarso rilievo che l'Europa attribuisce a questa misura rispetto alle altre. Invece è proprio in questa direzione che vanno concentrati gli sforzi. Non si può tollerare che continuino le stragi quotidiane nel Mediterraneo, a cui si sommano quelle meno visibili nel Sahara e lungo le rotte della migrazione forzata. È urgente creare vie sicure e legali di accesso all'Europa: rilascio di «visti umanitari», sospensione temporanea dell'obbligo di visto in alcune situazioni critiche - come peraltro è espressamente previsto dalla Direttiva 2001/55/EC art. 8 (3) -, incremento del reinsediamento, ampliamento del diritto al ricongiungimento familiare, o altri meccanismi che potrebbero essere sperimentati in progetti pilota, in collaborazione con chi opera nei Paesi di origine o di transito. Nonostante il dichiarato impegno a contrastare il traffico di esseri umani, non si è visto ancora un impegno europeo significativo su questo tipo di misure, che sono le uniche in grado di contrastare effettivamente il traffico di esseri umani. Sembra altrettanto urgente definire un nuovo meccanismo che regoli il coinvolgimento degli Stati membri rispetto agli arrivi dei migranti forzati: il Regolamento di Dublino, che nel corso degli ultimi mesi è stato di fatto superato dagli avvenimenti, è ormai inadeguato, inefficace e non più utile a gestire la situazione. Diceva il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Strasburgo, lo scorso 25 novembre 2015: È necessario, piuttosto, che l'Europa, nel suo complesso, aggiorni le proprie regole per fronteggiare un fenomeno che è diverso, per natura ed entità, rispetto al momento in cui le regole sull'asilo furono scritte. Gli accordi di Dublino fotografano una realtà di un passato che non c'è più. Per questo sono superati: superati dalla realtà, che è un giudice inflessibile. L'esigenza è quella di definire nuove regole improntate a princìpi di umanità e sicurezza, di solidarietà, responsabilità, e comunque adeguate alla realtà nuova che abbiamo di fronte. La scelta, in definitiva - e non solo in ambito migratorio - è tra un'Unione che affronta i fenomeni cercando di regolarli e un'Europa che L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 14 quaderno 3973 9 gennaio 2016 subisce gli eventi senza essere capace di governarli, con il conseguente aumento degli squilibri interni della sfiducia tra i Paesi membri». Si dovrebbe immaginare un meccanismo completamente diverso di condivisione di responsabilità, che non guardi unicamente alla procedura d'asilo, ma più ampiamente alle prospettive a medio e lungo termine per chi si vede riconoscere la protezione internazionale da uno Stato europeo. Nessun meccanismo, per quanto sofisticato, può avere successo se non riporta al centro la persona del rifugiato, prendendo in considerazione anche il suo punto di vista, le sue aspirazioni, le possibilità che ha in termini di legami sociali familiari. Le persone non sono merci: non ci si può aspettare che restino passive rispetto a un loro trasferimento da un luogo all'altro. Il rischio concreto è quello di sprecare molte energie e risorse. Le persone che arrivano in cerca di protezione in Europa, dopo esperienze molto traumatiche e spesso viaggi pericolosi, dovrebbero essere accolte con una modalità e secondo una tempistica che tenga in considerazione questa loro condizione. L'efficacia e la credibilità del Sistema Comune d'Asilo Europeo (Ceas) si sta rivelando una vera e propria cartina al tornasole dei valori fondanti dell'Unione. Quest'ultima dovrebbe far fronte comune per accogliere, non per difendersi dai rifugiati, smettendo di costruire muri che offendono la propria storia, e di questa storia dovrebbe invece fare memoria. Diceva ancora il Presidente della Repubblica a Strasburgo: «Solo chi non vuol vedere può fingere di non sapere da dove viene la dolorosa carovana di persone che risale l'Africa e il Medio-Oriente verso l'Europa. Ripetono la tragedia degli ebrei in fuga dal nazismo; delle centinaia di migliaia di prigionieri di guerra che vagavano in Europa, all'indomani della Seconda Guerra Mondiale [...]. Il mondo è in movimento, sulle gambe di milioni di donne, uomini, bambini, spesso vittime di crudeli trafficanti di esseri umani: è un esercito inerme, che marcia alla ricerca della propria salvezza. Cosa possiamo opporre alle loro ragioni? Non sono loro, che fuggono dalla violenza e dalla morte, il nostro nemico!» Alleati in una trasformazione culturale Per costruire una casa comune occorre lavorare insieme, non soltanto tra Stati membri dell'Unione, tra pubblico e privato, tra realtà religiose e organizzazioni laiche, ma soprattutto tra persone residenti nei Paesi dell'Unione e rifugiati, nel senso più ampio del termine. La vulnerabilità dell'Europa, anche degli Stati di più lunga tradizione di asilo e dai sistemi di accoglienza più efficienti, si rivela nel diffuso fallimento delle politiche di inclusione e di cittadinanza. A leggere i documenti ufficiali, pare ormai acquisito il concetto che «l'integrazione dei rifugiati in un contesto locale sia un processo dinamico a più facce e a doppio senso, che richiede gli sforzi di tutte le parti interessate». Infatti, «ai rifugiati è richiesto l'adattamento alla società ospitante senza abbandonare la propria identità culturale». Alla società ospitante e alle pubbliche istituzioni è richiesta «una pronta corrispondenza ad accogliere i rifugiati e ad andare incontro alle necessità di una popolazione diversa». Nei fatti però sempre più raramente si instaura un rapporto di fiducia tra il rifugiato che arriva e lo Stato che accoglie, persino quando il primo momento di contatto è un'azione di soccorso condotta dalle autorità. Immediatamente dopo inizia un percorso di reciproca diffidenza, di non ascolto, di conflitto, che spesso non viene meno neppure dopo il riconoscimento della protezione L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016 pagina 15 quaderno 3973 9 gennaio 2016 internazionale. Ostacoli linguistici, ma soprattutto culturali e addirittura burocratici (la cosiddetta «persecuzione delle carte»), sintomatica di una grave scissione tra norma e tutela del diritto, ma anche tra legge e umanità si oppongono alla costruzione di un senso di cittadinanza, primo motore per il consolidamento della casa comune. È dunque urgente trovare valori. comuni che possano orientare la società europea in questa fase di trasformazione profonda degli scenari mondiali e locali. Uno dei più cruciali, in questo momento, è l'ospitalità. Come ha ricordato p. Nicolás nel suo discorso in occasione dei 30 anni di attività del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, «l'ospitalità è quel valore profondamente umano e cristiano che riconosce le ragioni dell'altro non perché questi fa parte della propria famiglia o della propria comunità, o ancora della nostra stessa razza o fede, bensì semplicemente perché lei o lui è un essere umano che merita accoglienza e rispetto». L'ospitalità è reciproca: ospite è chi accoglie e chi viene accolto. Essa è la prima espressione di quel processo dinamico e biunivoco che viene definito «integrazione»: un processo che allo stesso tempo è una sfida culturale affascinante e complessa, perché comporta la necessità di uscire dalla logica dell'«io» e del «tu» per entrare in quella del «noi», un noi multietnico, multiculturale e multireligioso. La società del domani, che consegneremo alle giovani generazioni europee, non dovrà più essere nostra in contrapposizione a quella di un fantomatico straniero, con un volto diverso a seconda del Paese dal quale proviene, ma dovrà essere la nostra casa comune di cui ciascuno si senta parte integrante, cittadino, corresponsabile. È un cammino articolato e impegnativo, che non si esaurisce nel tempo di un progetto e non può essere misurato con indicatori predefiniti. Sarà al contrario un processo lungo, non privo di conflitti, che deve coinvolgere più generazioni e fare leva su un'educazione più incisiva e coraggiosa, che formi i leader di domani a interpretare il cambiamento e a non subirlo passivamente. «Aprire, comunicare abiti mentali, del cuore e culturali all'insegna della varietà: così potremo educare persone flessibili, aperte, che non si spaventano per qualcosa di nuovo, di diverso, ma sono pronte ad apprezzare tutte le possibilità umane. Credo che questo lavoro di aprire le finestre della personalità, della mente, del cuore sia essenziale. Credo che dobbiamo arrivare a far sì che i nostri studenti italiani, spagnoli, tedeschi, siano fieri della cultura cinese, o della cultura indiana o africana, per il solo fatto che esse sono una produzione dell'umanità. Non dovremmo più considerarle "cultura degli altri". Essere fieri di una cultura piccola e ridotta ci ha fatto molto male». I rifugiati, i migranti, i fedeli delle diverse fedi religiose che vivono accanto a noi dovranno essere alleati e protagonisti di questa importante sfida culturale ed educativa. L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 244 del 28 febbraio 2016