28 febbraio 2016 - L`Agenzia Culturale

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28 febbraio 2016 - L`Agenzia Culturale
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Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
con il patrocinio di
La
n
Rassegna
Stampa
28 febbraio 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
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Estratti da:
Ciclostilato in proprio
23/2/2016
SMONTARE I PATIBOLI
di MARCO IMPAGLIAZZO
Il Papa ha lanciato un nuovo e importante appello.
Non è la prima volta che Francesco parla della
necessità di giungere all'abolizione della pena di
morte nel mondo, ma quello di ieri all'Angelus
suona come un programma per tutti coloro che
desiderano un mondo più vivibile e umano. A
partire dai cristiani. Non a caso, proponendo la
moratoria per le pene capitali, si è rivolto prima di
tutto ai governanti cattolici e ha inserito il suo
appello all'interno del Giubileo della
Misericordia.
Il discorso del Papa, però, ha un carattere
universale e riguarda l'intera umanità. Ha parlato
di «segni di speranza» in un'opinione pubblica
sempre più contraria, nel mondo, alla pratica della
pena di morte e ha ricordato che «le società
moderne hanno la possibilità di reprimere
efficacemente il crimine senza togliere
definitivamente a colui che l'ha commesso la
possibilità di redimersi». Si tratta di parole che
fanno pensare a come si possa giungere, in un
giorno che speriamo vicino, all'abolizione della
pena capitale nel mondo, a livello legale, così
come si giunse nell'Ottocento a quella della
schiavitù.
Oggi l'Europa vanta, de iure e de facto, il primato
di avere archiviato la pena capitale, e molti segnali
positivi giungono anche dall'Africa, che potrebbe
a breve diventare il secondo continente a essere
liberato da questa odiosa pratica. Ma anche, più in
generale, si registra la diminuzione, anno dopo
anno, del numero dei Paesi mantenitori e di quello
dei condannati a morte al termine di una procedura
ufficialmente legale. L'ultimo voto, nel 2014, alla
III Commissione delle Nazioni Unite, sulla
proposta di moratoria universale della pena di
morte è stato un successo, con 117 Stati favorevoli
alla mozione, tre in più rispetto al voto precedente.
Il convegno internazionale 'Per un mondo senza
pena di morte' promosso dalla Comunità di
Sant'Egidio - che il Papa ha salutato domenica
durante l'Angelus, augurandosi che «possa dare
un nuovo impulso all'impegno per l'abolizione
della pena capitale» - si inserisce in questa
campagna: ministri della Giustizia e
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rappresentanti di 30 Paesi in una conferenza che
vede raccolti, in modo inedito, in una stessa
riflessione, Paesi abolizionisti e Paesi
mantenitori: la strada per difendere la vita si può
cercare e trovare insieme se ci si apre al dialogo.
Ministri ricevuti poi dal presidente della
Repubblica, Sergio Mattarella, che ha rilanciato
l'appello per un mondo senza pena capitale.
Sono campagne preziose per tutti perché sentono,
e diffondono, il dovere morale di non retrocedere
mai di fronte alla paura che è sempre cattiva
consigliera. Se la crescita di un sentimento di
allarme è giustificato da tanti episodi violenti cui
abbiamo assistito in Europa, in Medio Oriente e in
Africa, siamo però convinti che non possa e non
debba riaprire la strada a pericolose marce
indietro: fare il male per ricavarne il bene può
sembrare un pensiero proporzionato, ma non è né
giusto né efficace. Fa solo il gioco di chi semina
violenza. Perché è proprio la paura la principale
arma del terrore.
Il sogno di giungere al superamento della pena di
morte nel mondo è realizzabile e si fa sempre più
concreto. Allo stesso tempo occorre non abbassare
mai la guardia. In Asia e negli Stati Uniti, ma non
solo, c'è da conquistare molte istituzioni alle
ragioni della vita e dell'umanità. E occorre guarire
i popoli dal fascino del rancore e della vendetta, se
è vero che, anche quando diminuiscono le
esecuzioni, troppo frequenti sono ancora, in
alcune zone del mondo, le uccisioni
extragiudiziali e i linciaggi, soprattutto in America
Latina e inAfrica.
Lottare contro la pena di morte è anche lottare per
una società in cui il livello di violenza diffusa sia il
più basso possibile. Uno dei risultati
dell'abolizione della pena capitale è infatti quella
di inviare a tutti un potente messaggio: aggiungere
violenza a violenza - anche se istituzionalizzata non solo non risolve, ma soprattutto avvelena il
clima generale, genera sentimenti deleteri tra le
persone, ingabbia in una forma di 'retribuzione'
feroce. La campagna mondiale fa compiere un
salto di qualità nella cultura generale del mondo:
la vita è la cosa più importante.
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24/2/2016
L'industria incontra il santo padre
Fare impresa per creare valori
di GIANFRANCO RAVASI
Il seminario «Fare insieme» in Vaticano In vista del
seminario di Confindustria «Fare insieme» in
programma per venerdì 26 febbraio in Vaticano
(Centro Congressi Augustinianum) pubblichiamo
l'articolo di Gianfranco Ravasi.
«Viviamo in un'epoca in cui alla bulimia dei mezzi
corrisponde l'atrofia dei fini». Lapidaria ma
incontestabile, questa asserzione del filosofo francese
Paul Ricoeur delinea uno dei rischi maggiori della
società contemporanea. Da un lato, infatti, mai come
oggi abbiamo a disposizione un paniere sterminato di
informazioni e di dati attraverso la comunicazione
digitale. Mai come ora la scienza, accompagnata dalla
tecnologia, ci offre una strumentazione efficace nella
ricerca fisica, medica, industriale. Mai come in questo
tempo la finanza stende una rete, spesso impalpabile,
avvolgendo e talora strangolando il nostro globo.
Mai come ai nostri giorni le distanze s'accorciano e
persino svaniscono, permettendo un rimescolamento
di etnie e culture.
D'altro lato, però, a questa indubbia e pur importante
"bulimia" operativa corrisponde un'anoressia di
valori, di interiorità, di significato, di etica. La massa
delle risposte strumentali non riesce a evadere le
domande esistenziali che, purtroppo, si affievoliscono
nelle coscienze fino a estinguersi. Un altro filosofo, il
danese Soeren Kierkegaard, già nell'Ottocento
rappresentava simbolicamente questa situazione: «La
nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il
megafono del comandante non è più la rotta ma ciò
che mangeremo domani». L'apparente ottimismo
versato a piene mani dalla scienza e dalla
comunicazione di massa non riesce, comunque, a
nascondere il groviglio di contraddizioni in cui ci
dibattiamo. Il sudario di sangue delle guerre, la
disperazione degli esodi di massa, la devastazione
ambientale, il colossale divario tra ricchi e poveri,
l'anelito dei popoli affamati, le ingiustizie sociali
sempre più marcate, l'impennata della
disoccupazione, gli squilibri culturali, i
fondamentalismi religiosi continuano, infatti, ad
artigliare le coscienze e le esistenze personali e
comunitarie, distratte e superficiali, e riescono a
interpellare tutta la piramide della società, dal vertice
politico ed economico fino alla base popolare. Per
questo l'impresa italiana ha voluto consacrare una
giornata di studio e di testimonianza nel tentativo di
risvegliare e rinvigorire l'impegno comune ad opporsi
a questa turbolenza che agita il nostro pianeta sempre
più globalizzato eppure altrettanto frazionato. Gli
imperativi per edificare un ethos comune che affronti
questo orizzonte complesso e complicato sono quelli
di sempre ma devono essere declinati con nuovi
accenti, liberandoli dagli stereotipi vagamente
moraleggianti: la giustizia, la libertà, la dignità della
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persona, la solidarietà, la conoscenza e l'istruzione, la
responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro,
la fede autentica e la morale. Queste e altre parole di
vita sono state annodate sotto un denominatore
comune che ha dato il titolo al convegno, il fare
insieme.
Ora, questo verbo, che in quasi tutte le civiltà è il più
generico per classificare ogni tipologia di azione, nella
nostra lingua è basato su una radice indoeuropea che
significa "mettere, fondare, posare" e rimanda quindi a
una costruzione. Il verbo "fare" è, poi, contenuto in
molti altri termini italiani, tra i quali brillano l'"affetto"
e il "difetto". Sono un po' i due volti estremi del "fare",
quello luminoso e appassionato della dedizione e
quello del limite e dell'imperfezione: le mani che
operano possono, infatti, stringersi e procedere
"insieme", ma possono anche rinchiudersi a pugni.
Ecco perché è necessario coniugare il verbo "fare" con
l'avverbio "insieme" che ha etimologicamente alla base
l'aggettivo "simile". È, quindi, la riscoperta della
comune umanità e fraternità, l'essere tutti "figli di
Adamo", prima che essere segnati da altri connotati
etnici, storici, culturali e sociali.
Dobbiamo ribadire, come suggeriva un altro filosofo
francese, Emmanuel Lévinas, l'importanza del volto,
dello sguardo reciproco, del dialogo. Visto da lontano
un altro può sembrarci una bestia o un predatore; di
fronte rivela, invece, quella costante umanità che tutti
ci unisce per cui, come dice un proverbio orientale, il
boia non guarda mai negli occhi la sua vittima. Ora, nel
"fare", un aspetto capitale è certamente quello del
lavoro. Lo afferma in modo radicale la stessa Bibbia,
che è pur sempre "il grande codice" della nostra civiltà
occidentale: «Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel
giardino perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi
2,15).
Certo, come diceva Pavese, «lavorare stanca»: non per
nulla il latino labor, da cui deriva il nostro "lavoro",
significa "fatica" e "dolore", e in francese e spagnolo il
"lavoro" è travail e trabajo. Tuttavia l'uomo che è inerte
o paralizzato o disoccupato sente una ferita
nell'anima. Per questo "fare insieme" è costruire un
mondo diverso nella giustizia e nella fraternità ma è
anche creare concretamente le condizioni perché tutti
possano operare con le loro mani e la mente, "coltivare
e custodire" il mondo e sviluppare la loro stessa
esistenza personale e sociale. Per questo affidiamo
l'ultima considerazione a Primo Levi, uno scrittore che
al lavoro operaio ha dedicato un romanzo dal titolo
emblematico, La chiave a stella (1978), e che così ci
esorta: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che
il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che
purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore
approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è
una verità che non molti conoscono».
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21/2/2016
La lezione della nuova guerra in Siria (e Libia)
È TEMPO DI BUTTARE
LA «LOGICA BIPOLARE»
di RICCARDO REDAELLI
«L'amico del mio amico è mio amico. L'amico del mio
nemico è mio nemico. Il nemico del mio nemico è mio
amico». Per decenni questo scioglilingua ha
rappresentato il solido, banale, cinico criterio di analisi
interpretativa della Guerra Fredda.
Sfortunatamente per noi, continua a essere utilizzato spesso inconsciamente - anche nel mondo
postbipolare. Causando drammatici errori di
prospettiva e spingendo i decisori politici a scelte
sbagliate. Lo aveva ben capito lo studioso italoamericano di Geopolitica, Ciro Zoppo, allorché
sottolineò il pericolo insito nel rimanere ancorati alle
vecchie percezioni strategiche quando lo scenario
muta radicalmente.
La guerra che divampa nel Vicino Oriente lo dimostra:
anni di guerra civile insensata, di bombardamenti,
stragi, interferenze straniere, con intere popolazioni
costrette alla fuga, senza alcun piano credibile per
fermare le violenze. Ed è soprattutto l'Occidente a
essere finito nella trappola dell'uso delle lenti
interpretative della Guerra Fredda: fin dall'inizio della
rivolta in Siria - sono passati quasi cinque anni - i criteri
di analisi appena ricordati hanno infatti indotto a
macroscopici errori di valutazione (e va detto che
questo giornale lo ha sempre segnalato, spesso
'remando controcorrente'). Il tiranno Assad era un
nemico non tanto perché tiranno, ma perché alleato
cruciale per Russia e Iran. Dato che l'Iran era nemico
dei nostri alleati sauditi e di Israele, allora era
giocoforza nostro avversario.
Mentre i nemici diAssad diventavano nostri alleati.
È seguendo questa logica che abbiamo sostenuto quel
mix indigeribile di oppositori fra cui spiccavano - per
capacità militari - i pericolosi gruppi salafiti e le milizie
jihadiste.
Ma per quale stolida incapacità di analisi si è dovuto
attendere l'estate 2014, l'anno cioè in cui il califfo alBaghdadi a proclamato il suo sanguinoso califfato
terrorista, per capire che le milizie jihadiste di Daesh
che combattevamo in Iraq non potevano essere a noi
utili in Siria? E per quanto tempo abbiamo negato a
parole quando avveniva nei fatti, ossia che in Iraq , per
difendere il governo di Baghdad da noi sostenuto,
dovevamo affidarci al nemico giurato degli Stati Uniti,
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ossia alla Repubblica islamica dell'Iran, mentre i nostri
alleati regionali, Turchia e Arabia Saudita hanno direttamente o indirettamente - aiutato forze che ci
sono ostili?
Si dirà, 'è la Realpolitik, bellezza!'. E invece no,
neppure quella. Il presidente russo Putin, con il suo ben
noto cinismo, la applica brutalmente sul campo di
battaglia siriano, travolgendo come uno schiacciasassi
oppositori e civili per difender i propri interessi
strategici. Ma quali sarebbero stati i nostri obiettivi di
Realpolitik nel Levante? Permettere ai salafiti di
cacciare Assad per creare un regime islamista
altrettanto violento e con in più l'intento di cancellare
tutte le minoranze religiose (minoranze cristiane, in
primis)? O permettere all'ambiguo sultano turco - che
siede nella Nato e che quindi ci espone tutti nelle sue
pericoloso avventure - di espandere la sfera di
influenza turca in Medio Oriente?
Abbiamo sempre considerato i curdi come amici sicuri
dell'Occidente; in questi anni li abbiamo difesi e
armati.
Ebbene oggi, le forze armate turche bombardano
apertamente le milizie curde dei peshmerga, che
vengono così spinti sempre più nelle braccia della
Russia e dell'Iran.
Come può il mio amico (Turchia) essere nemico
dell'altro mio amico (Curdi), mentre dimostra amicizia
con i nostri peggiori nemici (gli islamisti radicali)?
La risposta è semplice: non può essere. Dimostrando
che il ragionamento bipolare non ha più alcuna
attinenza con il mondo di oggi, caratterizzato da un
multipolarismo asimmetrico, in cui le alleanze sono
molteplici e contradditorie. Sarebbe come giocare a
calcio con cinque o sei squadre in campo.
Impossibile seguire con le regole classiche del pallone.
Nel Vicino Oriente, ma anche in Libia e altrove,
occorre comprendere come le alleanze siano tattiche e
debbano essere fatte con chi condivide gli interessi
della comunità internazionale, che sono la tutela delle
minoranze e la lotta contro il terrorismo jihadista
assieme alla difesa dell'integrità di quegli Stati. E se a
condividere queste preoccupazioni sono gli avversari
dei nostri alleati, Riad e Ankara se ne devono fare una
ragione.
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20/2/2016
«I segnali positivi non bastano
per trattenere i nostri giovani»
Alessandro Rosina, professore di Demografia e
Statistica Sociale alla Cattolica di Milano, come
legge i dati Istat che ci parlano di 100mila italiani
emigrati nel corso del 2015?
«Se i giovani soprattutto - ma non solo loro fanno fatica a trovare opportunità di lavoro nel
nostro paese, si sentono poco valorizzati, cosa
devono fare? Possono rimanere in Italia,
concludere il loro percorso formativo, non
trovare un'occupazione adeguata, e diventare
dei Neet, cioè persone che non studiano e non
lavorano. Di questa categoria deteniamo il
record europeo, Grecia a parte: sono il 26%
della fascia tra i 15 e i 29 anni. Oppure,
possono provare a giocarsela: dal Sud ci si
sposta verso il Nord Italia e l'estero, mentre dal
Nord si va soprattutto oltre frontiera. Con l'idea
di almeno provare a fare qualche esperienza».
anni dice di essere disponibile a valutare un
trasferimento all'estero. In altre parole, tra i
giovani italiani non ci si domanda più se
andarsene, ma se vale la pena di rimanere. Se
la realtà resta quella di un Paese che fa fatica a
crescere e che non investe adeguatamente sulle
nuove generazioni, saranno sempre di più quelli
che sceglieranno di emigrare».
Eppure il 2015, ci viene detto in tutti i modi, è
stato un anno di svolta: il Jobs Act, la ripresina
del Pil?
«Qualche segnale positivo c'è stato, ma è
ancora troppo poco per incoraggiare le giovani
generazioni a sentirsi parte di un percorso di
crescita che le vede pienamente coinvolte. Nel
Rapporto Giovani, la principale indagine
sull'universo giovanile che curo con la
collaborazione
dell'Istituto
Toniolo
e
dell'Università Cattolica, emerge con chiarezza
che quelli italiani sono i giovani meno fiduciosi
d'Europa nella possibilità di avere un impiego. I
tedeschi sono l'esatto contrario. Di più: il 60%
dei giovani italiani intervistati nella fascia 18-32
È un discorso che vale anche per i giovani
italiani?
«Certo. Se si fatica a trovare lavoro e una
continuità di reddito, si fatica anche a formare
una famiglia, e la scelta di fare figli diventa una
'scelta sospesa'. Nelle giovani generazioni
italiane è stata indotta una condizione di tale
incertezza del presente, che soffrono nel
produrre scelte di investimento positivo per il
proprio futuro, nel campo del lavoro come in
quello della famiglia. E l'unica scelta che
riescono effettivamente a realizzare è quella di
andarsene all'estero».
[R. GI.] BY NC ND ALCUNI DIRITTI
RISERVATI.
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Fa riflettere anche il numero di immigrati stranieri
che vengono in Italia per restare, in netto calo.
«Se non consideriamo i rifugiati che scappano
dalla guerra, gli immigrati 'economici' sono in
diminuzione. L'impatto della crisi è stato molto
forte, per gli italiani ma anche per gli immigrati.
Ne arrivano di meno, quelli che erano qui si
spostano in altri paesi, e quelli che restano
fanno molti meno figli».
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21/2/2016
"Ho obbligato l'Europa a guardare
Lampedusa e il dramma dei migranti"
di ARIANNA FINOS
DAL NOSTRO INVIATO BERLINO.
«Penso a tutti quelli che hanno attraversato il mare per
arrivare a Lampedusa e a quelli che non ce l'hanno
fatta». Gianfranco Rosi stringe l'Orso d'oro della
Berlinale per Fuocoammare e chiama il medico Pietro
Bartolo sul palco: «Mi ha insegnato che Lampedusa è
un'isola di pescatori, che accettano tutto quel che
viene dal mare. Siamo tutti pescatori e dobbiamo
accettare tutti quello che viene dal mare ». La sfida per
il regista, già Leone d'oro con Sacro GRA, era «sradicare
il bombardamento di immagini quotidiane dei
telegiornali, una realtà narrata in termini di cifre a cui
siamo assuefatti. Era importante testimoniare la
tragedia umana in corso». Tra le immagini più forti del
film, in sala dallo scorso giovedì, ci sono quelle dei
cadaveri ammassati sotto la stiva di un barcone. Rosi
afferra il cellulare e cerca tra le foto. «Ecco». Eccolo in
tuta bianca mentre si cala nella botola che sbuca sul
pavimento del barcone dipinto di azzurro. In un'altra
foto è già sotto, la camera in spalla. «Quelli intorno alla
botola sono i bulloni, servono per sbarrare ogni via di
uscita alle persone che sono sotto. Il 15 agosto 2015 in
quaranta sono morti asfissiati a venti miglia dalla costa
della Libia, dopo appena cinque ore di navigazione.
Nessuno racconta di loro».
Lo ha fatto lei a Berlino, città che ha accolto solo
quest'anno 80mila migranti.
«In questi anni da Lampedusa sono passate 400 mila
persone. Non è mai stato considerato un fenomeno,
ma qualcosa che l'Italia doveva risolvere da sola. La
scorsa estate tutto è cambiato e l'Europa si è
improvvisamente accorta che ci sono masse di
persone in movimento. E ha iniziato a reagire,
purtroppo non bene. Un mio amico che vive qui da
vent'anni mi ha detto che anche la sinistra è
terrorizzata, tutti sono contro la Merkel. Mi fa paura
anche la manipolazione politica: "Apriamo ai siriani". E
tutti gli altri?».
In Austria è in vigore il tetto giornaliero e una serie
di altre misure anti-immigrati.
«Lo trovo vergognoso. Se l'Europa non riesce a fare i
conti con una politica europea e non nazionale, sarà la
fine di tutto. La cosa che fa più paura non sono i confini
fisici, ma quelli mentali. Ciò che è successo a Berlino
qualche giorno fa, il pullman assediato dai passanti che
si sono accorti dei migranti all'interno, è vergognoso. Il
direttore della Berlinale Dieter Kosslick ha giustamente
confessato il dolore per qualcosa che lo riporta alla
Germania di settant'anni fa».
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Questo premio al Festival ha un significato politico
forte.
« Fuocoammare non è un film politico, non consegno
giudizi o soluzioni. È un grido di dolore. Ma la sua
valenza politica è imprescindibile: perciò era
importante mostrarlo qui».
Nel film la vita degli abitanti e quella degli
immigrati scorrono parallele senza incontrarsi.
«Sono arrivato a Lampedusa per raccontare l'identità
dell'isola, non volevo che il film fosse solo un collettore
di storie legate all'immigrazione. Ho scoperto
l'esistenza di due vite parallele. Non esiste un reale
incontro tra i pescatori e gli immigrati: Lampedusa non
è più l'approdo di chi arrivava e interagiva con gli
abitanti. Ora i profughi vengono presi in mare, c'è un
controllo medico, un bus che li porta in centro, si
fermano lì per la prima identificazione. Ho seguito
l'intero viaggio di un gruppo di nigeriani dal soccorso
sulla nave militare al trasbordo sulla guardia costiera,
lo sbarco a Lampedusa, l'arrivo in centro. È nata così la
scena in cui il giovane nigeriano con il suo rap racconta
l'orrore del viaggio, il deserto, la prigione in Libia, gli
stenti. Quando sono tornato al centro, tre giorni dopo,
erano tutti spariti».
Qualcuno ha parlato di pornografia, di fronte alle
immagini dei corpi nella stiva.
«Non avrei mai voluto raccontare i morti, né li ho
cercati. La tragedia del barcone mi è arrivata addosso e
non ho avuto scelta. Mi sono trovato di fronte a quelle
immagini e sarei stato ipocrita a non usarle. Il
comandante della nave mi ha spinto: "Devi andare
sotto la stiva e filmare. Sarebbe come trovarsi davanti
alle camere a gas dell'Olocausto e censurarsi perché le
immagini sono troppo forti. Il film è un viaggio
emotivo verso quelle immagini necessarie. Nulla è
gratuito, nessuno è manipolato».
Quali reazioni ha avuto a Berlino?
«Un eritreo e un somalo dopo la proiezione sono venuti
ad abbracciarmi: "Grazie per aver raccontato il nostro
dramma". Sono abituato al fatto che i miei film
dividono, stavolta non è successo. Magari c'è qualche
voce di dissenso, qualcuno ha urlato "pornografia". Ma
la critica e il pubblico l'ha sostenuto e credo che sia
anche arrivato l'amore con cui è stato fatto. Spero di
aver creato qualcosa che resti e aiuti a creare
consapevolezza. Non possiamo più fare finta di non
sapere. Siamo tutti responsabili».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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24/2/2016
Attenti a non minimizzare
di GIOVANNI SABBATUCCI
Per la seconda volta in due giorni, un professore
che insegna all'Università di Bologna, Angelo
Panebianco, noto anche per la sua attività di
commentatore politico, si è visto interrompere una
lezione.
Ad interromperla un manipolo di contestatori che
non condividevano le sue idee sulla guerra e
sulla pace in riferimento all'attuale crisi
mediorientale. Era già accaduto qualche mese fa.
E nemmeno allora il fatto aveva suscitato reazioni
adeguate alla sua gravità, come ci si dovrebbe
aspettare quando sia in gioco un diritto violato.
Poche volte come in questo momento il tema dei
diritti civili (della loro estensione e della loro
tutela legislativa) è stato al centro del dibattito
pubblico in Italia.
«I diritti - lo ricordava ieri un editoriale su
Repubblica - sono indivisibili, e quelli civili non
sono un lusso, perché riguardano la libertà e
dignità di ognuno». L'autore dell'articolo, Stefano
Rodotà, si riferiva ai diritti che potremmo definire
«nuovi», quelli entrati solo in tempi recenti
nell'ambito di azione della politica e attinenti alla
sfera della vita privata, dell'identità sessuale, dei
rapporti familiari. Proprio ieri, però, l'episodio solo
apparentemente minore della contestazione a
Panebianco
ci
riportava
alle
tematiche
«classiche» dei diritti fondamentali, primo fra tutti
quello di poter professare le proprie idee ed
esprimere liberamente il proprio pensiero.
La tentazione, in casi come questi, è spesso
quella di minimizzare. I contestatori erano pochi,
isolati anche fra gli studenti. Hanno solo fatto
baccano, ottenendo con poco sforzo il loro scopo:
finire sulle pagine dei giornali e sugli schermi
della tv. Meglio dunque non dar loro troppo peso,
anzi non parlarne proprio. Ma sarebbe un errore
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grave. E non solo perché i disturbatori hanno
replicato la loro performance, quasi a voler
trasformare una contestazione isolata in un bando
perpetuo.
Ma anche perché i precedenti in materia sono
inquietanti.
Nella stagione del mitico Sessantotto, a molti
professori fu impedito fisicamente di tener
lezione, ad altri fu imposta la pratica degli esami
di gruppo o del sei politico; altri ancora (fra
questi Rosario Romeo) furono sequestrati nei
loro studi. In quei tempi e in quella atmosfera,
nessuno ci fece gran caso. Ma, una decina di
anni dopo (1979), nella Padova tenuta in
ostaggio dalle frange violente, gli autonomi
cercarono di spaccare la testa allo psicologo (ed
ex partigiano) Guido Petter e gambizzarono con
armi da fuoco lo storico socialista Angelo
Ventura. Nel 1988 e poi nel 1991, Renzo De
Felice fu rumorosamente contestato nella facoltà
di Scienze politiche della Sapienza. Nel febbraio
del 1996, quando il biografo di Mussolini era già
molto malato e prossimo alla morte, ignoti
attentatori lanciarono due bombe molotov sul
terrazzo della sua casa. Si trattava evidentemente
di dilettanti: le molotov non esplosero e nessuno
si fece male. E l'episodio, oggettivamente grave
a prescindere dalle sue conseguenze, fu
largamente sottovalutato.
Non è il caso dunque di ripetere quegli errori.
Una democrazia non tollera censure preventive,
tanto meno se si manifestano con atti di
prepotenza. E meno ancora può tollerarle
un'istituzione universitaria, che ha la sua funzione
e la sua ragion d'essere non solo nel trasmettere
i saperi, ma anche nel consentire e nello
sviluppare il libero confronto fra idee diverse.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI.
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 21 febbraio 2016
II Domenica di Quaresima
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
La seconda domenica di Quaresima ci presenta il Vangelo della
Trasfigurazione di Gesù.
Il viaggio apostolico che ho compiuto nei giorni scorsi in Messico è stata
un'esperienza di trasfigurazione. Come mai? Perché il Signore ci ha
mostrato la luce della sua gloria attraverso il corpo della sua Chiesa, del
suo Popolo santo che vive in quella terra. Un corpo tante volte ferito, un
Popolo tante volte oppresso, disprezzato, violato nella sua dignità. In effetti,
i diversi incontri vissuti in Messico sono stati pieni di luce: la luce della fede
che trasfigura i volti e rischiara il cammino.
Il “baricentro” spirituale del pellegrinaggio è stato il Santuario della
Madonna di Guadalupe. Rimanere in silenzio davanti all'immagine della
Madre era ciò che prima di tutto mi proponevo. E ringrazio Dio che me lo ha
concesso. Ho contemplato, e mi sono lasciato guardare da Colei che porta
impressi nei suoi occhi gli sguardi di tutti i suoi figli, e raccoglie i dolori per
le violenze, i rapimenti, le uccisioni, i soprusi a danno di tanta povera gente,
di tante donne. Guadalupe è il Santuario mariano più frequentato al mondo.
Da tutta l'America vanno a pregare là dove la Virgen Morenita si mostrò
all'indio san Juan Diego, dando inizio all'evangelizzazione del continente e
alla sua nuova civiltà, frutto dell'incontro tra diverse culture.
E questa è proprio l'eredità che il Signore ha consegnato al Messico:
custodire la ricchezza della diversità e, nello stesso tempo, manifestare
l'armonia della fede comune, una fede schietta e robusta, accompagnata da
una grande carica di vitalità e di umanità. Come i miei Predecessori,
anch'io sono andato a confermare la fede del popolo messicano, ma
contemporaneamente ad esserne confermato; ho raccolto a piene mani
questo dono perché vada a beneficio della Chiesa universale.
Un esempio luminoso di quanto sto dicendo è dato dalle famiglie: le famiglie
messicane mi hanno accolto con gioia come messaggero di Cristo, Pastore
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della Chiesa; ma a loro volta mi hanno donato delle testimonianze limpide e
forti, testimonianze di fede vissuta, di fede che trasfigura la vita, e questo a
edificazione di tutte le famiglie cristiane del mondo. E lo stesso si può dire per
i giovani, per i consacrati, per i sacerdoti, per i lavoratori, per i carcerati.
Perciò rendo grazie al Signore e alla Vergine di Guadalupe per il dono di
questo pellegrinaggio. Inoltre, ringrazio il Presidente del Messico e le altre
Autorità civili per la calorosa accoglienza; ringrazio vivamente i miei fratelli
nell'Episcopato, e tutte le persone che in tanti modi hanno collaborato.
Una lode speciale eleviamo alla Santissima Trinità per aver voluto che, in
questa occasione, avvenisse a Cuba l'incontro tra il Papa e il Patriarca di
Mosca e di tutta la Russia, il caro fratello Kirill; un incontro tanto desiderato
pure dai miei Predecessori. Anche questo evento è una luce profetica di
Risurrezione, di cui oggi il mondo ha più che mai bisogno. La Santa Madre di
Dio continui a guidarci nel cammino dell'unità. Preghiamo la Madonna di
Kazan', di cui il Patriarca Kirill mi ha regalato un'icona.
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EUROPA E RIFUGIATI: INSIEME PER
COSTRUIRE UNA CASA COMUNE
Camillo Ripamonti S.I.
«I numeri sono impressionanti. Per alcuni, sono spaventosi. Ma questo non è il momento di
avere paura. È il momento di una coraggiosa, determinata e concertata azione da parte
dell'Unione Europea, delle sue istituzioni e di tutti i suoi Stati membri. Si tratta in primo luogo
di una questione di umanità e di dignità umana. E per l'Europa è anche una questione di giustizia
storica». Con queste parole, il 9 settembre 2015, il presidente della Commissione europea JeanClaude Juncker, nel suo discorso sullo stato dell'Unione davanti al Parlamento di Strasburgo, ha
descritto i massicci arrivi di rifugiati che stanno interessando l'Europa.
Ma la paura, invece di diminuire, non fa che crescere, amplificata anche dai fatti recenti:
l'aereo della compagnia aerea russa Metrojet partito da Sharm el-Sheikh e diretto a San
Pietroburgo, precipitata nella penisola del Sinai il 31 ottobre scorso con 224 persone a bordo; le
bombe a Beirut, dello scorso 12 novembre, che sono costate la vita a 41 persone; la strage di
Parigi, con 130 morti e oltre 350 feriti, e quella all'Hotel Radisson a Bamako, in Mali, con 19
vittime.
La strategia della paura non aiuta a costruire politiche di ampio respiro e certamente non è
un presupposto per l'azione concertata invocata dal presidente Juncker. «Trovo pernicioso
mettere sullo stesso piano i rifugiati, i migranti, con i terroristi. Ricordiamoci che si tratta di
persone che sono obbligate a scappare dal loro Paese per colpa di chi sparge il terrore in
Europa», ha ribadito lo stesso Juncker lo scorso 25 novembre, in un altro discorso al Parlamento
europeo.
Eppure la rinnovata enfasi sulla sicurezza ha avuto come conseguenza immediata
un'accelerazione delle politiche di chiusura dei confini che già alcuni Stati membri dell'Europa
orientale avevano iniziato a mettere in atto. Germania, Polonia, Francia e Ungheria, ma anche
Stati Uniti e Canada, hanno immediatamente dichiarato che l'attacco terroristico di Parigi
implica una revisione delle politiche di accoglienza. Le autorità macedoni, insieme a quelle
serbe, slovene e croate, hanno deciso di ripristinare i controlli alle frontiere e di lasciare passare
i migranti sulla base della loro nazionalità: solo i siriani, gli afghani e gli iracheni possono
attraversare il confine, gli altri restano bloccati per giorni, senza un riparo dalla neve e dalle
temperature rigide dell'inverno, senza accesso all'acqua e ai servizi.
I migranti forzati rischiano di diventare il capro espiatorio in una situazione in cui
l'opinione pubblica e le istituzioni sono accomunate da un desiderio spasmodico di controllo.
Questo finisce per mettere in secondo piano il fatto che i rifugiati sono le prime vittime del
terrorismo, uomini e donne costretti a scappare da conflitti interminabili, alimentati da interessi
di cui essi spesso sono ignare vittime, uomini e donne in cerca di pace per sé e per le proprie
famiglie, desiderosi di potersi sentire accolti in terra straniera. Occorre allora costruire una casa
comune in pace.
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Fino a che punto è legittimo parlare di invasione?
I rifugiati che arrivano alle porte d'Europa stanno chiaramente aumentando, ma la crisi dei
rifugiati è un fenomeno globale che non può che essere letto in una prospettiva ampia. L'ultimo
rapporto dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, pubblicato a giugno
2015, si intitolava significativamente World at War (Il mondo in guerra). Dalla Seconda Guerra
Mondiale ad oggi, le persone in fuga da guerre e persecuzioni non sono mai state così
numerose: 42.500 ogni giorno, uno ogni 122 abitanti del pianeta. Non è dunque sorprendente
che una percentuale (circa il 14%) di questo popolo immenso arrivi a chiedere protezione nel
nostro continente.
Le rotte di arrivo si concentrano soprattutto nel Mediterraneo, trasformato purtroppo anche
in un immenso cimitero per i molti che non sopravvivono alla pericolosità del viaggio: una
strage costante, che ha fatto contare almeno 3.419 vittime nel 2014, e 3.470 nel 2015. Le
persone arrivate dall'inizio dell'anno - spontaneamente o soccorse in mare dalle operazioni
Triton e Poseidon dell'agenzia europea Frontex - sono invece 820.318, di cui 673.916 nella sola
Grecia. L'85% delle persone sbarcate provenivano da uno dei primi dieci Paesi di origine dei
rifugiati nel mondo e, in particolare, il 51% dalla Siria.
Anche l'Italia naturalmente è stata interessata da questo aumento di arrivi di migranti
forzati. Secondo i dati del Ministero dell'Interno, il 2014 è stato l'anno record degli sbarchi: si
sono registrati oltre 170.000 arrivi, più della somma dei tre anni precedenti e quasi il triplo del
2011 (anno della cosiddetta «emergenza Nord Africa», creata dai flussi di migranti arrivati in
Italia dalla Tunisia e dalla Libia in seguito alle «primavere arabe»). I dati più recenti del 2015,
con 143.500 arrivi, mostrano come negli ultimi mesi non si siano avuti ulteriori forti aumenti,
pur rimanendo molto elevata l'intensità del fenomeno, che ha interessato pressoché
esclusivamente i porti delle regioni meridionali.
Tra il 2014 e il 2015 è però mutata la composizione dei flussi. Nel 2014 il Paese di
provenienza più rappresentato era la Siria (43.323 persone sbarcate), seguita dall'Eritrea
(34.329) e dal Mali (9.908); nel 2015 i dati evidenziano al primo posto l'Eritrea (36.838),
seguita dalla Nigeria (18.452) e dalla Somalia (10.605). Poco più di 7.000 i siriani, che
attualmente giungono soprattutto in Grecia attraverso la rotta del Mediterraneo orientale e poi
proseguono attraverso i Balcani. Un secondo elemento che distingue la situazione italiana
rispetto a quella degli altri Paesi dell'Unione Europea è la ridotta presenza di donne (7,6%) e di
minori (6,8%).
Complessivamente, le richieste di asilo in Europa nel 2014 hanno superato quota 625.000,
con un aumento del 44,7% rispetto all'anno precedente, e nei primi 5 mesi del 2015 si è
registrato un ulteriore aumento del 68% rispetto allo stesso periodo del 2014. È comunque utile
ricordare che alla fine di ottobre 2015 i rifugiati presenti nella sola Turchia erano oltre 2 milioni,
e il Libano, il cui territorio equivale a meno della metà della regione Lombardia, ne ospitava
1.075.637.
Affrontare con urgenza e maggiore incisività il tema delle migrazioni, e in particolare delle
migrazioni forzate, è certamente una priorità. Tuttavia la vastità e la complessità della questione
impongono una maggiore chiarezza rispetto agli obiettivi e ai valori che orientano le scelte
politiche in materia.
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Casa comune e giustizia
Secondo un'indagine statistica commissionata dal Parlamento europeo e realizzata nella
seconda metà del settembre 2015, il 66% degli europei ritiene che le decisioni sui flussi
migratori debbano essere prese prevalentemente a livello regionale e non dai singoli Governi
nazionali. I cittadini cercano nell'Europa la risposta a una sfida che li interroga e li
impensierisce. Ma che cos'è oggi l'Europa? Quali valori animano la sua azione?
In occasione della sua visita a Strasburgo, il 25 novembre 2014, Papa Francesco ha
evidenziato i cambiamenti intervenuti, nel continente e nel mondo, dalla visita di Giovanni
Paolo II del 1988. Se allora l'auspicio del Pontefice era stato quello di un allargamento
dell'Unione fino a raggiungere «le dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora
dalla storia», nel 2014 lo sguardo del Papa si soffermava piuttosto sul ruolo dell'Europa in uno
scenario globale: «Accanto a un'Unione Europea più ampia, vi è anche un mondo più
complesso e fortemente in movimento. Un mondo sempre più interconnesso e globale e perciò
sempre meno eurocentrico. A un'Unione più estesa, più influente, sembra però affiancarsi
l'immagine di un'Europa un po' invecchiata e compressa, che tende a sentirsi meno protagonista
in un contesto che la guarda spesso con distacco, diffidenza e talvolta con sospetto».
L'auspicio del Papa è che «le difficoltà possano diventare promotrici potenti di unità, per
vincere tutte le paure che l'Europa - insieme a tutto il mondo - sta attraversando», riportando al
centro la fiducia nell'uomo («non tanto in quanto cittadino, né in quanto soggetto economico,
ma nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità trascendente») e la promozione del bene
comune.
La costruzione di un'Europa sicura, in questa nostra epoca come alla fine della «guerra
fredda», non può che passare attraverso la costruzione di un'Europa capace di essere davvero
casa comune. Oggi però la globalizzazione impone una sfida ancora più ambiziosa: l'Europa
deve diventare casa comune per chi ci vive, ma anche impegnarsi perché il mondo intero sia
casa comune per l'intera famiglia umana. Questa è la vera e più radicale sfida culturale che ci
aspetta nei prossimi anni come cittadini europei, ed è l'unico modo per sconfiggere ogni forma
di terrorismo.
Ricordava Papa Francesco nel suo recente viaggio in Kenya: «Fintanto che le nostre società
sperimenteranno le divisioni, siano esse etniche, religiose o economiche, tutti gli uomini e le
donne di buona volontà sono chiamati a operare per la riconciliazione e la pace, per il perdono e
per la guarigione dei cuori. Nell'opera di costruzione di un solido ordine democratico, di
rafforzamento della coesione e dell'integrazione, della tolleranza e del rispetto per gli altri, il
perseguimento del bene comune dev'essere un obiettivo primario. L'esperienza dimostra che la
violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura, la sfiducia e la disperazione, che
nascono dalla povertà e dalla frustrazione». Promuovere una comune responsabilità verso le
persone e verso le cose: questa è la via che occorre percorrere con coraggio e senza fermarsi.
La sfida della creazione di una casa comune ci impone, come europei, un primo e grande
passo: quello di guardare negli occhi le persone che arrivano alle nostre frontiere. Osservava il
p. Adolfo Nicolás, Preposito generale della Compagnia di Gesù: «Frontiera viene dal latino
frons, che significa volto. Riconciliazione alle frontiere significa restituire un volto umano a
coloro che sono stati disumanizzati da esclusioni violente. La violenza disumanizza i volti sia
delle vittime, sia degli aggressori; avvelena tutta la società, ponendo in dubbio la fondamentale
bontà della natura umana»
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Frontiere come luogo di riconciliazione e di riumanizzazione, frontiere come occasione per
guardare alla persona e alla sua storia e per creare relazioni: un'immagine molto distante da
quella delle attuali frontiere europee, luoghi dove spesso non si esita a esercitare ulteriore
violenza (come più volte denunciato dagli enti di tutela) e dove sempre maggiore enfasi viene
posta sulla tempestiva identificazione di chi non ha titolo per restare sul territorio.
Non a caso, una delle risposte dell'Unione Europea alla attuale situazione è il cosiddetto
«approccio hotspot»: l'Italia e la Grecia sono chiamate a istituire centri dove si provveda
all'identificazione e alla fotosegnalazione dei migranti sbarcati, con la collaborazione di
funzionari delle agenzie europee Easo, Frontex, Europol ed Eurojust. La finalità dichiarata di
tali centri è quella di distinguere tempestivamente chi ha titolo per accedere alla protezione
internazionale, in modo da poter provvedere al rapido rimpatrio di tutti gli altri, anche in questo
caso con la collaborazione tecnica e finanziaria dell'Unione.
Già nel 1992, il documento I rifugiati, una sfida per la solidarietà sottolineava «il rispetto
scrupoloso del principio della volontarietà del rimpatrio» come «base non negoziabile per il
trattamento dei rifugiati. Nessuno deve essere rimandato in un Paese dove tema azioni
discriminatorie o gravi problemi di sopravvivenza. Nel caso che i competenti uffici governativi
decidano di non accogliere i richiedenti asilo con l'argomentazione che non si tratta di veri
rifugiati, essi sono tenuti ad assicurarsi che altrove sarà loro garantita un'esistenza sicura e
libera». Oggi questa attenzione esplicita sembra essere gravemente compromessa da un
malinteso legalismo, che subordina la dignità della persona al possesso di titoli di viaggio o di
soggiorno.
«Migranti e rifugiati non sono pedine nello scacchiere dell'umanità». Con queste parole del
messaggio per la 100a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (5 agosto 2013), Papa
Francesco ha espresso uno dei punti centrali dell'impegno a fianco dei migranti forzati:
accompagnare e servire i rifugiati non può che portarci a indagare sulle cause profonde delle
loro sofferenze.
«Servire [i rifugiati] significa riconoscere e accogliere le domande di giustizia, di speranza,
e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di liberazione», ha sottolineato Papa
Francesco, quando, il 10 settembre 2013, ha visitato il Centro Astalli di Roma. Tali percorsi non
possono che passare attraverso «politiche corrette, coraggiose e concrete, che aiutino i loro
Paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni - causa
principale di tale fenomeno -, invece delle politiche di interesse, che aumentano e alimentano
tali conflitti»
Anche nella cooperazione internazionale, da più parti indicata come via privilegiata per
contrastare le cause effettive delle migrazioni - «aiutiamoli a casa loro» è divenuta oggi, pur con
connotazioni molto diversificate, una sollecitazione fatta propria da una pluralità di partiti
politici e di componenti della società civile -, emerge però sempre più chiaramente una
tendenza a cercare la collaborazione con i Paesi terzi - per esempio, la Turchia, che pure già
accoglie oltre 2 milioni di rifugiati -, più con l'obiettivo di fermare i rifugiati fuori delle frontiere
esterne dell'Unione che per un effettivo impegno comune a promuovere la pace e la giustizia.
La protezione effettiva dei rifugiati deve essere sempre prioritaria rispetto all'esigenza di
contenere i flussi.
In questa ottica appare assolutamente urgente un nuovo impulso alle relazioni di
collaborazione tra Unione Europea e Stati dell'Africa, che sono state recentemente oggetto del
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Summit a La Valletta. Ma, al di là del lodevole impegno del nostro Governo nel sostenere una
piattaforma di confronto tra le due sponde all'insegna dello scambio e della reciprocità, al
momento tali relazioni appaiono segnate da molte e gravi contraddizioni.
Una particolare attenzione è richiesta inoltre nelle situazioni in cui sono in atto conflitti e
serie e sistematiche violazioni dei diritti umani: è il caso, ad esempio, di molti Paesi coinvolti
nel cosiddetto «Processo di Khartoum», un ampio programma di collaborazione in tema di
migrazioni, focalizzato sul traffico degli esseri umani, da costruire tra l'Unione Europea e i
Paesi del Corno d'Africa (Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia e Kenya). La
gestione delle migrazioni e il contrasto del traffico di esseri umani deve tener conto del dovere
di proteggere le persone, che non può essere delegato a Stati che non possono o non vogliono
garantire tale protezione. Gli accordi bilaterali di riammissione fra Stati, infine, non dovrebbero
in nessun caso anticipare frettolosamente i tempi della riconciliazione e della sicurezza, a
scapito dell'incolumità delle persone costrette al rimpatrio.
Riportare la persona al centro della casa comune Europa
Nei vertici europei che si susseguono sul tema della crisi dei rifugiati, continua a mancare
una risposta chiara a una domanda essenziale, che peraltro raramente viene formulata: quali vie
legali per chiedere asilo in Europa? Oggi chi fugge da guerre e persecuzioni e legittimamente
vuole esercitare il proprio diritto di chiedere protezione negli Stati dell'Unione non ha
alternative al traffico di esseri umani. La timida proposta europea per un programma di
reinsediamento, assolutamente sproporzionata rispetto al bisogno, ha tempi di attuazione
estremamente lenti, che dicono molto dello scarso rilievo che l'Europa attribuisce a questa
misura rispetto alle altre. Invece è proprio in questa direzione che vanno concentrati gli sforzi.
Non si può tollerare che continuino le stragi quotidiane nel Mediterraneo, a cui si sommano
quelle meno visibili nel Sahara e lungo le rotte della migrazione forzata. È urgente creare vie
sicure e legali di accesso all'Europa: rilascio di «visti umanitari», sospensione temporanea
dell'obbligo di visto in alcune situazioni critiche - come peraltro è espressamente previsto dalla
Direttiva 2001/55/EC art. 8 (3) -, incremento del reinsediamento, ampliamento del diritto al
ricongiungimento familiare, o altri meccanismi che potrebbero essere sperimentati in progetti
pilota, in collaborazione con chi opera nei Paesi di origine o di transito. Nonostante il dichiarato
impegno a contrastare il traffico di esseri umani, non si è visto ancora un impegno europeo
significativo su questo tipo di misure, che sono le uniche in grado di contrastare effettivamente
il traffico di esseri umani.
Sembra altrettanto urgente definire un nuovo meccanismo che regoli il coinvolgimento
degli Stati membri rispetto agli arrivi dei migranti forzati: il Regolamento di Dublino, che nel
corso degli ultimi mesi è stato di fatto superato dagli avvenimenti, è ormai inadeguato,
inefficace e non più utile a gestire la situazione. Diceva il Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella a Strasburgo, lo scorso 25 novembre 2015: È necessario, piuttosto, che l'Europa, nel
suo complesso, aggiorni le proprie regole per fronteggiare un fenomeno che è diverso, per
natura ed entità, rispetto al momento in cui le regole sull'asilo furono scritte. Gli accordi di
Dublino fotografano una realtà di un passato che non c'è più. Per questo sono superati: superati
dalla realtà, che è un giudice inflessibile. L'esigenza è quella di definire nuove regole
improntate a princìpi di umanità e sicurezza, di solidarietà, responsabilità, e comunque
adeguate alla realtà nuova che abbiamo di fronte. La scelta, in definitiva - e non solo in ambito
migratorio - è tra un'Unione che affronta i fenomeni cercando di regolarli e un'Europa che
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subisce gli eventi senza essere capace di governarli, con il conseguente aumento degli squilibri
interni della sfiducia tra i Paesi membri».
Si dovrebbe immaginare un meccanismo completamente diverso di condivisione di
responsabilità, che non guardi unicamente alla procedura d'asilo, ma più ampiamente alle
prospettive a medio e lungo termine per chi si vede riconoscere la protezione internazionale da
uno Stato europeo. Nessun meccanismo, per quanto sofisticato, può avere successo se non
riporta al centro la persona del rifugiato, prendendo in considerazione anche il suo punto di
vista, le sue aspirazioni, le possibilità che ha in termini di legami sociali familiari. Le persone
non sono merci: non ci si può aspettare che restino passive rispetto a un loro trasferimento da un
luogo all'altro. Il rischio concreto è quello di sprecare molte energie e risorse. Le persone che
arrivano in cerca di protezione in Europa, dopo esperienze molto traumatiche e spesso viaggi
pericolosi, dovrebbero essere accolte con una modalità e secondo una tempistica che tenga in
considerazione questa loro condizione.
L'efficacia e la credibilità del Sistema Comune d'Asilo Europeo (Ceas) si sta rivelando una
vera e propria cartina al tornasole dei valori fondanti dell'Unione. Quest'ultima dovrebbe far
fronte comune per accogliere, non per difendersi dai rifugiati, smettendo di costruire muri che
offendono la propria storia, e di questa storia dovrebbe invece fare memoria. Diceva ancora il
Presidente della Repubblica a Strasburgo: «Solo chi non vuol vedere può fingere di non sapere
da dove viene la dolorosa carovana di persone che risale l'Africa e il Medio-Oriente verso
l'Europa.
Ripetono la tragedia degli ebrei in fuga dal nazismo; delle centinaia di migliaia di
prigionieri di guerra che vagavano in Europa, all'indomani della Seconda Guerra Mondiale [...].
Il mondo è in movimento, sulle gambe di milioni di donne, uomini, bambini, spesso vittime di
crudeli trafficanti di esseri umani: è un esercito inerme, che marcia alla ricerca della propria
salvezza. Cosa possiamo opporre alle loro ragioni? Non sono loro, che fuggono dalla violenza e
dalla morte, il nostro nemico!»
Alleati in una trasformazione culturale
Per costruire una casa comune occorre lavorare insieme, non soltanto tra Stati membri
dell'Unione, tra pubblico e privato, tra realtà religiose e organizzazioni laiche, ma soprattutto
tra persone residenti nei Paesi dell'Unione e rifugiati, nel senso più ampio del termine. La
vulnerabilità dell'Europa, anche degli Stati di più lunga tradizione di asilo e dai sistemi di
accoglienza più efficienti, si rivela nel diffuso fallimento delle politiche di inclusione e di
cittadinanza.
A leggere i documenti ufficiali, pare ormai acquisito il concetto che «l'integrazione dei
rifugiati in un contesto locale sia un processo dinamico a più facce e a doppio senso, che
richiede gli sforzi di tutte le parti interessate». Infatti, «ai rifugiati è richiesto l'adattamento alla
società ospitante senza abbandonare la propria identità culturale». Alla società ospitante e alle
pubbliche istituzioni è richiesta «una pronta corrispondenza ad accogliere i rifugiati e ad andare
incontro alle necessità di una popolazione diversa». Nei fatti però sempre più raramente si
instaura un rapporto di fiducia tra il rifugiato che arriva e lo Stato che accoglie, persino quando
il primo momento di contatto è un'azione di soccorso condotta dalle autorità.
Immediatamente dopo inizia un percorso di reciproca diffidenza, di non ascolto, di
conflitto, che spesso non viene meno neppure dopo il riconoscimento della protezione
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internazionale. Ostacoli linguistici, ma soprattutto culturali e addirittura burocratici (la
cosiddetta «persecuzione delle carte»), sintomatica di una grave scissione tra norma e tutela del
diritto, ma anche tra legge e umanità si oppongono alla costruzione di un senso di cittadinanza,
primo motore per il consolidamento della casa comune.
È dunque urgente trovare valori. comuni che possano orientare la società europea in questa
fase di trasformazione profonda degli scenari mondiali e locali. Uno dei più cruciali, in questo
momento, è l'ospitalità. Come ha ricordato p. Nicolás nel suo discorso in occasione dei 30 anni
di attività del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, «l'ospitalità è quel valore profondamente
umano e cristiano che riconosce le ragioni dell'altro non perché questi fa parte della propria
famiglia o della propria comunità, o ancora della nostra stessa razza o fede, bensì
semplicemente perché lei o lui è un essere umano che merita accoglienza e rispetto».
L'ospitalità è reciproca: ospite è chi accoglie e chi viene accolto. Essa è la prima
espressione di quel processo dinamico e biunivoco che viene definito «integrazione»: un
processo che allo stesso tempo è una sfida culturale affascinante e complessa, perché comporta
la necessità di uscire dalla logica dell'«io» e del «tu» per entrare in quella del «noi», un noi
multietnico, multiculturale e multireligioso. La società del domani, che consegneremo alle
giovani generazioni europee, non dovrà più essere nostra in contrapposizione a quella di un
fantomatico straniero, con un volto diverso a seconda del Paese dal quale proviene, ma dovrà
essere la nostra casa comune di cui ciascuno si senta parte integrante, cittadino,
corresponsabile.
È un cammino articolato e impegnativo, che non si esaurisce nel tempo di un progetto e non
può essere misurato con indicatori predefiniti. Sarà al contrario un processo lungo, non privo di
conflitti, che deve coinvolgere più generazioni e fare leva su un'educazione più incisiva e
coraggiosa, che formi i leader di domani a interpretare il cambiamento e a non subirlo
passivamente. «Aprire, comunicare abiti mentali, del cuore e culturali all'insegna della varietà:
così potremo educare persone flessibili, aperte, che non si spaventano per qualcosa di nuovo, di
diverso, ma sono pronte ad apprezzare tutte le possibilità umane. Credo che questo lavoro di
aprire le finestre della personalità, della mente, del cuore sia essenziale. Credo che dobbiamo
arrivare a far sì che i nostri studenti italiani, spagnoli, tedeschi, siano fieri della cultura cinese, o
della cultura indiana o africana, per il solo fatto che esse sono una produzione dell'umanità. Non
dovremmo più considerarle "cultura degli altri". Essere fieri di una cultura piccola e ridotta ci
ha fatto molto male».
I rifugiati, i migranti, i fedeli delle diverse fedi religiose che vivono accanto a noi dovranno
essere alleati e protagonisti di questa importante sfida culturale ed educativa.
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