Al saluto del Maggio nascente - Archivio di Stato di Bologna

Transcript

Al saluto del Maggio nascente - Archivio di Stato di Bologna
Archivio di Stato di Bologna
FESTA DEL LAVORO
1° MAGGIO 2012
«Al saluto del Maggio nascente»
Autorità di governo e forze sociali a
Bologna fra Otto e Novecento
Mostra documentaria
a cura di Salvatore Alongi e Carmela Binchi
Archivio di Stato di Bologna
Piazza de’ Celestini 4
orario di apertura: 9 - 19 (ultimo ingresso ore 18.30)
dal 2 al 12 maggio (domenica esclusa)
la mostra si potrà visitare su appuntamento (051223891)
ingresso gratuito
051223891-051239590
www.archiviodistatobologna.it
1
VETRINA N. 1_1
1890: Quirico Filopanti e Alberto Magri, eroi diversi nello stesso 1° maggio
Il 18 aprile 1890 perveniva al prefetto di Bologna un rapporto, stilato dalla Questura centrale, dai toni
particolarmente rassicuranti: «La classe dei lavoratori nostri non si è fin qui […] appassionata a tale questione»,
ovvero alla «manifestazione che il socialismo estero ha fissato pel primo maggio» (1).
Il 2° congresso dell’Internazionale, tenuto a Parigi nel luglio 1889, aveva difatti deliberato che in ogni parte del
mondo i lavoratori manifestassero nella giornata del 1° maggio per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore.
Per evitare i disordini e gli inevitabili scontri che ne sarebbero seguiti, il Ministero dell’interno con una riservata
del 20 aprile aveva stabilito che «nel giorno 1° maggio prossimo non si dovrà permettere né tollerare alcuna
processione sulle vie e piazze pubbliche» (2), ordinando di predisporre tutte le opportune misure «per tutelare
efficacemente l’ordine pubblico e la libertà del lavoro» (3).
Il giorno successivo il Ministero avvertiva inoltre che dall’estero il Groupe international d’étudiants anarchistes
con sede a Parigi avrebbe inviato in Italia alcune centinaia di copie di «manifesti violenti e redatti in italiano diretti
agli studenti e compagni». Per occultare la spedizione si riteneva che il Gruppo avrebbe nascosto lo stampato
entro giornali francesi. L’ordine era naturalmente di impedirne la diffusione.
Il documento varcò effettivamente il confine avvolto nel giornale anarchico parigino «La Revolte», ma venne
sequestrato per ordine della Regia procura e depositato presso la Questura. Da lì il 24 aprile una copia giunse
all’attenzione del prefetto: il Manifeste aux étudiants du monde entier (4) recava sul fronte un appello in lingua francese
rivolto ai “camarades” (compagni) e incitante alla rivoluzione sociale, alla causa dei lavoratori e all’anarchia. Per i
sottoscrittori erano illustri antecedenti le rivoluzioni del 1789, del 1848 e del 1871. Sul verso campeggiavano
effettivamente appelli in italiano indirizzati a studenti e militari, perché si unissero all’insurrezione popolare.
Troppo alto dunque il rischio che il Paese venisse bloccato da imponenti manifestazioni, ed ecco allora un
nuovo durissimo provvedimento: con riservata del 21 aprile il Ministero dell’interno avvertiva che sarebbero stati
considerati come licenziati gli operai in servizio presso gli stabilimenti militari che senza giustificati motivi si
fossero assentati dal lavoro il 1° maggio.
Lo scarso consenso alla manifestazione era ciò nonostante destinato a non durare a lungo. La Questura, infatti,
con un rapporto del 24 aprile (5), provvedeva a comunicare al prefetto l’elenco aggiornato delle associazioni che
avevano aderito all’appello dell’Internazionale, allegando la circolare con la quale il comitato esecutivo che ne
raccoglieva le rappresentanze invitava a concorrere alla «Grande Manifestazione Operaia Mondiale del primo
Maggio» (6).
Ma la parte più interessante del rapporto è rappresentata dall’analisi che il questore forniva dello spirito
pubblico in quei giorni. Più del pericolo reale (che il questore riteneva saggio e naturale venisse accentuato da chi
aveva la responsabilità di impedirlo), era l’esagerazione che di esso faceva l’opinione pubblica a essere
deplorevole e pericolosa: «E la cittadinanza bolognese in generale e il ceto dei negozianti, commercianti e
proprietari di opifici in ispecie, vanno dando di tale esagerazione un deplorevolissimo esempio […] La società dei
padroni fornai ci ha proprio domandato se non convenga il 30 Aprile allestire una doppia produzione di pane,
onde la città il 1° Maggio non ne rimanga sfornita in previsione di uno sciopero generale dei lavoratori panattieri.
È una aberrazione».
Il questore inoltre metteva al corrente il prefetto dell’inedito connubio che si stava sventuratamente
consumando a Bologna tra la Società democratica universitaria, «o meglio quella piccola ma attiva e ardita parte
di essa, che delle teorie democratico-socialiste si compiace», e «l’elemento operaio socialista-anarchico, qui
rappresentato dalla Federazione Artigiana Pensiero ed Azione e dal Circolo operaio di propaganda sociale». E ai
capi dei circoli operai, forse poco autorevoli e meno colti, ma certamente più turbolenti e molto audaci, gli
studenti portavano «l’ausilio e lo incitamento della penna avvezza alla polemica e del pensiero comunque
indirizzato a una coltura scientifica». Una miscela esplosiva.
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Prefettura, Gabinetto, b. 766, “Partito socialista. Agitazioni. 1° maggio 1890”, Il
questore di Bologna al prefetto di Bologna, Bologna, 18 aprile 1890.
(2) Ibidem, Il Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza ai prefetti, Roma, 20 aprile 1890.
(3) Ibidem, Manifesto della Regia questura della città e circondario di Bologna, Bologna, 26 aprile 1890.
(4) Ibidem, Manifeste aux étudiants du monde entier, Paris, Imp. Grave, rue de l’Echiquier, [1890].
(5) Ibidem, Il questore di Bologna al prefetto di Bologna, Bologna, 24 aprile 1890.
(6) Ibidem, Circolare del comitato esecutivo eletto dalle associazioni operaie di Bologna, Bologna, aprile 1890.
2
VETRINA N. 1_2
1890: Quirico Filopanti e Alberto Magri, eroi diversi nello stesso 1° maggio
Un primo sintomo tangibile del panico crescente si ebbe al mezzodì del 1° maggio: i negozi del centro, aperti
con qualche titubanza al mattino, cominciarono a serrare gli scuri allo sciamare dei primi gruppi di operai diretti
alla conferenza privata preannunciata per le due pomeridiane presso la sede della Società operaia di via Cavaliera
(oggi via Oberdan).
All’una del pomeriggio avvenne inoltre qualcosa che le autorità non avevano previsto: il venerabile Quirico
Filopanti (Budrio 1812 – Bologna 1894), eroico patriota e scienziato insigne, consigliere comunale e deputato alla
Camera tra le fila repubblicane, si presentò personalmente alla Questura centrale per richiedere il visto di
affissione per un manifesto (7).
Dai rapporti immediatamente predisposti dal questore per il prefetto, e da quest’ultimo per il ministro degli
Interni, si ricava la ricostruzione della polemica più che colorita di cui dovette essere protagonista il
settantottenne Filopanti: al rifiuto del questore a consentire la pubblicazione del suo manifesto «l’autore si
mostrò sdegnato e non lasciò in ufficio copia alcuna dello stampato». Secondo il questore difatti lo scritto, pur
suggerendo calma, temperanza e misura nelle discussioni, non era sufficientemente persuasivo, e accennando alle
misure precauzionali di polizia parlava «con esagerata goffagine nientemeno che di mitraglia» (8).
Filopanti si portò subito dopo dal prefetto, che così riferisce: «E senza dirmi del rifiuto del questore, mi
richiese, come capo dell’autorità politica, di apporre il visto sul manifesto. Io però, che avevo già compreso che il
questore era stato interpellato ed aveva dato un rifiuto, senza leggere lo stampato, gli feci comprendere che tale
facoltà era esclusivamente di competenza dell’autorità di pubblica sicurezza».
Filopanti, uscito dal Gabinetto del prefetto, si spostò alla Società operaia, dove aveva fatto intendere che
avrebbe distribuito privatamente il suo scritto. Chiosa il prefetto a tale riguardo: «E poco dopo si videro gli effetti
del suo manifesto e del suo intervento all’adunanza nel tentativo di dimostrazione».
Alle due e mezzo, infatti, già seicento operai avevano affollato la sede di via Cavaliera per ascoltare l’orazione di
Filopanti. Dal primissimo rapporto del prefetto al ministro (9) leggiamo il resoconto del pomeriggio: «Dopo le
tre gli operai usciti dalla sede sociale incamminaronsi agitando bandiera rossa verso piazza Vittorio Emanuele per
farvi una dimostrazione e rompendo lungo il tragitto alcuni vetri di botteghe. Tutto era disposto per impedire
dimostrazione. Fatte le intimazioni, l’assembramento fu sciolto per mezzo della truppa. Formavansi diversi
capannelli, udivansi voci diverse alcune delle quali sediziose. Avvenuta colluttazione per sequestro bandiera per
cui due accidentali e leggere ferite baionetta. Operati quindici arresti, sopraggiunto squadrone cavalleria accolto
da applausi anche piccoli capannelli si sciolsero. Piazza sgomberata. Pare tutto finito. Probabilmente questa sera
si avranno altre dimostrazioni. Date disposizioni perché forza rimanga sempre alla legge».
Il successivo 2 maggio arrivarono al prefetto i rapporti dei carabinieri e della Questura.
Secondo il comandante della divisione di Bologna, gli operai intervenuti alla riunione in via Cavaliera erano
circa mille. A eccitare gli animi sarebbe stato il discorso del Filopanti, che aveva letto e spiegato il manifesto che
la Questura aveva impedito di pubblicare.
Il questore (10) tendeva invece a minimizzare gli scontri, definendo i resoconti comparsi sulla stampa locale
«malevole insinuazioni». Descriveva però minuziosamente l’interno della sala dove si era svolta la conferenza
privata: «Sedevano in una specie di tribuna circondata di un drappo rosso, i rappresentanti del Circolo operaio».
Del Filopanti si dice che «lesse il manifesto, lo commentò nel modo il più disordinato e strano», con «parole mal
connesse» e «peggio interpretate». Il drappo rosso che ornava la tribuna fu poi issato su un bastone e portato
avanti quale segnale dell’inizio della manifestazione.
Al tentativo di un delegato di pubblica sicurezza di sequestrare la bandiera era legato d’altronde un episodio
riportato da tutti i giornali e che il questore sentì la necessità di chiarire al suo superiore: «Il delegato che la
inseguiva [la bandiera, ndr] fu lì lì per esser travolto, onde gli cadde di dosso il revolver che battendo a terra
esplodeva un colpo senza produrre alcun danno». L’unico colpo di pistola sparato in quella gloriosa giornata
sarebbe dunque partito per errore.
Riferimenti archivistici
(7) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Prefettura, Gabinetto, b. 766, “Partito socialista. Agitazioni. 1° maggio 1890”,
Manifesto di Quirico Filopanti agli operai, Bologna, 1° maggio 1890.
(8) Ibidem, Il questore di Bologna al prefetto di Bologna, Bologna, 1° maggio 1890.
(9) Ibidem, Il prefetto di Bologna al Ministero dell’interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, [Bologna], 1° maggio
1890.
(10) Ibidem, Il questore di Bologna al prefetto di Bologna, Bologna, 2 maggio 1890.
3
VETRINA N. 1_3
1890: Quirico Filopanti e Alberto Magri, eroi diversi nello stesso 1° maggio
Alle voci, alimentate dal diretto interessato, che volevano poi il Filopanti percosso e minacciato, il questore
rispondeva che fu «solo urtato nella gran confusione, in mezzo alla quale egli, sia pure colla migliore intenzione,
ma certo pochissimo opportunamente, volontariamente [si stava, ndr] cacciando».
Molto meno fredda e burocratica è invece la descrizione che di quel pomeriggio convulso fece qualche giorno
dopo il settimanale satirico «Bononia ridet» (11), che dedicò l’intera prima pagina alla repressione della
manifestazione, affiancando quattro pungenti vignette riguardanti le minacce che avrebbero colpito persino
l’anziano Filopanti, sceso a manifestare con gli operai, alle maniere non troppo gentili del delegato Alberto Magri
«bastonatore di bambini», al panico che avrebbe preso i birri all’avanzare dei manifestanti e all’inverosimile
dialogo tra due agenti di pubblica sicurezza davanti le torri cittadine.
Il presunto oltraggio subito dal Filopanti per opera della polizia generò tra l’altro un rilevante strascico alla
manifestazione del 1° maggio.
Il giorno successivo, infatti, dinanzi l’Università (chiusa per la fine delle lezioni) un centinaio di studenti decise
di protestare contro l’operato della Questura affiggendo un manifesto manoscritto. La truppa, ancora disposta
nei punti nevralgici della città, mosse alla volta di via Zamboni per disperdere il gruppo che emetteva contro di
essa fischi e proteste. Gli studenti, incalzati dall’avanzare dei soldati, si rifugiarono entro un locale annesso
all’Università, uscendo solo dopo aver dato rassicurazione che non avrebbero più tentato di manifestare, e avere
avuto conferma che la truppa si sarebbe sciolta a sua volta (12). Un episodio raccontato dal «Bononia ridet» che
così sintetizza: «E si ebbe il bello spettacolo di una truppa che viene sciolta dai manifestanti».
Ma la vicenda conobbe un’ulteriore e più ampia appendice. Alle due del pomeriggio del 3 maggio circa trecento
studenti (settecento secondo il rapporto dei carabinieri) si riunirono nei locali dell’Università, e da lì mossero a
gruppi di circa quaranta (per un totale di duecento persone secondo il rapporto dell’Arma) verso piazza
Ravegnana e via Rizzoli, per raggiungere in silenzio la fine di via Ugo Bassi e arrestarsi davanti la lapide che sulla
facciata dell’Hotel Brun ricordava il passaggio di Garibaldi a Bologna. Dopo aver gridato «Evviva Garibaldi» si
sciolsero.
Al fianco agli studenti si schierò subito lo stesso Filopanti, che rivolse un’interrogazione al ministro degli
Interni «sulla tentata violazione del santuario della scienza», perpetrata dalla truppa.
Come se tutto ciò non fosse bastato, a tenere alta la tensione contribuiva inoltre la minaccia di una nuova
manifestazione operaia, da tenere questa volta domenica 4 maggio. Per tale motivo una nuova richiesta fu
avanzata al Comando militare perché le compagnie e gli squadroni rimanessero consegnati nelle caserme cittadine
e nei centri della provincia, ancora a disposizione della polizia. Nulla però accadde e da Minerbio, Altedo, Budrio
e San Giovanni in Persiceto il successivo 6 maggio la truppa fece rientro alla sua residenza.
Intanto il 5 maggio aveva inizio davanti al Tribunale penale di Bologna il processo contro gli arrestati del 1°
maggio. Accogliendo le richieste della difesa, la Corte accordò agli imputati la libertà provvisoria e rinviò
l’udienza al successivo 8 maggio. Il questore ne fu particolarmente contrariato, convinto com’era che la mossa
della difesa fosse indirizzata a «raccogliere numerose testimonianze per provare come vi fu provocazione ed
eccesso da parte di qualche pubblico ufficiale, che poi sarebbe il delegato Alberto Magri, già argomento di mio
separato e riservato rapporto», purtroppo irreperibile. Al Magri i suoi stessi superiori attribuivano alcuni episodi
di “esuberanza”, mentre ben tre dei trenta arresti si dovevano proprio al solerte delegato (13).
Il giudizio fu pronunciato il successivo 13 maggio: dei trenta imputati undici furono assolti, alcuni per
inesistenza di reato, altri per insufficienza di prove, altri per non provata reità. Sette furono condannati alla pena
della reclusione dagli 8 ai 25 giorni, il rimanente numero a 2 o 4 giorni (14). Lamentava il questore: «La sentenza è
stata eccezionalmente mite […] accolta dall’affollatissimo pubblico nel più assoluto e meno atteso silenzio».
Il 27 agosto arrivò la sentenza di appello: dei diciannove condannati in primo grado un altro venne assolto,
mentre gli altri diciotto giudizi furono confermati.
Riferimenti archivistici
(11) «Bononia ridet. Rivista settimanale», Bologna, 4 maggio 1890, n. 110.
(12) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Prefettura, Gabinetto, b. 766, “Partito socialista. Agitazioni. 1° maggio 1890”, Il
questore di Bologna al prefetto di Bologna, Bologna, 3 maggio 1890.
(13) Ibidem, Il questore di Bologna al prefetto di Bologna, Bologna, 5 maggio 1890.
(14) Ibidem, Tribunale penale di Bologna, sentenza e condanna degli arrestati del primo maggio, Bologna, Società tip.
Azzoguidi, [1890].
4
VETRINA N. 2_1
1894: «Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà; o vivremo del lavoro o pugnando si morrà»
La Lega dei Figli del Lavoro era un’associazione milanese di lavoratori manuali, che aveva tra i suoi fini, oltre
l’assistenza dei soci e il mutuo soccorso, l’istruzione popolare, la tutela dei diritti dei salariati e la loro
emancipazione sociale. Nel 1886 se ne sarebbe dovuto inaugurare lo stendardo: un’occasione importante, da
celebrare anche con un canto che, esaltando il lavoro, ponesse l’accento sugli ideali e sulle aspirazioni del
movimento operaio.
La manifestazione non poté svolgersi, per il divieto imposto dagli organi di polizia, e i grandi festeggiamenti
dovettero ridursi a una riunione privata, nel corso della quale fu comunque cantato in coro l’Inno dei lavoratori (1),
appena composto per l’occasione.
Uno dei fondatori del socialismo italiano, Filippo Turati (Como 1857 – Parigi 1932), all’epoca giovane
avvocato, ma già molto noto negli ambienti del movimento operaio, ne aveva scritto il testo. Lo stesso autore, da
un punto di vista letterario, non andava particolarmente fiero di quei versi, tanto che ebbe a definirli un «delitto
contro la poesia». Erano però parole cariche di una forte tensione ideale, quella tensione che, nell’Italia di fine
Ottocento, accompagnava costantemente e con grande forza i primi passi del movimento operaio.
La musica fu invece opera del romagnolo Amintore Galli (Perticara 1845 – Rimini 1919). Egli in realtà l’aveva
composta in precedenza e per scopi del tutto diversi, ma soprattutto a quell’inno dovette la sua fama, una fama
che gli era fino ad allora sfuggita, anche se da tempo svolgeva un’intensa attività e ricopriva prestigiosi incarichi
in campo musicale in genere, e nel mondo della lirica in particolare.
Il brano ebbe un successo straordinario e si diffuse ben presto in tutta Italia, nonostante fosse stato dichiarato
fuorilegge: una nota del Ministero dell’interno, datata 28 dicembre 1893 e indirizzata al prefetto di Bologna, nel
richiamare le ordinanze di sequestro emesse a proposito dell’Inno «dalle autorità giudiziarie di Parma, Catania e
Milano», ribadiva che «è fuor di ogni dubbio che lo stampato dell’Inno dei Lavoratori debba sempre
sequestrarsi». Di più, sottolineava come «il canto di quell’inno debba ritenersi sovversivo e non solo non possa
permettersi in pubblico, ma costituisca reato ai sensi degli articoli 246 e 247 del codice penale; per lo che si possa
procedere in flagranza all’arresto dei colpevoli». (2)
Circa sei mesi più tardi, il 18 giugno 1894, la Questura di Bologna (3) informava che, analogamente a quanto
era già accaduto per l’Inno dei lavoratori, e sostanzialmente con le stesse motivazioni, la Procura generale presso la
Corte d’appello di Roma aveva disposto il sequestro dell’Inno della canaglia o Marcia dei ribelli (4).
Era anche questo un canto dedicato al lavoro e rivolto ai lavoratori, che, come il brano di Turati, poneva
l’accento sui concetti basilari del pensiero operaista. I versi erano stati scritti nel 1891 da un famoso intellettuale
anarchico, l’avvocato e poeta Pietro Gori (Messina 1865 – Portoferraio 1911), autore anche, fra l’altro, di un Inno
del primo maggio, che si cantava sull’aria Va pensiero del Nabucco di Giuseppe Verdi.
La musica per l’Inno della canaglia era stata invece composta da Carlo Della Giacoma (Verona 1858 – Todi 1929),
compositore e direttore d’orchestra, amico del Gori. Su quest’ultimo d’altra parte la Questura di Bologna aveva
già appuntato la sua attenzione. Con una circolare riservata del 7 giugno 1894 il questore avvertiva che «da alcuni
mesi l’avv. Pietro Gori, socialista-anarchico e propagandista attivissimo, percorre le provincie dell’alta e media
Italia, tenendo conferenze […] [la] propaganda che va facendo […] si risolve in istigazione a delinquere, in
eccitamento all’odio fra le classi sociali […] Ciò stante, occorrendo seguire il Gori nelle eventuali sue gite in
questa Provincia, raccomando alla S.V. di disporre la massima vigilanza» (5).
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Questura, Gabinetto, b. 212, “Inno dei lavoratori – Agitazione nei partiti
anarchici e socialisti in Imola”, Copia dell’Inno dei Lavoratori.
(2) Ibidem, Il Ministero dell’interno al prefetto di Bologna, Roma, 28 dicembre 1893.
(3) Ibidem, Circolare del questore di Bologna, Bologna, 18 giugno 1894.
(4) Ibidem, Copia dell’Inno della canaglia.
(5) Ibidem, “Agitazione dei partiti sovversivi – Vigilanza – Partito socialista dei lavoratori italiani”, Circolare del questore di
Bologna, Bologna, 7 giugno 1894.
5
VETRINA N. 2_2
1894: «Il riscatto del lavoro dei suoi figli opra sarà; o vivremo del lavoro o pugnando si morrà»
«Come stampato, l’Inno dei lavoratori […] deve essere sequestrato ovunque si trovi e comunque sia riprodotto.
Ove poi si canti in pubblico, non deve tralasciarsi di procedere all’arresto dei colpevoli e loro denuncia
all’autorità giudiziaria […] avendo già varie sentenze riconosciuto che il concetto generale cui l’Inno si informa
quello è dell’apologia di delitti e di eccitamento all’odio fra le classi sociali. E per vero esso propugna la
espropriazione dei proprietari e la distruzione di ogni governo, istiga alla guerra civile ed alla strage come mezzi al
fine, eccita i proletari a stringersi intorno ad una bandiera, a lottare, a vincere o morire»: così il prefetto di
Bologna scriveva al questore il 15 maggio 1894 (6), dando istruzioni inequivocabili sul comportamento da tenere
da parte degli organi di pubblica sicurezza.
Due episodi accaduti a Imola nel gennaio di quello stesso anno 1894 dimostrano come quelle istruzioni fossero
da considerare con efficacia retroattiva.
Il 3 gennaio 1894, verso le ore 22, alcune guardie di città in servizio di pattuglia nel centro di Imola colsero un
gruppo di giovani mentre «permettevansi cantare sotto questi portici il noto Inno dei lavoratori di Filippo Turati,
disturbando così il riposo dei cittadini. Essendo stati da noi avvertiti di smettere, dessi continuarono a camminare
a passo accellerato e non avrebbero desistito se, giunti vicino al Caffè delle Colonne, non fossero stati redarguiti
da alcuni cittadini».
Circa una settimana più tardi, la sera del 9 gennaio 1894, un altro giovane imolese, Sante Galassi, fu denunciato
dai carabinieri e dalle guardie di città, i quali riferirono che, di servizio «allo scalo ferroviario […] sentimmo che
nel Caffè colà esistente una comitiva di giovanotti cantavano». Videro poi lo stesso Galassi «il quale nella folla
incitava gli altri a cantare l’Inno dei lavoratori, inno che in quel momento non fu intonato», ma qualche minuto
dopo udirono che «il Galassi Sante suddetto, con altri di cui non potemmo conoscere il nome, cantava l’Inno dei
lavoratori» (7).
In base alle istruzioni del Ministero dell’interno e della Questura di Bologna, tanto Sante Galassi quanto i
giovani dell’altro gruppo furono denunciati all’autorità giudiziaria. Il primo fu imputato dei reati di istigazione a
delinquere e di eccitamento all’odio fra le classi sociali; per gli altri l’imputazione fu la stessa, con l’aggiunta delle
accuse di schiamazzi e di disturbo della quiete pubblica.
Nel corso del processo, che si svolse il 13 febbraio 1894 davanti al Tribunale di Bologna, tutti gli imputati
confessarono «d’aver cantato le prime due strofe dell’Inno dei lavoratori del Turati in compagnia fra loro ed il
Galassi a sua volta in compagnia di altri […] affermando di non avere avuto menomamente intenzione di eccitare
all’odio tra le diverse classi sociali […] e specialmente sostenendo d’avere smesso dal cantare tosto che vennero
invitati dagli agenti di p.s. e di non esservi stato pericolo di perturbamento dell’ordine pubblico».
Il principale testimone fu il brigadiere che comandava la pattuglia delle guardie di città, il quale dichiarò come
«in Imola fino al 3 gennaio 1894 non si facesse dagli agenti della pubblica forza alcuna osservazione per il canto
dell’Inno Turati […] Depose ancora che, tenendo conto della tolleranza di opinioni tra partiti in Imola, nonché
dei luoghi in cui l’Inno veniva cantato e della qualità delle persone che lo cantavano e che si trovavano presenti,
non vi era stato, a suo modo di vedere, alcun pericolo di perturbamento della pubblica tranquillità» (8).
Il Tribunale ritenne infine che gli imputati cantassero l’Inno dei lavoratori soltanto «per motivo di divertimento
ed esulata qualunque dolosa intenzione» e li assolse tutti, giudicandoli colpevoli unicamente di schiamazzi. Ma,
contro la sentenza di assoluzione del Galassi la pubblica accusa ricorse in appello e, al termine del processo di
secondo grado, la Corte d’appello di Bologna giudicò l’imputato colpevole e lo condannò a 75 giorni di
reclusione e a 41 lire di multa (9).
Riferimenti archivistici
(6) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Questura, Gabinetto, b. 212, “Inno dei lavoratori – Agitazione nei partiti
anarchici e socialisti in Imola”, Il prefetto di Bologna al questore di Bologna, Bologna, 15 maggio 1894.
(7) Ibidem, Verbale di denuncia di Carabinieri di Imola, Imola, 9 gennaio 1894.
(8) Ibidem, Tribunale penale di Bologna, Fascicoli processuali, Fasc. 2108/1894, c. 34.
(9) Ibidem, Questura, Gabinetto, b. 212, “Inno dei lavoratori – Agitazione nei partiti anarchici e socialisti in Imola”, Sentenza
nel processo d’appello contro Sante Galassi, 23 aprile 1894.
6
VETRINA N. 3
1894: «Fermento nel personale del tram a cavalli»
Il 4 agosto 1894 la Delegazione di pubblica sicurezza degli Alemanni inviava al questore una lunga nota
riservata, segnalando un «fermento nel personale del tram a cavalli». Il vice ispettore che firmava la nota si diceva
«persuaso che il malcontento serpeggiante fra il personale del tram abbia fra non molto a scoppiare
manifestamente» (1).
E in effetti, il giorno successivo, domenica 5 agosto 1894, scioperarono per l’intera giornata 109 dei 240
cocchieri, bigliettai e stallieri dipendenti dalla Société anonyme d’entreprise générale des travaux – Tramways di
Bologna. Nella statistica degli scioperi di quell’anno, sono indicate le due motivazioni dello sciopero, vale a dire
aumenti salariali e questioni di disciplina (2).
La vicenda era in realtà iniziata qualche tempo prima, nel gennaio di quello stesso anno, a causa del
comportamento del nuovo direttore, il belga Dupierry. La Delegazione di pubblica sicurezza riteneva che dalla
nomina di questi «le cose cominciarono a cambiare e ad inasprirsi le cordiali relazioni che sempre erano esistite
fra personale e direzione» e ciò fondamentalmente per «la gretteria inaugurata nel servizio, poiché l’attuale
direttore, per rendersi ben accetto alla Direzione generale, lesinò ove poté, diminuendo il personale, accrescendo
il lavoro, cambiando orari, sopprimendo o per lo meno limitando sussidi, ecc.».
I dipendenti costituirono una commissione incaricata di esporre le ragioni del malcontento, «le quali vertevano
sulla gravità delle punizioni, sulla parzialità che si usava nel servizio, sul diritto di fare collette nell’interesse di
colleghi ammalati o colpiti da sventure, sui sussidi della cassa multe, ecc.».
Il direttore Dupierry rifiutò di riconoscere la commissione e solo la mediazione del questore gli strappò la
promessa di venire incontro alle richieste dei dipendenti. Promessa però non mantenuta, tanto che i componenti
la commissione subirono pesanti punizioni e «i metodi di governo rimasero gli stessi».
Un nutrito numero di dipendenti firmò una vibrante lettera di protesta: «Noi sottoscritti protestiamo contro le
angherie, soprusi, ingiustizie che il nostro Direttore ci usa, sperando che le Autorità possono a sua volta tutelare i
nostri interessi e i nostri diritti ed in solidarietà ci sottoscriviamo» (3). L’esasperazione del personale non faceva
che crescere e, in una riunione tenutasi la sera del 4 agosto, fu deciso lo sciopero per il giorno seguente.
Il 6 agosto il prefetto informò della situazione il Ministero dell’interno: «Fra il personale dei tram a cavalli di
questa città e il direttore sig. Desiderato Dupierry esistono seri motivi di discordia, causati principalmente dal
carattere poco conciliante di costui. Egli, con le frequenti e gravi multe, sproporzionate alle mancanze e coi
rimproveri e le punizioni disciplinari date per motivi futilissimi, non esclusi diversi licenziamenti, si è inimicato la
maggior parte del personale, che giustamente protesta contro un tale procedere» (4).
Nonostante la solidarietà agli scioperanti unanimemente dimostrata dalla popolazione, dalla stampa e dalle
autorità cittadine, lo sciopero non produsse alcun risultato. Le cose dunque non cambiarono e ancora nel
successivo mese di ottobre la tensione era piuttosto alta.
Una riunione indetta dalla Camera del lavoro per l’organizzazione di una sezione del personale del servizio dei
tram a cavalli suscitò le ire del direttore Dupierry, che si rivolse al questore con parole di fuoco: «È necessario
impedire che questa Camera del lavoro, che sotto un nome filantropico nasconde uno scopo opposto all’ordine e
all’autorità, faccia proseliti. Quanto a me, farò tutto il possibile perché il personale del Tramway rimanga
straniero a questa costituzione» (5).
Di fatto, la protesta del personale della Società dei tramways sembrò poi affievolirsi fino a spegnersi, lasciando
però un segno tangibile del malanimo che il direttore aveva provocato: un sedicente Gruppo anarchico di
Bologna gli indirizzò un biglietto sgrammaticato – più o meno volutamente – in cui lo si minacciava apertamente
di morte (6).
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Questura, Gabinetto, b. 212, “Sciopero dei conduttori dei tram a cavalli di
Bologna”, La Delegazione di pubblica sicurezza degli Alemanni al questore di Bologna, Bologna, 4 agosto 1894.
(2) Ibidem, “Statistica degli scioperi avvenuti nel 1894”, Questionario del Ministero di agricoltura, industria e commercio per
la statistica degli scioperi.
(3) Ibidem, “Sciopero dei conduttori dei tram a cavalli di Bologna”, Lettera di protesta dei dipendenti del servizio dei tram a
cavalli.
(4) Ibidem, Il prefetto di Bologna al Ministero dell’interno – Direzione generale di pubblica sicurezza, Bologna, 6 agosto
1894.
(5) Ibidem, Il direttore della Società dei tramways di Bologna al questore di Bologna, Bologna, senza data [ma ottobre 1894].
(6) Ibidem, Biglietto di minaccia, senza luogo, senza data.
7
VETRINA N. 4
1899: volantini in cantonata, poi un’allegra bicchierata
Come a ogni ricorrenza del 1° maggio, anche per il 1899 le autorità di pubblica sicurezza attivarono ben presto
i loro canali di informazione al fine di «conoscere in tempo i progetti di manifestazioni che intendessero fare in
quest’anno i partiti sovversivi per solennizzarla».
A preoccupare in particolare era l’attività della locale Camera del lavoro, costituitasi fin dal 1893, che con una
circolare pubblica aveva chiesto a padroni, impresari e capi officina di accordare agli operai di potersi astenere dal
lavoro al calendimaggio. Ispettori e delegati di pubblica sicurezza furono incaricati di investigare, mentre al
Comando militare fu richiesto l’ausilio, dalle sette del mattino del 1° maggio, di cento uomini di truppa dalla
caserma del SS. Salvatore e di altrettanti elementi dalla caserma dei Servi. Un plotone di cavalleria proveniente
dalla caserma di San Francesco era inoltre consegnato a disposizione della Questura.
Il 29 aprile fu trasmesso alla Questura l’ordine di servizio del Comando militare e il 30 aprile fu diffusa la
circolare della stessa Questura indirizzata ai funzionari con le indicazioni in occasione della ricorrenza del 1°
maggio.
La temuta celebrazione tuttavia sembrava dovesse trascorrere abbastanza tranquilla. Le voci che trapelavano
con maggiore insistenza dagli ambienti operai parlavano, infatti, di una pacifica riunione campestre organizzata
dalla Camera del lavoro al Foro boario, mentre presso la sede di via Cavaliera era stata fissata per le ore 20 del 1°
maggio una riunione privata. Anche a Imola in occasione della festa del lavoro una “merenda popolare” era stata
organizzata al parco delle acque minerali per le ore 6 del pomeriggio (1).
Effettivamente nel rapporto redatto nelle prime ore del pomeriggio del 1° maggio e indirizzato al tenente
generale Giuseppe Mirri, senatore del Regno e comandante del VI corpo d’armata, il questore poté con
soddisfazione registrare: «La grande maggioranza degli operai si recherà a merendare, unitamente alle famiglie,
nelle prossime località, come a Paderno, Monte Donato, alle Roveri e alla Scala. Molti operai però lavorano
tranquillamente e smetteranno soltanto a mezzodì. Nessun incidente avvenne all’entrata degli operai in quegli
stabilimenti in cui il lavoro prosegue. Oltre al banchetto al Foro boario ci sarà stasera una riunione alla Società
operaia e forse una bicchierata alla taverna del Leone; l’una e l’altra in modo strettamente privato» (2).
Se dunque la calma e l’ordine pubblico non furono turbati da illecite manifestazioni di piazza, sempre alta
rimaneva d’altronde l’attenzione delle autorità in particolare sull’affissione e la distribuzione di manifesti o di altri
stampati che facessero propaganda alle rivendicazioni socialiste e operaie. La Prefettura già il 27 aprile aveva
incoraggiato il questore alla rigida applicazione del disposto dell’articolo 65 della legge di polizia.
E a guastare la lieta atmosfera nella quale il 1° maggio era destinato a trascorrere fu proprio un anonimo
attacchino, che nella notte precedente alla festa del lavoro tappezzò letteralmente la città con piccoli ma bellicosi
fogli a firma dei socialisti anarchici. Nel testo si rivendicava il diritto alla libertà di stampa e di riunione,
s’inneggiava alla rivoluzione sociale, e si ricordavano i fratelli ancora in carcere o al domicilio coatto pei fatti di
maggio dell’anno precedente.
Fu un bel da fare per le guardie di città e gli agenti delle varie sezioni che, incaricati di perlustrare le vie del
centro urbano alla vigilia della manifestazione, furono costretti a staccare un gran numero di fogli e a redigere i
relativi verbali.
La brigata di Ponente ne trovò uno in via Portanova alle 21,40 e uno in via Ugo Bassi alle 22 (3). La brigata di
Levante ne stacco sei dalle cantonate di via San Vitale tra le 21,15 e le 22 (4), mentre alle 10,30 del mattino
successivo un altro foglio fu trovato all’altezza del numero 15 di via D’Azeglio (5). Tutti i verbali lamentano che
«non fu possibile però cogliere alcuno in flagranza, né sapere da chi detti manifesti siano stati affissi».
Nessun rapporto ufficiale invece sulla riunione alla Camera del lavoro. Solo un breve appunto informale dal
quale veniamo a sapere che a parteciparvi furono in «150 circa. Parlò Guadagnini, Lenzi, Murri, Franco» (6).
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Questura, Gabinetto, b. 255, “1 maggio 1890”, Tessera personale per la merenda
popolare, Imola, Lega tipografica, [1899].
(2) Ibidem, Il questore di Bologna al tenente generale Giuseppe Mirri, Bologna, 1° maggio 1899.
(3) Ibidem, Verbale della brigata di Ponente delle Guardie di città, Bologna, 30 aprile 1899.
(4) Ibidem, Verbale della brigata di Levante delle Guardie di città, Bologna, 1° maggio 1899.
(5) Ibidem, L’ispettore della Sezione di Ponente della Questura di Bologna al questore di Bologna, Bologna, 1° maggio 1899.
(6) Ibidem, Nota sulla conferenza svolta presso la Camera del lavoro di Bologna, [Bologna, 1° maggio 1899].
8
VETRINA N. 5
1925: «Fermato, in occasione del 1° maggio corrente, per misura di prevenzione»
Attraverso diverse misure repressive, il regime fascista riuscì in breve tempo a sancire il principio della
disciplina sociale e a strappare alle organizzazioni sindacali socialiste, comuniste e cattoliche il controllo delle
masse dei lavoratori: furono vietati tanto lo sciopero quanto la serrata, mentre lo Stato riconosceva un solo
sindacato, “fascista”, per ogni tipo di impresa o categoria di lavoratori (le corporazioni). I sindacati non
riconosciuti potevano continuare a sussistere come associazioni di fatto, ma erano ormai svuotati della loro
funzione e il sindacalismo non fascista si trovò in sostanza messo al bando dal mondo del lavoro.
In un simile quadro, il 1° maggio, la giornata della festa del lavoro nata negli ambienti socialisti, non poteva
evidentemente trovare spazio. Com’era accaduto alla fine dell’Ottocento, anche se ora su presupposti del tutto
diversi, quella giornata era considerata un’occasione di espressione del dissenso politico e quindi di turbativa. Il
regime affrontò il problema del dissenso dotandosi di vari strumenti di repressione, più o meno invasivi, che
andavano dalla schedatura dei “sovversivi” e dalle misure di sorveglianza e di prevenzione affidate alla polizia
fino al deferimento al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito nel 1926 per giudicare tutta una serie di
reati di tipo associativo e politico.
La schedatura dei sovversivi nel casellario politico era stata in realtà introdotta molti anni prima, nel 1894, a
seguito delle riforme promosse da Francesco Crispi, e fu abolita solo nel 1981, ma nel periodo fascista conobbe
una crescita esponenziale, attraverso la quale nella categoria dei sovversivi furono spesso accomunati oppositori
politici e personaggi comuni, responsabili soltanto di malcelare il proprio scontento.
Tra gli oppositori del fascismo sorvegliati dalla polizia compariva Clodoveo Bonazzi (Castel Maggiore 1890 –
Bologna 1955), un operaio fonditore che nel 1913 fu schedato dalla Questura di Bologna come anarchico: «Di
carattere impulsivo e alquanto squilibrato di mente, ha scarsa educazione ed intelligenza nonché mediocre cultura
avendo frequentato fino alla III elementare […] Frequenta in ispecial modo la compagnia di sindacalisti ed
anarchici […] Non ha coperto mai cariche amministrative o politiche data la sua deficiente istruzione» (1).
In realtà i fatti avrebbero clamorosamente contraddetto quella descrizione. Già dal 1912 Bonazzi era entrato a
far parte della Commissione esecutiva della Camera del lavoro di Bologna, guidata dai “sindacalisti rivoluzionari”:
carica che ricoprì fino a quando, nel 1916, assunse la segreteria della Camera del lavoro di Piacenza. Dopo la
Grande guerra, cui aveva partecipato combattendo nel 10° reggimento di artiglieria, rientrò a Bologna e tenne la
segreteria della “vecchia” Camera del lavoro di Bologna fino al suo scioglimento, nel 1923, tornando quindi al
suo lavoro di fonditore (2).
Avrebbe ripreso l’attività sindacale dopo la ricostituzione della Camera del avoro di Bologna, nel novembre
1944, che si presentava ora come organizzazione unitaria e accoglieva anarco-sindacalisti, socialisti, comunisti,
cattolici e repubblicani. Bonazzi ne fu ancora segretario, in rappresentanza della corrente socialista, mentre
sarebbe divenuto anche consigliere comunale, sempre a Bologna, e presidente dell’Istituto ortopedico “Rizzoli”.
Durante il ventennio fascista, fu costantemente sorvegliato come oppositore del regime e sindacalista (3). Dalla
Questura anzi si invitavano i carabinieri a tenerlo sotto assidua sorveglianza, in quanto «il sovversivo in oggetto è
stato segnalato al Ministero nell’elenco delle persone pericolose da arrestare in determinate contingenze, e
precisamente alla terza categoria (cioè da ritenersi pericolose in caso di turbamenti dell’ordine pubblico» (4).
E d’altro canto già da alcuni anni Clodoveo Bonazzi veniva arrestato all’approssimarsi del 1° maggio per essere
rilasciato subito dopo: come era avvenuto, ad esempio, il 30 aprile 1925, quando fu «fermato per misure
preventive di p.s. in occasione del 1° maggio 1925 perché ritenuto sovversivo capace di promuovere agitazioni e
scioperi […] Scarcerato il 2 maggio 1925» (5).
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Questura, Gabinetto, Categoria A8 (Persone pericolose per la sicurezza dello
Stato), Defunti, b. 6, Bonazzi Clodoveo, Scheda biografica.
(2) Ibidem, Relazione, senza data [ma 1923].
(3) Ibidem, Tessera sindacale.
(4) Ibidem, Il questore di Bologna al Comandante della Tenenza suburbana dei carabinieri di Bologna, Bologna, 1° maggio
1931
(5) Ibidem, Rapporto di arresto, Bologna, 30 aprile 1925.
9
VETRINA N. 6
1928: un pensionato sindacalizzato e sovversivo
La Camera del lavoro di Bologna era stata fondata il 26 marzo 1893 dai rappresentanti di 34 società operaie e
associazioni di mestiere, riuniti in assemblea a Palazzo dei notai. Gli scopi fondamentali sanciti dallo statuto
approvato in quella occasione erano l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, la tutela dei lavoratori,
l’elaborazione di studi sul mercato del lavoro. Il Comune di Bologna, la Provincia e Banca popolare elargirono un
contributo economico per consentire l’avvio dell’attività, che iniziò ufficialmente il successivo 1° giugno nella
sede al civico 22 di via Cavaliera (oggi via Oberdan).
Furono subito attive 60 sezioni, di cui 20 costituite dai lavoratori della terra, mentre si andavano costituendo i
primi gruppi interni, articolati per arti e mestieri; gli aderenti erano in totale circa 16.000, di cui 3.321 donne.
Con l’inizio del periodo fascista, la Camera del lavoro subì le rappresaglie squadriste e la sua sede, allora sita al
n. 41 di via D’Azeglio, fu saccheggiata e incendiata due volte. Costretta poi allo scioglimento dalla legislazione
fascista in materia sindacale, entrò in clandestinità nel 1925, ma di fatto non era più operativa già da circa due
anni.
Questa era la situazione quando il 9 giugno 1928, alle 11, gli agenti della squadra politica di Bologna fecero
irruzione nell’abitazione di Giovanni Lepri.
Lepri non era certamente un personaggio in vista: sessantaduenne, aveva lavorato come ferroviere ma era ormai
in pensione. La polizia lo arrestò «per misure di p.s.» (1), dopo aver effettuato un’accurata perquisizione, nel
corso della quale furono rinvenuti documenti e stampati sovversivi, che furono debitamente sequestrati e
conservati nel fascicolo istituito dalla Questura a nome del Lepri, considerato elemento sovversivo.
Egli in effetti risultò in possesso di numerose tessere che ne dimostravano l’appartenenza a organizzazioni e
associazioni non riconosciute e anzi contrarie al regime: tessere di riconoscimento della Camera del lavoro di
Bologna – Sezione ferrovieri (1904-1905) e del Sindacato ferrovieri italiani (aderente alla Camera confederale del
lavoro) per gli anni 1920, 1921, 1922; una tessera comprovante un versamento di 10 lire a favore del fondo di
resistenza del Sindacato ferrovieri italiani (1919); le tessere di riconoscimento, per l’anno 1920, di due
associazioni di diretta emanazione della Camera confederale del lavoro: l’Associazione fra i consumatori dell’Ente
autonomo dei consumi di Bologna e l’Associazione generale di resistenza fra inquilini di Bologna (2).
Fu sequestrata, tra le altre, una tessera, sempre del Sindacato ferrovieri italiani, che ricordava il grande sciopero
dei ferrovieri svoltosi nel gennaio 1920 e attestava la partecipazione di Giovanni Lepri allo sciopero stesso. I
ferrovieri, categoria organizzata d’ispirazione socialista, si astennero dal lavoro per dieci giorni, dal 19 al 29
gennaio 1920, rivendicando migliori condizioni lavorative ed economiche in un’Italia uscita stremata dalla grande
guerra e in crisi profonda. Lo sciopero era stato inizialmente sostenuto anche dai Fasci e da Mussolini, che passò
poi a una posizione nettamente contraria, fino all’ostilità dichiarata, così che le rivendicazioni dei ferrovieri
finirono per assumere anche una connotazione politica, contro la crescente affermazione del movimento fascista:
al punto che la partecipazione allo sciopero costerà il licenziamento a molti lavoratori, epurati per le loro idee
politiche.
La tessera riportava anche l’immagine della medaglia commemorativa dello sciopero: a sinistra, il recto della
medaglia, con due mani che tengono una ruota alata in corsa; sulla destra il rovescio, con un tronco di fascio
legato, da cui sporgono fronde di alloro e quercia (3).
Tra il materiale sequestrato a Giovanni Lepri finì anche il testo a stampa di alcune “zirudele”. Una di queste,
priva di data, La lit fra i “krumir” e i sozialesta, prendendo probabilmente spunto dal rovente clima sociale degli
anni tra il 1918 e il 1920, racconta col tono umoristico tipico di questo genere di componimenti la
contrapposizione tra i socialisti, paladini dei lavoratori e promotori di rivendicazioni sindacali, e i crumiri. Una
contrapposizione che si risolve però, secondo l’ignoto autore, in una guerra fra poveri, mentre cresce la pancia
dei signori: «I puvrett fra dlor i sfan la guera/ e prit e sgnouri con st’ignuranza/ lour i reden, e i cras la panza» (4).
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Questura, Gabinetto, Categoria A8 (Persone pericolose per la sicurezza dello
Stato), Radiati, b. 85, Lepri Giovanni, Verbale di arresto, Bologna, 9 giugno 1928.
(2) Ibidem, Tessere sindacali e sociali.
(3) Ibidem, Tessera del Sindacato ferrovieri italiani per lo sciopero del 1920.
(4) Ibidem, «Nova zerudêla. La lit fra i “krumir” e i sozialesta».
10
VETRINA N. 7_1
1941: tutti in fila per il Grande Reich
Gli ispettorati corporativi del lavoro furono istituiti nel 1931 su base provinciale quali uffici periferici del
Ministero delle corporazioni, un dicastero insediato nel 1926 dal Governo fascista. Gli ispettorati corporativi,
oltre a ereditare le competenze dei soppressi ispettorati dell’industria e del lavoro (esistenti già dal 1912),
esercitavano la vigilanza sulla corretta osservanza dei contratti collettivi di lavoro, che avevano efficacia
obbligatoria generale. Nel circolo di Bologna l’Ispettorato ebbe sede in via Cesare Battisti.
A seguito dell’emanazione tra il 13 e 27 febbraio 1941 di due circolari del Ministero delle corporazioni, presso
ciascun ispettorato corporativo si costituì un comitato provinciale «per l’esame delle singole situazioni aziendali ai
fini della designazione nominativa degli operai metal-meccanici e siderurgici da rendere disponibili per l’invio in
Germania» (1).
L’organo era dunque incaricato della determinazione dei contingenti di maestranze da inviare in territorio
tedesco a beneficio della produzione bellica del Grande Reich, ed era formato da quattro membri rappresentanti
l’Ispettorato corporativo, il Sottosegretariato per le fabbricazioni di guerra (Fabbringuerra), l’Unione industriali e
l’Unione lavoratori dell’industria.
A ciascuna ditta veniva inviato il modello di un elenco da compilare e restituire in quadruplice copia al
comitato; nell’elenco dovevano essere indicati il nominativo, la data di nascita, le qualifiche sindacali e di
mestiere, lo stato civile, il numero dei figli, la matricola, la paga ordinaria e l’eventuale grado militare del
lavoratore. Gli operai scelti dovevano aver superato i 30 anni, oppure i 40 se appartenenti alle forze armate. Nella
scelta le ditte avrebbero dovuto preferire gli ammogliati con figli, e accompagnare l’elenco con i libretti di lavoro
degli operai indicati.
Presa visione delle proposte avanzate, il comitato vagliava le particolari esigenze della produzione in atto presso
la singola ditta, tenendo inoltre conto dell’orario di lavoro; dopodiché stabiliva il numero esatto dei lavoratori da
rendere disponibili per l’invio in Germania, distinguendoli in quattro categorie: operai specializzati, operai
qualificati, manovali specializzati e manovali comuni.
La ditta, pur continuando a mantenere gli operai al lavoro, doveva renderli disponibili su richiesta dell’ufficio di
collocamento dell’Unione lavoratori dell’industria entro il termine indicato dallo stesso ufficio, comunicato con
un preavviso di soli tre giorni.
Inoltre, affinché il ritmo produttivo rimanesse inalterato anche a fronte del trasferimento di lavoratori, la ditta
doveva compensare la diminuita occupazione operaia aumentando gli orari di lavoro. In particolare, nei reparti di
produzione con lavoro continuativo, ai tre turni da 8 ore si sarebbero dovuti sostituire doppi turni da 12 ore
ciascuno, per un totale di 72 ore settimanali, mentre nei reparti dove la durata della produzione fosse stata
inferiore alle 24 ore, i turni di lavoro sarebbero stati elevati fino a 10 ore giornaliere, per un totale di 60 ore
settimanali.
I lavori del comitato bolognese presero avvio nei primi giorni del marzo 1941 con l’invio alle ditte degli elenchi
da compilare, e si articolarono in due successive campagne di reclutamento.
Nel corso primo censimento della forza lavoro disponibile furono interpellate ben 126 ditte collocate entro la
circoscrizione del Comune di Bologna e 21 impianti produttivi sparsi nel rimanente territorio provinciale;
durante la seconda campagna di reclutamento, iniziata a metà maggio dello stesso anno, furono nuovamente
interessate 37 ditte urbane e 7 ditte provinciali già toccate dalla prima campagna (2).
Riferimenti archivistici
(1) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Ispettorato regionale del lavoro, b. 1, “2° reclutamento. Bologna”, L’ispettore capo
del circolo di Bologna dell’Ispettorato corporativo del lavoro alla ditta Società anonima Edoardo Weber, Bologna, 27 marzo
1941.
(2) Ibidem, Elenco degli stabilimenti della città e provincia di Bologna interessati dal 2° reclutamento, [Bologna, maggio
1890].
11
VETRINA N. 7_2
1941: tutti in fila per il Grande Reich
Scorrendo la documentazione prodotta dal comitato è altamente sintomatico del dualismo che caratterizzava il
sistema produttivo di quegli anni rinvenire affiancati i nomi delle imprese afferenti al settore, concentrato e
moderno, delle industrie “protette” e dipendenti dall’economia “di guerra”, a quelli delle ditte che costituivano la
tradizionale compagine delle micro aziende artigianali e semi industriali.
In particolare, la Società scientifica radio brevetti Ducati (3), che meno aveva risentito della crisi degli anni
Trenta, costituiva l’esempio più macroscopico dello sviluppo dell’industria specializzata bolognese. Dal 1938, da
quando ossia la ditta aveva trasferito la propria sede nel modernissimo stabilimento di Borgo Panigale, la Ducati
si era affermata sul piano europeo con la prestigiosa adozione di proprie apparecchiature da parte dei
transatlantici Rex e Normandie. Era stata inoltre dichiarata “stabilimento ausiliario” con l’inizio della guerra
d’Etiopia. Quando il 1° aprile 1941 venne interpellata dall’Ispettorato corporativo, la Ducati mise a disposizione
40 dei suoi oltre 1500 dipendenti.
Pur non raggiungendo uno sviluppo industriale paragonabile a quello della Ducati, un’altra impresa come la
Sabiem (Società anonima bolognese industrie elettro meccaniche) e Fonderie Parenti (4) di via Emilia aveva
comunque consolidato una presenza nazionale nel settore delle macchine automatiche. La ditta segnalò 29
lavoratori dal reparto officina e ben 60 dal reparto fonderia, a cui andarono a sommarsi altri 6 operai individuati
nel corso della seconda campagna di reclutamento.
Lo sviluppo della Sasib (Società anonima Scipione Innocenti Bologna) (5) è poi esemplare per cogliere il rilievo
dell’apporto statale all’intera congiuntura prebellica. La fornitura di sistemi di sicurezza per le ferrovie aveva
consentito alla società di uscire visibilmente rafforzata dalla crisi: oltremodo positiva fu la domanda di impianti
legata alla direttissima Bologna-Firenze. Presso il nuovo stabilimento di via Corticella aperto nel 1937 si
concentrò inoltre la produzione di macchine confezionatrici di sigarette commissionata dai Monopoli di Stato. La
Sabiem rese disponibili 27 dei circa 950 dipendenti.
Infine la ditta Giuseppe Minganti & C. (6): rielaborando progetti stranieri, adottando tecnologie imitative e
potenziando orientamenti già intravisti alla fine degli anni Venti, lo stabilimento di via Ferrarese forniva
macchine di alta qualità a costi accessibili e talora competitivi rispetto ai modelli tedeschi, inglesi e americani,
occupando circa 330 operai, 37 dei quali segnalati come contingente disponibile per il trasferimento in Germania.
Quanti di questi lavoratori siano effettivamente partiti per il territorio del Reich è difficile appurare.
Dopo la caduta del regime fascista e la soppressione degli ispettorati corporativi, nel 1945 furono creati gli
ispettorati provinciali del lavoro. La loro organizzazione mutò tuttavia già nel 1961. Agli uffici provinciali, infatti,
furono affiancati nuovi enti, articolati su base regionale, ai quali furono attribuite funzioni di coordinamento e
vigilanza: gli ispettorati regionali del lavoro.
La documentazione esposta in questa vetrina proviene dal fondo versato all’Archivio di Stato di Bologna
dall’Ispettorato regionale del lavoro di Bologna in quanto ufficio dell’amministrazione periferica statale
dipendente dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
Riferimenti archivistici
(3) ARCHIVIO DI STATO DI BOLOGNA, Ispettorato regionale del lavoro, b. 1, “2° reclutamento. Bologna”, Il consigliere
delegato e direttore generale della Società scientifica radio brevetti Ducati all’Ispettorato corporativo del lavoro, Bologna, 2
maggio 1941.
(4) Ibidem, Il procuratore generale della Sabiem e Fonderie Parenti all’Ispettorato corporativo del lavoro, Bologna, 5 aprile
1941.
(5) Ibidem, L’amministratore delegato della Sasib all’Ispettorato corporativo del lavoro, Bologna, 7 aprile 1941.
(6) Ibidem, Il gerente della Giuseppe Minganti & C. all’Ispettorato corporativo del lavoro, Bologna, 11 marzo 1941.
12