a grande fuga di A. Maglie

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a grande fuga di A. Maglie
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Non è un paese
per ricercatori
di Antonio Maglie
I
In otto anni le nostre università hanno perso diecimila
studiosi. Il colpo mortale al sistema lo ha inferto
la Gelmini con la riforma di cinque anni fa: doveva aprire
le porte ai giovani, in realtà le ha chiuse e le prospettive
non sono confortanti. Ci vorrebbe una vera inversione
di rotta ma anche dal governo Renzi sono arrivati segnali
deludenti con ministri come la Giannini che hanno
pensato di trasformare in successi del sistema italiano
vicende individuali che avendo trovato positive soluzioni
all’estero rappresentano al contrario un atto d’accusa
l rapporto Res sullo stato della nostra
università è stato presentato lo scorso
10 dicembre. Si tratta di un documento
con qualche luce e moltissime ombre, soprattutto per quanto riguarda il Sud che,
parallelamente al versante economico, si allontana anche nell'istruzione di livello superiore sempre di più dal resto del Paese e
dal Nord in particolare. Ci dice che la parte
migliore dell'istruzione universitaria italiana è concentrata in un'area che sembra
avere in Bologna il suo confine meridionale, che stiamo perdendo studenti e docenti: i primi perché sfiduciati e ormai
convinti che la laurea non è il lasciapassare
per un futuro professionale certo; i secondi
perché gli atenei sono stati costretti a piegarsi alle leggi di bilancio e l'inaridimento
della fonte di finanziamento sta producendo una sorta di desertificazione culturale. Risultato: se il Sud si allontana sempre
di più dal Nord, l'Italia nel suo complesso
si allontana sempre di più dall'Europa più
evoluta, precedendo ormai soltanto la Grecia nelle diverse classifiche e ormai prossima a essere superata anche dalla Turchia.
Il presidente del consiglio, assume
come riferimenti i modelli americani, uni-
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versità “in salsa bostoniana”. Ma con tutto
il rispetto, attualmente la “salsa” sembra essere più quella che viene cucinata a Dakar
o a Lagos. Un modo un po' bizzarro di affrontare la competizione globale. Perché un
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dato è certo: vincono quei paesi in cui i giovani sono più istruiti e più formati. Vincono quei Paesi in cui i ricercatori vengono
utilizzati come una risorsa non come carta
straccia da infilare nel cestino quando la
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scrivania è occupata da altre carte. O, peggio ancora, strumentalizzati come “spot” individual-elettorali come è accaduto a una
giovane studiosa che, dopo essere fuggita
in Olanda dove ha trovato finanziamenti e
menti attente, è stata costretta pure a replicare al ministro Stefania Giannini, che
aveva provato ad attribuire al Sistema-Italia
il merito di quel successo, ribaltando così
la realtà di un insuccesso dello Stato da lei
rappresentato. Siamo il Paese della lacrima
facile, della commozione cerimoniale a
contratto: esaltiamo la Generazione Erasmus o la Generazione Bataclan quando
muoiono tragicamente ragazzi meritevoli e
intelligenti come Giulio Regeni o Valeria
Solesin, ma non ci preoccupiamo di onorarne la memoria dando ai coetanei vivi le
occasioni giuste per rimanere in Italia.
Dalla famosa Mariastella Gelmini in poi
poco o nulla è stato fatto per invertire la
rotta. Lei, Mariastella, che all'epoca sedeva
alla destra del Capo (Silvio Berlusconi) in
realtà aveva un solo obiettivo: smantellare
l'università, smantellare la ricerca. Forse in
questo animata anche da qualche personale
risentimento. Come quello che deve essere
cresciuto in lei quando il relatore della sua
tesi, il professor Antonio D'Andrea, docente di diritto costituzionale, ha fornito in
una intervista al “Corriere della Sera” il
profilo di una allieva non proprio brillante.
Poche, essenziali parole: “Si è laureata almeno tre anni fuoricorso con 100 su 110...
Aveva scelto una tesi dal titolo accattivante,
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“Referendum d'iniziativa regionale”, ma lo
ha trattato in maniera sciatta. Per quella
tesi non ho voluto dare neanche un punto
in più alla media dei voti. Non soltanto per
come era stata scritta, a tirar via, ma soprattutto per come la Gelmini venne ad esporla
in sede di discussione”.
Poi arrivò la storia dell'esame di abilitazione alla professione forense sostenuto
non a Brescia dove gli idonei non superavano il 38 per cento, ma a Reggio Calabria
dove, al contrario, le percentuali si impennavano sino all'87 per cento. Insomma, credenziali non bellissime per un ministro che
parlava di merito da premiare e per questo
si faceva promotrice di una riforma (la legge
210 del 2010) varata con il seguente commento d'accompagnamento: “Questa è una
riforma che spalanca porte e finestre dell'università ai giovani, ai giovani ricercatori,
agli studiosi”. Si sono spalancate così tanto
che nel giro di otto anni dall'università
sono fuggiti ben diecimila ricercatori. I dati
ufficiali dicono che con quella legge si è
passati da 1700 assunzioni a tempo indeterminato all'anno a 900 e il prezzo più alto
del dimezzamento lo hanno pagato proprio
i più giovani. Si calcola che dei quattordicimila assegnisti del 2014 il 91,1 per cento
è destinato a essere espulso dall'università.
Una condizione che induce Antonio Bonatesta dell'Associazione Dottorandi Italiani
a dire: “La miscela di precarizzazione, sottrazione di risorse finanziarie e blocchi parziali del turn-over ci sta portando da una
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università di massa a una università di
espulsione di massa, d'élite e territorialmente gerarchizzata. E a soffrire maggiormente per questo inaridimento della
ricerca è ancora una volta il sud: nel 2014
il 49,1 dei bandi per assegni di ricerca è
stato organizzato al Nord, il 36,5 al Centro
e soltanto il 14,4 nel Mezzogiorno (isole
comprese). Federico Vercellone, docente di
estetica all'università di Torino, in tono
sconfortato lo scorso anno in un articolo
su “La Stampa” così ha commentato la situazione dell'università dopo il catastrofico
passaggio di Mariastella: “Dal 2010 si sono
tagliati i bilanci, quasi azzerati i fondi per
la ricerca, esaltando, però, la competizione
tra atenei sul piano nazionale e internazionale. E' un po' come se si volesse mandare
in guerra la gente con i moschetti lamentandosi poi che le cose non sono andate secondo le aspettative”.
Renzi dopo aver individuato la
strada che a suo parere porta alla “buona
scuola” ancora non è riuscito a trovare la
diramazione per la “buona università”. E il
fatto di non essere ancora riuscito a far funzionare al meglio il suo navigatore, non ha
fatto precipitare nello sconforto chi negli
atenei ci vive. Anche perché i suoi primi annunci non lasciavano presagire nulla di particolarmente confortante. Peraltro il
presidente del Consiglio ha mostrato una
certa superficialità nel modo di affrontare
un problema che è, allo stesso tempo, complesso e strategico. Ad esempio, già appa-
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riva piuttosto sbagliato, almeno per la
prima parte, il titolo della cosiddetta “Leopolda dell'Università” che si è svolta il 22 e
23 ottobre dello scorso anno a Udine: “Più
valore al capitale umano. Università, ricerca e alta formazione motori dello sviluppo”. I giovani sono soprattutto una
risorsa, peraltro estremamente complessa,
carne, intelligenza e sentimenti; di “capitale
umano” può agevolmente parlare Mario
Monti che si intende più di quattrini che
di persone, ma una forza politica come il
Pd che dovrebbe alimentarsi di umanesimo
dovrebbe almeno da un punto di vista verbale esprimersi in maniera diversa, anzi più
adeguata. Peraltro, il Nazareno veniva da
un'altra “scivolata”, quella del febbraio sempre dello scorso anno. Quando organizzò
una sorta di Stati Generali per giungere a
una “proposta condivisa” sul tema dell'università. Solo che la proposta fu così condivisa che i partecipanti a quell'incontro si
ritrovarono qualche tempo dopo con un
documento finale che era il prodotto del
copia e incolla di un precedente documento elaborato dal partito.
Infine, ci si è messo Renzi che al Politecnico di Torino il 18 febbraio del 2015,
all'inaugurazione dell'anno accademico fece
una disamina che appare in perfetta rotta
di collisione proprio con quello che ci racconta il rapporto Res, almeno per quel che
riguarda il ruolo dello Stato. Disse il presidente del Consiglio: “Ci sono delle università che riescono a competere nel mondo e
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università validissime che però hanno
un'altra funzione, un'altra missione. Non è
che si tratta di dividere le università di serie
A e di serie B perché lo fa il governo. Ci
sono già le università di serie A e di serie B
nei fatti in Italia”. Nell'impeto oratorio gli
era sfuggito un dettaglio che qualche
giorno dopo l'associazione Roars (Return
on Academic ReSearch) che si dedica allo
studio delle questioni relative alla ricerca,
ai sistemi di valutazione e alla formazione
terziaria, gli segnalò polemicamente. L'as-
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sociazione, sulla base delle valutazioni dell'Anvur, l'agenzia di valutazione a cui fa riferimento il Ministero dell'Università e
della Ricerca, stilò l'elenco degli atenei di
serie A sulla base delle indicazioni fornite
da Renzi. Nell'ordine: Padova, Trento, Milano Bicocca, Verona, Bologna, Bolzano,
Pisa Sant'anna, Torino, Pavia, Ferrara, Milano San Raffaele, Parma, Roma Tor Vergata, Modena e Reggio Emilia, Trieste
Sissa, Piemonte Orientale, Venezia Ca' Foscari, Milano Politecnico, Pisa Normale,
Roma Luiss. A commento,
l'associazione sottolineava:
“Al governo Renzi è
stato talvolta imputata una politica
degli annunci a cui
non seguono i fatti.
Quale migliore occasione per smentire i
propri critici? Contestualmente, and r e b b e r o
ridimensionati i finanziamenti agli atenei
che
non
riescono a competere, come la Bocconi e il Politecnico
di Torino”. In pratica, a essere cattivi,
si potrebbe dire che
nel tentativo di in-
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graziarsi l'uditorio aveva in realtà sbagliato
pulpito. Per quanto riguarda la Bocconi,
poi, non è dato sapere se i finanziamenti
saranno tagliati, più sicuro è il fatto che nel
frattempo un altro docente di quella università è stato reclutato nella squadra di governo in qualità di sottosegretario.
Ma al di là delle polemiche, resta il
dato di una impostazione sbagliata. Renzi
ha ragione quando afferma che non è il governo a stabilire quali università sono di
serie A e quali di serie B. Ma toccherebbe,
invece, proprio al governo fornire a quelle
di serie B gli strumenti per provare la scalata alla serie A. Soprattutto in un paese
duale (cosa che troppo spesso sfugge al presidente del Consiglio), con il Sud sempre
più lontano dal Nord. Lo sviluppo e il riscatto dei giovani non arriveranno certo
dalla creazione di una filiale della Apple in
Campania che poi, semmai, quando la convenienza a stare in Italia verrà meno, fuggirà come hanno fatto tante altre aziende.
Si tratta di creare un nuovo tessuto sociale
e l'università in questa rigenerazione ha per
forza di cose un ruolo determinate. Come
sottolinea il rapporto Res, c'è stato un
crollo nelle immatricolazioni e quello più
evidente lo si è avuto nel Mezzogiorno.
Se poi le cose si osservano dal punto
di vista del diritto allo studio, cioè del sostegno che viene dato dallo Stato ai suoi
giovani più meritevoli, la situazione è ancora più sconfortante, fotografata dai numeri elaborati proprio dal ministero
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competente sulle borse di studio effettivamente liquidate. Solo sette regioni italiane
nel periodo 2014-2015 hanno pagato a tutti
le due rate del sussidio, quattro del Nord,
tre del Centro, nessuna del Sud. Complessivamente solo al 67 per cento degli aventi
diritto ha punto contare sul “privilegio” del
riconoscimento anche finanziario di quel
diritto. Gli altri aspettano: il 24 per cento
nel Lazio, il 25 per cento in Puglia, il 35
in Sardegna, il 50 per cento in Campania,
il 57 per cento in Sicilia, addirittura il 62
per cento in Calabria.
Contemporaneamente molti uffici
studi, a cominciare da quello della Banca
d'Italia, sottolineano con sempre maggiore
frequenza la tendenza dei giovani meridionali a iscriversi agli atenei del Nord (almeno quelli che possono permetterselo).
Una fuga accompagnata anche da un'altra
fuga: quella dei docenti. Al deserto produttivo si aggiunge il deserto culturale e la
mortificazione umana. Un governo non
dovrebbe limitarsi a “contemplare” la realtà, a dire che “la divisione tra serie A e B
non è colpa mia, è nei fatti”. Un governo
che voglia realmente far crescere questo
Paese deve puntare ad avvicinare progressivamente la B alla A. Non tutti arriveranno
in serie A ma molti proveranno a raggiungerla e qualcuno ci riuscirà pure. La semplice contemplazione dell'esistente porta a
una sola conclusione: l'abbandono del Sud
al suo destino. Che non si preannuncia sicuramente felice.