Il pane di Sayeda

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Il pane di Sayeda
Il pane di Sayeda
di Valeria Bellobono
Sayeda afferrò avidamente la focaccia che le avevano
regalato. Era un pane bruno, con la crosta sottile e una
mollica soffice e porosa. Lo girò tra le mani, osservandone
la consistenza e misurando a occhio il peso e gli
ingredienti. Doveva essere certamente fatto con farina di
mais mista a quella di manitoba, acqua e un po’ di sale.
Magari c’era anche del latte. Era troppo pesante per essere
fatto con sola acqua.
Al tatto era liscio e presentava sottili solchi scuri che
forse dipendevano da una cottura lenta, curata e
amorevole. Il legno che aveva dorato il pane doveva
essere quello di una palma da cocco. Il legno del cocco è
quello migliore, perché produce un fuoco vivo, ma al
tempo stesso misurato e lieve, che non brucia, ma
lambisce dolcemente qualsiasi preparazione. Pensò che il
colore di quel pane fosse simile a quello del deserto che
l’aveva vista nascere, crescere e invecchiare in soli
venticinque anni.
Sayda si concesse uno sguardo intorno a sé. Vide la sabbia
che circondava l’aria, confondendosi con il respiro delle
creature della sua terra, e pensò che aveva il futuro
accanto a sé e la speranza che tutto, un giorno, potesse
andare finalmente per il verso giusto. Annusò il profumo
del vento, che sapeva di semola tritata grossolanamente
cotta in un tegame di terracotta, accompagnata da cavolo
nero e carote. Chissà da dove arrivava.
Accostò nuovamente il naso al suo pane bruno e aspirò
con forza l’odore di quel cibo fermentato, che poche ore
prima era stato impastato da una donna con i capelli neri e
crespi, o grigi e radi, che forse indossava un abito viola, o
magari arancione con fiori neri disegnati. Vide davanti ai
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suoi occhi quelle mani che plasmavano la massa chiara,
che si induriva mentre le dita aggiungevano polvere e
liquidi, mescolando con il palmo il mucchio informe che
si modellava sotto lo sguardo vigile dell’esperta artigiana.
Preparare il pane era senz'altro la cosa più bella che una
donna potesse fare. Doveva essere fantastico toccare
quella pasta e sentire la consistenza elastica di un
composto vivo, che di lì a poco si sarebbe trasformato,
regalando un'odorosa fragranza che ne avrebbe anticipato
il gusto.
Sayeda spezzò il pane che stringeva a sé in due parti
perfettamente uguali e osservò le briciole che si
disperdevano sul terreno beige, che ingordamente
inghiottiva ciò che non gli apparteneva, trattenendolo tra
miliardi di granelli secchi, affamati di qualsiasi cosa. Inalò
un’ ultima volta il profumo sprigionato da quel cibo,
accostando le narici a tutta la superficie, e abbandonò le
due porzioni davanti ai bambini che erano accoccolati di
fronte alle sue gambe magre.
I due cuccioli dalla pelle di ebano e dalla bocca di giada
aprirono gli occhi stanchi, straziati da una fame che non
conosce età, né compassione, né sogni. Una fame incolore,
che non risparmia nemmeno gli angeli più belli.
I piccoli inarcarono la schiena in avanti, fino a sedersi
compostamente davanti alla madre. Afferrarono quel
dono meraviglioso e lo lisciarono delicatamente,
guardandolo come fanno i nostri figli quando scartano i
regali di Natale. Poi, istintivamente, portarono il delizioso
pane dentro di loro, per
nutrire quei corpi che
reclamavano peso e vigore.
Il gusto era eccellente e per alcuni lunghi minuti le labbra
dei due bambini si riempirono di sorrisi, gridolini di gioia
e smorfie. Una volta finito il pasto, i piccoli andarono a
rotolarsi su una stuoia, inscenando una specie di lotta che
ricordava i combattimenti tribali che avevano luogo a
pochi passi dalla loro capanna.
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Sayeda li guardava con malinconia, poi sfiorò il suo
ventre, un corpo che tante volte era stato dilaniato,
lacerato, umiliato. Un corpo inutile, come le avevano
sussurrato quando l’avevano stuprata l’ultima volta, in
silenzio, mentre i bambini già dormivano, accoccolati in
un angolo. Quella volta Sayeda non aveva pianto, né
aveva gridato per paura che i suoi piccoli si accorgessero
di qualcosa. Loro non dovevano conoscere le brutalità che
si consumavano quando la notte scendeva e gli occhi del
villaggio si chiudevano in un sonno senza sogni. Sayeda
guardò i suoi figli e una fitta lancinante le infilzò il petto.
Scosse la testa, mentre una lacrima le rigava il viso. Loro
non sarebbero mai diventati come quei divoratori di
sangue che si nutrono di ferite e di odio. Sarebbero stati
uomini buoni, uomini che si sarebbero salvati dal male e
che un giorno avrebbero vinto. Uomini sereni che
avrebbero lavorato, rispettato la propria donna, giocato
con i loro figli. Ma per avere questo bisognava cambiare
le cose. A volte si possono cambiare le cose, altrimenti
quelle stesse cose cambieranno noi.
Sayeda era una donna, una madre. Una madre che non
aveva scelto di esserlo, ma pur sempre una madre. E
amava profondamente i suoi due cuccioli. “Si può
trasformare il proprio destino, a volte, o magari aggirarlo,
sorprenderlo, tradirlo.” pensò senza neanche saperlo.
La donna sentiva ancora addosso l'odore acre dell'ultimo,
disgustoso, oltraggio. Gettò sul suo abito liso una manciata
di sabbia, la sfregò su tutta la stoffa e sorrise. Si sentiva
pulita, finalmente. Poi fece scorrere la sua mano su un
fianco e prese dalla tasca una manciata di datteri.
Quei frutti scuri e dolciastri erano l’unica fonte di
sostentamento per tanti abitanti di quella terra arsa e
inospitale. Crescevano, secchi e stopposi, in cima alle
palme più alte, su cui i bambini si arrampicavano come se
fosse un gioco, lanciandoli dall’alto e cercando di fare
centro sul panno che li avrebbe avvolti.
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La donna li osservò, li palpò con le dita e se ne infilò
alcuni in bocca per placare una fame che non arrivava solo
dallo stomaco, ma dalla sua anima offesa. All’improvviso
realizzò che la speranza che aveva sempre riposto nel
futuro fosse dettata solo dall’abitudine e da una
rassegnazione che l’aveva confinata ai limiti di una
sopportazione che doveva essere rotta. Lo doveva a se
stessa, ma soprattutto lo doveva ai suoi bambini.
Decise, allora, di dire basta. E lo decise subito, in un solo
istante, come se all’improvviso si fossero spalancate le
porte di una consapevolezza nuova, all’interno della quale
poteva trovarsi una vita che avrebbe avuto un sapore
diverso. Forse, lo stesso sapore di quel pane che lei non
aveva nemmeno assaggiato.
Il sorriso di Sayeda divenne più luminoso e i suoi
splendidi occhi brillarono come non avevano mai fatto.
Nessuno l’avrebbe più toccata, nessuno le avrebbe stretto
ancora le mani alla gola e mai nessuno avrebbe fatto del
male ai suoi bambini. E loro non avrebbero mai più avuto
paura di morire.
Sayeda spuntò un nocciolo ridendo, e mentre rideva prese
in braccio i due piccoli e corse via, guardandosi intorno.
A destra c’era il deserto, sconfinato e terribile come la
paura che si annidava nel suo sangue sbiadito.
A sinistra c’era la guerra, uno sciame di fantasmi neri che
si massacravano tra loro per gonfiare le pance grasse di
padroni che affamavano i loro schiavi, per poi nutrirli con
carne umana.
Davanti c’era il mondo. O almeno così le avevano
raccontato. Lei non lo sapeva, non c’era mai stata. Non
aveva neanche l’idea di cosa fosse il mondo. Se lo
immaginava come un posto in cui cresce l’erba, pascolano
le mucche e c’è una grande fontana da cui sgorga
un’acqua limpida e dolce. E poi tanta farina, legna e un
fuoco scoppiettante su cui cuocere quel pane che tanto
desiderava assaporare.
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Decise che doveva provarci. Allora cominciò a correre,
affannata dal peso di quei teneri mucchietti di ossa che
trasportava. Corse mentre il vento le baciava il viso e i
piedi e i capelli. Corse mentre il villaggio si allontanava,
diventando un’ombra sfumata dal calore che saliva dalla
terra. Corse a testa bassa, mentre i pensieri danzavano
nella sua mente, con un ritmo che ricordava le vibrazioni
di un tam tam. Corse verso un altro luogo, dove gli esseri
umani hanno il diritto di sognare, di guarire, di
ricominciare. Di esistere. Un posto in cui le donne
possono scegliere e i bambini crescere. Un posto in cui era
accoccolato quel futuro che Sayeda aveva sempre cercato.
Mentre pensava, la donna continuava a ridere, a ridere, a
ridere. Allora anche i bambini cominciarono a farlo, felici
per un'idea di libertà che si poteva solamente intuire,
sfiorare, ma che rendeva tutto più vivo e reale.
Non sappiamo come la storia sia finita. Non sappiamo se
Sayeda abbia raggiunto il mondo insieme ai suoi bambini,
ma nessuno più li ha più visti, né ha sentito parlare di loro
e questo fa ben sperare.
Sono passati tanti anni da quando sono andati via, ma
ancora oggi, ogni volta che una donna di quella terra ha il
coraggio di scappare dalla violenza, sembra che avverta
intorno a sé il suono cristallino di una risata femminile,
accompagnata da un persistente odore di pane cotto a
legna. Si narra che proprio quel suono e quel profumo
conducano queste donne coraggiose lontano, lontano,
lontano, indicando loro la strada per arrivare in un luogo
amico, protetto dallo sguardo di tutti.
A noi piace pensare che sia proprio Sayeda a guidarle,
mentre è intenta a impastare e a cuocere il suo pane in
questo posto magico che per lei si chiama,
semplicemente, mondo.
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