Totalitarismi Deportazioni Shoah - Istituto storico della Resistenza e
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Totalitarismi Deportazioni Shoah - Istituto storico della Resistenza e
TRENO DELLA MEMORIA 29 gennaio 2008 – 3 febbraio 2008 Totalitarismi Deportazioni Shoah Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in Valle d’Aosta A cura di: Silvana Presa e Lucilla Chasseur Totalitarismi Deportazioni Shoah PARTE PRIMA: TOTALITARISMI, DEPORTAZIONI, SHOAH Guerra e modernità: la Prima guerra mondiale. Sul legame tra guerra e modernità - la guerra come espressione della modernità e come suo pieno dispiegamento- non sembrano esservi dubbi. Stephen Kern ha visto nel conflitto il precipitare di tutto quanto di nuovo si era accumulato nei decenni precedenti nella percezione del mondo, a cominciare dalle coordinate spazio temporali. Paul Fussel vi ha colto l'evento fondante della "memoria moderna". In Terra di nessuno di Eric Leed, la guerra appare come un gigantesco, sanguinoso rito di passaggio attraverso cui il vecchio mondo venne lasciato definitivamente alle spalle e il nuovo tenuto fragorosamente a battesimo. Quanto a George L. Mosse, pur dedicandosi a rintracciare le radici più antiche dei miti che alimentarono la "politica di massa" nel Novecento, ha sottolineato come fu precisamente la Grande Guerra a dilatarne ruolo e significati, facendone emergere insieme il volto più inquietante. Infine anche chi - come Arno J. Mayer - ha sostenuto il prolungarsi dell’Ancien Regime fino alle soglie del conflitto e ha visto nel suo scatenarsi il frutto perverso di un tentativo estremo di garantirne la sopravvivenza, riconosce nella guerra l'evento genetico del Novecento e della modernità. […] Ciò è vero anche nello specifico caso italiano. Oltre vent'anni fa Alberto Caracciolo, nel saggio che apriva il volume significativamente intitolato Il trauma dell'intervento, notava acutamente la terribile novità della guerra e la sua tendenza ad accelerare il ritmo della storia: nell'impiego delle tecnologie e nella dimensione della morte, nel ruolo delle masse e nell'organizzazione della produzione. Più di recente Giulio Bollati, segnalando l'ambivalenza del processo, il suo significato insieme creativo e distruttivo, ha efficacemente sintetizzato gli elementi dirompenti di quella esperienza: «La modernità irrompe d'improvviso con le sue macchine e le sue masse sui campi della prima guerra mondiale. […] La guerra, se possiamo trascriverla così, è come una violenta intensissima esperienza di modernità industriale. Le "plebi" sono sottoposte a un rapido processo di (metaforico) inurbamento e di (effettiva) proletarizzazione. Concentrate in vaste moltitudini, subiscono uno sfruttamento e un'usura crudeli, la costrizione di una disciplina durissima, vengono a contatto con le macchine e le tecniche di una guerra moderna». […] Ma quali sono i connotati di questa modernità, che la guerra rivela e accelera a un tempo? Sinteticamente essi sembrano ruotare intorno al binomio Stato - industria. La guerra esalta il ruolo dello Stato, facendo di esso Totalitarismi Deportazioni Shoah una presenza capillarmente insediata nella vita privata e nell'interiorità di ciascuno, un agente di mobilitazione massiccia di forze, sentimenti, immagini. Nello stesso tempo utilizza e potenzia le nuove tecnologie industriali, estende la sperimentazione di nuove forme di organizzazione del lavoro, di mobilitazione intensiva e di movimentazione coatta di grandi masse umane. […] La nuova realtà investe in vario modo la sfera percettiva, disegnando i contorni di un "nuovo paesaggio mentale". Nell'esperienza della trincea e più in generale nell'ambientazione della guerra si palesano il trionfo dell'elemento artificiale su quello naturale (l'elettricità trasforma le notti in giorni, la chimica degli esplosivi polverizza le montagne modificando il paesaggio); la fungibilità di biologia e tecnologia (le protesi sostituiscono gli arti distrutti); il senso del tempo come discontinuità e il suo disancorarsi dalle matrici biologiche, naturali o più semplicemente tradizionali; l'irrompere della nuova morte di massa come prodotto di organizzazione industriale su larga scala e come perdita di confine tra umano e disumano, segno di anonimato che connota l'esistenza nella società. A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Guerra e totalitarismo. La Grande guerra del 1914-18 è stata lo spartiacque di questo secolo. Essa contiene in sé tutte le componenti decisive di ciò che è venuto dopo. Lo leggiamo nel rapporto tra la guerra e la violenza pubblica e privata, tra la guerra e lo Stato che organizza la società nella sua disciplina e anche nel suo consenso, nelle inquietudini e nelle attese che la morte di massa genera nella popolazione, nell’avanzata, pur in mezzo alle generali rovine della donna. E soprattutto nel progresso scientifico e tecnico che costruisce e distrugge, nell’intreccio che sembra inestricabile tra modernità e barbarie. […] dalla guerra nasce in Europa quello che si è poi chiamato regime autoritario di massa, non più elitario, dinastico, militare, clericale, ma di massa perché al suddito si chiede non solo obbedienza, ma anche partecipazione. Questa novità è veramente un segno del secolo. La condotta della guerra è comunque un punto di partenza: il modo come essa è stata fatta ha inciso profondamente sulla società italiana, per questo dobbiamo partire da qui per capire il rapporto tra la guerra e quel che è venuto dopo. Strateghi, studiosi, scienziati avevano lavorato molto per preparare la guerra, ma la guerra vera fu un’altra cosa. Essa fu molto diversa da quelle del Totalitarismi Deportazioni Shoah passato, e da tutte le guerre immaginarie o immaginabili. La guerra che ci fu non venne prevista. […] l’idea era allora che la guerra sarebbe stata breve, legata ad un confronto di forze in movimento. La preparazione al conflitto si fondò interamente su questo presupposto. Le cose andarono invece dappertutto in un modo radicalmente diverso, salvo all’inizio. […] Dopo di allora la guerra sul cosiddetto fronte occidentale, dove si scontravano Germania, Francia, Inghilterra, e sul fronte orientale – Germania, AustriaUngheria e Russia – si fermò, e divenne guerra di trincea. In Occidente, dal Mare del Nord alla Svizzera, ottocento chilometri di territorio furono scavati in trincee, cioè in lunghe fosse articolate e difese col filo spinato, dove gli eserciti si collocarono nella speranza di potersi difendere da incursioni nemiche e di poter avanzare attraverso nuovi metodi di guerra. Anche in Italia il comando si illuse di poter rapidamente sviluppare un’azione offensiva di tipo tradizionale, ma la guerra si impantanò subito […]. Settecento chilometri di territorio furono scavati e la gente fu mandata a rintanarsi lì. Di colpo la guerra non fu più fatta da specialisti, da gente chiamata ad esercitare individualmente forza e valore contro il nemico, ma divenne un’azione di massa di milioni di persone permanentemente schierate le une contro le altre in un confronto diretto. Erano ormai milioni di uomini, per lo più contadini […] strappati alla loro normalità, portati nel buio, nel fango, sotto le bombe, nel pericolo di morte. Ed era guerra di massa anche nel senso che tutta la nazione era pervasivamente occupata dall’impegno bellico; la guerra non era più una cosa lontana. Bisognava lavorare per la guerra lunga, e la guerra lunga voleva dire trasferimento di risorse dai consumi privati alle armi, voleva dire nuovo modo di lavorare, e via dicendo. Sforzo e fatica ogni giorno per giorni senza fine. […] Lo sviluppo scientifico e tecnico si presentava ai combattenti attraverso l’uso e la ricerca delle armi più avanzate, quindi come mezzi di morte, ma si presentava loro anche in altro modo, attraverso strumenti di consolazione forniti nei brevi periodi di pausa dal tempo lunghissimo della trincea prima linea: erano gli spettacoli, il cinema, l’orchestra. La modernità si presentava nella sua doppia forma di comunicazione e di morte: un modello che avrà successo lungo il corso del secolo. […] La modernità veniva offerta ai combattenti nello stesso momento in cui si chiedeva loro una disciplina diversa dal passato: qualcosa di cui è difficile misurare la tragedia. Perché anche la disciplina più ferrea è in fondo chiedere a uno di fare o non fare delle cose che comunque riguardano la vita. Si chiedono rinunce, si chiede fatica. Nella vita normale la disciplina può essere più o meno dura, è una conformità di comportamento rispetto ad un comando: chi la subisce rimane Totalitarismi Deportazioni Shoah se stesso. Nella guerra il comando ha un senso diverso. Certo ci sono anche forme normali di disciplina, ma c’è un momento diverso: il comando mi ordina di stare immobile sotto il fuoco nemico o mi dice di andare in un terreno dove si spara e di avanzare verso il nemico sotto il suo fuoco, che con altissima probabilità mi può ammazzare. Tu sai che se esci un secondo dopo puoi essere ammazzato, puoi anche rimanere mutilato per la vita, puoi essere abbandonato lì in mezzo senza che i tuoi compagni ti possano venire a prendere. La disciplina viene qui caricata di qualcosa che va molto al di là di qualunque rapporto immaginabile in un meccanismo di disciplina normale. La maggior parte dei soldati morti nella prima guerra mondiale non sono morti combattendo, cosa che presuppone avere uno spazio di iniziativa, una qualche reciprocità con il nemico: sono, invece, semplicemente morti sotto il fuoco uscendo allo scoperto in tentativi di attacco di una trincea nemica che non riuscivano quasi mai a raggiungere. […] l’atto estremo della disciplina non viene richiesto per un evento risolutivo, ma per un’azione che non ha nessun senso. L’insensatezza è l’elemento dominante e nuovo nella disciplina della Grande guerra. Il meccanismo del totalitarismo moderno nasce probabilmente qui, nelle fosse di fango, nelle trincee della guerra. Qui si forma il totalitarismo inteso alla lettera per ottenere una conformità totale. Si chiede al cittadino, al soldato, al suddito non soltanto una disciplina su certe regole stabilite, ma una conformità della sua persona, una sua integrazione in un collettivo che è assunto e rappresentato nel comando Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino 1996. Il totalitarismo. Definizioni. 1. Stato totale: è lo stato che vuole esercitare il proprio totale controllo sulla società, soffocandone ogni autonomia, abolendo ogni libertà e pluralismo, attraverso sia l’uso della violenza sia l’uso degli strumenti atti a produrre consenso, occupando anche la sfera privata dei cittadini. Scrive Giovanni Gentile alla voce Dottrina del fascismo dell’Enciclopedia italiana: «Antindividualistica la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo Stato […]. Il liberalismo negava lo Stato nell’interesse dell’individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell’individuo. […] il fascismo è per la libertà. Per la sola libertà seria, la libertà dello Stato e dell’individuo nello Stato. Giacché per il fascista tutto è nello Stato e nulla di Totalitarismi Deportazioni Shoah umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore al di fuori dello Stato. In tal senso il fascismo è totalitario.» 2. Potere, società e individuo nel totalitarismo. Venne allora alla luce una realtà ancora più oscura e terribile: il totalitarismo, una parola controversa usata spesso per affermare l’identità di nazismo e comunismo, che hanno molti elementi in comune pur essendo profondamente diversi fra loro. Per me il totalitarismo non è più il consenso ma l’identificazione del cittadino con il potere e col capo. Questo rapporto, oltre a negare la libertà di azione, cancella o riduce a strumento di potere la coscienza individuale: ne derivano sogni orrendi come quello di fabbricare l’uomo nuovo. Si arriva a disgregare atomizzandola, la struttura tradizionale della convivenza sociale, a incarnare dentro una totalità politica le leggi della natura e della storia. Da questa ricostruzione politica è inseparabile la contrapposizione al Nemico, anzi la ricerca del Nemico come condizione della propria identità. Negli anni trenta (e anche dopo) molti hanno creduto che questo fosse il frutto necessario della società di massa, dell’ingresso delle masse nella politica e che quindi la fine della democrazia fosse irreversibile. Per fortuna quel pessimismo cosmico, che fin dagli anni trenta mi riusciva insopportabile, non è più trionfante. E’ rimasto solo come esausta nostalgia di un liberalismo antidemocratico e antisocialista. La democrazia si costruisce e si ricostruisce con le masse. (...) Il salto nel totalitarismo si ha quando tu devi pensare quello che il capo ti dice di pensare. Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino 1996 3. I caratteri dei totalitarismi. I regimi totalitari sono delle autocrazie e quando sono chiamati tirannie, dispotismi o assolutismi si vuole in genere definire il loro carattere fondamentale, perché tutti questi termini contengono in sé un significato fortemente peggiorativo. Né queste accuse sono contraddette allorché tali regimi si autoproclamano “democrazie”, facendo seguire l'aggettivo “popolari”, tranne nel fatto che essi tentano di suggerire di essere dei regimi buoni o almeno degni di lode. Un'indagine sul significato che i totalitaristi attribuiscono all'espressione “democrazia popolare” rivela che essi intendono con ciò parlare di una specie di autocrazia. I leaders del popolo, identificati con i leaders del partito dominante, hanno la parola definitiva e quando prendono una decisione, accettata per acclamazione da una riunione di partito, questa è definitiva e se si tratta di un ordine, di una sentenza, di un provvedimento o di un qualsiasi atto di governo, essi agiscono da autocrator, Totalitarismi Deportazioni Shoah il signore responsabile solo verso se stesso. In un certo senso, la dittatura totalitaria è un'autocrazia adattata alla società industriale del XX secolo. In questo senso, per quel che riguarda cioè questa tipica mancanza di responsabilità, la dittatura totalitaria rassomiglia alle prime forme di autocrazia; ma noi vogliamo dimostrare che la dittatura totalitaria rappresenta storicamente una novità sui generis; inoltre, da tutti i fatti a nostra disposizione, traiamo la conclusione che le dittature totalitarie fascista e comunista sono sostanzialmente simili o comunque più simili tra loro che a qualsiasi altro sistema di governo, comprese le prime forme di autocrazia. […] Il dibattito circa le cause o le origini del totalitarismo è andato da una primitiva teoria sulla natura malvagia dell'uomo, sino ad argomentazioni del tipo “crisi morale dei nostri tempi”. Un'indagine accurata della documentazione a nostra disposizione ci suggerisce l'idea che in pratica ogni elemento presentato da solo come spiegazione dell'origine della dittatura totalitaria ha avuto un'effettiva importanza. Nel caso della Germania per esempio, i difetti morali e privati di Hitler, la debolezza della tradizione costituzionale tedesca, alcune caratteristiche concernenti il “carattere nazionale” tedesco, il trattato di Versailles e le sue conseguenze, la crisi economica e le “contraddizioni” di un capitalismo maturo, la “minaccia” del comunismo, il declino del cristianesimo e di altri simili valori spirituali quali la fede nella ragione e nella ragionevolezza dell'uomo, tutto ciò ha avuto la sua parte nel delineare tutti quei fattori che contribuiscono a fissare il risultato complessivo. Come avviene per altri ampi processi evolutivi nella storia, una spiegazione potrà essere tratta solo da un'analisi dei loro molteplici fattori. Oggi però noi non possiamo dare una spiegazione completa del sorgere della dittatura totalitaria, e tutto quel che possiamo fare è spiegarlo parzialmente identificandone alcune condizioni antecedenti e concomitanti. La dittatura totalitaria, ripetiamo, è un fenomeno nuovo e mai prima v'è stato qualcosa di simile. [...] I lineamenti o le caratteristiche fondamentali che noi pensiamo siano generalmente accettati come comuni delle dittature totalitarie sono sei. La sindrome, o complesso di peculiarità interdipendenti, della dittatura totalitaria consiste in una ideologia, in un partito unico tipicamente guidato da un solo uomo, in una polizia terroristica, nel monopolio dei mezzi di comunicazione, nel monopolio degli armamenti e in una direzione centralizzata dell'economia. Di queste peculiarità, le due ultime si rinvengono anche nei sistemi costituzionali: la Gran Bretagna laburista ha avuto una direzione centralizzata dell'economia e tutti gli Stati moderni hanno il monopolio degli armamenti. Queste sei peculiarità fondamentali, che Totalitarismi Deportazioni Shoah riteniamo costituiscano il tipico schema modello della dittatura totalitaria, formano un complesso di elementi che si intrecciano e si sostengono a vicenda come è usuale nei sistemi “organici”. Esse non dovrebbero quindi esser prese in esame isolatamente o essere assunte come punto centrale per deduzioni quali «Cesare organizzò una polizia segreta terroristica, egli quindi fu il primo dittatore totalitario» «la Chiesa cattolica ha esercitato il controllo ideologico del pensiero, quindi...». Tutte le dittature totalitarie presentano le seguenti caratteristiche: 1. Un'ideologia elaborata, consistente in un corpo ufficiale di dottrine che abbraccia tutti gli aspetti vitali dell'esistenza umana e al quale si suppone aderisca, almeno passivamente, ogni individuo che viva in questa società; questa ideologia ha come caratteristica l'essere accentrata e proiettata verso uno stadio finale e perfetto dell'umanità, essa cioè contiene un'affermazione chiliastica [millenaristica, cioè basata sulla credenza nell’avvento di un sistema definitivo per tutta l’umanità] basata sul rifiuto radicale della società esistente e insieme sulla conquista del mondo a vantaggio di una nuova società. 2. Un partito unico di massa tipicamente guidato da un solo uomo, il dittatore, e composto da una percentuale relativamente piccola della popolazione totale (intorno al 10 per cento) maschile e femminile, con un forte nucleo appassionatamente e ciecamente consacrato all'ideologia e pronto a contribuire in ogni modo alla sua generale accettazione; un partito del genere è organizzato gerarchicamente e oligarchicamente ed è al di sopra o completamente intrecciato con la burocrazia governativa. 3. Un sistema di terrore, sia fisico che psichico, realizzato attraverso il controllo esercitato dal partito e dalla polizia segreta, in appoggio, ma anche per sovrintendere, al partito in funzione dei suoi leaders e diretto caratteristicamente non solo contro “provati nemici” del regime, ma anche contro classi della popolazione scelte più o meno arbitrariamente; il terrore, sia quello della polizia segreta sia quello della pressione sociale diretta dal partito, sfrutta sistematicamente la scienza moderna e più particolarmente la psicologia scientifica. 4. Un monopolio quasi completo e tecnologicamente condizionato, di tutti i mezzi di effettiva comunicazione di massa come la stampa, la radio e il cinema e concentrato nelle mani del partito e del governo. 5. Un monopolio egualmente tecnologicamente condizionato e quasi completo dell'uso effettivo di tutti gli strumenti di lotta armata. Totalitarismi Deportazioni Shoah 6. Un controllo centralizzato e la guida dell'intera economia attraverso il coordinamento burocratico di attività imprenditoriali, un tempo indipendenti, e comprensivo di molte altre associazioni e attività di gruppo. Friedrich e Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, 1956. Il terrore come essenza del potere totalitario. Viene in luce la differenza sostanziale fra la concezione totalitaria del diritto e le altre. La politica totalitaria non sostituisce un corpo di leggi con un altro non crea con una rivoluzione una nuova forma di legalità. [...] Essa può farne a meno perché promette di liberare l'adempimento della legge dall'azione e dalla volontà dell'uomo; e promette giustizia sulla terra perché pretende di fare dell'umanità stessa l'incarnazione del diritto. [...] Per stato di diritto si intende un corpo politico in cui le leggi positive sono necessarie per attuare l'immutabile ius naturale o gli eterni precetti divini traducendoli in principi di giusto e ingiusto. Solo in tali principi, nel complesso di leggi positive di ciascun paese, il diritto naturale o i precetti divini acquistano una loro realtà politica. Nel regime totalitario il posto del diritto positivo viene preso dal terrore totale, inteso a tradurre in realtà la legge di movimento della storia o della natura. Come le leggi positive, pur definendo le trasgressioni, ne sono indipendenti - l'assenza di reati in una società non rende superflue le leggi denotando, casomai, la perfezione della loro autorità - così il terrore nel regime totalitario cessa di essere uno strumento per la soppressione dell'opposizione, pur essendo usato anche per tale scopo. Esso diventa totale quando prescinde dall’esistenza di qualsiasi opposizione; domina supremo quando più nessuno lo ostacola. Se la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere totalitario. Esso è la realizzazione della legge del movimento; si propone principalmente di far sì che le forze della natura o della storia corrano liberamente attraverso l'umanità, senza l'impedimento dell'azione umana spontanea e, in quanto tale, cerca di “stabilizzare” gli uomini. È il movimento stesso che individua i nemici dell'umanità contro cui scatenare il terrore; non si permette che alcuna azione libera, di opposizione o di simpatia, interferisca con l'eliminazione del “nemico oggettivo” della storia o della natura, della classe o della razza. Colpevolezza e innocenza diventano concetti senza senso; “colpevole” è chi è d'ostacolo al processo naturale o storico, che condanna le “razze inferiori”, gli individui “inadatti a vivere”, o le “classi in via di estinzione” e i “popoli decadenti”. Il terrore esegue queste sentenze di condanna, e davanti Totalitarismi Deportazioni Shoah ad esso tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi perché non hanno fatto nulla contro il sistema, e gli uccisori perché non assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire una sentenza di morte pronunciata da un tribunale superiore. Gli stessi governanti non pretendono di essere giusti o saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche; non applicano leggi, ma eseguono un movimento in conformità alla sua legge intrinseca. Il terrore è legalità se legge è la legge del movimento di qualche forza sovrumana, la natura o la storia. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. Bompiani, 1978. Nazismo e stalinismo. Totalitarismi a confronto. 1. La differenza tra fatti e intenzioni. Questo ci porta alla recente e diffusa teoria dell’identità totalitaria del nazismo e del comunismo. L’ho già detto e avrò forse altre occasioni di dirlo: questa tesi non è accettabile. Certo vi sono molti elementi in sostegno dell’assimilazione delle due esperienze e mi rendo conto che quello che le rende simili riguarda proprio l’aspetto più terrificante, più disumano, fino a essere indicibile, del rapporto fra il potere e l’individuo. Adesso che il comunismo è caduto, tutto sembra più facile negandone ogni valore distintivo, appiattendolo sulle esperienze più abbiette della storia. I fatti sono quelli che sono ma non è possibile cancellare del tutto l’intenzione, intendo la parola in senso lato come modo di vedere se stessi nel mondo e come volontà di cambiare il mondo. Da una parte, nel nazismo, c’è la superiorità del sangue e la negazione non solo del valore, ma della vita dei diversi, negazione che si traduce nell’atto di dargli la morte; dall’altro lato, nel comunismo, nell’immaginario che esso si è dato, c’è un’intenzione liberatoria e ugualitaria. Più il tempo passa e si conoscono i fatti (per esempio la lotta atroce dei comunisti russi contro i contadini) più si vede che gli esecutori dell’infamia erano uguali nei due casi: la burocrazia o l’ideologia costruivano i carnefici, toglievano umanità alle vittime, riducevano l’assassinio a una normale disciplina verso il dogma o la gerarchia. Ma se pensiamo ai seguaci, che sono spesso anche le vittime, appena fuori dall’ordinamento politico, per esempio ai seguaci comunisti nel mondo, quale differenza! Gli uni, i nazisti, tutti chiusi nell’egoismo e nella negazione, gli altri, i comunisti in carne e ossa che ho frequentato in tanti anni nelle lotte per la libertà, protesi verso il mondo e verso il futuro. Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino 1996 Totalitarismi Deportazioni Shoah 2. La differenza tra fini e mezzi. Nazismo e stalinismo sono profondamente diversi anche per il tipo di violenza che esprimono: - la violenza del comunismo sovietico è essenzialmente interna alla società, che cerca di sottomettere, normalizzare, disciplinare ma anche trasformare e modernizzare con metodi autoritari, coercitivi e criminali; le vittime dello stalinismo sono quasi tutte dei cittadini sovietici, nella loro grande maggioranza russi, e ciò vale sia per le vittime dei processi e delle epurazioni politiche (militanti e funzionari del partito e dello Stato, ufficiali e quadri dell'esercito) sia per le vittime sociali (kulaki deportati durante la collettivizzazione forzata delle campagne, elementi giudicati "asociali" ecc.); le minoranze nazionali colpite dalla repressione (i cosiddetti "popoli puniti" accusati di collaborazione con il nemico durante la guerra) costituiscono piccole minoranze se si considera la repressione nel suo insieme; - la violenza del nazismo, al contrario, è essenzialmente proiettata verso l'esterno. Dopo una prima, intensa ma rapida fase di "normalizzazione" repressiva (Gleichschaltung) della società tedesca, la violenza nazista si scatena nel corso della guerra, a partire dal 1939, come un'ondata di terrore né cieco né indiscriminato ma rigorosamente codificato. Praticamente inesistente nei confronti di una comunità nazionale razzialmente delimitata e sottomessa, questa violenza diventa estrema nei confronti di categorie umane e sociali escluse dalla comunità del Volk (ebrei, zingari, handicappati, omosessuali), per estendersi poi alle popolazioni slave, ai prigionieri di guerra e ai deportati antifascisti (il cui trattamento risponde a una precisa gerarchia razziale). Un lucido analista liberale come Raymond Aron aveva colto chiaramente questa differenza tra comunismo e nazismo sottolineando gli sbocchi estremi dei due sistemi: per il primo, il campo di lavoro, ossia la violenza legata a un progetto di trasformazione coercitiva e autoritaria della società; per il secondo, la camera a gas, vale a dire lo sterminio come finalità in sé, inscritta in un disegno di purificazione razziale. Lo storico britannico Ian Kershaw ha sviluppato questa intuizione di Aron mettendo in luce i diversi tipi di razionalità espressi dai regimi di Stalin e di Hitler. Il progetto sociale del comunismo non era privo di una sua razionalità, poiché il suo obiettivo centrale era la modernizzazione dell'economia e della società sovietiche, perseguita attraverso un'intensa industrializzazione e la collettivizzazione dell'agricoltura. I mezzi usati per realizzare questo progetto, tuttavia, erano non solo autoritari e inumani, ma anche profondamente irrazionali: il lavoro forzato, praticamente schiavistico, dei Totalitarismi Deportazioni Shoah gulag, lo sfruttamento "militar-feudale" dei contadini (secondo la definizione che ne diede all'epoca Bukharin), l'eliminazione di una parte consistente dell'elite amministrativa e militare, infine la deportazione in massa di interi gruppi e popolazioni. I risultati furono in larga misura catastrofici (crollo della produzione agricola, carestia, stagnazione demografica) e rischiarono di compromettere il fine perseguito. Nel nazismo, la contraddizione era invece stridente tra la razionalità dei mezzi impiegati e l'irrazionalità profonda del fine perseguito: la dominazione della "razza ariana", il rimodellamento dell'Europa in base a una gerarchia di tipo razziale. I campi di sterminio nazisti sono un'illustrazione di questo contrasto. I metodi della produzione industriale, le regole dell'amministrazione burocratica, i principi della divisione del lavoro, i risultati della scienza (lo Zyklon B) erano usati allo scopo di eliminare un popolo considerato incompatibile con l'ordine "ariano" e indegno di vivere su questo pianeta. Durante la guerra, la politica nazista di sterminio degli ebrei (e in misura minore degli zingari) si rivelò irrazionale anche sul piano economico e militare, poiché fu realizzata mobilitando risorse umane e mezzi materiali sottratti allo sforzo bellico e distruggendo una parte della forza lavoro presente nei campi. In Urss, i deportati (zek) erano "usati", "consumati" a milioni per diboscare regioni, estrarre minerali, costruire ferrovie e linee elettriche, a volte creare veri e propri centri urbani. Metodi "barbari" e coercitivi che si apparentavano spesso a forme di "sterminio attraverso il lavoro" venivano adottati per modernizzare il paese e "costruire il socialismo". Nella Germania nazista, all'opposto, i metodi più avanzati della scienza, della tecnica e dell'industria erano usati per distruggere vite umane. Questa differenza tra lo stalinismo e il nazismo è incarnata, come ha messo in luce Sonia Combe, da due sinistre figure: Sergej Evstignev, la principale autorità di Ozerlag, un gulag siberiano sulle rive del lago Baikal, e Rudolf Hess, il più noto comandante di Auschwitz, di cui si può leggere il memoriale scritto prima della sua condanna a morte. Intervistato da Sonia Combe all'inizio degli anni novanta, Evstignev si dichiarava orgoglioso dell'opera svolta. La sua missione consisteva nella "rieducazione" dei detenuti e, soprattutto, nella costruzione di una linea ferroviaria, la "traccia". Per raggiungere questo obiettivo poteva disporre liberamente, risparmiando o "consumando", secondo le sue esigenze, la forzalavoro dei deportati. Varie migliaia di zek morirono a Ozerlag lavorando, in condizioni terribili, all'esecuzione di questa impresa. La morte era una conseguenza del clima e del lavoro forzato. In altri termini, essa era considerata come un tratto "normale" dell'esistenza di un campo di Totalitarismi Deportazioni Shoah concentramento la cui "resa", in termini produttivi, si misurava in chilometri di ferrovia. Hess era invece il comandante di un complesso sistema concentrazionario il cui nucleo principale, Auschwitz-Birkenau, era un campo di sterminio industriale. Là furono eliminati nelle camere a gas, poi inceneriti nei forni crematori, oltre un milione di ebrei deportati da diversi paesi d'Europa. Il criterio fondamentale per calcolare il "rendimento" di questo campo era il numero dei morti. Ad Auschwitz, lo sterminio non era un sottoprodotto ma una finalità immediata. In conclusione, entrambi i sistemi (i campi di sterminio nazisti e il gulag stalinista) erano incontestabilmente inumani, criminali e totalitari, e come tali vanno condannati. Sarebbe assurdo e indecente voler erigere una distinzione tra i due in base a una gerarchia etica. Ciò non toglie però che la logica del loro funzionamento era tuttavia profondamente diversa. Sul piano epistemologico, questa differenza non è affatto marginale. Ed è precisamente questa differenza che il concetto di totalitarismo ignora e nasconde, limitandosi a prendere in considerazione le analogie tra i due sistemi. E. Traverso, Usi e abusi del concetto di totalitarismo, PBM Storia. Il rapporto del totalitarismo con la civiltà occidentale. Auschwitz appare, per più ragioni, come un laboratorio privilegiato per studiare la violenza della modernità. La sua organizzazione industriale della morte ha realizzato la fusione dell'antisemitismo e del razzismo con la prigione, l'industria e l'amministrazione burocratico-razionale. In questo senso il genocidio ebraico costituisce un paradigma della modernità piuttosto che la sua negazione. Numerosi tratti del processo di civilizzazione, secondo la definizione che ne hanno dato Max Weber e Norbert Elias, costituiscono le premesse storiche della distruzione degli ebrei d'Europa. Effettivamente, la "Soluzione finale" implicava il monopolio statale della violenza (un crimine di Stato), la razionalità produttiva e amministrativa (il sistema dei campi), l'autocontrollo delle pulsioni (una violenza "fredda", pianificata) e la deresponsabilizzazione etica degli agenti sociali (la "banalità del male"). La Shoah rivela così, come hanno sottolineato Hokheimer e Adorno, una dialettica negativa: la trasformazione del progresso tecnico e materiale in regressione umana e sociale. Se questa è una caratteristica del totalitarismo moderno, esso non va visto come la negazione della civiltà occidentale, ma come una sua manifestazione patologica, come il disvelamento del suo lato oscuro e inumano. E. Traverso, Usi e abusi del concetto di totalitarismo, PBM Storia. Totalitarismi Deportazioni Shoah Modernità e Olocausto. In primo luogo, i processi mentali che in virtù della propria logica interna possono portare a progetti di genocidio, nonché le risorse tecniche che consentono la realizzazione di tali progetti, non solo si sono dimostrati pienamente compatibili con la civiltà moderna, ma sono stati condizionati, creati e forniti da essa. Non è che l'Olocausto abbia semplicemente, per qualche misteriosa ragione, evitato di cozzare con le norme e le istituzioni sociali della modernità: furono tali norme e istituzioni a rendere l'Olocausto possibile. Senza la civiltà moderna e i suoi principali, fondamentali esiti, non vi sarebbe stato alcun Olocausto. In secondo luogo, tutta l'intricata rete di controlli ed equilibri, barriere ed ostacoli che il processo di civilizzazione ha eretto e che, come speriamo e confidiamo, ci difenderebbe dalla violenza e terrebbe a freno tutti i poteri ambiziosi e senza scrupoli, si è dimostrata inefficace. Quando si giunse all'omicidio di massa, le vittime si ritrovarono sole. Non soltanto esse furono ingannate da una società apparentemente pacifica e umana, legalistica e ordinata, ma il loro stesso senso di sicurezza divenne un fattore decisivo della loro caduta. Per definire la questione in termini netti, esistono ragioni di preoccupazione poiché oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che rese possibile l'Olocausto e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo verificarsi. Per queste ragioni è necessario studiare la lezione dell'Olocausto. È in gioco molto più che il tributo alla memoria di milioni di vittime, la sistemazione dei conti con gli assassini e la guarigione delle ancora brucianti ferite morali dei testimoni silenziosi e passivi. Ovviamente, uno studio - anche il più accurato - non è una garanzia di per sé sufficiente ad impedire il ritorno agli omicidi di massa, con il loro pubblico di spettatori ottusi. E tuttavia senza tale studio non sapremmo neppure quanto questo ritorno sia probabile o meno. (…) L' omicidio di massa non è un'invenzione moderna. La storia è carica di inimicizie collettive e settarie, sempre reciprocamente nocive e potenzialmente distruttive, che spesso sfociano nella violenza aperta, talvolta portano al massacro e in qualche caso allo sterminio di intere popolazioni e culture. (...) Senza dubbio l'Olocausto fu l'ennesimo episodio della lunga serie degli omicidi di massa tentati, e della serie non molto più breve di quelli compiuti. Ma presenta anche caratteristiche che non condivide con nessuno dei precedenti casi di genocidio. Sono queste caratteristiche che meritano particolare attenzione. Esse hanno un sapore distintamente moderno. La loro presenza suggerisce che la modernità ha contribuito all'Olocausto in modo Totalitarismi Deportazioni Shoah più diretto che non semplicemente attraverso la propria debolezza e inettitudine. Suggerisce che il ruolo della civiltà moderna nello scatenamento e nell'esecuzione dell'Olocausto fu attivo, non passivo. Suggerisce che l'Olocausto fu, nella stessa misura, un prodotto e un fallimento della civiltà moderna. Come tutto ciò che viene fatto in modo moderno - razionale, pianificato, scientificamente informato, esperto, efficientemente gestito, coordinato - l' Olocausto si lascia alle spalle e fece impallidire tutti i propri presunti equivalenti premoderni, rivelandoli come comparativamente primitivi, dispendiosi e inefficienti. Come ogni altra cosa nella nostra società moderna, l'Olocausto fu un ' impresa particolarmente ben riuscita sotto tutti gli aspetti, se valutata in base agli standard che questa società ha esaltato e istituzionalizzato. (...) I casi moderni di genocidio si distinguono principalmente per le proprie dimensioni quantitative. In nessun’altra occasione furono uccise in così breve tempo tante persone quante ne morirono sotto i regimi di Hitler e Stalin. Questo, tuttavia, non è l'unico fatto nuovo, e probabilmente neanche il più importante, ma semplicemente il prodotto collaterale di altre caratteristiche più essenziali. L' omicidio di massa contemporaneo si distingue, da una parte, per l' assenza pratica di spontaneità e, dall’altra, per il prevalere del progetto razionale, accuratamente calcolato. Esso si caratterizza per una quasi completa eliminazione della contingenza e del caso, e per l'indipendenza da emozioni collettive e motivazioni personali. (...) Il genocidio moderno è un genocidio mirante ad uno scopo. Sbarazzarsi dell’avversario non è di per sé uno scopo. È il mezzo per raggiungere uno scopo: una necessità che scaturisce dall’obiettivo ultimo, un passo che bisogna compiere se si vuole raggiungere la meta del percorso. Lo scopo è dato dalla visione grandiosa di una società migliore e radicalmente diversa. Il genocidio moderno è un elemento di ingegneria sociale mirante a realizzare un ordine sociale conforme al progetto della società perfetta. Per gli iniziatori e gli esecutori del genocidio moderno la società è un oggetto di pianificazione e progettazione consapevole. Per essa si può e si deve fare di più che non semplicemente modificare qualcuno dei suoi molti dettagli, migliorare qui e lì, curare alcuni dei suoi fastidiosi disturbi. È possibile e necessario proporsi obiettivi più ambiziosi e radicali: si può e si deve rimodellare la società, forzarla a conformarsi ad un piano complessivo scientificamente elaborato. È possibile creare una società oggettivamente migliore di quella “meramente esistente”, cioè esistente senza un intervento consapevole. (...) Totalitarismi Deportazioni Shoah Ci troviamo qui di fronte alla fantasia di un giardiniere, proiettata su uno schermo di dimensioni universali. I pensieri, i sentimenti, i sogni e le motivazioni del progettista di un mondo perfetto sono familiari ad ogni giardiniere degno di questo nome, anche se forse su scala minore. Alcuni giardinieri odiano le erbe infestanti che insidiano il loro progetto: bruttezza nel seno della bellezza, rifiuti nel mezzo di un limpido ordine. Altri sono del tutto privi di emozioni in proposito: le erbacce costituiscono solo un problema da risolvere, un lavoro in più da portare a compimento. Non che ciò faccia differenza per le erbe infestanti: entrambi i giardinieri si propongono di sterminarle. Se ad essi viene data la possibilità di soffermarsi a riflettere, entrambi forniranno la stessa risposta: le erbacce devono essere sradicate non tanto per ciò che sono, quanto per come deve essere lo splendido, ordinato giardino. La cultura moderna è una cultura del giardinaggio. Essa si definisce come il progetto di una vita ideale e di un perfetto ordinamento della condizione umana. A ben guardare, essa definisce se stessa e la natura, nonché la distinzione tra le due cose, attraverso la propria radicata diffidenza verso la spontaneità e la propria aspirazione a un ordine migliore, necessariamente artificiale. A prescindere dal progetto complessivo, l’ordine artificiale del giardino richiede strumenti e materie prime. Inoltre ha bisogno di essere difeso dal costante pericolo costituito, ovviamente, dal disordine. L'ordine, concepito anzitutto come progetto, determina poi quali debbano essere gli strumenti, quali le materie prime, che cosa è inutile, che cosa è irrilevante, che cosa è dannoso, quali sono le erbe infestanti o i parassiti. Esso classifica tutti gli elementi dell'universo in rapporto a se stesso. Questo rapporto è l'unico significato che esso concede loro e che tollera, è l'unica giustificazione dell’azione del giardiniere, differenziata in funzione di quel rapporto. Dal punto di vista del progetto tutte le azioni sono strumentali, mentre tutti gli oggetti dell'azione sono o mezzi o impedimenti. Il genocidio moderno, analogamente alla cultura moderna in generale, può essere concepito come il lavoro di un giardiniere. È semplicemente uno dei tanti compiti che devono essere svolti da quanti trattano la società come un giardino. Se il progetto di un giardino definisce le proprie erbe infestanti, allora vi sono erbe infestanti dovunque vi sia un giardino. E le erbe infestanti vanno sterminate. Sradicarle e un'attività creativa, non distruttiva. Non differisce per sua natura da altre attività che contribuiscono alla costruzione e alla conservazione del giardino perfetto. Tutte le immagini della società come giardino definiscono alcune parti dell' ambiente sociale come erbe infestanti umane. Analogamente alle altre erbe infestanti, esse devono essere Totalitarismi Deportazioni Shoah isolate, arginate, bloccate nella loro propagazione, rimosse e tenute fuori dai confini della società; se tutti questi mezzi si rivelano insufficienti, esse devono essere sterminate. Le vittime di Stalin e di Hitler non furono uccise per conquistare e colonizzare il territorio da esse occupato. Spesso furono assassinate in modo ottuso e automatico, non animato da nessuna emozione umana, ivi compreso l'odio. Esse furono uccise perché non rientravano, per una ragione o per un' altra, nel progetto di una società perfetta. Furono eliminate affinché fosse possibile fondare un mondo umano obiettivamente migliore: più efficiente, più morale, più bello. Un mondo comunista. O un mondo ariano, puro dal punto di vista razziale. In entrambi i casi, un mondo armonioso, libero da conflitti, docile nelle mani dei propri governanti, ordinato, controllato. Gli individui macchiati dall'ineliminabile tara del proprio passato o della propria origine non potevano entrare a far parte di un tale mondo immacolato, sano, splendente. Come quella delle erbe infestanti, la loro natura non poteva essere modificata. Essi non si prestavano ad essere migliorati o rieducati. Dovevano essere eliminati per ragioni di eredità genetica o ideale, a causa di un meccanismo naturale resistente all'elaborazione culturale e ad essa sottratto.(...) La civiltà occidentale ha articolato la propria lotta per il dominio come guerra santa dell'umanità contro la barbarie, della ragione contro l'ignoranza, dell'obiettività contro il pregiudizio, del progresso contro la degenerazione, della verità contro la superstizione, della scienza contro la magia e della razionalità contro le passioni. Ha interpretato la storia della propria ascesa come graduale ma costante sostituzione del dominio dell'uomo sulla natura al dominio della natura sull'uomo. Ha presentato i propri esiti innanzi tutto e principalmente come un decisivo avanzamento della libertà d'azione, del potenziale creativo e della sicurezza dell'uomo. Ha identificato la libertà e la sicurezza con il proprio ordine sociale: la società occidentale moderna viene definita come civilizzata, e la società civilizzata viene a sua volta intesa come quella condizione in cui è stata eliminata, o almeno soffocata, gran parte delle brutture e delle malvagità naturali, nonché dell'immanente propensione umana alla crudeltà e alla violenza. L'immagine popolare della società civilizzata è quella in cui, prima di ogni altra cosa, è assente la violenza: l'immagine di una società moderata, mite, conciliante. La più significativa espressione simbolica di questa immagine dominante della civilizzazione è forse la sacralità del corpo umano: l'attenzione con cui si cerca di non invadere il più privato degli spazi, di evitare il contatto corporeo, di rispettare le distanze fisiche culturalmente Totalitarismi Deportazioni Shoah prescritte; e il disgusto e la repulsione indotti che proviamo quando vediamo o sentiamo dire che quello spazio sacrale e stato violato. La civiltà moderna può inscenare la finzione della sacralità e dell'autonomia del corpo umano grazie agli efficienti meccanismi di autocontrollo che ha sviluppato e che vengono complessivamente riprodotti con successo nel processo di educazione individuale. (...) In ultima analisi, il carattere complessivamente non violento della civiltà moderna è un'illusione. (...) ciò che in effetti è avvenuto nel corso del processo di civilizzazione è il dislocamento della violenza, e la redistribuzione dell’accesso ad essa. Come molte altre cose che siamo stati educati ad aborrire e detestare, la violenza e stata sottratta alla nostra vista, piuttosto che eliminata. Essa è stata, cioè, resa invisibile dal punto di vista dell’esperienza personale strettamente circoscritta e privatizzata. In realtà e stata confinata in territori separati e isolati, complessivamente inaccessibili ai comuni membri della società; o espulsa in zone oscure vietate alla grande maggioranza (e alla maggioranza che conta) di quei membri; o esportata in luoghi lontani, irrilevanti per gli interessi vitali dell'umanità civilizzata (e sempre possibile cancellare le prenotazioni per le vacanze). L'Olocausto assorbì una quantità enorme di mezzi coercitivi. Dopo averli finalizzati ad un unico scopo, esso stimola ulteriormente anche la loro specializzazione e il loro perfezionamento tecnico. Ma più della pura e semplice quantità degli strumenti di distruzione, e anche più della loro qualità tecnica, fu importante il modo in cui essi vennero utilizzati. La loro formidabile efficacia si fonda principalmente sulla subordinazione del loro uso a considerazioni tecniche puramente burocratiche (che rese la loro utilizzazione pressoché immune da pressioni contrastanti, quali avrebbe potuto incontrare se i mezzi di violenza fossero stati controllati da agenti sparsi e non coordinati, e impiegati in maniera diffusa). La violenza si è trasformata in una tecnica. Come tutte le tecniche, è svincolata da emozioni, è puramente razionale. È vero che l'Olocausto ha avuto luogo quasi mezzo secolo fa. E vero che i suoi esiti immediati stanno rapidamente sprofondando nel passato. La generazione che ne ha avuto esperienza diretta e ormai quasi pressoché scomparsa. Ma - e si tratta di uno spaventoso, sinistro “ma” - le istituzioni, un tempo familiari, che l'Olocausto ha reso di nuovo misteriose, sono ancora parte fondamentale della nostra vita. Esse non sono superate. E dunque non è superata la possibilità dell'Olocausto. Noi ci scuotiamo di dosso questa possibilità. Noi dileggiamo i pochi ossessi tormentati dal problema del nostro equilibrio mentale. Abbiamo persino una specifica, derisoria, definizione per essi: “profeti di sventura”. È Totalitarismi Deportazioni Shoah facile sbarazzarsi dei loro angosciati avvertimenti. Non siamo forse già vigili? Non condanniamo forse la violenza, l'immoralità, la crudeltà? Non facciamo forse appello a tutta la nostra ingegnosità e a tutte le nostre considerevoli, costantemente crescenti, risorse per combattere tali fenomeni? E inoltre, c'è forse qualcosa in tutta la nostra esistenza che indica la semplice possibilità di una catastrofe? La vita sta diventando migliore e più confortevole. Nel complesso, le nostre istituzioni sembrano all'altezza della situazione. Siamo ben protetti contro il nemico, e i nostri amici certamente non faranno nulla di malvagio. Certo, veniamo a sapere di tanto in tanto delle atrocità che alcune popolazioni non particolarmente civilizzate, e per questa ragione spiritualmente lontane da noi, commettono contro i loro altrettanto barbari vicini. Gli Ewe massacrano un milione di Ibo, dopo averli chiamati parassiti, criminali, ladri ed esseri subumani senza cultura; gli iracheni bombardano col gas i loro concittadini curdi senza neanche preoccuparsi di insultarli; i tamil massacrano i cingalesi; gli etiopi sterminano gli eritrei; gli ugandesi sterminano se stessi. E triste, certo, ma che cosa può avere a che fare con noi? Ammesso che ciò dimostri qualcosa, dimostra sicuramente quanto sia negativo essere diversi da noi, e quanto sia positivo essere al sicuro dietro lo scudo della nostra superiore civiltà. Ma l'inopportunità del nostro compiacimento si rivela alla fine evidente quando pensiamo che ancora nel 1941 l'Olocausto era un evento del tutto inatteso; che, data la nostra conoscenza dei “dati di fatto”, esso non era prevedibile; e che, quando un anno più tardi infine ebbe luogo, fu accolto con universale incredulità. Le persone si rifiutavano di credere ai fatti che avevano sotto gli occhi. Non che fossero ottuse o male intenzionate. Accadeva soltanto che niente di quanto avevano conosciuto in precedenza le avesse preparate a credere. In base a tutto ciò che avevano conosciuto e a cui avevano creduto fino a quel momento, l’omicidio di massa - per il quale non esisteva ancora nemmeno un nome - era puramente e semplicemente inimmaginabile. Oggi esso è di nuovo inimmaginabile. Oggi, tuttavia, sappiamo ciò che non sapevamo nel 1941: che bisognerebbe immaginare anche l'inimmaginabile. Z. Bauman, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992. Storia e Memoria della Shoah Le riserve di fronte allo studio storico della Shoah. Ha scrittolo storico canadese Michael Marrus: «Secondo una certa impostazione tradizionale l'Olocausto sta in qualche modo al di sopra della storia, a causa della sua importanza suprema; dunque si pensa che non vada Totalitarismi Deportazioni Shoah soggetto a quelle ampie indagini, discussioni e dibattiti che sono normali per altri aspetti del passato recente.» Da questi timori - sempre secondo Marrus - sono scaturite altrettante interdizioni a uno scavo storiografico approfondito dello sterminio degli ebrei: innanzi tutto la convinzione che il lavoro degli storici non potesse sfuggire al rischio dell'incompletezza e quindi restituisse una ricostruzione falsata degli eventi; in secondo luogo il dubbio che le inevitabili imprecisioni della ricerca si potessero ripercuotere negativamente sull'immagine pubblica della Shoah; infine la preoccupazione che l'inevitabile sforzo di revisione delle interpretazioni consolidate, proprio dell'attività scientifica, potesse non solo comportare una progressiva sottovalutazione dell'orrore subito dal popolo ebraico ma soprattutto determinare l'emergere di qualche giustificazione retrospettiva degli aguzzini nazisti. Questo insieme di preoccupazioni si riassumeva infine nel sospetto, assai diffuso nell'immaginario delle vittime e di molti intellettuali ebrei impegnati nella costruzione della memoria della Shoah, che la ricerca storica costituisse il veicolo di una pericolosa normalizzazione di una tragedia che, per i suoi caratteri di male assoluto, di violenza cieca e bestiale senza paragoni, era destinata a sfuggire a qualsiasi tentativo di spiegazione e di comprensione scientifica e razionale, e quindi non poteva essere oggetto del lavoro storiografico. La frattura fra memoria e storia. Tra memoria e storia si apriva dunque una frattura, nella misura in cui l'ansia di ricordare e di impedire che il tempo stendesse un velo su una così gigantesca tragedia, sui suoi artefici e sulle sue vittime, sembrava non potersi servire dell'apporto del lavoro di scavo della storiografia, perché "conoscere" lo sterminio significava inevitabilmente "storicizzarlo" e quindi determinare uno iato tra il giudizio storico e la condanna morale. In fondo, anche la stessa parola Olocausto, ancora oggi largamente utilizzata per sintetizzare il "discorso pubblico" sullo sterminio, proprio per i connotati religiosi espressi nel suo significato etimologico di sacrificio alla divinità, lascia trapelare un 'intenzione interpretativa volta a sottolineare l'incomprensibilità della "distruzione" degli ebrei. L'evento, racchiuso nella dimensione del "sacrificio", appariva come il destino di un popolo, dotato perciò di un'aura di imperscrutabilità e di una dimensione "ontologica", che costituivano una barriera insormontabile alla ricerca storica. Allo storico dell'olocausto veniva richiesto esclusivamente di dare coerenza e senso alla "storia vista" e "patita", trasformandosi in un "praticante dell'identità" a Totalitarismi Deportazioni Shoah presidio dell'integrità della memoria, proprio perché la verità storica dello sterminio si era progressivamente trasformata in una "verità religiosa" Il lungo silenzio della storiografia. Bisogna ricordare che il contrasto culturale e metodologico da cui siamo partiti segue una lunga fase di silenzio della storiografia sulla Shoah. Fino alla fine degli anni sessanta la pubblicistica storica sullo sterminio poteva infatti annoverare soltanto tre titoli, il lavoro pionieristico di Leon Poliakov Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, pubblicato a Parigi nel 1951, la prima edizione della monumentale sintesi di Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, uscita a New York nel 1961 , poi costantemente aggiornata fino alla fine del secolo scorso, e la cronaca del processo svoltosi a Gerusalemme nel 1962 contro Adolf Eichmann, uno dei principali aguzzini nazisti, realizzata dalla filosofa Hannah Arendt e pubblicata con il titolo La banalità del male. Fino alla fine degli anni sessanta, dunque, la memoria ha dovuto lottare innanzitutto contro l'oblio. Un oblio tenace, alla cui costruzione concorreva soprattutto la volontà prevalente delle nuove elite politiche della Germania occidentale e dei diversi stati variamente implicati nella politica dello sterminio (Italia, Francia e Austria in particolare) di evitare che la condanna dell'ignominia formalmente pronunciata si traducesse nel riconoscimento pieno delle proprie responsabilità nella sua concreta realizzazione. L’interpretazione intenzionalista. Negli anni settanta si produsse una svolta significativa nel rapporto tra la storiografia e lo sterminio. Il progressivo venir meno degli ostacoli alla conoscenza dell'orrore elevati dalle politiche pubbliche, da un lato, e l'acquisita consapevolezza dell'autonomia della ricerca storica rispetto ai percorsi della memoria, dall'altro, aprirono una nuova stagione di studi, nella quale appaiono ben chiare due scuole di pensiero: quella degli intenzionalisti e quella dei funzionalisti, anche se non bisogna dimenticare che nello stesso periodo cominciano a delinearsi i contorni di un terzo orientamento, quello negazionista, sostenuto dall'apologeta del nazismo David Irving nella sua opera Hitler's War. L'architettura della proposta interpretativa intenzionalista, così definita perché si basa sul presupposto che lo stermino degli ebrei sia il risultato di una scelta consapevole del nazismo, è fondata su due architravi: da un lato il ruolo di Hitler come ispiratore e diretto promotore della "soluzione finale" e, dall'altro, il carattere costitutivo della strategia dell'annientamento nell'ideologia politica del nazionalsocialismo. Secondo lo storico americano Cristopher Browning, la corrente intenzionalista all'inizio Totalitarismi Deportazioni Shoah della sua parabola ha presentato una vasta gamma di datazioni possibili della decisione di Hitler di sterminare gli ebrei, dagli anni venti, alla leggi di Norimberga, all'inizio della guerra. In una seconda fase il dibattito si è ristretto al 1941. Nota Browning: «Lo storico americano Richard Breitman sostenne che vi fu all'inizio di quell'anno una decisone fondamentale nel quadro della preparazione dell’operazione Barbarossa [nome in codice dell'invasione dell'Urss]. Lo storico svizzero Philippe Burrin sostenne che una decisione fu presa ai primi di ottobre [1941], nel quadro del fallimento dei piani hitleriani di rapida vittoria contro l’Unione Sovietica e del profilarsi dell'entrata in guerra degli Stati Uniti, e come conseguenza della precedente "intenzione condizionata" di Hitler di sterminare gli ebrei qualora egli si fosse trovato impegnato in una guerra su tutti i fronti. Io sostenni che vi era stato un processo decisionale in due tempi, uno per gli ebrei sovietici e l'altro per gli ebrei europei: ognuna delle due fasi si era conclusa in coincidenza con i due più alti momenti di euforia vittoriosa dei nazisti, a metà luglio e ai primi di ottobre del 1941.» Da questo impianto concettuale però non derivava necessariamente che lo sterminio degli ebrei fosse imputabile semplicemente all'opera di un pugno di criminali, né che esso fosse il risultato di un "ordine di uccidere" unico e dato una volta per tutte. Gli intenzionalisti, infatti, non sono stati animati semplicemente dalla volontà di condannare i colpevoli di così orrendi crimini, o di individuare un "capro espiatorio" che mettesse a posto la coscienza dei tedeschi: sono andati piuttosto alla ricerca di spiegazioni plausibili della Shoah. La responsabilità finale di Hitler. In sintesi, la posizione intenzionalista è ben riassunta nelle parole di Ian Kershaw, il maggior storico di Hitler. A suo avviso, pur ammettendo che l'iniziativa dello sterminio fosse partita "da diversi settori" del sistema di potere nazista, era impensabile che «dato il carattere monocratico e assolutistico dello stato hitleriano [...] un'azione di tali dimensioni e gravità potesse essere intrapresa senza il consenso del Fuhrer in per sona». In ogni caso, non è possibile ridurre la "soluzione finale" a una semplice questione personale tra il dittatore tedesco egli ebrei. L’intenzionalismo chiama in causa soprattutto l'estrema radicalizzazione della lotta politica imposta da Hitler nella convinzione che la Germania fosse posta di fronte all'ultimo, decisivo atto di una lunga lotta per la sopravvivenza ingaggiato contro di lei dal "giudaismo internazionale", interprete e promotore di quella modernità di cui il popolo tedesco era la principale vittima. Totalitarismi Deportazioni Shoah Non è un caso, come hanno sostenuto gli storici tedeschi Andreas Hillgruber e Eberhard Jackel, che sia stata la guerra a fare entrare lo sterminio nella sua fase risolutiva, intrecciandosi, all'indomani del varo dell'operazione Barbarossa, con l'altra "soluzione finale" architettata da Hitler, cioè la schiavizzazione degli slavi e la distruzione del bolscevismo sovietico. Guerra e Shoah dunque appaiono due eventi interconnessi. L’interpretazione funzionalista. Sul nesso tra guerra e sterminio concordavano anche gli studiosi che si riconobbero nell'altra "scuola di pensiero": i cosiddetti funzionalisti. A differenza degli intenzionalisti, questi ultimi erano convinti che l'assenza di documenti comprovanti la decisione di Hitler di sterminare gli ebrei non fosse da ascrivere semplicemente alla modalità con cui il dittatore tedesco assumeva le decisioni politiche, quanto piuttosto che essa facesse emergere uno scarto tra il piano ideologico e quello delle scelte concrete nella lotta contro gli ebrei. In questo quadro, lo sterminio è stato il risultato di contingenze esterne, connesse soprattutto alla guerra e al suo andamento effettivo piuttosto che il risultato di un piano preordinato. Hans Mommsen e Martin Broszat, che hanno dato il contributo di maggior rilievo alla definizione di questo orientamento storiografico, hanno messo in luce come, fino alla sconfitta dell'esercito tedesco nell'operazione Barbarossa, il gruppo dirigente nazista avesse coltivato l'intenzione di risolvere la "questione ebraica" attraverso deportazioni di massa su larga scala, pianificando cioè il trasferimento forzato degli ebrei in Madagascar ("piano Madagascar") o nei nuovi territori conquistati all'Unione Sovietica. A questi progetti, rapidamente accantonati, si era sostituito l'intento di risolvere la "questione ebraica" attraverso l'uccisione di tutti gli ebrei maschi all'interno della guerra di conquista dell'Urss, che era stata impostata da Hitler stesso come una vera e propria "guerra di sterminio". Ma, con la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, il programma dello sterminio subì un ulteriore cambiamento in direzione della "soluzione finale" attraverso la deportazione di massa degli ebrei in ghetti e in campi di sterminio costruiti soprattutto nella Polonia orientale: gli assassini di massa erano non solo troppo lenti e costosi, ma anche eccessivamente visibili e spietati, tali da demoralizzare le truppe. Si cominciò così nel campo di concentramento di Chelmno a sperimentare l'utilizzo dei "camion a gas" vero e proprio incunabolo della camera a gas, assurta dal 1943 a strumento principale e a simbolo della distruzione del popolo ebraico. Totalitarismi Deportazioni Shoah Sconfitta in Russia e intensificazione dello sterminio. Fu la sconfitta in Urss ad accelerare questo salto di qualità nella persecuzione, quasi imponendo la "soluzione finale" che, dalla fine de1 1942, le Ss pianificarono, organizzando su scala continentale la deportazione di massa e la rete dei lager. Questi avevano come soglia finale le camere a gas e i forni crematori, con i quali il nazismo cercò di raggiungere il duplice obiettivo di potenziare l'efficacia della distruzione e di occultarla agli occhi della popolazione e dell'opinione pubblica internazionale. Ciò non toglie che questa "macchina della morte" rispose a un sistema di decisioni confuso e contraddittorio, che rimandava alla natura policentrica del potere politico nazista, nel quale, all'ombra della figura del Fuhrer, depositario di un dominio assoluto e discrezionale ma spesso astratto e indefinito, operavano diversi centri di potere, spesso in contrasto e in conflitto tra loro. Ha scritto lo storico Marrus: «Un altro funzionalista, Mommsen, ha proposto la dimostrazione più efficace della tesi secondo la quale il Fuhrer non si interessava e forse era incapace di interessarsi delle questioni dell’amministrazione [sostenendo] che il leader nazista vedesse gli ebrei soprattutto dal punto di vista propagandistico e [che] la Soluzione finale fosse il risultato del rapporto tra questo leader fanatico e distante e la struttura caotica del regime nazista [...] Il linguaggio esasperato spingeva gli altri a mettere in pratica i suoi deliri "utopici" sugli ebrei e sicuramente stimolò gli eccessi omicidi: ma egli non emanò alcun ordine per la Soluzione finale e non ebbe alcuna parte nella sua esecuzione. » L’ipotesi interpretativa funzionalista ha come sua principale conseguenza quella di estendere il numero dei colpevoli e di dilatare il campo dei carnefici a un numero impressionate di soggetti, molto più esteso di quello chiamato in causa dagli intenzionalisti, che lo restringono in sostanza a Hitler e al ristretto novero dei capi del nazismo. Il "nesso guerra-genocidio", come ha notato il funzionalista Norbert Frei, fa entrare in campo solerti funzionari dell'amministrazione civile e in particolare del ministero dei Trasporti, professionisti, ufficiali della Wehrmacht, persino le popolazioni civili che collaborarono ai massacri e all'annientamento di massa, a dimostrazione di come il veleno antisemita predicato dal nazismo avesse profondamente attecchito in ampi strati della società tedesca. Come scrisse Hilberg, lo sterminio appare all'indagine storica un «processo amministrativo mandato avanti da burocrati in una rete di uffici disseminati su di un continente»; un processo dotato di suoi automatismi, fondato su un'efficienza tecnica nella quale si combinava, con i criteri e i ritmi Totalitarismi Deportazioni Shoah disumanizzanti dell'organizzazione scientifica del lavoro, la proverbiale meticolosità della burocrazia tedesca, assuefatta dall'identificazione ideologica con il potere a eseguire con una sorta di zelo "amorale" ogni sorta di ordine, e spinta a riversare sul "nemico-ebreo" le ansie e le frustrazioni di un'esistenza mediocre, sottoposta al dominio incondizionato di un potere dispotico e totale. Al di là delle differenze di questi due diversi approcci, resta indubbio che a questa nuova stagione di studi si debba complessivamente un ampliamento notevole delle conoscenze a nostra disposizione sullo sterminio degli ebrei, che si è mosso sia in direzione di un più preciso accertamento dei fatti in merito alle dinamiche del fenomeno e agli strumenti organizzativi messi in campo per realizzarlo, sia in direzione del contesto di breve e lunga durata nel quale la Shoah si è verificata. De Bernardi, Guarracino, Balzani, Tempi dell’Europa, tempi del mondo, ed. Bruno Mondadori. Le fasi del processo di distruzione degli Ebrei d’Europa. Un processo di distruzione possiede una struttura intrinseca. Un gruppo da solo non può essere distrutto che in un solo modo. L’operazione comporta tre fasi organiche: • Definizione • Concentrazione (o arresto) • Annientamento Tale è la struttura invariabile del processo di base, nessun gruppo poteva essere ucciso senza che le vittime fossero concentrate o arrestate, e nessuna vittima avrebbe potuto essere oggetto di una segregazione se l'agente del processo non avesse saputo prima che apparteneva al gruppo. Esistono delle tappe supplementari in un'azione moderna di distruzione. Queste misure sono necessarie non per l'annientamento della vittima, ma per preservare l'economia. Fondamentalmente, sono tutte espropriazioni. Nella distruzione degli Ebrei, i decreti di espropriazione furono promulgati dopo ogni fase organica. I licenziamenti e le arianizzazioni venivano dopo la definizione (del termine Ebreo); le misure di sfruttamento e di restrizioni alimentari seguivano la concentrazione; infine, la confisca dei beni personali era corollario dell'operazione di distruzione. Nella sua forma completa, un processo distruzione, in una società moderna, presenterà dunque la seguente struttura: • Definizione Licenziamento dei lavoratori ed espropriazione delle imprese commerciali Totalitarismi Deportazioni Shoah Sfruttamento della manodopera e provvedimenti di negazione del cibo • Annientamento Confisca degli effetti personali La sequenza delle tappe del processo di distruzione si trova così definita (…) La distruzione degli Ebrei non risultò un'operazione economicamente vantaggiosa. Mise a dura prova la macchina amministrativa e i suoi ingranaggi. In senso più generale, divenne un fardello che pesò su tutta la Germania. (...) Man mano che il processo di distruzione progrediva, i guadagni diminuivano, e le spese tendevano ad aumentare. (...) Nella fase preliminare i guadagni economici, pubblici o privati, compensavano largamente le spese, ma, nel momento dello sterminio, le entrate non equilibravano più le uscite. Esaminiamo un po' più da vicino il costo della fase dello sterminio. Le confische tedesche durante la seconda metà del processo erano limitate, per la maggior parte, ai beni personali. Nella stessa Germania, gran parte delle proprietà erano già state sequestrate in partenza; nei territori russi e polacchi occupati, le vittime non possedevano grandi cose, mentre, nei paesi satelliti, i regimi collaborazionisti rivendicavano i beni ebraici abbandonati. D'altra parte, i costi erano più alti. Soltanto le spese visibili (costi, uscite), specialmente quelle relative alle deportazioni e allo sterminio, erano relativamente ridotte. Per il trasporto, si utilizzavano vagoni merci. Nelle unità mobili di massacro, così come nei centri di sterminio, si impiegava ben poco personale tedesco. I campi, nel loro insieme, erano costruiti e mantenuti in economia, anche se Speer rimproverava Himmler di fare spreco di materiale da costruzione già raro. Le baracche erano costruite da manodopera di detenuti, e i prigionieri erano alloggiati in grandi baracche sprovviste di elettricità e di impianti igienici moderni. Le somme assegnate per la costruzione delle camere a gas e dei forni erano modeste. Tutta questa economia era possibile perché non avrebbe compromesso né l'ampiezza né il ritmo del processo. Tuttavia, queste preoccupazioni materiali non costituivano l'elemento decisivo. L’obiettivo supremo era il raggiungimento, nel senso più completo del termine, del processo di distruzione. (...) Himmler non cercò mai di dissimulare che, per lui, la distruzione degli Ebrei aveva la priorità persino sugli armamenti. Quando i responsabili degli approvvigionamenti mossero delle obiezioni contro il ritiro dei lavoratori ebrei, Himmler si limitò a rispondere: «E’ semplice: non riconosco l'argomentazione della produzione bellica, che costituisce oggi, in Germania, la ragione regolarmente invocata per opporsi a tutto». Nel gergo accuratamente dosato del Ministero dei Totalitarismi Deportazioni Shoah Territori occupati dell'Est, la priorità del processo di distruzione si annunciava in questo modo: «Le questioni economiche non devono essere prese in considerazione nella soluzione della questione ebraica». (...) Di fronte alla sempre maggiore penuria di manodopera, un'enorme riserva di forzalavoro ebraica fu sacrificata nella “soluzione finale”. Tra tutti i costi generati dal processo di distruzione, l'abbandono di queste riserve sempre più difficilmente rimpiazzabili costituì la spesa maggiore, senza confronti. R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino, 1995 Bibliografia Cenni bibliografici Totalitarismi, deportazione, Shoah H. Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. Bompiani, 1978. Z. Bauman, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992. De Bernardi, Guarracino, Balzani, Tempi dell’Europa, tempi del mondo, ed. Bruno Mondadori. 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