Totalitarismi Deportazioni Shoah - Istituto storico della Resistenza e

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Totalitarismi Deportazioni Shoah - Istituto storico della Resistenza e
TRENO DELLA MEMORIA
29 gennaio 2008 – 3 febbraio 2008
Totalitarismi
Deportazioni
Shoah
Istituto storico della Resistenza
e della società contemporanea in Valle d’Aosta
A cura di: Silvana Presa e Lucilla Chasseur
Totalitarismi Deportazioni Shoah
PARTE PRIMA: TOTALITARISMI, DEPORTAZIONI, SHOAH
Guerra e modernità: la Prima guerra mondiale.
Sul legame tra guerra e modernità - la guerra come espressione della
modernità e come suo pieno dispiegamento- non sembrano esservi dubbi.
Stephen Kern ha visto nel conflitto il precipitare di tutto quanto di nuovo si
era accumulato nei decenni precedenti nella percezione del mondo, a
cominciare dalle coordinate spazio temporali. Paul Fussel vi ha colto l'evento
fondante della "memoria moderna". In Terra di nessuno di Eric Leed, la guerra
appare come un gigantesco, sanguinoso rito di passaggio attraverso cui il
vecchio mondo venne lasciato definitivamente alle spalle e il nuovo tenuto
fragorosamente a battesimo. Quanto a George L. Mosse, pur dedicandosi a
rintracciare le radici più antiche dei miti che alimentarono la "politica di
massa" nel Novecento, ha sottolineato come fu precisamente la Grande
Guerra a dilatarne ruolo e significati, facendone emergere insieme il volto più
inquietante. Infine anche chi - come Arno J. Mayer - ha sostenuto il
prolungarsi dell’Ancien Regime fino alle soglie del conflitto e ha visto nel suo
scatenarsi il frutto perverso di un tentativo estremo di garantirne la
sopravvivenza, riconosce nella guerra l'evento genetico del Novecento e della
modernità. […]
Ciò è vero anche nello specifico caso italiano. Oltre vent'anni fa Alberto
Caracciolo, nel saggio che apriva il volume significativamente intitolato Il
trauma dell'intervento, notava acutamente la terribile novità della guerra e la
sua tendenza ad accelerare il ritmo della storia: nell'impiego delle tecnologie
e nella dimensione della morte, nel ruolo delle masse e nell'organizzazione
della produzione. Più di recente Giulio Bollati, segnalando l'ambivalenza del
processo, il suo significato insieme creativo e distruttivo, ha efficacemente
sintetizzato gli elementi dirompenti di quella esperienza: «La modernità
irrompe d'improvviso con le sue macchine e le sue masse sui campi della
prima guerra mondiale. […] La guerra, se possiamo trascriverla così, è come
una violenta intensissima esperienza di modernità industriale. Le "plebi"
sono sottoposte a un rapido processo di (metaforico) inurbamento e di
(effettiva) proletarizzazione. Concentrate in vaste moltitudini, subiscono uno
sfruttamento e un'usura crudeli, la costrizione di una disciplina durissima,
vengono a contatto con le macchine e le tecniche di una guerra moderna».
[…]
Ma quali sono i connotati di questa modernità, che la guerra rivela e
accelera a un tempo? Sinteticamente essi sembrano ruotare intorno al
binomio Stato - industria. La guerra esalta il ruolo dello Stato, facendo di esso
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una presenza capillarmente insediata nella vita privata e nell'interiorità di
ciascuno, un agente di mobilitazione massiccia di forze, sentimenti,
immagini. Nello stesso tempo utilizza e potenzia le nuove tecnologie
industriali, estende la sperimentazione di nuove forme di organizzazione del
lavoro, di mobilitazione intensiva e di movimentazione coatta di grandi
masse umane. […]
La nuova realtà investe in vario modo la sfera percettiva, disegnando i
contorni di un "nuovo paesaggio mentale". Nell'esperienza della trincea e più
in generale nell'ambientazione della guerra si palesano il trionfo
dell'elemento artificiale su quello naturale (l'elettricità trasforma le notti in
giorni, la chimica degli esplosivi polverizza le montagne modificando il
paesaggio); la fungibilità di biologia e tecnologia (le protesi sostituiscono gli
arti distrutti); il senso del tempo come discontinuità e il suo disancorarsi dalle
matrici biologiche, naturali o più semplicemente tradizionali; l'irrompere
della nuova morte di massa come prodotto di organizzazione industriale su
larga scala e come perdita di confine tra umano e disumano, segno di
anonimato che connota l'esistenza nella società.
A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del
mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
Guerra e totalitarismo.
La Grande guerra del 1914-18 è stata lo spartiacque di questo secolo. Essa
contiene in sé tutte le componenti decisive di ciò che è venuto dopo. Lo
leggiamo nel rapporto tra la guerra e la violenza pubblica e privata, tra la
guerra e lo Stato che organizza la società nella sua disciplina e anche nel suo
consenso, nelle inquietudini e nelle attese che la morte di massa genera nella
popolazione, nell’avanzata, pur in mezzo alle generali rovine della donna. E
soprattutto nel progresso scientifico e tecnico che costruisce e distrugge,
nell’intreccio che sembra inestricabile tra modernità e barbarie.
[…] dalla guerra nasce in Europa quello che si è poi chiamato regime
autoritario di massa, non più elitario, dinastico, militare, clericale, ma di
massa perché al suddito si chiede non solo obbedienza, ma anche
partecipazione. Questa novità è veramente un segno del secolo.
La condotta della guerra è comunque un punto di partenza: il modo
come essa è stata fatta ha inciso profondamente sulla società italiana, per
questo dobbiamo partire da qui per capire il rapporto tra la guerra e quel che
è venuto dopo.
Strateghi, studiosi, scienziati avevano lavorato molto per preparare la
guerra, ma la guerra vera fu un’altra cosa. Essa fu molto diversa da quelle del
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passato, e da tutte le guerre immaginarie o immaginabili. La guerra che ci fu
non venne prevista. […] l’idea era allora che la guerra sarebbe stata breve,
legata ad un confronto di forze in movimento. La preparazione al conflitto si
fondò interamente su questo presupposto. Le cose andarono invece
dappertutto in un modo radicalmente diverso, salvo all’inizio. […] Dopo di
allora la guerra sul cosiddetto fronte occidentale, dove si scontravano
Germania, Francia, Inghilterra, e sul fronte orientale – Germania, AustriaUngheria e Russia – si fermò, e divenne guerra di trincea. In Occidente, dal
Mare del Nord alla Svizzera, ottocento chilometri di territorio furono scavati
in trincee, cioè in lunghe fosse articolate e difese col filo spinato, dove gli
eserciti si collocarono nella speranza di potersi difendere da incursioni
nemiche e di poter avanzare attraverso nuovi metodi di guerra.
Anche in Italia il comando si illuse di poter rapidamente sviluppare
un’azione offensiva di tipo tradizionale, ma la guerra si impantanò subito
[…]. Settecento chilometri di territorio furono scavati e la gente fu mandata a
rintanarsi lì. Di colpo la guerra non fu più fatta da specialisti, da gente
chiamata ad esercitare individualmente forza e valore contro il nemico, ma
divenne un’azione di massa di milioni di persone permanentemente schierate
le une contro le altre in un confronto diretto. Erano ormai milioni di uomini,
per lo più contadini […] strappati alla loro normalità, portati nel buio, nel
fango, sotto le bombe, nel pericolo di morte. Ed era guerra di massa anche nel
senso che tutta la nazione era pervasivamente occupata dall’impegno bellico;
la guerra non era più una cosa lontana. Bisognava lavorare per la guerra
lunga, e la guerra lunga voleva dire trasferimento di risorse dai consumi
privati alle armi, voleva dire nuovo modo di lavorare, e via dicendo. Sforzo e
fatica ogni giorno per giorni senza fine. […]
Lo sviluppo scientifico e tecnico si presentava ai combattenti attraverso
l’uso e la ricerca delle armi più avanzate, quindi come mezzi di morte, ma si
presentava loro anche in altro modo, attraverso strumenti di consolazione
forniti nei brevi periodi di pausa dal tempo lunghissimo della trincea prima
linea: erano gli spettacoli, il cinema, l’orchestra. La modernità si presentava
nella sua doppia forma di comunicazione e di morte: un modello che avrà
successo lungo il corso del secolo. […] La modernità veniva offerta ai
combattenti nello stesso momento in cui si chiedeva loro una disciplina
diversa dal passato: qualcosa di cui è difficile misurare la tragedia. Perché
anche la disciplina più ferrea è in fondo chiedere a uno di fare o non fare
delle cose che comunque riguardano la vita. Si chiedono rinunce, si chiede
fatica. Nella vita normale la disciplina può essere più o meno dura, è una
conformità di comportamento rispetto ad un comando: chi la subisce rimane
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se stesso. Nella guerra il comando ha un senso diverso. Certo ci sono anche
forme normali di disciplina, ma c’è un momento diverso: il comando mi
ordina di stare immobile sotto il fuoco nemico o mi dice di andare in un
terreno dove si spara e di avanzare verso il nemico sotto il suo fuoco, che con
altissima probabilità mi può ammazzare. Tu sai che se esci un secondo dopo
puoi essere ammazzato, puoi anche rimanere mutilato per la vita, puoi essere
abbandonato lì in mezzo senza che i tuoi compagni ti possano venire a
prendere. La disciplina viene qui caricata di qualcosa che va molto al di là di
qualunque rapporto immaginabile in un meccanismo di disciplina normale.
La maggior parte dei soldati morti nella prima guerra mondiale non sono
morti combattendo, cosa che presuppone avere uno spazio di iniziativa, una
qualche reciprocità con il nemico: sono, invece, semplicemente morti sotto il
fuoco uscendo allo scoperto in tentativi di attacco di una trincea nemica che
non riuscivano quasi mai a raggiungere.
[…] l’atto estremo della disciplina non viene richiesto per un evento
risolutivo, ma per un’azione che non ha nessun senso. L’insensatezza è
l’elemento dominante e nuovo nella disciplina della Grande guerra.
Il meccanismo del totalitarismo moderno nasce probabilmente qui,
nelle fosse di fango, nelle trincee della guerra. Qui si forma il totalitarismo
inteso alla lettera per ottenere una conformità totale. Si chiede al cittadino, al
soldato, al suddito non soltanto una disciplina su certe regole stabilite, ma
una conformità della sua persona, una sua integrazione in un collettivo che è
assunto e rappresentato nel comando
Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino 1996.
Il totalitarismo. Definizioni.
1. Stato totale:
è lo stato che vuole esercitare il proprio totale controllo sulla società,
soffocandone ogni autonomia, abolendo ogni libertà e pluralismo, attraverso
sia l’uso della violenza sia l’uso degli strumenti atti a produrre consenso,
occupando anche la sfera privata dei cittadini.
Scrive Giovanni Gentile alla voce Dottrina del fascismo dell’Enciclopedia
italiana:
«Antindividualistica la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l’individuo
in quanto esso coincide con lo Stato […]. Il liberalismo negava lo Stato nell’interesse
dell’individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera
dell’individuo. […] il fascismo è per la libertà. Per la sola libertà seria, la libertà dello
Stato e dell’individuo nello Stato. Giacché per il fascista tutto è nello Stato e nulla di
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umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore al di fuori dello Stato. In tal senso il
fascismo è totalitario.»
2. Potere, società e individuo nel totalitarismo.
Venne allora alla luce una realtà ancora più oscura e terribile: il
totalitarismo, una parola controversa usata spesso per affermare l’identità di
nazismo e comunismo, che hanno molti elementi in comune pur essendo
profondamente diversi fra loro. Per me il totalitarismo non è più il consenso
ma l’identificazione del cittadino con il potere e col capo. Questo rapporto,
oltre a negare la libertà di azione, cancella o riduce a strumento di potere la
coscienza individuale: ne derivano sogni orrendi come quello di fabbricare
l’uomo nuovo. Si arriva a disgregare atomizzandola, la struttura tradizionale
della convivenza sociale, a incarnare dentro una totalità politica le leggi della
natura e della storia. Da questa ricostruzione politica è inseparabile la
contrapposizione al Nemico, anzi la ricerca del Nemico come condizione
della propria identità. Negli anni trenta (e anche dopo) molti hanno creduto
che questo fosse il frutto necessario della società di massa, dell’ingresso delle
masse nella politica e che quindi la fine della democrazia fosse irreversibile.
Per fortuna quel pessimismo cosmico, che fin dagli anni trenta mi riusciva
insopportabile, non è più trionfante. E’ rimasto solo come esausta nostalgia di
un liberalismo antidemocratico e antisocialista. La democrazia si costruisce e
si ricostruisce con le masse. (...) Il salto nel totalitarismo si ha quando tu devi
pensare quello che il capo ti dice di pensare.
Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino 1996
3. I caratteri dei totalitarismi.
I regimi totalitari sono delle autocrazie e quando sono chiamati tirannie,
dispotismi o assolutismi si vuole in genere definire il loro carattere
fondamentale, perché tutti questi termini contengono in sé un significato
fortemente peggiorativo. Né queste accuse sono contraddette allorché tali
regimi si autoproclamano “democrazie”, facendo seguire l'aggettivo
“popolari”, tranne nel fatto che essi tentano di suggerire di essere dei regimi
buoni o almeno degni di lode. Un'indagine sul significato che i totalitaristi
attribuiscono all'espressione “democrazia popolare” rivela che essi intendono
con ciò parlare di una specie di autocrazia. I leaders del popolo, identificati
con i leaders del partito dominante, hanno la parola definitiva e quando
prendono una decisione, accettata per acclamazione da una riunione di
partito, questa è definitiva e se si tratta di un ordine, di una sentenza, di un
provvedimento o di un qualsiasi atto di governo, essi agiscono da autocrator,
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il signore responsabile solo verso se stesso. In un certo senso, la dittatura
totalitaria è un'autocrazia adattata alla società industriale del XX secolo.
In questo senso, per quel che riguarda cioè questa tipica mancanza di
responsabilità, la dittatura totalitaria rassomiglia alle prime forme di
autocrazia; ma noi vogliamo dimostrare che la dittatura totalitaria
rappresenta storicamente una novità sui generis; inoltre, da tutti i fatti a
nostra disposizione, traiamo la conclusione che le dittature totalitarie fascista
e comunista sono sostanzialmente simili o comunque più simili tra loro che a
qualsiasi altro sistema di governo, comprese le prime forme di autocrazia.
[…] Il dibattito circa le cause o le origini del totalitarismo è andato da una
primitiva teoria sulla natura malvagia dell'uomo, sino ad argomentazioni del
tipo “crisi morale dei nostri tempi”. Un'indagine accurata della
documentazione a nostra disposizione ci suggerisce l'idea che in pratica ogni
elemento presentato da solo come spiegazione dell'origine della dittatura
totalitaria ha avuto un'effettiva importanza. Nel caso della Germania per
esempio, i difetti morali e privati di Hitler, la debolezza della tradizione
costituzionale tedesca, alcune caratteristiche concernenti il “carattere
nazionale” tedesco, il trattato di Versailles e le sue conseguenze, la crisi
economica e le “contraddizioni” di un capitalismo maturo, la “minaccia” del
comunismo, il declino del cristianesimo e di altri simili valori spirituali quali
la fede nella ragione e nella ragionevolezza dell'uomo, tutto ciò ha avuto la
sua parte nel delineare tutti quei fattori che contribuiscono a fissare il
risultato complessivo. Come avviene per altri ampi processi evolutivi nella
storia, una spiegazione potrà essere tratta solo da un'analisi dei loro
molteplici fattori. Oggi però noi non possiamo dare una spiegazione
completa del sorgere della dittatura totalitaria, e tutto quel che possiamo fare
è spiegarlo parzialmente identificandone alcune condizioni antecedenti e
concomitanti. La dittatura totalitaria, ripetiamo, è un fenomeno nuovo e mai
prima v'è stato qualcosa di simile. [...]
I lineamenti o le caratteristiche fondamentali che noi pensiamo siano
generalmente accettati come comuni delle dittature totalitarie sono sei. La
sindrome, o complesso di peculiarità interdipendenti, della dittatura
totalitaria consiste in una ideologia, in un partito unico tipicamente guidato
da un solo uomo, in una polizia terroristica, nel monopolio dei mezzi di
comunicazione, nel monopolio degli armamenti e in una direzione
centralizzata dell'economia. Di queste peculiarità, le due ultime si rinvengono
anche nei sistemi costituzionali: la Gran Bretagna laburista ha avuto una
direzione centralizzata dell'economia e tutti gli Stati moderni hanno il
monopolio degli armamenti. Queste sei peculiarità fondamentali, che
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riteniamo costituiscano il tipico schema modello della dittatura totalitaria,
formano un complesso di elementi che si intrecciano e si sostengono a
vicenda come è usuale nei sistemi “organici”. Esse non dovrebbero quindi
esser prese in esame isolatamente o essere assunte come punto centrale per
deduzioni quali «Cesare organizzò una polizia segreta terroristica, egli quindi
fu il primo dittatore totalitario» «la Chiesa cattolica ha esercitato il controllo
ideologico del pensiero, quindi...».
Tutte le dittature totalitarie presentano le seguenti caratteristiche:
1. Un'ideologia elaborata, consistente in un corpo ufficiale di dottrine che
abbraccia tutti gli aspetti vitali dell'esistenza umana e al quale si suppone
aderisca, almeno passivamente, ogni individuo che viva in questa società;
questa ideologia ha come caratteristica l'essere accentrata e proiettata verso
uno stadio finale e perfetto dell'umanità, essa cioè contiene un'affermazione
chiliastica [millenaristica, cioè basata sulla credenza nell’avvento di un
sistema definitivo per tutta l’umanità] basata sul rifiuto radicale della società
esistente e insieme sulla conquista del mondo a vantaggio di una nuova
società.
2. Un partito unico di massa tipicamente guidato da un solo uomo, il
dittatore, e composto da una percentuale relativamente piccola della
popolazione totale (intorno al 10 per cento) maschile e femminile, con un
forte nucleo appassionatamente e ciecamente consacrato all'ideologia e
pronto a contribuire in ogni modo alla sua generale accettazione; un partito
del genere è organizzato gerarchicamente e oligarchicamente ed è al di sopra
o completamente intrecciato con la burocrazia governativa.
3. Un sistema di terrore, sia fisico che psichico, realizzato attraverso il
controllo esercitato dal partito e dalla polizia segreta, in appoggio, ma anche
per sovrintendere, al partito in funzione dei suoi leaders e diretto
caratteristicamente non solo contro “provati nemici” del regime, ma anche
contro classi della popolazione scelte più o meno arbitrariamente; il terrore,
sia quello della polizia segreta sia quello della pressione sociale diretta dal
partito, sfrutta sistematicamente la scienza moderna e più particolarmente la
psicologia scientifica.
4. Un monopolio quasi completo e tecnologicamente condizionato, di tutti
i mezzi di effettiva comunicazione di massa come la stampa, la radio e il
cinema e concentrato nelle mani del partito e del governo.
5. Un monopolio egualmente tecnologicamente condizionato e quasi
completo dell'uso effettivo di tutti gli strumenti di lotta armata.
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6. Un controllo centralizzato e la guida dell'intera economia attraverso il
coordinamento burocratico di attività imprenditoriali, un tempo
indipendenti, e comprensivo di molte altre associazioni e attività di gruppo.
Friedrich e Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, 1956.
Il terrore come essenza del potere totalitario.
Viene in luce la differenza sostanziale fra la concezione totalitaria del
diritto e le altre. La politica totalitaria non sostituisce un corpo di leggi con un
altro non crea con una rivoluzione una nuova forma di legalità. [...] Essa può
farne a meno perché promette di liberare l'adempimento della legge
dall'azione e dalla volontà dell'uomo; e promette giustizia sulla terra perché
pretende di fare dell'umanità stessa l'incarnazione del diritto. [...]
Per stato di diritto si intende un corpo politico in cui le leggi positive
sono necessarie per attuare l'immutabile ius naturale o gli eterni precetti
divini traducendoli in principi di giusto e ingiusto. Solo in tali principi, nel
complesso di leggi positive di ciascun paese, il diritto naturale o i precetti
divini acquistano una loro realtà politica.
Nel regime totalitario il posto del diritto positivo viene preso dal terrore
totale, inteso a tradurre in realtà la legge di movimento della storia o della
natura. Come le leggi positive, pur definendo le trasgressioni, ne sono
indipendenti - l'assenza di reati in una società non rende superflue le leggi
denotando, casomai, la perfezione della loro autorità - così il terrore nel
regime totalitario cessa di essere uno strumento per la soppressione
dell'opposizione, pur essendo usato anche per tale scopo. Esso diventa totale
quando prescinde dall’esistenza di qualsiasi opposizione; domina supremo
quando più nessuno lo ostacola. Se la legalità è l'essenza del governo non
tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere
totalitario. Esso è la realizzazione della legge del movimento; si propone
principalmente di far sì che le forze della natura o della storia corrano
liberamente attraverso l'umanità, senza l'impedimento dell'azione umana
spontanea e, in quanto tale, cerca di “stabilizzare” gli uomini. È il movimento
stesso che individua i nemici dell'umanità contro cui scatenare il terrore; non
si permette che alcuna azione libera, di opposizione o di simpatia, interferisca
con l'eliminazione del “nemico oggettivo” della storia o della natura, della
classe o della razza.
Colpevolezza e innocenza diventano concetti senza senso; “colpevole” è
chi è d'ostacolo al processo naturale o storico, che condanna le “razze
inferiori”, gli individui “inadatti a vivere”, o le “classi in via di estinzione” e i
“popoli decadenti”. Il terrore esegue queste sentenze di condanna, e davanti
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ad esso tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi
perché non hanno fatto nulla contro il sistema, e gli uccisori perché non
assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire una sentenza di morte
pronunciata da un tribunale superiore. Gli stessi governanti non pretendono
di essere giusti o saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche;
non applicano leggi, ma eseguono un movimento in conformità alla sua legge
intrinseca. Il terrore è legalità se legge è la legge del movimento di qualche
forza sovrumana, la natura o la storia.
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, ed. Bompiani, 1978.
Nazismo e stalinismo. Totalitarismi a confronto.
1. La differenza tra fatti e intenzioni.
Questo ci porta alla recente e diffusa teoria dell’identità totalitaria del
nazismo e del comunismo. L’ho già detto e avrò forse altre occasioni di dirlo:
questa tesi non è accettabile. Certo vi sono molti elementi in sostegno
dell’assimilazione delle due esperienze e mi rendo conto che quello che le
rende simili riguarda proprio l’aspetto più terrificante, più disumano, fino a
essere indicibile, del rapporto fra il potere e l’individuo. Adesso che il
comunismo è caduto, tutto sembra più facile negandone ogni valore
distintivo, appiattendolo sulle esperienze più abbiette della storia. I fatti sono
quelli che sono ma non è possibile cancellare del tutto l’intenzione, intendo la
parola in senso lato come modo di vedere se stessi nel mondo e come volontà
di cambiare il mondo.
Da una parte, nel nazismo, c’è la superiorità del sangue e la negazione
non solo del valore, ma della vita dei diversi, negazione che si traduce
nell’atto di dargli la morte; dall’altro lato, nel comunismo, nell’immaginario
che esso si è dato, c’è un’intenzione liberatoria e ugualitaria. Più il tempo
passa e si conoscono i fatti (per esempio la lotta atroce dei comunisti russi
contro i contadini) più si vede che gli esecutori dell’infamia erano uguali nei
due casi: la burocrazia o l’ideologia costruivano i carnefici, toglievano
umanità alle vittime, riducevano l’assassinio a una normale disciplina verso il
dogma o la gerarchia. Ma se pensiamo ai seguaci, che sono spesso anche le
vittime, appena fuori dall’ordinamento politico, per esempio ai seguaci
comunisti nel mondo, quale differenza! Gli uni, i nazisti, tutti chiusi
nell’egoismo e nella negazione, gli altri, i comunisti in carne e ossa che ho
frequentato in tanti anni nelle lotte per la libertà, protesi verso il mondo e
verso il futuro.
Vittorio Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino 1996
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2. La differenza tra fini e mezzi.
Nazismo e stalinismo sono profondamente diversi anche per il tipo di
violenza che esprimono:
- la violenza del comunismo sovietico è essenzialmente interna alla
società, che cerca di sottomettere, normalizzare, disciplinare ma anche
trasformare e modernizzare con metodi autoritari, coercitivi e criminali; le
vittime dello stalinismo sono quasi tutte dei cittadini sovietici, nella loro
grande maggioranza russi, e ciò vale sia per le vittime dei processi e delle
epurazioni politiche (militanti e funzionari del partito e dello Stato, ufficiali e
quadri dell'esercito) sia per le vittime sociali (kulaki deportati durante la
collettivizzazione forzata delle campagne, elementi giudicati "asociali" ecc.);
le minoranze nazionali colpite dalla repressione (i cosiddetti "popoli puniti"
accusati di collaborazione con il nemico durante la guerra) costituiscono
piccole minoranze se si considera la repressione nel suo insieme;
- la violenza del nazismo, al contrario, è essenzialmente proiettata verso
l'esterno. Dopo una prima, intensa ma rapida fase di "normalizzazione"
repressiva (Gleichschaltung) della società tedesca, la violenza nazista si
scatena nel corso della guerra, a partire dal 1939, come un'ondata di terrore
né cieco né indiscriminato ma rigorosamente codificato. Praticamente
inesistente nei confronti di una comunità nazionale razzialmente delimitata e
sottomessa, questa violenza diventa estrema nei confronti di categorie umane
e sociali escluse dalla comunità del Volk (ebrei, zingari, handicappati,
omosessuali), per estendersi poi alle popolazioni slave, ai prigionieri di
guerra e ai deportati antifascisti (il cui trattamento risponde a una precisa
gerarchia razziale).
Un lucido analista liberale come Raymond Aron aveva colto
chiaramente questa differenza tra comunismo e nazismo sottolineando gli
sbocchi estremi dei due sistemi: per il primo, il campo di lavoro, ossia la
violenza legata a un progetto di trasformazione coercitiva e autoritaria della
società; per il secondo, la camera a gas, vale a dire lo sterminio come finalità
in sé, inscritta in un disegno di purificazione razziale. Lo storico britannico
Ian Kershaw ha sviluppato questa intuizione di Aron mettendo in luce i
diversi tipi di razionalità espressi dai regimi di Stalin e di Hitler.
Il progetto sociale del comunismo non era privo di una sua razionalità,
poiché il suo obiettivo centrale era la modernizzazione dell'economia e della
società sovietiche, perseguita attraverso un'intensa industrializzazione e la
collettivizzazione dell'agricoltura. I mezzi usati per realizzare questo
progetto, tuttavia, erano non solo autoritari e inumani, ma anche
profondamente irrazionali: il lavoro forzato, praticamente schiavistico, dei
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gulag, lo sfruttamento "militar-feudale" dei contadini (secondo la definizione
che ne diede all'epoca Bukharin), l'eliminazione di una parte consistente
dell'elite amministrativa e militare, infine la deportazione in massa di interi
gruppi e popolazioni. I risultati furono in larga misura catastrofici (crollo
della produzione agricola, carestia, stagnazione demografica) e rischiarono di
compromettere il fine perseguito.
Nel nazismo, la contraddizione era invece stridente tra la razionalità dei
mezzi impiegati e l'irrazionalità profonda del fine perseguito: la dominazione
della "razza ariana", il rimodellamento dell'Europa in base a una gerarchia di
tipo razziale. I campi di sterminio nazisti sono un'illustrazione di questo
contrasto.
I
metodi
della
produzione
industriale,
le
regole
dell'amministrazione burocratica, i principi della divisione del lavoro, i
risultati della scienza (lo Zyklon B) erano usati allo scopo di eliminare un
popolo considerato incompatibile con l'ordine "ariano" e indegno di vivere su
questo pianeta. Durante la guerra, la politica nazista di sterminio degli ebrei
(e in misura minore degli zingari) si rivelò irrazionale anche sul piano
economico e militare, poiché fu realizzata mobilitando risorse umane e mezzi
materiali sottratti allo sforzo bellico e distruggendo una parte della forza
lavoro presente nei campi. In Urss, i deportati (zek) erano "usati", "consumati"
a milioni per diboscare regioni, estrarre minerali, costruire ferrovie e linee
elettriche, a volte creare veri e propri centri urbani. Metodi "barbari" e
coercitivi che si apparentavano spesso a forme di "sterminio attraverso il
lavoro" venivano adottati per modernizzare il paese e "costruire il
socialismo". Nella Germania nazista, all'opposto, i metodi più avanzati della
scienza, della tecnica e dell'industria erano usati per distruggere vite umane.
Questa differenza tra lo stalinismo e il nazismo è incarnata, come ha
messo in luce Sonia Combe, da due sinistre figure: Sergej Evstignev, la
principale autorità di Ozerlag, un gulag siberiano sulle rive del lago Baikal, e
Rudolf Hess, il più noto comandante di Auschwitz, di cui si può leggere il
memoriale scritto prima della sua condanna a morte.
Intervistato da Sonia Combe all'inizio degli anni novanta, Evstignev si
dichiarava orgoglioso dell'opera svolta. La sua missione consisteva nella
"rieducazione" dei detenuti e, soprattutto, nella costruzione di una linea
ferroviaria, la "traccia". Per raggiungere questo obiettivo poteva disporre
liberamente, risparmiando o "consumando", secondo le sue esigenze, la forzalavoro dei deportati. Varie migliaia di zek morirono a Ozerlag lavorando, in
condizioni terribili, all'esecuzione di questa impresa. La morte era una
conseguenza del clima e del lavoro forzato. In altri termini, essa era
considerata come un tratto "normale" dell'esistenza di un campo di
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concentramento la cui "resa", in termini produttivi, si misurava in chilometri
di ferrovia.
Hess era invece il comandante di un complesso sistema
concentrazionario il cui nucleo principale, Auschwitz-Birkenau, era un
campo di sterminio industriale. Là furono eliminati nelle camere a gas, poi
inceneriti nei forni crematori, oltre un milione di ebrei deportati da diversi
paesi d'Europa. Il criterio fondamentale per calcolare il "rendimento" di
questo campo era il numero dei morti. Ad Auschwitz, lo sterminio non era un
sottoprodotto ma una finalità immediata. In conclusione, entrambi i sistemi (i
campi di sterminio nazisti e il gulag stalinista) erano incontestabilmente
inumani, criminali e totalitari, e come tali vanno condannati. Sarebbe assurdo
e indecente voler erigere una distinzione tra i due in base a una gerarchia
etica. Ciò non toglie però che la logica del loro funzionamento era tuttavia
profondamente diversa. Sul piano epistemologico, questa differenza non è
affatto marginale. Ed è precisamente questa differenza che il concetto di
totalitarismo ignora e nasconde, limitandosi a prendere in considerazione le
analogie tra i due sistemi.
E. Traverso, Usi e abusi del concetto di totalitarismo, PBM Storia.
Il rapporto del totalitarismo con la civiltà occidentale.
Auschwitz appare, per più ragioni, come un laboratorio privilegiato per
studiare la violenza della modernità. La sua organizzazione industriale della
morte ha realizzato la fusione dell'antisemitismo e del razzismo con la
prigione, l'industria e l'amministrazione burocratico-razionale. In questo
senso il genocidio ebraico costituisce un paradigma della modernità piuttosto
che la sua negazione. Numerosi tratti del processo di civilizzazione, secondo
la definizione che ne hanno dato Max Weber e Norbert Elias, costituiscono le
premesse storiche della distruzione degli ebrei d'Europa. Effettivamente, la
"Soluzione finale" implicava il monopolio statale della violenza (un crimine di
Stato), la razionalità produttiva e amministrativa (il sistema dei campi),
l'autocontrollo delle pulsioni (una violenza "fredda", pianificata) e la
deresponsabilizzazione etica degli agenti sociali (la "banalità del male"). La
Shoah rivela così, come hanno sottolineato Hokheimer e Adorno, una
dialettica negativa: la trasformazione del progresso tecnico e materiale in
regressione umana e sociale. Se questa è una caratteristica del totalitarismo
moderno, esso non va visto come la negazione della civiltà occidentale, ma
come una sua manifestazione patologica, come il disvelamento del suo lato
oscuro e inumano.
E. Traverso, Usi e abusi del concetto di totalitarismo, PBM Storia.
Totalitarismi Deportazioni Shoah
Modernità e Olocausto.
In primo luogo, i processi mentali che in virtù della propria logica
interna possono portare a progetti di genocidio, nonché le risorse tecniche che
consentono la realizzazione di tali progetti, non solo si sono dimostrati
pienamente compatibili con la civiltà moderna, ma sono stati condizionati,
creati e forniti da essa. Non è che l'Olocausto abbia semplicemente, per
qualche misteriosa ragione, evitato di cozzare con le norme e le istituzioni
sociali della modernità: furono tali norme e istituzioni a rendere l'Olocausto
possibile. Senza la civiltà moderna e i suoi principali, fondamentali esiti, non
vi sarebbe stato alcun Olocausto.
In secondo luogo, tutta l'intricata rete di controlli ed equilibri, barriere
ed ostacoli che il processo di civilizzazione ha eretto e che, come speriamo e
confidiamo, ci difenderebbe dalla violenza e terrebbe a freno tutti i poteri
ambiziosi e senza scrupoli, si è dimostrata inefficace. Quando si giunse
all'omicidio di massa, le vittime si ritrovarono sole. Non soltanto esse furono
ingannate da una società apparentemente pacifica e umana, legalistica e
ordinata, ma il loro stesso senso di sicurezza divenne un fattore decisivo della
loro caduta.
Per definire la questione in termini netti, esistono ragioni di
preoccupazione poiché oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che rese
possibile l'Olocausto e che non conteneva alcun elemento in grado di
impedire il suo verificarsi. Per queste ragioni è necessario studiare la lezione
dell'Olocausto. È in gioco molto più che il tributo alla memoria di milioni di
vittime, la sistemazione dei conti con gli assassini e la guarigione delle ancora
brucianti ferite morali dei testimoni silenziosi e passivi. Ovviamente, uno
studio - anche il più accurato - non è una garanzia di per sé sufficiente ad
impedire il ritorno agli omicidi di massa, con il loro pubblico di spettatori
ottusi. E tuttavia senza tale studio non sapremmo neppure quanto questo
ritorno sia probabile o meno. (…) L' omicidio di massa non è un'invenzione
moderna. La storia è carica di inimicizie collettive e settarie, sempre
reciprocamente nocive e potenzialmente distruttive, che spesso sfociano nella
violenza aperta, talvolta portano al massacro e in qualche caso allo sterminio
di intere popolazioni e culture. (...)
Senza dubbio l'Olocausto fu l'ennesimo episodio della lunga serie degli
omicidi di massa tentati, e della serie non molto più breve di quelli compiuti.
Ma presenta anche caratteristiche che non condivide con nessuno dei
precedenti casi di genocidio. Sono queste caratteristiche che meritano
particolare attenzione. Esse hanno un sapore distintamente moderno. La loro
presenza suggerisce che la modernità ha contribuito all'Olocausto in modo
Totalitarismi Deportazioni Shoah
più diretto che non semplicemente attraverso la propria debolezza e
inettitudine. Suggerisce che il ruolo della civiltà moderna nello scatenamento
e nell'esecuzione dell'Olocausto fu attivo, non passivo. Suggerisce che
l'Olocausto fu, nella stessa misura, un prodotto e un fallimento della civiltà
moderna. Come tutto ciò che viene fatto in modo moderno - razionale,
pianificato, scientificamente informato, esperto, efficientemente gestito,
coordinato - l' Olocausto si lascia alle spalle e fece impallidire tutti i propri
presunti equivalenti premoderni, rivelandoli come comparativamente
primitivi, dispendiosi e inefficienti. Come ogni altra cosa nella nostra società
moderna, l'Olocausto fu un ' impresa particolarmente ben riuscita sotto tutti
gli aspetti, se valutata in base agli standard che questa società ha esaltato e
istituzionalizzato. (...)
I casi moderni di genocidio si distinguono principalmente per le
proprie dimensioni quantitative. In nessun’altra occasione furono uccise in
così breve tempo tante persone quante ne morirono sotto i regimi di Hitler e
Stalin. Questo, tuttavia, non è l'unico fatto nuovo, e probabilmente neanche il
più importante, ma semplicemente il prodotto collaterale di altre
caratteristiche più essenziali. L' omicidio di massa contemporaneo si
distingue, da una parte, per l' assenza pratica di spontaneità e, dall’altra, per
il prevalere del progetto razionale, accuratamente calcolato. Esso si
caratterizza per una quasi completa eliminazione della contingenza e del
caso, e per l'indipendenza da emozioni collettive e motivazioni personali. (...)
Il genocidio moderno è un genocidio mirante ad uno scopo. Sbarazzarsi
dell’avversario non è di per sé uno scopo. È il mezzo per raggiungere uno
scopo: una necessità che scaturisce dall’obiettivo ultimo, un passo che
bisogna compiere se si vuole raggiungere la meta del percorso. Lo scopo è
dato dalla visione grandiosa di una società migliore e radicalmente diversa. Il
genocidio moderno è un elemento di ingegneria sociale mirante a realizzare
un ordine sociale conforme al progetto della società perfetta.
Per gli iniziatori e gli esecutori del genocidio moderno la società è un
oggetto di pianificazione e progettazione consapevole. Per essa si può e si
deve fare di più che non semplicemente modificare qualcuno dei suoi molti
dettagli, migliorare qui e lì, curare alcuni dei suoi fastidiosi disturbi. È
possibile e necessario proporsi obiettivi più ambiziosi e radicali: si può e si
deve rimodellare la società, forzarla a conformarsi ad un piano complessivo
scientificamente elaborato. È possibile creare una società oggettivamente
migliore di quella “meramente esistente”, cioè esistente senza un intervento
consapevole. (...)
Totalitarismi Deportazioni Shoah
Ci troviamo qui di fronte alla fantasia di un giardiniere, proiettata su
uno schermo di dimensioni universali. I pensieri, i sentimenti, i sogni e le
motivazioni del progettista di un mondo perfetto sono familiari ad ogni
giardiniere degno di questo nome, anche se forse su scala minore. Alcuni
giardinieri odiano le erbe infestanti che insidiano il loro progetto: bruttezza
nel seno della bellezza, rifiuti nel mezzo di un limpido ordine. Altri sono del
tutto privi di emozioni in proposito: le erbacce costituiscono solo un
problema da risolvere, un lavoro in più da portare a compimento. Non che
ciò faccia differenza per le erbe infestanti: entrambi i giardinieri si
propongono di sterminarle. Se ad essi viene data la possibilità di soffermarsi
a riflettere, entrambi forniranno la stessa risposta: le erbacce devono essere
sradicate non tanto per ciò che sono, quanto per come deve essere lo
splendido, ordinato giardino.
La cultura moderna è una cultura del giardinaggio. Essa si definisce
come il progetto di una vita ideale e di un perfetto ordinamento della
condizione umana. A ben guardare, essa definisce se stessa e la natura,
nonché la distinzione tra le due cose, attraverso la propria radicata diffidenza
verso la spontaneità e la propria aspirazione a un ordine migliore,
necessariamente artificiale. A prescindere dal progetto complessivo, l’ordine
artificiale del giardino richiede strumenti e materie prime. Inoltre ha bisogno
di essere difeso dal costante pericolo costituito, ovviamente, dal disordine.
L'ordine, concepito anzitutto come progetto, determina poi quali debbano
essere gli strumenti, quali le materie prime, che cosa è inutile, che cosa è
irrilevante, che cosa è dannoso, quali sono le erbe infestanti o i parassiti. Esso
classifica tutti gli elementi dell'universo in rapporto a se stesso. Questo
rapporto è l'unico significato che esso concede loro e che tollera, è l'unica
giustificazione dell’azione del giardiniere, differenziata in funzione di quel
rapporto. Dal punto di vista del progetto tutte le azioni sono strumentali,
mentre tutti gli oggetti dell'azione sono o mezzi o impedimenti.
Il genocidio moderno, analogamente alla cultura moderna in generale,
può essere concepito come il lavoro di un giardiniere. È semplicemente uno
dei tanti compiti che devono essere svolti da quanti trattano la società come
un giardino. Se il progetto di un giardino definisce le proprie erbe infestanti,
allora vi sono erbe infestanti dovunque vi sia un giardino. E le erbe infestanti
vanno sterminate. Sradicarle e un'attività creativa, non distruttiva. Non
differisce per sua natura da altre attività che contribuiscono alla costruzione e
alla conservazione del giardino perfetto. Tutte le immagini della società
come giardino definiscono alcune parti dell' ambiente sociale come erbe
infestanti umane. Analogamente alle altre erbe infestanti, esse devono essere
Totalitarismi Deportazioni Shoah
isolate, arginate, bloccate nella loro propagazione, rimosse e tenute fuori dai
confini della società; se tutti questi mezzi si rivelano insufficienti, esse devono
essere sterminate.
Le vittime di Stalin e di Hitler non furono uccise per conquistare e
colonizzare il territorio da esse occupato. Spesso furono assassinate in modo
ottuso e automatico, non animato da nessuna emozione umana, ivi compreso
l'odio. Esse furono uccise perché non rientravano, per una ragione o per un'
altra, nel progetto di una società perfetta. Furono eliminate affinché fosse
possibile fondare un mondo umano obiettivamente migliore: più efficiente,
più morale, più bello. Un mondo comunista. O un mondo ariano, puro dal
punto di vista razziale. In entrambi i casi, un mondo armonioso, libero da
conflitti, docile nelle mani dei propri governanti, ordinato, controllato. Gli
individui macchiati dall'ineliminabile tara del proprio passato o della propria
origine non potevano entrare a far parte di un tale mondo immacolato, sano,
splendente. Come quella delle erbe infestanti, la loro natura non poteva
essere modificata. Essi non si prestavano ad essere migliorati o rieducati.
Dovevano essere eliminati per ragioni di eredità genetica o ideale, a causa di
un meccanismo naturale resistente all'elaborazione culturale e ad essa
sottratto.(...)
La civiltà occidentale ha articolato la propria lotta per il dominio come
guerra santa dell'umanità contro la barbarie, della ragione contro l'ignoranza,
dell'obiettività contro il pregiudizio, del progresso contro la degenerazione,
della verità contro la superstizione, della scienza contro la magia e della
razionalità contro le passioni. Ha interpretato la storia della propria ascesa
come graduale ma costante sostituzione del dominio dell'uomo sulla natura
al dominio della natura sull'uomo. Ha presentato i propri esiti innanzi tutto e
principalmente come un decisivo avanzamento della libertà d'azione, del
potenziale creativo e della sicurezza dell'uomo. Ha identificato la libertà e la
sicurezza con il proprio ordine sociale: la società occidentale moderna viene
definita come civilizzata, e la società civilizzata viene a sua volta intesa come
quella condizione in cui è stata eliminata, o almeno soffocata, gran parte delle
brutture e delle malvagità naturali, nonché dell'immanente propensione
umana alla crudeltà e alla violenza. L'immagine popolare della società
civilizzata è quella in cui, prima di ogni altra cosa, è assente la violenza:
l'immagine di una società moderata, mite, conciliante.
La più significativa espressione simbolica di questa immagine
dominante della civilizzazione è forse la sacralità del corpo umano:
l'attenzione con cui si cerca di non invadere il più privato degli spazi, di
evitare il contatto corporeo, di rispettare le distanze fisiche culturalmente
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prescritte; e il disgusto e la repulsione indotti che proviamo quando vediamo
o sentiamo dire che quello spazio sacrale e stato violato. La civiltà moderna
può inscenare la finzione della sacralità e dell'autonomia del corpo umano
grazie agli efficienti meccanismi di autocontrollo che ha sviluppato e che
vengono complessivamente riprodotti con successo nel processo di
educazione individuale. (...)
In ultima analisi, il carattere complessivamente non violento della
civiltà moderna è un'illusione. (...) ciò che in effetti è avvenuto nel corso del
processo di civilizzazione è il dislocamento della violenza, e la
redistribuzione dell’accesso ad essa. Come molte altre cose che siamo stati
educati ad aborrire e detestare, la violenza e stata sottratta alla nostra vista,
piuttosto che eliminata. Essa è stata, cioè, resa invisibile dal punto di vista
dell’esperienza personale strettamente circoscritta e privatizzata. In realtà e
stata confinata in territori separati e isolati, complessivamente inaccessibili ai
comuni membri della società; o espulsa in zone oscure vietate alla grande
maggioranza (e alla maggioranza che conta) di quei membri; o esportata in
luoghi lontani, irrilevanti per gli interessi vitali dell'umanità civilizzata (e
sempre possibile cancellare le prenotazioni per le vacanze). L'Olocausto
assorbì una quantità enorme di mezzi coercitivi. Dopo averli finalizzati ad un
unico scopo, esso stimola ulteriormente anche la loro specializzazione e il
loro perfezionamento tecnico. Ma più della pura e semplice quantità degli
strumenti di distruzione, e anche più della loro qualità tecnica, fu importante
il modo in cui essi vennero utilizzati. La loro formidabile efficacia si fonda
principalmente sulla subordinazione del loro uso a considerazioni tecniche
puramente burocratiche (che rese la loro utilizzazione pressoché immune da
pressioni contrastanti, quali avrebbe potuto incontrare se i mezzi di violenza
fossero stati controllati da agenti sparsi e non coordinati, e impiegati in
maniera diffusa). La violenza si è trasformata in una tecnica. Come tutte le
tecniche, è svincolata da emozioni, è puramente razionale.
È vero che l'Olocausto ha avuto luogo quasi mezzo secolo fa. E vero che
i suoi esiti immediati stanno rapidamente sprofondando nel passato. La
generazione che ne ha avuto esperienza diretta e ormai quasi pressoché
scomparsa. Ma - e si tratta di uno spaventoso, sinistro “ma” - le istituzioni, un
tempo familiari, che l'Olocausto ha reso di nuovo misteriose, sono ancora
parte fondamentale della nostra vita. Esse non sono superate. E dunque non è
superata la possibilità dell'Olocausto.
Noi ci scuotiamo di dosso questa possibilità. Noi dileggiamo i pochi
ossessi tormentati dal problema del nostro equilibrio mentale. Abbiamo
persino una specifica, derisoria, definizione per essi: “profeti di sventura”. È
Totalitarismi Deportazioni Shoah
facile sbarazzarsi dei loro angosciati avvertimenti. Non siamo forse già vigili?
Non condanniamo forse la violenza, l'immoralità, la crudeltà? Non facciamo
forse appello a tutta la nostra ingegnosità e a tutte le nostre considerevoli,
costantemente crescenti, risorse per combattere tali fenomeni? E inoltre, c'è
forse qualcosa in tutta la nostra esistenza che indica la semplice possibilità di
una catastrofe? La vita sta diventando migliore e più confortevole. Nel
complesso, le nostre istituzioni sembrano all'altezza della situazione. Siamo
ben protetti contro il nemico, e i nostri amici certamente non faranno nulla di
malvagio. Certo, veniamo a sapere di tanto in tanto delle atrocità che alcune
popolazioni non particolarmente civilizzate, e per questa ragione
spiritualmente lontane da noi, commettono contro i loro altrettanto barbari
vicini. Gli Ewe massacrano un milione di Ibo, dopo averli chiamati parassiti,
criminali, ladri ed esseri subumani senza cultura; gli iracheni bombardano col
gas i loro concittadini curdi senza neanche preoccuparsi di insultarli; i tamil
massacrano i cingalesi; gli etiopi sterminano gli eritrei; gli ugandesi
sterminano se stessi. E triste, certo, ma che cosa può avere a che fare con noi?
Ammesso che ciò dimostri qualcosa, dimostra sicuramente quanto sia
negativo essere diversi da noi, e quanto sia positivo essere al sicuro dietro lo
scudo della nostra superiore civiltà. Ma l'inopportunità del nostro
compiacimento si rivela alla fine evidente quando pensiamo che ancora nel
1941 l'Olocausto era un evento del tutto inatteso; che, data la nostra
conoscenza dei “dati di fatto”, esso non era prevedibile; e che, quando un
anno più tardi infine ebbe luogo, fu accolto con universale incredulità. Le
persone si rifiutavano di credere ai fatti che avevano sotto gli occhi. Non che
fossero ottuse o male intenzionate. Accadeva soltanto che niente di quanto
avevano conosciuto in precedenza le avesse preparate a credere. In base a
tutto ciò che avevano conosciuto e a cui avevano creduto fino a quel
momento, l’omicidio di massa - per il quale non esisteva ancora nemmeno un
nome - era puramente e semplicemente inimmaginabile. Oggi esso è di
nuovo inimmaginabile.
Oggi, tuttavia, sappiamo ciò che non sapevamo nel 1941: che
bisognerebbe immaginare anche l'inimmaginabile.
Z. Bauman, Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna, 1992.
Storia e Memoria della Shoah
Le riserve di fronte allo studio storico della Shoah.
Ha scrittolo storico canadese Michael Marrus: «Secondo una certa
impostazione tradizionale l'Olocausto sta in qualche modo al di sopra della
storia, a causa della sua importanza suprema; dunque si pensa che non vada
Totalitarismi Deportazioni Shoah
soggetto a quelle ampie indagini, discussioni e dibattiti che sono normali per
altri aspetti del passato recente.»
Da questi timori - sempre secondo Marrus - sono scaturite altrettante
interdizioni a uno scavo storiografico approfondito dello sterminio degli
ebrei: innanzi tutto la convinzione che il lavoro degli storici non potesse
sfuggire al rischio dell'incompletezza e quindi restituisse una ricostruzione
falsata degli eventi; in secondo luogo il dubbio che le inevitabili imprecisioni
della ricerca si potessero ripercuotere negativamente sull'immagine pubblica
della Shoah; infine la preoccupazione che l'inevitabile sforzo di revisione
delle interpretazioni consolidate, proprio dell'attività scientifica, potesse non
solo comportare una progressiva sottovalutazione dell'orrore subito dal
popolo ebraico ma soprattutto determinare l'emergere di qualche
giustificazione retrospettiva degli aguzzini nazisti. Questo insieme di
preoccupazioni si riassumeva infine nel sospetto, assai diffuso
nell'immaginario delle vittime e di molti intellettuali ebrei impegnati nella
costruzione della memoria della Shoah, che la ricerca storica costituisse il
veicolo di una pericolosa normalizzazione di una tragedia che, per i suoi
caratteri di male assoluto, di violenza cieca e bestiale senza paragoni, era
destinata a sfuggire a qualsiasi tentativo di spiegazione e di comprensione
scientifica e razionale, e quindi non poteva essere oggetto del lavoro
storiografico.
La frattura fra memoria e storia.
Tra memoria e storia si apriva dunque una frattura, nella misura in cui
l'ansia di ricordare e di impedire che il tempo stendesse un velo su una così
gigantesca tragedia, sui suoi artefici e sulle sue vittime, sembrava non potersi
servire dell'apporto del lavoro di scavo della storiografia, perché "conoscere"
lo sterminio significava inevitabilmente "storicizzarlo" e quindi determinare
uno iato tra il giudizio storico e la condanna morale.
In fondo, anche la stessa parola Olocausto, ancora oggi largamente utilizzata
per sintetizzare il "discorso pubblico" sullo sterminio, proprio per i connotati
religiosi espressi nel suo significato etimologico di sacrificio alla divinità,
lascia trapelare un 'intenzione interpretativa volta a sottolineare
l'incomprensibilità della "distruzione" degli ebrei. L'evento, racchiuso nella
dimensione del "sacrificio", appariva come il destino di un popolo, dotato
perciò di un'aura di imperscrutabilità e di una dimensione "ontologica", che
costituivano una barriera insormontabile alla ricerca storica. Allo storico
dell'olocausto veniva richiesto esclusivamente di dare coerenza e senso alla
"storia vista" e "patita", trasformandosi in un "praticante dell'identità" a
Totalitarismi Deportazioni Shoah
presidio dell'integrità della memoria, proprio perché la verità storica dello
sterminio si era progressivamente trasformata in una "verità religiosa"
Il lungo silenzio della storiografia.
Bisogna ricordare che il contrasto culturale e metodologico da cui siamo
partiti segue una lunga fase di silenzio della storiografia sulla Shoah. Fino
alla fine degli anni sessanta la pubblicistica storica sullo sterminio poteva
infatti annoverare soltanto tre titoli, il lavoro pionieristico di Leon Poliakov Il
nazismo e lo sterminio degli Ebrei, pubblicato a Parigi nel 1951, la prima
edizione della monumentale sintesi di Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei
d’Europa, uscita a New York nel 1961 , poi costantemente aggiornata fino alla
fine del secolo scorso, e la cronaca del processo svoltosi a Gerusalemme nel
1962 contro Adolf Eichmann, uno dei principali aguzzini nazisti, realizzata
dalla filosofa Hannah Arendt e pubblicata con il titolo La banalità del male.
Fino alla fine degli anni sessanta, dunque, la memoria ha dovuto lottare
innanzitutto contro l'oblio. Un oblio tenace, alla cui costruzione concorreva
soprattutto la volontà prevalente delle nuove elite politiche della Germania
occidentale e dei diversi stati variamente implicati nella politica dello
sterminio (Italia, Francia e Austria in particolare) di evitare che la condanna
dell'ignominia formalmente pronunciata si traducesse nel riconoscimento
pieno delle proprie responsabilità nella sua concreta realizzazione.
L’interpretazione intenzionalista.
Negli anni settanta si produsse una svolta significativa nel rapporto tra
la storiografia e lo sterminio. Il progressivo venir meno degli ostacoli alla
conoscenza dell'orrore elevati dalle politiche pubbliche, da un lato, e
l'acquisita consapevolezza dell'autonomia della ricerca storica rispetto ai
percorsi della memoria, dall'altro, aprirono una nuova stagione di studi, nella
quale appaiono ben chiare due scuole di pensiero: quella degli intenzionalisti
e quella dei funzionalisti, anche se non bisogna dimenticare che nello stesso
periodo cominciano a delinearsi i contorni di un terzo orientamento, quello
negazionista, sostenuto dall'apologeta del nazismo David Irving nella sua
opera Hitler's War. L'architettura della proposta interpretativa intenzionalista,
così definita perché si basa sul presupposto che lo stermino degli ebrei sia il
risultato di una scelta consapevole del nazismo, è fondata su due architravi:
da un lato il ruolo di Hitler come ispiratore e diretto promotore della
"soluzione finale" e, dall'altro, il carattere costitutivo della strategia
dell'annientamento nell'ideologia politica del nazionalsocialismo. Secondo lo
storico americano Cristopher Browning, la corrente intenzionalista all'inizio
Totalitarismi Deportazioni Shoah
della sua parabola ha presentato una vasta gamma di datazioni possibili della
decisione di Hitler di sterminare gli ebrei, dagli anni venti, alla leggi di
Norimberga, all'inizio della guerra.
In una seconda fase il dibattito si è ristretto al 1941. Nota Browning:
«Lo storico americano Richard Breitman sostenne che vi fu all'inizio di
quell'anno una decisone fondamentale nel quadro della preparazione
dell’operazione Barbarossa [nome in codice dell'invasione dell'Urss]. Lo
storico svizzero Philippe Burrin sostenne che una decisione fu presa ai primi
di ottobre [1941], nel quadro del fallimento dei piani hitleriani di rapida
vittoria contro l’Unione Sovietica e del profilarsi dell'entrata in guerra degli
Stati Uniti, e come conseguenza della precedente "intenzione condizionata" di
Hitler di sterminare gli ebrei qualora egli si fosse trovato impegnato in una
guerra su tutti i fronti. Io sostenni che vi era stato un processo decisionale in
due tempi, uno per gli ebrei sovietici e l'altro per gli ebrei europei: ognuna
delle due fasi si era conclusa in coincidenza con i due più alti momenti di
euforia vittoriosa dei nazisti, a metà luglio e ai primi di ottobre del 1941.»
Da questo impianto concettuale però non derivava necessariamente che
lo sterminio degli ebrei fosse imputabile semplicemente all'opera di un
pugno di criminali, né che esso fosse il risultato di un "ordine di uccidere"
unico e dato una volta per tutte. Gli intenzionalisti, infatti, non sono stati
animati semplicemente dalla volontà di condannare i colpevoli di così
orrendi crimini, o di individuare un "capro espiatorio" che mettesse a posto la
coscienza dei tedeschi: sono andati piuttosto alla ricerca di spiegazioni
plausibili della Shoah.
La responsabilità finale di Hitler.
In sintesi, la posizione intenzionalista è ben riassunta nelle parole di Ian
Kershaw, il maggior storico di Hitler. A suo avviso, pur ammettendo che
l'iniziativa dello sterminio fosse partita "da diversi settori" del sistema di
potere nazista, era impensabile che «dato il carattere monocratico e
assolutistico dello stato hitleriano [...] un'azione di tali dimensioni e gravità
potesse essere intrapresa senza il consenso del Fuhrer in per sona». In ogni
caso, non è possibile ridurre la "soluzione finale" a una semplice questione
personale tra il dittatore tedesco egli ebrei. L’intenzionalismo chiama in causa
soprattutto l'estrema radicalizzazione della lotta politica imposta da Hitler
nella convinzione che la Germania fosse posta di fronte all'ultimo, decisivo
atto di una lunga lotta per la sopravvivenza ingaggiato contro di lei dal
"giudaismo internazionale", interprete e promotore di quella modernità di cui
il popolo tedesco era la principale vittima.
Totalitarismi Deportazioni Shoah
Non è un caso, come hanno sostenuto gli storici tedeschi Andreas
Hillgruber e Eberhard Jackel, che sia stata la guerra a fare entrare lo sterminio
nella sua fase risolutiva, intrecciandosi, all'indomani del varo dell'operazione
Barbarossa, con l'altra "soluzione finale" architettata da Hitler, cioè la
schiavizzazione degli slavi e la distruzione del bolscevismo sovietico.
Guerra e Shoah dunque appaiono due eventi interconnessi.
L’interpretazione funzionalista.
Sul nesso tra guerra e sterminio concordavano anche gli studiosi che si
riconobbero nell'altra "scuola di pensiero": i cosiddetti funzionalisti. A
differenza degli intenzionalisti, questi ultimi erano convinti che l'assenza di
documenti comprovanti la decisione di Hitler di sterminare gli ebrei non
fosse da ascrivere semplicemente alla modalità con cui il dittatore tedesco
assumeva le decisioni politiche, quanto piuttosto che essa facesse emergere
uno scarto tra il piano ideologico e quello delle scelte concrete nella lotta
contro gli ebrei. In questo quadro, lo sterminio è stato il risultato di
contingenze esterne, connesse soprattutto alla guerra e al suo andamento
effettivo piuttosto che il risultato di un piano preordinato. Hans Mommsen e
Martin Broszat, che hanno dato il contributo di maggior rilievo alla
definizione di questo orientamento storiografico, hanno messo in luce come,
fino alla sconfitta dell'esercito tedesco nell'operazione Barbarossa, il gruppo
dirigente nazista avesse coltivato l'intenzione di risolvere la "questione
ebraica" attraverso deportazioni di massa su larga scala, pianificando cioè il
trasferimento forzato degli ebrei in Madagascar ("piano Madagascar") o nei
nuovi territori conquistati all'Unione Sovietica. A questi progetti,
rapidamente accantonati, si era sostituito l'intento di risolvere la "questione
ebraica" attraverso l'uccisione di tutti gli ebrei maschi all'interno della guerra
di conquista dell'Urss, che era stata impostata da Hitler stesso come una vera
e propria "guerra di sterminio".
Ma, con la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, il programma
dello sterminio subì un ulteriore cambiamento in direzione della "soluzione
finale" attraverso la deportazione di massa degli ebrei in ghetti e in campi di
sterminio costruiti soprattutto nella Polonia orientale: gli assassini di massa
erano non solo troppo lenti e costosi, ma anche eccessivamente visibili e
spietati, tali da demoralizzare le truppe. Si cominciò così nel campo di
concentramento di Chelmno a sperimentare l'utilizzo dei "camion a gas" vero
e proprio incunabolo della camera a gas, assurta dal 1943 a strumento
principale e a simbolo della distruzione del popolo ebraico.
Totalitarismi Deportazioni Shoah
Sconfitta in Russia e intensificazione dello sterminio.
Fu la sconfitta in Urss ad accelerare questo salto di qualità nella
persecuzione, quasi imponendo la "soluzione finale" che, dalla fine de1 1942,
le Ss pianificarono, organizzando su scala continentale la deportazione di
massa e la rete dei lager. Questi avevano come soglia finale le camere a gas e i
forni crematori, con i quali il nazismo cercò di raggiungere il duplice
obiettivo di potenziare l'efficacia della distruzione e di occultarla agli occhi
della popolazione e dell'opinione pubblica internazionale. Ciò non toglie che
questa "macchina della morte" rispose a un sistema di decisioni confuso e
contraddittorio, che rimandava alla natura policentrica del potere politico
nazista, nel quale, all'ombra della figura del Fuhrer, depositario di un
dominio assoluto e discrezionale ma spesso astratto e indefinito, operavano
diversi centri di potere, spesso in contrasto e in conflitto tra loro. Ha scritto lo
storico Marrus:
«Un altro funzionalista, Mommsen, ha proposto la dimostrazione più
efficace della tesi secondo la quale il Fuhrer non si interessava e forse era
incapace di interessarsi delle questioni dell’amministrazione [sostenendo] che
il leader nazista vedesse gli ebrei soprattutto dal punto di vista
propagandistico e [che] la Soluzione finale fosse il risultato del rapporto tra
questo leader fanatico e distante e la struttura caotica del regime nazista [...] Il
linguaggio esasperato spingeva gli altri a mettere in pratica i suoi deliri
"utopici" sugli ebrei e sicuramente stimolò gli eccessi omicidi: ma egli non
emanò alcun ordine per la Soluzione finale e non ebbe alcuna parte nella sua
esecuzione. »
L’ipotesi interpretativa funzionalista ha come sua principale
conseguenza quella di estendere il numero dei colpevoli e di dilatare il campo
dei carnefici a un numero impressionate di soggetti, molto più esteso di
quello chiamato in causa dagli intenzionalisti, che lo restringono in sostanza a
Hitler e al ristretto novero dei capi del nazismo. Il "nesso guerra-genocidio",
come ha notato il funzionalista Norbert Frei, fa entrare in campo solerti
funzionari dell'amministrazione civile e in particolare del ministero dei
Trasporti, professionisti, ufficiali della Wehrmacht, persino le popolazioni
civili che collaborarono ai massacri e all'annientamento di massa, a
dimostrazione di come il veleno antisemita predicato dal nazismo avesse
profondamente attecchito in ampi strati della società tedesca.
Come scrisse Hilberg, lo sterminio appare all'indagine storica un
«processo amministrativo mandato avanti da burocrati in una rete di uffici
disseminati su di un continente»; un processo dotato di suoi automatismi,
fondato su un'efficienza tecnica nella quale si combinava, con i criteri e i ritmi
Totalitarismi Deportazioni Shoah
disumanizzanti dell'organizzazione scientifica del lavoro, la proverbiale
meticolosità della burocrazia tedesca, assuefatta dall'identificazione
ideologica con il potere a eseguire con una sorta di zelo "amorale" ogni sorta
di ordine, e spinta a riversare sul "nemico-ebreo" le ansie e le frustrazioni di
un'esistenza mediocre, sottoposta al dominio incondizionato di un potere
dispotico e totale.
Al di là delle differenze di questi due diversi approcci, resta indubbio
che a questa nuova stagione di studi si debba complessivamente un
ampliamento notevole delle conoscenze a nostra disposizione sullo sterminio
degli ebrei, che si è mosso sia in direzione di un più preciso accertamento dei
fatti in merito alle dinamiche del fenomeno e agli strumenti organizzativi
messi in campo per realizzarlo, sia in direzione del contesto di breve e lunga
durata nel quale la Shoah si è verificata.
De Bernardi, Guarracino, Balzani, Tempi dell’Europa, tempi del mondo, ed.
Bruno Mondadori.
Le fasi del processo di distruzione degli Ebrei d’Europa.
Un processo di distruzione possiede una struttura intrinseca. Un
gruppo da solo non può essere distrutto che in un solo modo. L’operazione
comporta tre fasi organiche:
• Definizione
• Concentrazione (o arresto)
• Annientamento
Tale è la struttura invariabile del processo di base, nessun gruppo
poteva essere ucciso senza che le vittime fossero concentrate o arrestate, e
nessuna vittima avrebbe potuto essere oggetto di una segregazione se
l'agente del processo non avesse saputo prima che apparteneva al gruppo.
Esistono delle tappe supplementari in un'azione moderna di
distruzione. Queste misure sono necessarie non per l'annientamento della
vittima, ma per preservare l'economia. Fondamentalmente, sono tutte
espropriazioni. Nella distruzione degli Ebrei, i decreti di espropriazione
furono promulgati dopo ogni fase organica. I licenziamenti e le arianizzazioni
venivano dopo la definizione (del termine Ebreo); le misure di sfruttamento e
di restrizioni alimentari seguivano la concentrazione; infine, la confisca dei
beni personali era corollario dell'operazione di distruzione. Nella sua forma
completa, un processo distruzione, in una società moderna, presenterà
dunque la seguente struttura:
• Definizione
Licenziamento dei lavoratori ed espropriazione delle imprese commerciali
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Sfruttamento della manodopera e provvedimenti di negazione del cibo
• Annientamento
Confisca degli effetti personali
La sequenza delle tappe del processo di distruzione si trova così
definita (…) La distruzione degli Ebrei non risultò un'operazione
economicamente vantaggiosa. Mise a dura prova la macchina amministrativa
e i suoi ingranaggi. In senso più generale, divenne un fardello che pesò su
tutta la Germania. (...) Man mano che il processo di distruzione progrediva, i
guadagni diminuivano, e le spese tendevano ad aumentare. (...) Nella fase
preliminare i guadagni economici, pubblici o privati, compensavano
largamente le spese, ma, nel momento dello sterminio, le entrate non
equilibravano più le uscite. Esaminiamo un po' più da vicino il costo della
fase dello sterminio.
Le confische tedesche durante la seconda metà del processo erano
limitate, per la maggior parte, ai beni personali. Nella stessa Germania, gran
parte delle proprietà erano già state sequestrate in partenza; nei territori russi
e polacchi occupati, le vittime non possedevano grandi cose, mentre, nei
paesi satelliti, i regimi collaborazionisti rivendicavano i beni ebraici
abbandonati. D'altra parte, i costi erano più alti. Soltanto le spese visibili
(costi, uscite), specialmente quelle relative alle deportazioni e allo sterminio,
erano relativamente ridotte. Per il trasporto, si utilizzavano vagoni merci.
Nelle unità mobili di massacro, così come nei centri di sterminio, si
impiegava ben poco personale tedesco. I campi, nel loro insieme, erano
costruiti e mantenuti in economia, anche se Speer rimproverava Himmler di
fare spreco di materiale da costruzione già raro. Le baracche erano costruite
da manodopera di detenuti, e i prigionieri erano alloggiati in grandi baracche
sprovviste di elettricità e di impianti igienici moderni. Le somme assegnate
per la costruzione delle camere a gas e dei forni erano modeste. Tutta questa
economia era possibile perché non avrebbe compromesso né l'ampiezza né il
ritmo del processo.
Tuttavia, queste preoccupazioni materiali non costituivano l'elemento
decisivo. L’obiettivo supremo era il raggiungimento, nel senso più completo
del termine, del processo di distruzione. (...) Himmler non cercò mai di
dissimulare che, per lui, la distruzione degli Ebrei aveva la priorità persino
sugli armamenti. Quando i responsabili degli approvvigionamenti mossero
delle obiezioni contro il ritiro dei lavoratori ebrei, Himmler si limitò a
rispondere: «E’ semplice: non riconosco l'argomentazione della produzione
bellica, che costituisce oggi, in Germania, la ragione regolarmente invocata
per opporsi a tutto». Nel gergo accuratamente dosato del Ministero dei
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Territori occupati dell'Est, la priorità del processo di distruzione si
annunciava in questo modo: «Le questioni economiche non devono essere
prese in considerazione nella soluzione della questione ebraica». (...) Di fronte
alla sempre maggiore penuria di manodopera, un'enorme riserva di forzalavoro ebraica fu sacrificata nella “soluzione finale”. Tra tutti i costi generati
dal processo di distruzione, l'abbandono di queste riserve sempre più
difficilmente rimpiazzabili costituì la spesa maggiore, senza confronti.
R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino, 1995
Bibliografia
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Totalitarismi, deportazione, Shoah
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