Olocausto

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Olocausto
GIORNATA DELLA MEMORIA 2016
Olocausto
La "Sala dei Nomi" dello Yad Vashem (Ente nazionale per la Memoria della Shoah, è stato istituito
nel 1953 con un atto del Parlamento Israeliano) a Gerusalemme con foto e nomi di vittime ebraiche
dell'Olocausto
Con il termine Olocausto (con l'adozione della maiuscola), a partire dalla seconda metà del XX
secolo, si indica il genocidio perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati nei confronti
degli ebrei d'Europa e, per estensione, lo sterminio nazista verso tutte le categorie ritenute
"indesiderabili", che causò circa 15 milioni di morti in pochi anni, tra cui 5-6 milioni di ebrei, di
ogni sesso ed età.
La parola "Olocausto" deriva dal greco ὁλόκαυστος (olokaustos, "bruciato interamente"), a sua
volta composta da ὅλος (olos, "tutto intero") e καίω (kaio, "brucio") ed era inizialmente utilizzata ad
indicare la più retta forma di sacrificio prevista dal giudaismo. L’Olocausto, in quanto genocidio
degli ebrei, è identificato più correttamente con il termine Shoah (in lingua ebraica: ‫השואה‬,
HaShoah, "catastrofe", "distruzione").
L'uso del termine Olocausto viene anche esteso a tutte le persone, gruppi etnici e religiosi ritenuti
"indesiderabili" dalla dottrina nazista, e di cui il Terzo Reich aveva previsto e perseguito il totale
annientamento, poiché avvenuto nel medesimo evento storico: essi potevano comprendere, secondo
i progetti del Generalplan Ost, popolazioni delle regioni orientali europee occupate, ritenute
"inferiori", e includere quindi prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, nazioni e gruppi
etnici quali Rom, Sinti, Jenisch, gruppi religiosi come testimoni di Geova e pentecostali,
omosessuali, malati di mente e portatori di handicap.
L'eliminazione di circa i due terzi degli ebrei d'Europa[8] venne organizzata e portata a termine dalla
Germania nazista mediante un complesso apparato amministrativo, economico e militare che
coinvolse gran parte delle strutture di potere burocratiche del regime, con uno sviluppo progressivo
che ebbe inizio nel 1933 con la segregazione degli ebrei tedeschi, proseguì, estendendosi a tutta
l'Europa occupata dal Terzo Reich durante la seconda guerra mondiale, con il concentramento e la
deportazione e quindi culminò dal 1941 con lo sterminio fisico per mezzo di eccidi di massa sul
territorio da parte di reparti speciali, e soprattutto in strutture di annientamento appositamente
predisposte (campi di sterminio), in cui attuare quella che i nazisti denominarono soluzione finale
della questione ebraica.
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L'annientamento degli ebrei nei centri di sterminio non trova nella storia altri
esempi a cui possa essere paragonato, per le sue dimensioni e per le
caratteristiche organizzative e tecniche dispiegate dalla macchina di distruzione
nazista. Tuttavia, l'idea della "unicità della Shoah" in quanto incommensurabile
e non confrontabile con ogni altro evento è assai discussa tra gli storici.
L'entrata della linea ferroviaria al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau
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POESIA E SHOAH
È possibile poetare dopo Auschwitz?
di Massimo Giuliani
L’Olocausto ha spezzato la continuità delle categorie per pensare Dio, la storia e il male, ma
anche il linguaggio per cantare o piangere il mondo. Dai versi trovati nella tasca di Radnòti
ai drammatici testi di Levi, Kovner, Pagis e Sutzkever.
Villaggio di Adba, al confine tra Iugoslavia e Ungheria: 8 novembre 1944. Un gruppo di
ebrei, stremato dopo tre anni di lavori forzati e una lunga "marcia della morte", è costretto
a scavare una tomba nel terreno di un bosco. Dopo poche ore vengono finiti con un colpo
di proiettile, e gettati in quella stessa fossa, una fossa comune. Nel gruppo c’è anche
Miklòs Radnòti, poeta e letterato. Circa venti mesi dopo l’esecuzione, il suo corpo è
riesumato. Nella tasca interna dell’impermeabile viene trovata un’agenda di indirizzi, che
custodisce dieci poesie – le ultime – scritte da Radnòti alla vigilia della propria morte. Tra
questi testi, salvati per miracolo (da un improbabile rimorso della Storia?), si legge:
"Radice è ciò che sono, un poeta-radice
qui a casa tra i vermi
in cerca, qui, di una lingua poetica."
Come negare a quest’evento storico, tra gli altri, il valore di simbolo? Come impedirci di
richiamare alla mente l’ammonimento lanciato all’inizio degli anni Cinquanta da Theodor
Adorno, e da allora così spesso ripetuto: «Dopo Auschwitz, è barbaro scrivere poesie. È
barbaro trarre piacere estetico dalla rappresentazione artistica della nuda, corporea
sofferenza di quanti sono stati uccisi... Così tale sofferenza è quasi trasfigurata e deprivata
di parte del suo orrore, e con ciò alle vittime è resa l’ennesima ingiustizia».
Che ne è dunque della poesia dopo Auschwitz? O, meglio, che ne è della "poesia di
Auschwitz", cioè dell’estremo tentativo di comunicare attraverso una "lingua poetica" tutto
l’orrore e l’indignazione etico-religiosa che ci viene dalla Shoah? Il caso-Radnòti è
emblematico: sì, la poesia è stata uccisa insieme con il poeta, addirittura sepolta con il suo
corpo nella fossa comune della più grande tragedia della pur lunga e dolorosa storia
ebraica. E tuttavia essa è stata anche salvata dai sopravvissuti, da coloro che onorarono
la morte e la dignità del poeta ucciso – la dignità del "popolo ebraico massacrato", come
direbbe Jizchaq Kazenelson, altro poeta scomparso ad Auschwitz il 30 aprile 1944 –
perché la "radice" dello sforzo poetico alimentasse e custodisse per sempre la memoria
dell’offesa, anzi, la stessa memoria offesa. O dovremmo dire che è la poesia stessa a
salvare quella memoria, a redimere ogni memoria futura?
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Miei cari genitori,
se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro,
non potrei descrivervi le mie sofferenze e tutto ciò che vedo
intorno a me.
Il campo si trova in una radura. Sin dal mattino ci
cacciano al lavoro nella foresta. I miei piedi sanguinano
perché ci hanno portato via le scarpe… Tutto il giorno
lavoriamo quasi senza mangiare e la notte dormiamo sulla
terra (ci hanno portato via anche i nostri mantelli).
Ogni notte soldati ubriachi vengono a picchiarci con
bastoni di legno e il mio corpo è pieno di lividi come un
pezzo di legno bruciacchiato. Alle volte ci gettano qualche
carota cruda, una barbabietola, ed è una vergogna: ci si
batte per averne un pezzetto e persino qualche foglia.
L’altro giorno due ragazzi sono scappati, allora ci hanno
messo in fila e ogni quinto della fila veniva fucilato… Io
non ero il quinto, ma so che non uscirò vivo di qui. Dico
addio a tutti, cara mamma, caro papà, mie sorelle e miei
fratelli, e piango…
(lettera scritta in yiddish da un ragazzo di 14 anni nel campo di concentramento di
Pustkow)
Lo yiddish (‫ יי ִדיש‬yidish o ‫ אידיש‬idish, letteralmente: "giudeo/giudaico") o giudeo-tedesco è una lingua
germanica del ramo germanico occidentale, parlata dagli ebrei originari dell'Europa orientale. È parlata
da numerose comunità in tutto il mondo ed è scritta con i caratteri dell'alfabeto ebraico.
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….per
non dimenticare.....[mai]
Esistere nell’assenza di nomi
Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa, Denkmal für die ermordeten Juden
Europas, conosciuto anche come Memoriale dell'Olocausto [della Shoah], HolocaustMahnmal, è un memoriale di Berlino dedicato agli ebrei vittime della Shoah.
È stato progettato dall'architetto Peter Eisenman, assieme all'ingegnere Buro Happold.
L'inaugurazione si è tenuta il 10 maggio del 2005.
Quartiere Mitte, un isolato a sud della porta di Brandeburgo.
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In base al testo di progetto di Peter Eisenman, infatti, le stele sono realizzate per
disorientare e l'intero complesso intende rappresentare un sistema teoricamente
ordinato, che fa perdere il contatto con la ragione umana in un'angosciante solitudine.
[...]Tra le steli si affonda; lentamente, mentre il cammino prosegue lungo i cunicoli, le
chiome degli alberi e le cuspidi della città scompaiono alla vista, stimolata dal progressivo
affievolirsi della luce del sole. I passi si succedono meccanici tra prospettive ossessive
che variano incessantemente senza mai mutare d’aspetto; il movimento attraverso la
fissità e la permanenza è privo di direzione e non ha meta: allontana da nulla e a nulla
avvicina, accompagnato unicamente da una crescente inquietudine geologica. [...]
[…] Nel Memoriale berlinese non si prova ciò che gli spiriti che intrattengono buoni
rapporti con la storia avvertono di fronte ai luoghi che offrono alla vista i ruderi che
ospitano, "in presenza dei quali", scrive Ernst Jünger, "desolazione e superbia si compenetrano
stranamente: desolata tristezza per la fugacità di tutti gli sforzi umani, superbia per la volontà che con
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lena sempre rinnovata cerca di affermare che essa appartiene alle realtà imperiture".
Non vi è spazio per simili sentimenti nel Memoriale, e neppure la paura è qui ammessa.
Un’angoscia insopprimibile, invece, afferra chiunque, abbandonati gli stretti
camminamenti, decide di entrare negli spazi ipogei, le cui coperture sono modellate dalle
pieghe del terreno sovrastante.
Sono immagini contundenti, impermeabili ad ogni tentativo di interpretarle,
indifferenti alle domande, incuranti di ogni spiegazione, quelle che si osservano nel
sacrario ritagliato sotto la spianata delle steli; rispondono soltanto ai nomi che le
accompagnano, soli o riuniti in interminabili elenchi. Leggendoli, si può immaginare a
quali altri nomi di città o di villaggi associarli, a quali paesi ricondurli, sino al punto in cui
se ne avverte il fitto affollarsi e il brulicante infittirsi, l’imponente dilagare dal cuore del
continente
all'intera
Europa.
Anche gli spazi ipogei del Memoriale sembrano modellati facendo ricorso ad attrezzi
molto semplici, che Eisenman ha privilegiato per non concedere, nel costruirli, ruolo
alcuno alla tecnica, sapendone l’inadeguatezza ad evocare l’impossibilità di ricordare
collettivamente quanto neppure la memoria può sopportare e soltanto il pensiero,
nel suo esserci più radicale, dimesso, intransigentemente soggettivo e nudo, può
arrischiarsi ad affrontare. […] tratto da Esistere nell’assenza di nomi, di Francesco Dal Co
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in Casabella n°735, luglio-agosto 2005.
Monumento
[mo-nu-mén-to] n.m. ←
dal lat. monumĕntu(m) =
MONIMENTUM (gr. Mne-ma, mnomeion, μναομαι, deriv. di monēre,
ricordare, far sapere, ‘ammonire’. memoria, ‘monumento’; terminazione
MENTUM indicante ora il mezzo, ore l'atto. Tutto ciò che serve a ricordare
qualche grande avvenimento o illustre personaggio, detto specialmente di
edifizi.
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