testimoni - La Theka

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testimoni - La Theka
Dicembre 2013
Periodico di informazione
e par t
e c i pa
zione
locale Anno IV -
N. 19
Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe, i capelli diventano bianchi, i giorni si trasformano in anni. Però ciò che è importante
non cambia; la tua forza e la tua convinzione non hanno età. Il tuo spirito è la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di arrivo c’è una linea di partenza. Dietro ogni successo c`è un`altra delusione. Fino a quando sei viva, sentiti
viva. Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo. Non vivere di foto ingiallite… Insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arruginisca il ferro che c’è in te. Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce. Quando non potrai camminare veloce, cammina. Quando non
potrai camminare, usa il bastone. Però non trattenerti mai!
Madre Teresa di Calcutta
TESTIM
ONI
La Theka
Anno 2013 - N. 19
Anno 2013 - N. 19
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Associazione “Oltreconfine”
Via M. Vallorca, 5 - 32030 Fonzaso (BL)
Sommario
L’Editoriale
Testimoni
La bacheca di Fonzaso
La parola ai cittadini
Uno sguardo oltreconfine
Economia e lavoro Libri, musica e cultura
La Theka è realizzata da
oltreconfine
associazione culturale
“La Theka”
Periodico di informazione e partecipazione locale
Num. R.G. 685/2009 del 21/08/2009
Num. reg. Stampa 9
Anno 4, N. 19 - Dicembre 2013
Proprietario ed editore: Walter Moretto
Presidente Associazione culturale ‘Oltreconfine’.
Direttore responsabile: Debora Nicoletto.
Redazione:
Luca Ferrari, Walter Moretto, Andrea Pasa,
Simone Cassol, Diego Toigo.
Hanno collaborato a questo numero: Elisa Dall’Agnol; Elisa Da Rin;
Valentina De Cet; Daniele De Marchi; Norma Marcon; Nicolas Oppio; Marco Pontoni; Silvia De Toffol; Severino Turra; G.I.V.
Progetto grafico ed impaginazione: Punto e Linea.
Sito e servizi WEB: Francesco Susin.
Luogo di redazione: Via Monte Vallorca 5, Fonzaso (BL).
Luogo di pubblicazione: Tipografia DBS,
via Quattro Sassi, Seren del Grappa (BL).
Tiratura copie 2.500. Distribuzione gratuita.
La riproduzione è libera, con qualsiasi mezzo effettuata compresa
la fotocopia, salvo citare la fonte e l’autore.
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Tema del mese:
Testimoni
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
Gente di oggi
di Debora Nicoletto
La parola ‘testimone’ rievoca significati molto diversi. Dalla persona che è a conoscenza di fatti rilevanti, a quelle che
detengono una storia o una fama tale da identificarsi in una persona rappresentativa. Ma può essere anche il testimone di nozze, come il bastoncino che nelle corse podistiche a staffetta viene consegnato da un atleta al successivo. La
Theka da sempre ricerca titoli proprio con questa valenza, ovvero quella di poter dare più interpretazioni al titolo
per consentire la realizzazione di articoli differenti, uniti però tutti dallo stesso filo rosso. Così questa volta ho cercato
anche io un testimone. Un testimone che rappresentasse una parte della vita dell’oggi. Così mi sono imbattuta in M.V.
che davanti ad uno scaffale zeppo di inutili giochi natalizi per bambini mi ha raccontato la sua vita quotidiana. Cinquant’anni che sembrano quaranta nel fisico e occhi spenti di un uomo che è stufo di questa situazione. Moglie che
lavora, due bimbi piccoli in età scolare e disoccupato da 4 anni. Lo conosco da anni M.V. e lo ricordo come una delle
persone più attive, vivaci, energiche e carismatiche del suo paese. Oggi ha le spalle un po’ ricurve, una rabbia che lo
divora e la voglia matta di lavorare e di tornare ad avere la dignità di uomo, marito, padre. Come M.V. ce ne sono tanti
oggi. Non è un’eccezione ma una triste realtà che sta accomunando sempre più uomini e donne. Non parliamo della
triste situazione della disoccupazione giovanile, parliamo di persone che a metà del loro percorso lavorativo escono
dal mercato del lavoro. E rientrarci non è per nulla scontato o facile. Così M.V., e i suoi occhi spenti, si arrabatta a fare
qualche lavoretto: tornare a dedicarsi all’agricoltura, spendere maggior tempo con i figli, aiutare parenti e amici in
lavori diversi. Cose positive per una maggior qualità della vita ma la dignità è altro. Così mi viene in aiuto ancora una
volta il mio sociologo preferito, Zygmunt Bauman che afferma “Oggi, il modo con cui guadagniamo i mezzi per vivere, i
valori della professionalità, la valutazione che la società dà alle virtù e ai successi, i legami intimi e i diritti acquisiti, tutto
questo è fragile, provvisorio e soggetto alla revoca. E nessuno sa quando e da dove arriverà il colpo fatale. Mentre
i nostri antenati sapevano bene che occorreva avere paura di lupi affamati o dei banditi sui cigli delle strade. Non è
quindi l’astrazione a rendere i pericoli in apparenza più gravi, ma la difficoltà di collocarli, e quindi di evitarli e di controbatterli”. Oggi ci troviamo in difficoltà a collocare i nostri pericoli, siamo in una situazione, dice sempre Bauman, di
‘interregno’ dove l’unica costante è il cambiamento e l’unica certezza è l’incertezza. Così la gente comune vive oggi:
nessuna certezza del quotidiano, un futuro da ricostruire, le paure che frenano, la politica e il potere distanti tra loro
al fine di creare un caos sociale che genera angosce. Ci troviamo oggi nella situazione descritta da Gramsci, quando «il
vecchio muore e il nuovo non può nascere»?
L’Editoriale
Io ne ho viste cose che voi umani non
potreste immaginarvi...
Politici consapevoli al largo dei Bastioni
di Orione.
E ho visto i raggi “B” balenare nel buio
vicino alle porte di Tannhauser...
E tutti quei momenti andranno
perduti nel tempo come lacrime
nella pioggia...
Libera interpretazione di Blade Runner, 1982.
Diretto da Ridley Scott.
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
Il Dalai Lama e la felicità possibile
Intervista al Dalai Lama
di Marco Pontoni
Testimoni
Può il leader di un popolo oppresso, in esilio da oltre 50 anni,
parlare in pubblico su un tema certo universale ma apparentemente così lontano dalla sua esperienza di vita come la felicità? E
può farlo dando all'ascoltatore la sensazione di avere dell'argomento una conoscenza non solo teorica, che si fa prassi quotidiana, che si incarna in azioni concrete, in gesti anche "minimi", come
prendere la mano del proprio interlocutore? Evidentemente sì,
se stiamo parlando di Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, massima
guida spirituale del buddismo tibetano (una delle diramazioni
della scuola Mahayana o del "Grande veicolo", per gli addetti alle
cose dello spirito), ma per decenni anche principale punto di riferimento per la causa di un Tibet libero o quantomeno autonomo rispetto alla Cina, che lo ha occupato militarmente nel 1949.
Giunto per la quarta volta in Trentino - la prima visita risale al
2001 - il Dalai Lama, che ha lasciato ogni incarico politico nelle
mani del governo tibetano in esilio e del suo premier Lobsan
Shangay, regolarmente eletto, ha fatto in realtà quello che tutti si
attendevano: ha parlato delle cose dello spirito, con un atteggiamento peraltro molto "laico" e pragmatico. Ma ha parlato anche
delle sofferenze del suo popolo, che sfociano sempre più spesso, negli ultimi tempi, in un estremo, tragico gesto di protesta:
sono almeno 120 i tibetani che si sono dati fuoco per richiamare
l'attenzione della comunità internazionale su ciò che la Cina sta
facendo nel "Tetto del mondo", snaturando la cultura autoctona
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attraverso un continuo flusso migratorio di cinesi
Han (che Pechino sostiene anche con speciali incentivi) ed uno sviluppo economico squilibrato e diseguale, ma soprattutto imposto.
Rispetto alla precedente visita, del 2009, la situazione in Tibet non è dunque migliorata, anzi, se
possibile è ancora peggiorata. Ma dal Dalai Lama,
premio Nobel per la pace 1989, non sono arrivate
parole di odio. La richiesta a Pechino continua ad
essere la stessa: un'ampia autonomia, sulla base di
un accordo che il giovane Tenzin Gyatso riferisce di
avere negoziato addirittura con Mao, nei primi anni
'50, durante il suo primo viaggio a Pechino. Un'autonomia che potrebbe essere, per certi versi, simile
a quella del Trentino Alto Adige: "Ma non dimenticate - ci ha detto nell'intervista che ci ha concesso
privatamente - che la vostra autonomia è espressione di uno stato democratico. Mentre in Cina non vi
è democrazia."
Un uomo del XX secolo
Nella sua visita italiana il Dalai Lama ha prima incontrato le istituzioni locali per tenere poi nel pomeriggio una conferenza pubblica.
Molti gli spunti emersi nel corso dell'evento, durato oltre due
ore. Spunti riassumibili se vogliamo in questa constatazione: "Io
appartengo al XX secolo e il passato non si può cambiare. Spetta
a voi far sì che il XXI secolo non sia uguale a quello che lo ha preceduto. Che sia un secolo di pace".
Il Dalai Lama va non solo letto ma ascoltato. La parola scritta, così
come riferita nei molti libri che lo riguardano, trasmette solo parzialmente quella serenità e persino quel buonumore che traspaiono dai suoi gesti, dalle sue battute, dalle attenzioni che spesso rivolge anche a cose "minime", come il piccolo giardino zen
all'interno del Palazzo dove lo incontro, che gli ospiti raramente
notano, o il fiocco che decora una chiave infilata nella serratura
di un armadio. Riportare le parole che ha pronunciato può non
rendere giustizia all'impatto che l'uomo produce sulle folle, pur
senza mai alzare la voce, senza mai smettere di sorridere.
Vediamo in sintesi che cosa ha detto riguardo alla felicità.
“Tutti e 7 i miliardi di uomini e donne nel mondo si sforzano di
essere felici, risolvendo problemi che essi stessi hanno creato.
Ognuno di noi ritiene di avere il metodo migliore per raggiungere la felicità e rimuovere gli ostacoli, quando invece la causa
dell’infelicità è stata generata da noi. Io sono diventato un rifugiato quasi 55 anni fa, quando ho abbandonato il mio Paese. Da
bambino, ero come tutti gli altri bambini, studiavo per paura dei
miei tutori, ma volevo solo giocare. Quando ho dovuto prendere
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nelle mie mani la vita del Paese, e sono andato prima a Pechino, a
incontrare Mao, nel 1954, e poi in India, a incontrare i ghandiani,
venendo molto influenzato da loro, dal metodo della non-violenza, sono progressivamente cambiato e maturato. Infine, nel 1959,
dopo la repressione dei moti tibetani per la libertà, ho dovuto
lasciare il mio paese, e da allora vivo all’estero. Se guardo al percorso della mia vita, mi rendo conto di avere attraversato moltissime situazioni traumatiche. Ma attraverso queste esperienze ho
capito una cosa fondamentale: che la sorgente ultima della pace
è dentro di noi, e che dobbiamo sempre tornare a quella fonte.
Ciò vale anche per chi è vittima di ingiustizie, della violenza altrui.
Tanti tibetani che sono stati imprigionati anche per 20-25 anni
nei gulag cinesi mi hanno confermato questa cosa straordinaria.
Ad esempio: un monaco che conoscevo molto bene da giovane
e che è stato nei gulag cinesi per 18 anni, quando riuscì finalmente a lasciare la Cina venne a trovarmi, a Monaco, e mi disse:
sono stato fortemente in pericolo. Io pensavo, naturalmente, che
parlasse della sua vita, del pericolo di perderla che aveva corso durante la lunga prigionia. Lui intendeva invece in pericolo
per il fatto di essere stato sul punto di perdere la compassione
nei confronti dei cinesi. Questo significa riuscire a mantenere la
pace mentale, anche in situazioni così estreme come la prigione,
la persecuzione e la tortura. Da 30 anni a questa parte portiamo
avanti ricerche anche con scienziati molto seri su queste cose.
Gli scienziati hanno analizzato persone che nonostante i traumi
subiti nella vita non portavano segni di questi traumi sulla loro
personalità. E nemmeno a livello fisiologico. Si è visto che esse
hanno una vita cerebrale molto più viva, sana.
Ciò vale anche su scala più vasta. Dobbiamo usare i problemi e i
conflitti che affliggono l'umanità come un’opportunità per generare nuove idee, nuove soluzioni. E’, questa, una grande opportunità ma anche una grande responsabilità. Bisogna avere una
forte determinazione e portare avanti con saggezza nuove vie
per raggiungere questi obiettivi. E io vi guarderò, anche se sarò
morto”.
Anno 2013 - N. 19
Testimoni
Cambiare attraverso l'intelligenza
“Oggi i principi morali non vengono sostenuti adeguatamente,
neanche dai sistemi educativi - ha detto ancora Tenzin Gyatso
- e quindi decadono. Le sole cose che contano sono la ricchezza e la fama. D’altro canto i principi morali del buon cuore e
della compassione non sono basati sulla religione, se lo fossero
non sarebbero universali, perché le religioni cambiano. Inoltre l’insincerità spesso caratterizza anche le religioni e chi le
pratica. Questi principi devono quindi essere trasmessi in altro
modo. A livello scientifico sono state fatte scoperte importanti.
E’ stato provato che gli stati mentali positivi dell’amore e della
compassione determinano la felicità in chi li prova ma si riflettono anche all’esterno, sugli altri. Negli Stati Uniti è stato fatto
un esperimento anche con degli studenti che per 3 settimane
si sono sottoposti ad un vero e proprio addestramento mentale sulla compassione. Prima dell’inizio dell’esperimento sono
stati sottoposti a tutta una serie di test. I test sono stati rifatti
dopo il training, e tutti i valori, dalla pressione del sangue alla
capacità di resistere allo stress, era migliorati. La lezione è che
la mente si può addestrare. Questo non è un postulato filosofico o religioso. E’ un dato di fatto comprovato dalla scienza.
Proprio perché tutti noi siamo esseri umani, siamo nati da una
madre, tutti abbiamo dentro queste potenzialità.
Il pubblico, oltre 3.000 persone, ha seguito con molta attenzione la conferenza. Fra le domande rivolte al Dalai Lama in
chiusura dell'evento anche quella di una ragazza cinese, che
vorrebbe visitare il Tibet. Il suggerimento del Dalai Lama è
stato quello di studiare, approfondire la conoscenza della
tradizione cinese, paese con 300 milioni di buddisti, in gran
parte seguaci del buddismo tibetano, così che si è creata la
situazione paradossale per cui nonostante il Comunismo, la Rivoluzione culturale, l'attuale svolta "materialista", il paese dove
si pratica di più il buddismo tibetano è proprio la Cina.
"A tutti i buddisti io dico: bisogna essere buddisti del XXI secolo. Non in maniera meramente emozionale. Bisogna studiare. Il buddismo, almeno
all’inizio, si presta molto ad essere trattato
come un soggetto accademico. Per questo
il buddismo piace così tanto agli scienziati.
Il buddismo insegna a cambiare le emozioni negative attraverso l’intelligenza. E poi,
in generale, bisogna coltivare il sentimento
della compassione, a partire dalla propria
famiglia dai propri vicini. Le donne in particolare hanno una maggiore capacità di sviluppare empatia con gli altri, specie con le
persone che soffrono. Ed infine, quando diventano madri, le donne devono spendere
più tempo con i propri bambini. In generale
è importante che le persone giovani spendano molto più tempo con persone meno
giovani. Del resto, anche per me che sono
vecchio è molto piacevole passare il mio
tempo con persone più giovani”.
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Fermi o sparo!
Intervista a Adriano Roncali, Il custode del Mesath
di Diego Toigo
Testimoni
Mi trovo a scrivere questo articolo nel NON LUOGO per eccellenza: un aeroporto. E’ strano trovarsi a organizzare un discorso sull’importanza dei luoghi a cui sentiamo di appartenere proprio da una via di transito dove ogni appartenenza viene
annullata.
Sono passate due settimane dall’ultima cena in Casera Ditta,
ma i preparativi per questa nuova ripartenza non mi hanno lasciato molto tempo per rielaborare la bella chiacchierata mattutina con Adriano. In aeroporto invece sei costantemente in
attesa e quindi adesso seduto su questa scomodissima sedia vi
racconto un po’ dell’orso della Val Mesath.
Adriano Roncali, friulano dalla scorza dura, è il gestore del pittoresco rifugio Casera Ditta, che si raggiunge percorrendo per
circa un’ora a piedi la lunga val Mesath, sul versante orientale
del monte Toc, tristemente famoso per la frana che provocò
il disastro del Vajont. Sono montagne selvagge e silenziose,
lontane dai flussi turistici, percorse da “troi e viaz” che vanno
guadagnati passo dopo passo, ma che ricompensano chi li percorre con una natura ancora vera e non preconfezionata.
Adriano è il testimone dell’anima di questi luoghi; si definisce
un resistente della montagna. Vive qui ormai da nove anni,
dopo mezza vita trascorsa a vagabondare di qua e di là, cercando di lottare per cambiare le cose che alla fine non cambiano
mai. Ha trovato il suo posto in quella valle dimenticata, diversamente dalla maggior parte dei rifugisti che d’inverno tornano
a valle lui trascorre lì tutto l’anno; quella è casa sua. Casera Ditta
fu costruita dal leggendario Bepi Ditta che compare in una foto
un po’ sbiadita nella piccola e accogliente sala da pranzo. Con
la barba, fucile e cane da caccia al fianco sembra un antico pioniere. Sulle pareti del rifugio è testimoniata la storia della zona:
le relazioni delle rare vie di arrampicata sulle belle Cime di Pino
e sul Col Nudo, le foto dei pochi alpinisti e amici che salgono su
queste pareti demodé, e le locandine degli annuali raduni partigiani. In una di queste c’è una bella definizione di cosa vuol
dire vivere in montagna oggi: “Le terre alte, la montagna con la
sua cultura e la sua gente, paesi dove sciare è facile, neve artificiale e impianti sono ovunque, ma studiare è difficile perché
le scuole sono a valle. L’elicottero soccorre gli escursionisti ogni
giorno, ma il medico è condotto per poche ore la settimana,
il souvenir è a buon mercato ma per il pane si scende a valle.
Oggi vivere in montagna è più che mai resistenza.”
Adesso devo prendere un aereo che mi porterà verso le montagne del sud del mundo, Adriano sarà sicuramente più bravo
di me a raccontarvi storie e leggende del Mesath, andate a trovarlo, assaggiate la sua ottima cucina e fermatevi ad ascoltare i
suoi racconti, sempre se non vi spara prima che arriviate!
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Anno 2013 - N. 19
Portavoce della libertà del cambiamento
Intervista a Wladimir Luxuria
di Elisa Da Rin Puppel
ra delle persone che guardano oltre l’apparenza”.
Lei si definisce un “trans gender”, ma perché non si è sottoposta
all’intervento completo?
“I motivi sono i più svariati, a cominciare da quello economico, ma
penso che la motivazione principale sia stata
la paura. A me fanno paura le operazione chirurgiche nonostante abbia subito vari interventi al viso e seno”.
C’è una filosofia dietro alla sua scelta?
“Lotto per la libera espressione di sé stessi”.
Com’è cambiata la percezione del suo io?
“E’ cambiato molto, sono finalmente arrivata al punto di percepirmi e vedermi come
gli altri mi vedono, ho reso la mia immagine
e quello che sono pubblico e sono stata accettata ed apprezzata. Certo in Italia non mi
è ancora possibile essere Wladimir Luxuria
al cento per cento, il mio nome all’anagrafe
infatti non è stato possibile cambiarlo (lo si
cambia solo con l’intervento completo), e
questa è una macchia su ciò che sono. Il mio
vero nome maschile mi viene chiesto in continuazione, nei documenti, all’aeroporto, e
questo è un forte richiamo al mio passato che
non posso ignorare”.
Lei ha speso tutta una vita all’insegna dei diritti, qual è la cosa
che la rende più orgogliosa?
“Nonostante non sia riuscita a far avanzare delle leggi in Italia, sono
comunque orgogliosa di essermi spesa per leggi per i pari diritti sul
posto di lavoro. Inoltre mi rendono orgogliosissima i miei interventi
con le ambasciate italiane all’estero. Ci sono state anche dei casi di
persone incarcerate in Paesi stranieri, come nel caso di una ragazza
tredicenne incarcerata a Dubai, che ho aiutato e salvato da quella
situazione. Personalmente non mi tiro mai indietro quando vedo
l’ingiustizia, mi batto innanzitutto per le pari opportunità, sempre
e dovunque”.
E per finire una domanda ironica: le manca di più il Parlamento
o l’isola dei famosi?
“Il Parlamento ovvio! Ci sono ancora molte cose da fare, c’è ancora
molto bisogno di lottare”.
Per esempio? Che cosa proporrebbe ora in Parlamento?
“Sicuramente mi piacerebbe avere più autorità e carica politica,
così da poter effettivamente portare a termine dei cambiamenti
e riforme. Prima di tutto però è necessaria l’autodeterminazione,
ognuno deve poter disporre del proprio corpo per poter vivere
bene questa vita che ci è concessa, a questo credo”.
Un grazie a Wladimir Luxuria per questo appello al cambiamento,
libero e senza ostacoli, né sociali né politici…né mentali!
Testimoni
Simbolo del cambiamento e paladina del saper osare: Wladimir
Luxuria si confida con La Theka e ci svela i passaggi e i perché del
suo cambiamento, fisico e mentale, dalla sfera maschile all’universo
femminile. Con quest’intervista Luxuria ci dà una lezione esemplare: non si cambia per un atto di ribellione o un
atto politico, bensì il cambiamento deve avvenire in maniera spontanea e naturale, sorgere
da una motivazione interiore senza limiti né
barriere. Ecco come Luxuria ci spiega questo
passaggio.
Dopo pochi squilli telefonici, una voce sensuale e pacata risponde al telefono, mi chiede di
aspettare un attimo per iniziare a parlare, dicendomi che sta per salire su un autobus. Immagino questa figura sfarzosa che si accomoda
in un autobus straripante di gente durante un
lunedì mattina di fuoco a Roma. Luxuria mi
ascolta e risponde tranquillamente alle mie
domande, senza mostrare il benché minimo
imbarazzo o cambiare ed esitare nelle risposte
o nel cercare le parole. Inizio l’intervista telefonica con una domanda diretta e forte, poi
di seguito le altre scivolano via ed è lei che,
disinvolta, sembra anticipare le successive.
La nostra conversazione si è svolta più o
meno così: inizio subito con delle domande dirette e mirate, il
tema è quello del cambiamento, la prima e più naturale è a che
età si è resa conto che il genere maschile non la rappresentava?
“Non si è trattato di un momento preciso, è stato piuttosto un flusso
di coscienza naturale che mi ha portata a sviluppare un’identità di
genere femminile. Non ricordo ci sia stato un anno preciso, ma fin
dall’infanzia ho capito che la sfera maschile non mi apparteneva”.
Quali sono stati i segni che hanno rappresentato la non appartenenza?
“Sicuramente i segni più evidenti sono stati nei giochi d’infanzia, un
segno forte è sempre stata la mia predilezione per le bambole. Mi
ricordo un Natale in cui ero molto piccola, a mia sorella una bambola e io per invidia e dispetto l’ho fatta a pezzi”.
Com’è avvenuto l’adeguamento fisico a quello mentale?
“Non ho mai voluto pensare che il corpo fosse più importante
dell’anima. Più che di adeguamento parlerei di un processo di
espressione della mia sensibilità e della mia vera io”.
Quanto e in che modo le è costato in termini umani l’aver rivendicato al mondo sé stessa?
“E’ ovvio che è stata dura, la scuola e la parrocchia non mi hanno
certo risparmiata. In classe i compagni mi schernivano e dalla parrocchia sono stata bandita. Ma questo mi ha fruttato in termini di
rapporti umani. Oggi so distinguere chi mi guarda e apprezza per
quella che sono veramente, e questo mi dà prova che vi sono anco-
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Anno 2013 - N. 19
La Bacheca del Comune
a cura della Redazione
VERBALE DELLA COMMISSIONE CONSILIARE PERMANENTE
Commissione Sociale
Oggetto: Riserva alloggi per situazioni di emergenza abitativa.
Regolamento.
L’anno duemilatredici, del giorno quattordici del mese di novembre alle ore 20,00 si è riunita la Commissione Consiliare Sociale per
I’esame dell’argomento citato in oggetto.
Sono presenti i Signori: D’Angelo Sergio (rapp.maggioranza) Presidente; Zannin Roberta (rapp.maggioranza); Lira Gionni (rapp.
maggioranza); De Marchi Daniele (rapp. minoranza); Assente: Dal Pan Virgilio (rapp. minoranza). Presenti il Sindaco e I’Assessore
Lucaora Gianvittorio. Funge da Segretario verbalizzate Rita Buzzatti. Il Sindaco apre la discussione anticipando I’intenzione della
Giunta di approvare in Consiglio un nuovo regolamento di riserva alloggi E.R.P. Lascia poi la seduta. Viene esaminata e discussa la
bozza di regolamento proposta dal responsabile dell’ufficio sulla falsariga di quello approvato nell’anno 2003.
La commissione esaminati e discussi i vari articoli approva il regolamento nel testo allegato
Fatto letto e sottoscritto. F.to D’Angelo Sergio. F.to Zannin Roberta. F.to Lira Gionni. F.to De Marchi Daniele
Il segretario verbalizzante F.to Buzzatti Rita
REGOLAMENTO PERL’ ASSEGNAZIONE DI N. 1 ALLOGGIO DI E.R.P. AI SENSI DELL’ART.II DELLA L.R.
02.04.1996 N.10 e ss.mm.ii. - Riservatari
La bacheca di Fonzaso
I casi che possono attivare l’ordinanza sindacale sono:
1. elencati all’art. ll ( pubbliche calamità, sfratti esecutivi, sgombero di unità abitative da recuperare o per provvedere a favore di
particolari categorie sociali).
2. interessati da sgombero di abitazione per incendio o crollo.
3. interessati da grave disagio socio-familiare-abitativo comportante anche potenziali gravi problemi di incolumità con esercizio
d’attività di polizia di sicurezza.
4. interessati da grave disagio sanitario comprovante incontestabile necessità d’avvicinamento a strutture sanitarie o a posto d’assistenza familiare o di terzi.
5. situazioni di particolare disagio sociale documentate dai competenti servizi socio sanitari.
Dovrà essere comunque prodotta adeguata e dettagliata documentazione esaurientemente dimostrativa.
Requisiti - Quelli dell’art.2 della L.R.10/1996.
Priorità - Ai fini della precedenza vale il seguente ordine di priorità, a parità di punteggio:
- a. presenza di minori
- b. reddito
- c. disagio abitativo
- d. disagio sanitario
- e. disagio sociale
Detta priorità va naturalmente considerata una volta ponderata, cioè quale risultante dall’attribuzione di coefficienti d’importanza
categoriale: 3,25 per presenza di minori a carico e/o in affidamento d’un solo adulto; 3,00 per presenza minori a carico e/o in affidamento nel nucleo famigliare composto da 2 adulti; 3,00 per reddito; 2,00 per disagio abitativo; 2,00 per disagio sanitario; 2,00
per disagio sociale
Al punteggio di selezione di seguito definito:
- per adulto solo con minori a carico, e/o in affidamento punti 2 per ogni minore o nucleo famigliare con presenza di minori 1,5 punto
per ogni minore;
- per reddito, punti 1,5 per ogni componente la famiglia interessata privo di reddito (salvo minori);
- punti 1 per ogni componente con reddito < pensione minima INPS (salvo minori);
- per disagio abitativo, valgono i punteggi relativi alle condizioni oggettive dell’art.7 L.R. 10/1996;
- per disagio sanitario punti 2 - relazione medico competente;
- per disagio sociale punti 2 - relazione assistente sociale.
Presentazione della domanda
Verranno esaminati compatibilmente i casi segnalati dai servizi sociali o altri competenti in materia, nonché quelli di cui alle richieste
conseguenti ad apposito avviso pubblicato all’albo pretorio on -line per giorni dieci. Se I’emergenza sia di carattere temporaneo il
Comune potrà procedere a sistemazioni provvisorie non eccedenti la durata di 6 mesi, eventualmente rinnovabili per una sola volta
in caso di gravi e documentate necessità. Per tali assegnazioni il Comune potrà provvedere senza selezione.
Assegnazione alloggi
L’assegnazione in locazione degli alloggi agli aventi diritto, in base a1 punteggio assegnato è effettuata tenendo conto delle superfici
utili degli alloggi disponibili, della dimensione dei nuclei familiari dei potenziali assegnatari (commi 3 e 4 art. 9 LR 10/96 e direttiva
comunale del 23.08.2010 Prot.n. 5563 per iscrizioni anagrafiche in base ai parametri stabiliti dal D.M.05.07.1975).
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Anno 2013 - N. 19
La Bacheca del Comune
a cura della Redazione
La bacheca di Fonzaso
DISGAGGI - BONIFICHE DI
PARETI ROCCIOSE - PARAMASSI
CONSOLIDAMENTI - ANCORAGGI
PARAVALANGHE - POSA RETI
ZONA INDUSTRIALE
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32030 FONZASO (BL)
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
Visitationes: sulle tracce delle visite pastorali a Fonzaso
Intervista a Bortolo Susin, curatore del libro
di G. I. V.
demografico nei cinque secoli, dal 1400 al 1900 , note originali
sull’organizzazione e sull’amministrazione dei beni comuni, su
come si sono formati e consolidati nell’uso i cognomi delle più
antiche famiglie, ecc... Resta comunque una fonte unica per la
nostra storia, rimasta per secoli sepolta nell’archivio ed ora invece messa a disposizione di chi ha qualche curiosità e un po’
di amore per il suo paese”.
La parola ai cittadini
Da qualche settimana è in circolazione un grosso libro dalla
copertina rossa, con strani geroglifici sullo sfondo ,con un titolo in latino: ”Visitationes” - I verbali delle visite pastorali a
Fonzaso dal 1424 al 1912.
Ho posto al curatore del volume, maestro Bortolo Susin, alcune domande sul lavoro fatto.
Da dove nasce l’interesse per queste ricerche storiche?
“Una decina di anni fa ho curato la pubblicazione di un volume
sulle visite pastorali di San Gregorio Barbarigo alla nostra pieve di Fonzaso e ho avuto il primo incontro con l’archivio della
Curia episcopale. I Verbali di quelle visite, fotografati a caro
prezzo, li ho poi letti , trascritti, tradotti e pubblicati. E mi sono
convinto che i verbali conservati nell’Archivio diocesano sono
una importante ed unica fonte storica per il nostro paese. E mi
è nata l’idea di trascrivere tutto, partendo dalle visite dal 1400.
Ma poi il lavoro è restato “in sonno” per anni. Circa tre anni fa
ho ripreso a lavorare, affiancato dall’arch. Ennio Pellizzari che
mi ha aiutato a non perdermi in quel mare di documenti. Nella
Curia di Padova ho trovato in Mons. Pierantonio Gios, responsabile delle biblioteca e dell’archivio, apertura e collaborazione. Abbiamo così potuto fotografare la documentazione, trasportarla su computer e lavorare con calma alla trascrizione”.
Quali difficoltà ha dovuto affrontare?
“La maggior difficoltà , quando ci si trova davanti ad un antico
manoscritto, è la lettura: a parte qualche piccola parte rovinata ed illeggibile, spesso ci si deve
adattare ad interpretare scritture decisamente brutte, a sciogliere abbreviazioni
incomprensibili senza un testo di consultazione, a capire poi di latino in cui sono scritti
sui testi: occorre una grande pazienza e una
costanza caparbia, anche perché i fogli scritti
sono più di 600”.
Vi sono nel libro cose interessanti?
“Il volume non è un libro di facile lettura. La parte
preponderante dei verbali riguarda le chiese, gli inventari degli arredi sacri, le reliquie, i legati di messe per
i defunti e così via. Ma tra le righe si possono trovare notizie interessanti per una storia delle nostre comunità di Fonzaso e di Arten, in particolare la storia delle chiese, distrutte
da incendi e ricostruite, ampliate e rimodernate, l’andamento
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Vi è qualche aspetto particolare che la lettura mette in
risalto?
“Nei verbali ritorna la lamentela degli Arteniesi contro quelli
di Fonzaso. Una rivalità secolare, iniziata ancora nel 1500”.
Come la si può spiegare?
“Sotto la Serenissima il territorio nostro faceva tutto parte del
Feltrino ed era amministrato da un Rettore o Capitano, mandato a Feltre dal Senato della Repubblica. I nuclei abitativi del
contado erano chiamati Ville o Comùni (erano più di settanta).
Fonzaso era un Comùn ed Arten un Comùn diverso, ognuno con le sue terre ed i suoi “ deputati ad utilità”, cioè amministratori, eletti dai capifamiglia attraverso ballottazione. La
Pieve parrocchia invece era una sola, quella di Santa Maria di
Fonzaso. E i fonzasini esigevano che quelli di Arten versassero
una loro quota per le spese della Pieve e della Chiesa Madre,
senza peraltro mai dare nulla per le due chiese di Arten, San
Nicolò e San Gottardo. Ciò ovviamente non garbava agli arteniesi e da qui le lamentele che quasi ad ogni visita venivano
rivolte al Vescovo o al suo Delegato.Di queste lamentele qualche Pievano veniva infastidito e nella sua relazione cercava di
sminuire la portata dei reclami (ovviamente non doveva essere
accentuata l’armonia tra parroco e fedeli)”.
A chi potrà servire il lungo lavoro fatto?
“Io spero che qualche studente di storia o sociologia o altro se
ne possa servire per approfondire qualche aspetto della nostra
storia, magari in una tesi di laurea: i documenti soni lì, pronti, trascritti, tradotti. Possono essere la base da cui partire per studiare
qualche aspetto del nostro passato. Una storia lunga da conoscere noi l’abbiamo; dobbiamo essere orgogliosi e dobbiamo voler
bene a quei nostri lontani antenati; in fin dei conti da lì veniamo”.
La Theka
Anno 2013 - N. 19
A cinquant’anni dalla catastrofe del Vajont
di Luca Ferrari
ci, ora non ricordo più come vidi queste frazioni.
Arrivai a casa e trovai Vittoria dal Gioia. Piani piano arrivai a
Patata, tutto era cambiato, non riconoscevo più nulla.
Tornai a Erto e trovai mio nipote che mi disse che Longarone
era sparito. Io rimasi paralizzato perché avevo i miei parenti
che abitavano lì.
Appresi, sempre da mio nipote che Toni e suo padre erano
salvi perché si trovavano a Milano e Anna Maria era all’ospedale di Pieve. Al pomeriggio partimmo e raggiungemmo Pieve
andando per Sappada. Anna Maria si era salvata perché era
rimasta intrappolata fra due legni. All’ospedale c’era molta
gente tra cui parecchi bambini.
Ciò che mi sconvolse di questi feriti fu il loro colore bluastro
causato dalla forza dell’acqua che si era abbattuta sui loro corpi.
L’11 ottobre tornai ad Erto, attraversai il Piave con la barca
dei militari e proseguii per il paese, a piedi. Giunto alle gallerie che erano piene di fango e di ghiaia ebbe paura, non
avevo mai visto una cosa del genere. Ancora ora a pensarci
mi vengono i brividi.
Arrivai a Erto e non c’era più nessuno, fu uno dei momenti
più brutti, vedere gente che piangeva salire sui camion dei
militari e andare via.
Io mi fermai a Cimolais in una casa fino all’aprile del 1964,
anno in cui tornai a Erto. Ricordo che caricai la mia roba sul
camioncino di Donè. Arrivato al posto di blocco, mi fermarono i carabinieri emi chiesero dove avessi intenzione
di andare. Io risposti che avevo roba per il cantiere, loro
senza guardare mi lasciarono andare.
Cice dal Caprin (Tratta da: scuole elementare di Erto e
Casso - Vent’anni fa una tragedia - 9 ottobre 1963 così raccontano di quella notte - 9 ottobre 1983)
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La parola ai cittadini
La sera del 9 ottobre
1963 ero nella cava di
marmo, in Buscada,
stavo guardando la
televisione con Nanin, Nani de Caporal,
Calò e altri. Io e Nanin fummo gli ultimi
ad andare a letto,
verso le 10.30.
Io ancora non dormivo, sentii un gran
vento, come se si
scoperchiasse la baracca. Guardai il cielo
ma ero sereno e non
ci feci caso.
Alle cinque del giorno seguente mi alzai e
andai, come al solito,
a lavarmi nella vasca
fuori. Guardai verso
il lago e vidi che l’acqua era torbida. Chiamai Nanin e gli dissi:
“andiamo che Erto non ci deve essere più”.
Arrivammo nel Bus de le Thoche, vedemmo Prada distrutta,
avvisammo il capo che andavamo via.
Giungemmo in Costa e potemmo vedere Marzana e San Martino tutto distrutto, dappertutto c’erano melma e ghiaia. Non
so descrivere come mi sentii, ma rimasi così male che a pensar-
La parola ai cittadini
La Theka
Anno 2013 - N. 19
La vita di una balia vista dagli occhi di una figlia
Intervista ad Assunta D’Alberto
di Nicolas Oppio
Corona Sebben: il coraggio di una donna che per amore
dei propri figli decide di sacrificarsi e trascorrere la sua vita
a servizio presso una famiglia non sua.
Siamo negli anni ‘20, Corona ha una figlia di 4 anni e una
bimba in fasce, il marito è un mercante di bestiame, e la
giovane famiglia vive felice nella propria nuova casa. Purtroppo una polmonite contratta di ritorno da un viaggio
in Primiero strappa la giovane vita del capofamiglia, e per
Corona e le sue bambine inizia la salita.
“Avevo quattro mesi quando morì mio padre”, racconta
Assunta D’Alberto, “a quei tempi andare in Primiero non
era come oggi, le strade erano scomode e non c’erano le
gallerie. Lui stava tornando a piedi con una mucca. Era stanchissimo. Si è addormentato al freddo e al risveglio aveva
contratto una polmonite. Furono giorni di agonia. Era molto
forte e non voleva abbandonare la sua giovane vita”.
Corona Sebben, giovane donna nata nel 1897, guardò alla
necessità di dare un sicuro sostentamento alla famiglia.
“Andammo a vivere a Pederoncon presso la mia nonna materna” prosegue Assunta, “e mia mamma partì per Torino,
dove iniziò a lavorare come balia asciutta: un lavoro che la
avrebbe portata presso diverse famiglie nobiliari. Una prima possibilità di andare balia l’aveva già avuta quando mio
padre era in vita: balia da latte; però il bimbo che avrebbe
dovuto allattare nacque morto. La famiglia aveva promesso
un posto di lavoro anche per mio padre, e sarebbe stata
un’ottima opportunità per tenere la famiglia unita”.
Come viveva la figlia di una balia?
“Sono stata allevata da mia nonna, con lei avevo un rapporto
speciale, rapporto che non ho mai costruito con mia madre.
Scrivevo sempre a mia madre, mia nonna era analfabeta e
allora questo compito toccava a me. Mi ricordo ancora gli
indirizzi delle famiglie dove ha lavorato, mi ricordo anche i
nomi dei bambini che mia madre ha accudito. Erano famiglie generose che ci coprivano di vestiti bellissimi e scarpe
di vernice, le famiglie qui ci prendevano per signori, ma in
realtà eravamo molto poveri”, ci racconta Assunta, “mia madre la vedevo poco, circa otto giorni all’anno, e quando
veniva a casa era molto autoritaria, e io non vedevo l’ora
ripartisse. Dormivamo in camere separate: io con mia nonna e mia sorella con mia madre: una mattina verso le cinque
mi sveglio e non vedo più mia nonna. Preoccupata scendo
dal letto e corro a cercarla, in realtà era solo andata a mungere la mucca. Mia madre si alza e arrabbiatissima mi rifila
quattro scapaccioni sonori: probabilmente si sarà offesa
perché non sono andata in camera da lei, ma ho cercato
mia nonna”.
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Ma quindi quando è che hai iniziato a vivere veramente
con tua madre?
“Ho trascorso solo due anni della mia vita con mia madre,
che pensate ha vissuto oltre 90 anni”, racconta Assunta.
“Durante la seconda guerra mondiale io e mia sorella abbiamo raggiunto nostra madre a Gallarate, e lì siamo rimaste due anni a lavorare come domestiche. C’erano spesso
bombardamenti aerei, e ci rifugiavano nei sotterranei del
palazzo”.
Poi è finita la guerra.
“Mi nonna è morta, e io ho sofferto molto di questa importante perdita”, prosegue Assunta, “mia mamma e mia sorella sono rimaste via, io invece mi sono sposata. Mia sorella
dopo sposata è andata a vivere in Svizzera, e mia madre
l’ha raggiunta”.
Un rapporto mai costruito e quindi mai coltivato quello tra
Assunta D’Alberto e la madre Corona Sebben: conclude
così Assunta.
“Mia madre non ha avuto una vita semplice, ha rinunciato
a tutto per amore delle sue figlie, ma la controparte è stata
quella di non costruire in realtà un rapporto con loro. Io
non ho conosciuto
mia madre, non ho
avuto un legame
vero con lei, e di
questo ne ho sofferto molto, sentendomi anche in colpa
per questo senso
di distacco nei suoi
confronti”.
Un gesto d’amore
quindi ancora più
straordinario quello
di Corona Sebben:
rinunciare a tutto,
anche al ruolo di
madre con le figlie,
per poter garantire
loro un futuro. Non
vedersi riconosciuta
ma avere la possibilità di garantire la
sussistenza dei propri figli.
Una balia asciutta (Natalina Oppio)
a Roma nel 1936
La Theka
Anno 2013 - N. 19
“Apra alla sua porta, faccia presto...
non importa cosa crede lei di questo movimento...”
di Elisa Dall’Agnol
Battesimo
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La parola ai cittadini
Vederli da lontano e cambiare velocemente strada. Alzare il citofono e quindi rispondere “non mi interessa”, sono cattolica.
E poi un amico ti dice che vorrebbe diventare testimone di Geova e scoprire che un amico lo è stato. Non cambio strada, apro la
porta e mi siedo, ascolto. Lascio da parte preconcetti, pregiudizi e scopro, intravedo un mondo sconosciuto, ma meno inquitante
di quello che ho sempre immaginato.
Chi sono i testimoni di Geova? Una organizzazione internazionale nata nel 1870 con l’intento di approfondire la Bibbia. Essere
testimone di Geova significa seguire uno stile di vita basato sui principi biblici. Per E., disassociato, è uno stile di vita seguito da
persone che hanno bisogno di qualcuno che gli stia vicino. M. invece è talmente affascianato dal libro più letto al mondo, da dirmi
che è difficile leggerlo senza aver poi il desiderio di capirne di più, di cambiare determinati atteggiamenti.
Mi colpisce E. che pur essendo disassociato, non rinnega nulla di quello che è stato e mi dice “magari non mi fossi battezzato [...] in
fondo è una bellissima religione”. Ancora una volta io devo capirne di più. E. diventa testimone a sei anni perchè la madre decide
di seguire questa strada. Basta luci di Natale, regali, religione a scuola. Frequenta amici dell’organizzazione e il suo percorso culmina a 20 anni quando decide di battezzarsi. Il battesimo non è dunque un rito di ingresso del piccolo nella società, ma è un atto
consapevole in cui la persona sceglie definitivamente di seguire i principi della Bibbia. Per questo motivo quando si innamora di
una ragazza “del mondo” e inizia a frequentarla viene prima segnato, quindi evitato, e disassociato perchè con lei commetteva “atti
impuri”. La decisione del comitato alza un muro su E. che si trova solo, evitato dagli amici di sempre e ancora più doloroso, dalla
sorella.
Turbata dalla cosa, ne parlo anche con M. che mi ricorda il forte ruolo del battesimo. Scegliere di essere battezzato significa aver
interiorizzato i principi della Bibbia, ed essere pronti a seguirli appieno, anche se questo significa risalire una strada impervia e
in salita. Per compiere interamente questo percorso, l’organizzazione ti consiglia di frequentare solo altri testimoni di Geova, un
modo per evitare di scivolare lungo questa strada impervia fino a ruzzolare nel peccato del mondo. Sia E. che M. mi confermano
poi che, come in ogni religione, ci sono persone più o meno estremiste, e questo spiega anche alcuni atteggiamenti “radicali”.
Una scelta difficile dunque, ma cosa spinge dunque a cambiare? La madre di E. si è ritrovata sola in un piccolo paesino dove non
conosceva nessuno, e la vicinanza a un gruppo molto unito quale i testimoni di Geova, ha fatto la differenza. M. ha intrapreso invece
un percorso anomalo. Quando la sorella lo è diventata ha battuto i pugni sul tavolo e fatto di tutto per farle cambiare idea. Nulla
è servito e quindi ha iniziato a studiare la Bibbia per controbattere e “rinsavirla” e a frequentare le adunanze con il timore del lavaggio del cervello. “Mi sono accorto poi che sono delle persone normalissime, che semplicemente vogliono vivere una vita nella
rettitudine, leggendo e studiando la Bibbia. [...] Sono intimorite quando vanno a predicare e suonano il campanello”.
Mi rimane il tarlo della rinuncia e, ancora una volta, la risposta di entrambi mi stupisce positivamente. “Quando decidi di abbracciare gli insegnamenti di Geova, hai preventivamente seguito un percorso lungo e quindi la rinuncia è voluta e consapevole. Il
vantaggio è comunque immensamente più grande di quello che lascia alle spalle”.
La fede dunque viene costruita giorno dopo giorno in un percorso personale e spirituale complesso. “In questo momento mi trovo
in un limbo” mi racconta M. “da una parte vorrei fare il passo, diventare un testimone di Geova con il battesimo, con loro ci sto
bene e credo davvero che questa possa essere la strada giusta. Dall’altra invece sono spaventato, perchè non è facile cambiare”.
Ci ripenso e ripenso, la strada giusta non esiste ... oppure sì?
La parola ai cittadini
La Theka
Anno 2013 - N. 19
Un itinerario
itinerario di
di testimonianze
testimonianze
Un
di Daniele De Marchi
Era una domenica mattina della primavera 2006 quando un gruppo di amici si avventurò in sopralluogo tra questi boschi. Per alcuni
di loro quell’occasione fu il pretesto per rivedere gli ormai abbandonati luoghi di un tempo, per altri invece si trattò di un’insolita
passeggiata in posti fino a quel momento sconosciuti.
L’escursione partì da Cima Loreto e, passando per il bivacco Yale,
dovette purtroppo concludersi dopo poche centinaia di metri a
causa dell’impraticabilità del sentiero: piante abbattute, rovi, arbusti, sassi di muri e casere abbandonate precipitati sulla debole
traccia non permettevano di proseguire oltre.
L’insolita avventura del piccolo gruppo terminò all’ombra del bivacco Yale, mangiando un panino accompagnato da un buon bicchiere di vino, mentre i più anziani ricordavano i faticosi lavori di
queste costruzioni del passato sono ancora ben visibili soprattutto
durante la stagione invernale, quando la mancanza di vegetazione
regala inaspettate visioni all’escursionista che le sa ammirare.
Qui, tra questi boschi, i muri a secco, le casère, le tracce dei sentieri
e delle mulattiere che si diramano in tutte le direzioni, i carpini e
i roveri, la roccia dal colore chiaro, ci dicono che un tempo questi
posti erano animati, vissuti, coltivati e hanno permesso la vita di
generazioni di famiglie.
Come possiamo noi oggi rendere merito a queste persone di un
passato ormai lontano?”
Fu questa la domanda che il gruppo di amici si pose quel giorno
al bivacco Yale, ma come spesso accade, una volta ritornati alle
comodità della vita moderna tutto cade nel dimenticatoio.
un tempo che i poveri contadini di Fonzaso svolgevano tra questi
luoghi: “fino agli anni ‘60, i fonzasini salivano qui da Fonzaso lungo
il sentiero “Galìna” e rimanevano quassù tutta l’estate a preparare
il fieno per i propri animali. Questi luoghi spettavano alle famiglie
più povere e bisognose, mentre i più benestanti potevano contare su un piccolo pezzo di terra nella fertile campagna di Fonzaso
o nei fruttuosi vigneti posti sulle pendìci meridionali del Monte
Avena. A quel tempo non vi erano zone boscate, tant’era la necessità di garantire il fieno all’unica mucca che dimorava nella stalla:
c’erano solo prati, neppure una pianta sotto la quale proteggersi
dal sole estivo e i versanti erbosi erano talmente ripidi e puliti che
se scivolava dalle mani una fetta di polenta era impossibile recuperarla. I prati venivano tagliati con la “zhiésela” (falce messoria) e
trasportati a valle con la “lézhara” (slitta) con la quale si scendeva
e si risaliva da Fonzaso anche 3/4 volte al giorno. Unica difesa dal
caldo torrido e dai temporali estivi per i braccianti di queste zone
erano dei ripari naturali (covoli) oppure delle piccole costruzioni
in pietra con materiali estratti in loco (sassi per i muri e lastre di
pietra per la copertura).
Ogni appezzamento di terra aveva un ricovero al quale era affiancata una piccola cisterna per la raccolta dell’acqua piovana o,
in casi eccezionali, per l’accumulo di acqua di sorgente. Molte di
Invece no, così non è stato: quattro anni dopo si sono verificate
le condizioni che hanno permesso l’avvio della procedura per il
ripristino del sentiero denominato “Tròi de Yale”. I fondi europei
PSR 2007-2013, la nascita del Consorzio Rurale “Tròi de Yale”, l’approvazione del progetto da parte degli oltre 60 proprietari terrieri e l’opera gratuita di alcuni Volontari, ci danno oggi la possibilità
di poter ripercorrere un sentiero intriso di storia e tradizione attraverso il quale rendere onore ai nostri predecessori.
Itinerario proposto a piedi (dal bivacco Yale ad Arten di Fonzaso)
Dal bivacco Yale (1140 m) si percorre il “Tròi de Yale” attraverso facile saliscendi fino ad incrociare il bivio con segnavia per il vecchio
sentiero che sale verso il Campon d’Avena (progr. 0.30’). Da qui
il percorso prosegue per breve tratto in ripida discesa fino ad incrociare il bivio con segnavia per il vecchio sentiero che porta alla
Croce del Pizzòc (progr. 0.35’). Proseguendo dritti in moderata
discesa, si incrocia la Via Tilman che scende dal Campon d’Avena
(progr. 0.45’). Continuando per ripida discesa, superati 2 tornanti
si arriva ad incrociare la strada sterrata che sale da Facen di Pedavena (progr. 1.05’ – 760 m). Procedendo brevemente in discesa
lungo la strada sterrata, si perviene ad un ampio prato sulla destra,
a valle del quale si trova una mulattiera che scende ad Arten di
Fonzaso (progr. 1.35’ – 340 m).
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
Testimone di un tempo passato
di Severino Turra
ca da brucare. Ogni tanto qualche piccolo roditore saltellante
attraversava la carrabile non asfaltata e l’autista si divertiva a
rincorrerli fino a che non li schiacciava ridendo. A circa metà
percorso ci fermammo in un piccolo agglomerato di baracche
per bere qualcosa al bar; più che un bar era una tettoia con un
banco sgangherato, alcuni sgabelli ed una unica tavola sporca
e piena delle immancabili mosche, io non sapevo cosa ordinare per paura di prendermi qualcosa. Infine optai per una
coca cola da barattolo e la bevvi senza toccare con le labbra
il barattolo.
Al campo arrivammo che era già buio pesto, mi assegnarono
un piccolo alloggio di legno rialzato da terra come una palafitta e poi andammo in un lungo fabbricato centrale adibito a
mensa dove mangiammo quello che era rimasto; la mensa era
molto grande e ad occhio poteva ospitare fino a 200 persone,
con tavolini lunghi e grandi ed anche una serie di tavolini più
piccoli. Il locale odorava di pulito ed era molto bene illuminato, servito da un generatore di corrente a gasolio che faceva
un fastidioso rumore, la rete elettrica pubblica non arrivava
a questo campo nonostante ci trovassimo alla periferia della
cittadina di Tebessa; il campo era recintato da una staccionata
chiusa molto alta e presidiato da diverse guardie locali armate,
in lontananza di intravedevano le scure montagne che attorniavano l’ampia vallata e poche flebili luci.
Il giorno dopo feci il giro dei tre cantieri controllando la rispondenza dei lavori ai nostri progetti poi la sera, finalmente, a
tavola per una decente cena; mi fecero accomodare nei tavolini piccoli riservati alle maestranze, al capocantiere con i suoi
assistenti, all’infermiere, impiegati e ad i tecnici.
A tavola feci conoscenza con un impiegato amministrativo
molto simpatico, avrà avuto sui sessanta cinque anni ed era di
Roma, che faceva questa vita randagia da trent’anni e si era
abituato molto bene. Non si era mai sposato e raramente tornava in Italia; quest’ultima affermazione mi incuriosì e gli chiesi
il motivo del suo disamore per la terra natia, questo lo stimolò
e mi raccontò la storia della sua vita.
Durante il periodo fascista e nella seconda tragica guerra
mondiale, era stato un camerata delle camice nere e, anche
se non direttamente a suo dire, fece parte di un gruppo che
seminò terrore e morte nei dintorni di Roma e nell’Agro Pontino. Riuscì anche a guadagnarsi diversi riconoscimenti ed
avanzamenti di grado diventando un alto funzionario con
enormi poteri decisionali; la sua giovane età, la prestanza fisica, la bellezza di maschio latino, la sua mancanza di scrupolo
ed il grado raggiunto gli provocarono diversi problemi. Infatti
raccontò che la moglie di un pezzo grosso del partito, molto
vicino al Duce, si innamorò pazzamente di lui; cercò in tutte
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PULIZIE CIVILI
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La parola ai cittadini
Con la mia professione ho avuto la possibilità di viaggiare
molto e di conoscere tantissime persone del luogo ed anche
persone che si trovavano lontane dalla loro nazione per sopravvivere e lavorare.
Nei primi anni ottanta progettammo gli impianti tecnologici di
tre grandi stabilimenti tessili in Algeria, ubicati tra la città di Costantine e la frontiera con la Tunisia; la progettazione ci impegnò per 180 giorni poi, per seguire i lavori specialistici, ci dettero l’incarico anche della Direzione dei Lavori, da svolgere con
un impegno minimo di una settimana ogni mese con partenza
da Venezia fino a Roma, poi da Roma ad Algeri e da Algeri
con volo interno fino a Costantine. Da qui dovevo prendere
un taxi ed attraversare lande desertiche per giungere nella cittadina di Tebessa distante 400 km, dove era ubicato il campo
base e lo stabilimento principale,
mentre gli altri
due stabilimenti si
trovavano a 50 km
nel paese di Ain
Beida e ad altri 40
km nel paese di La
Meskiana.
Il mio primo viaggio fu avventuroso perché dovetti
fermarmi a dormire ad Algeri;
avevo infatti perso l’aereo che mi
doveva portare
a Costantine. Il
giorno dopo all’aeroporto aspettammo sotto il sole cocente per ore, avvolti da
nuvole di mosche fastidiose e con le scarpe bollenti per l’elevata temperatura dell’asfalto. Salimmo nell’aereo per ultimi
perché nei voli interni adottano un sistema tutto loro, prima
salgono i bambini e le donne, poi gli uomini anziani, gli uomini
di religione musulmana, gli uomini locali ed infine tutti i rimanenti passeggeri.
A Costantine prendemmo un taxi talmente sgangherato che
assomigliava più ad un carretto che ad una automobile, privo
di condizionatore e con finestrini che, una volta abbassati, non
era più possibile richiuderli; il paesaggio si presentava brullo,
sabbia e rocce arse di un colore uniformemente giallognolo,
corsi d’acqua asciutti chiamate Uadi ed ogni tanto qualche
piccolo gregge di capre o cammelli che cercavano erba sec-
Uno sguardo al Paese
La Theka
Anno 2013 - N. 19
le maniere di evitare le avances della capricciosa donna, però
l’indole del maschio latino ebbe il sopravvento. Purtroppo,
nonostante le sue attenzioni, fu scoperto ed in quel momento
si sentì mancare la terra sotto i piedi, il suo destino era segnato, probabilmente era stata decretata la sua fine; non si perse
d’animo, abbandonò tutto e tutti e, con l’aiuto di un suo amico
pescatore, partì dalle sponde del mar Tirreno verso la Corsica
meridionale, poi da lì con una nave mercantile riuscì miracolosamente e fortunosamente ad approdare nel porto di Orano
dove riuscì a nascondersi in una casupola alla periferia della
città. Visse di espedienti fino alla fine della guerra e nel 1947
ritornò a Roma dove rintracciò i fratelli e con
l’aiuto di qualche ex camerata, miracolosamente scampato alle azioni di rappresaglia e
sterminio sistematico da parte di ex partigiani
o parenti di vittime del suo comportamento,
prese contatto con una grossa impresa romana che lavorava prevalentemente all’estero.
Cominciò così a girovagare nel Medio Oriente, nei paesi arabi ed in Africa fino a che entrò
con l’attuale ditta, che era diretta da una persone molto vicina agli ambienti fascisti romani.
Dopo cena andai nel suo spazioso alloggio e
mi mostrò, tra le altre cose e ricordi, un album
di fotografie in bianco e nero anche del lungo
periodo fascista e delle sue prediche dai palchi attorniati di folla plaudente ed entusiasta,
sfilate con le famigerate camicie nere, serate di
gala con alti ufficiali e signore vestite da sera
mentre fuori infuriava la guerra con lutti e rovine. E estrasse da un cassetto alcune medaglie con i nastrini scoloriti dal tempo, monete
di vecchio corso con l’effigie del re; rimanemmo fino a notte
inoltrata mentre continuava a ripetermi le sue avventure ed
esperienze di vita.
Rimasi una settimana al campo e, dopo le visite nei cantieri,
a cena ed anche dopo cena la sua compagnia fu costante ed
assidua. Quando ripartii mi lasciò il suo biglietto da visita con
le scritte dorate e con la promessa di rivederci un giorno in
Italia dove possedeva una parte di una vecchia villa nei pressi
del Viale Regina Margherita; Due mesi dopo ebbe un infarto
e il tardivo arrivo del medico non gli consentì di sopravvivere.
Costantine
Testimonianze dall’emisfero australe
Intervista a Pasqua Marcon
di Norma Marcon
Viviamo circondati da “testimoni” che, con parole o semplicemente con la loro presenza, mostrano e ricordano il passare del
tempo e i cambiamenti che esso inesorabilmente porta. E così,
le montagne che ci circondano ci “testimoniano” che un tempo
la nostra zona era un lago che, col passare del tempo e soprattutto il mutare del clima, si è prosciugato, lasciando detriti
che hanno dato origine ai vari strati di roccia; i corsi d’acqua ci
“testimoniano” l’eterno scorrere dell’elemento indispensabile
alla vita umana, animale e vegetale. Pure le costruzioni delle
civiltà che ci hanno preceduto o quello che di esse rimane non
sono forse “testimoni” di splendori passati che hanno fatto sì
che oggi l’umanità sia arrivata a quello che è? E l’uomo, non
è forse il più importante “testimone” del proprio tempo e del
suo vissuto? Soprattutto quando accumula anni le testimonian-
ze diventano tante. Ma qui cerchiamo di cogliere quelle riguardanti la vita dell’emigrante, visto che le nostre genti – purtroppo e per tanti anni – hanno dovuto guadagnarsi il pane in terra
straniera, a volte oltreoceano.
Una delle mie zie, esattamente 60 anni fa - preceduta l’anno
prima dal marito – è emigrata in terra australiana. Per me, figlia
di una generazione tutto sommato stanziale, è un po’ difficile
immaginarla che lascia il paese diretta verso l’ignoto e così, nel
corso delle sue visite al paese, spesso mi sono ritrovata a chiederle racconti sulla sua vita di emigrante. Domande e testimonianze che, se fossero un’intervista, suonerebbe così…
Certo, zia, che lasciare la famiglia, Frassené e andartene
all’altro capo del mondo non deve essere stato semplice…
“Già…mio marito aveva deciso di cercar lavoro in quel Paese e
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
così è partito circa un anno prima di me per poter guadagnare
il denaro e far sì che lo potessi raggiungere. Devo dirti che, essendo giovane, non mi spaventava più di tanto l’incognita che
avevo davanti. D’altra parte erano anni che dovevi per forza
far sacrifici per poter migliorare la condizione di vita”.
A quel tempo il viaggio durava molti giorni,visto che si andava per mare.
“Quaranta giorni per l’esattezza e in classe economica come la
maggior parte dei miei compagni di viaggio…Ah, quanta acqua mi separava sempre più dai miei affetti lasciati qua, ma un
altro grande affetto mi attendeva al di là dell’oceano. Devo dire
che, essendo una persona che socializza facilmente, ho conosciuto una signora che soffriva il mal di
mare e aveva un bambino piccolissimo
da accudire. Ho sentito naturale poterla
aiutare e così si è instaurata un’amicizia, protrattasi poi per molti anni. Certi
eventi della vita fanno sì che si creino
dei legami che durano nel tempo”.
E quando sei arrivata a Sydney?...
“Naturalmente mi sono scontrata con
una cultura diametralmente opposta alla
mia, una lingua incomprensibile. All’inizio, con mio marito, abbiamo vissuto
in una casa assieme ad altri compaesani, poi, chiedendo dei soldi in prestito,
ci siamo comprati la nostra prima casa.
Cercando anche di saldare in fretta il
debito! Con gli altri compaesani e connazionali abbiamo instaurato un’amicizia
che si è consolidata nel tempo e tuttora
rimane”.
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Uno sguardo oltreconfine
Dimmi delle tue esperienze lavorative.
“Si andava chiedendo lavoro con
il linguaggio dei gesti. In seguito
ho trovato lavoro in una grande
fabbrica di biscotti, ma la difficoltà con la lingua era grande. In un
secondo tempo sono nati i miei
figli e, grazie a mio marito, gran
lavoratore, ho potuto rimanere a
casa con loro. Ho quindi fatto la
baby sitter a bambini di signore
mie vicine, a volte di nazionalità
non italiana e affittato qualche
camera libera di casa mia. Insomma, mi sono ingegnata in qualche
maniera per contribuire al benessere famigliare. E ti dirò, che tutto
sommato sono contenta della mia
vita australiana: con mio marito
siamo riusciti a migliorarci economicamente, abbiamo trasmesso ai
nostri figli un forte legame verso
la famiglia in Italia che si è concretizzato visitandola diverse volte. Pure noi, a differenza di tanti altri, siamo riusciti a ritornare
a visitare i nostri cari in varie occasioni. E le nostre amicizie non
sono venute meno. Certo, il pensiero va alla famiglia rimasta in
Italia, ma è tipico dell’emigrante pensare alle sue radici e ora
che sono rimasta vedova, si acuisce, ma cerco di essere positiva”.
L’Australia, terra in cui convivono tante culture e cresciuta
grazie al duro lavoro di tanta gente che ha lasciato il proprio
paese d’origine per una vita migliore, dimostra una “riconoscenza” nei confronti di voi emigranti?
“Devo dire che questo Paese abitato da tante razze è conscio
della sua crescita grazie anche agli
enormi sacrifici fatti dagli stranieri e ha
voluto onorarci con il Welcome Wall
(il Muro dei Benvenuti) che si trova
presso il Museo Nazionale Marittimo
Australiano a Sydney. Sono cento pannelli in bronzo con scritti 25000 nomi
di persone provenienti da 206 paesi,
arrivati in Australia per guadagnarsi il
pane e che nello stesso tempo hanno
migliorato il Paese perché è anche con
il lavoro della collettività straniera che
si contribuisce alla crescita di una nazione. Anche il nome di mio marito e
il mio sono scritti là e questo ci rende
molto orgogliosi. Tutti quei nomi sono
“testimoni” di enormi sacrifici, a volte
inimmaginabili. Ti sembra poco?”.
Uno sguardo oltreconfine
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Adele della Guinea Bissau
di Silvia De Toffol
Questo è stato un viaggio INCREDIBILE.
Un viaggio in cui mi sono riscoperta, o
meglio, mi sono conosciuta. Sono partita
con la convinzione di andare in Guinea
Bissau e riuscire a cambiare qualcosa.
Sono partita con la convinzione che il
FARE sarebbe stato, ancora una volta, la
sostanza del tempo trascorso lì. E mi sbagliavo fortunatamente! Ho imparato ad
accettare la mia inutilità, la mia incapacità,
i miei limiti, le mie paure e tutto ciò mi
ha finalmente permesso di stravolgere le
mie priorità, di lasciare l’orologio nella
valigia, di tralasciare la maglietta sporca
o i capelli fuori posto. Poi, però, un giorno, mi sono ritrovata immobilizzata dalla
paura. Ero a fare visita al lebbrosario e
vedere così tanta sofferenza, così tanta
ingiustizia, così tanto bisogno di aiuto mi
ha generato un forte senso di impotenza
oltre che mille “PERCHE’?” . Così senza
quasi accorgermene ho trascorso l’intero
pomeriggio lì, immobile a braccia conserte, in mezzo alla gente che nonostante non avesse mani, piedi, occhi perché
consumati dalla lebbra, sorrideva. La sera
a letto, non riuscivo a prendere sonno
ripensando a quanto fossi stata così lontana da quelle persone. Mi vergognavo.
Mi sentivo così delusa da me stessa che
iniziava a farsi sentire la volontà di tornare a casa. Il pensiero di essere lì per aiutare e ritrovarmi poi incapace di farlo, diventava sempre più una consapevolezza
scomoda per il mio orgoglio. Per fortuna
però, non ero sola ad affrontare questo
viaggio. CON ME C’ERA MIO MARITO
JACOPO! Sono stata io a trascinarlo in
questa esperienza, ma se l’ho portata a
termine, è anche merito suo, della forza
che come sempre mi dà nei momenti
più difficili! E’ la corda di sicurezza che
mi permette di affrontare anche le scalate più dure (come quella di vincere me
stessa e superare i miei limiti) senza aver
paura! Dico “anche” perché non è stato
l’unico. La bambina nella foto infatti, è
stata non solo il motivo per cui sono
rimasta, ma è anche il motivo più forte per il quale tornerei subito. Non
è passato giorno dal mio ritorno, in
cui io non mi sia chiesta: “chissà cosa
starà facendo?” “Chissà se sta bene?”
“Chissà se sente la stessa nostalgia che
sento io?”. Si chiama Adelia, ha sette
anni ed è cieca; anche se spesso ho
avuto l’impressione che ci vedesse
meglio di tutti. Dico questo perché di
ognuno di noi, ha saputo VEDERE e
MOSTRARE la prospettiva migliore.
Nei giorni trascorsi insieme, mi ha fatto
sentire in maniera nitida cosa veramente
voglia dire essere, insieme a mio marito,
FAMIGLIA. Per quel poco che potessi
sapere (io non ho ancora avuto figli) mi
ha fatto sfiorare l’emozione di sentirmi in
qualche modo mamma. Questo miracolo
(dico io) l’hanno visto anche gli altri volontari ed è stato bello sentirsi dire: “Sapete che oggi vi osservavo a Messa con
Adelia e gli sguardi, la complicità che avevate...SEMBRAVATE UNA FAMIGLIA!” La
cosa INCREDIBILE è che lei non ci ha mai
chiesto niente. INCREDIBILE come il fatto
che, per riconoscerci, non le servisse sentire il suono della voce, le bastava toccare
la nostra mano, annusare il nostro odore.
INCREDIBILE come ad un piccolo dispetto fatto per gioco da un nostro compagno di viaggio, lei abbia risposto: “Giovanni, ma cosa credi, che non ti vedo??!!”
INCREDIBILE che quell’amore che ho
potuto darle, lei l’abbia ricambiato moltiplicandolo! INCREDIBILE come proprio
ora, mentre scrivo di lei, io mi accorga che
come per la volpe, il piccolo principe, LEI
MI ABBIA ADDOMESTICATO!
DAL RACCONTO DI ANTOINE DE
SAINT-EXUPÉRY
[...] in quel momento apparve la volpe.
“buon giorno”, disse la volpe.
“buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide
nessuno.
BIG GIò
“chi sei?” domandò il piccolo principe,
“sei molto carino...”
“sono una volpe”, disse la volpe.
“vieni a giocare con me”, le propose il
piccolo principe “sono così triste...”
“non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.
Il piccolo principe dopo un momento di
riflessione soggiunse:
“che cosa vuol dire addomesticare?”
[...] “e’ una cosa da molto dimenticata.
vuol dire creare dei legami...”
“creare dei legami?”
“certo”, disse la volpe. “tu, fino ad ora,
per me, non sei che un ragazzino uguale
a centomila ragazzini. e non ho bisogno
di te. e neppure tu hai bisogno di me. io
non sono per te che una volpe uguale a
centomila volpi. ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro.
tu sarai per me unico al mondo, e io sarò
per te unica al mondo”.
[...] “ti prego,addomesticami!!”disse la
volpe.
“volentieri”, disse il piccolo principe, “ma
non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte
cose”
[...] e ritornò dalla volpe.
“addio”, disse.
“addio”, disse la volpe. “ecco il mio segreto. e’ molto semplice: non si vede bene
che col cuore. l’essenziale e’ invisibile
agli occhi”.
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
Protagonisti o spettatori del cambiamento?
Intervista a Eddi Dalla Rosa, titolare della Joint & Welding
di Luca Ferrari
quando presso la sede di Confindustria viene firmato l’accordo tra l’azienda e la Fiom: questo prevede che tutto il discorso
sia portato all’interno del contratto collettivo di categoria. In
particolare, quindi, l’orario di lavoro è previsto sulle otto ore
come da contratto, mentre le pause che prima non erano disciplinate sono state regolamentate: per ogni singolo lavoratore
e per ogni giornata sono previsti recuperi di 20-30 minuti visto
che gli stop saranno soltanto relativi a bisogni fisiologici, con
aumento dei margini di produttività. Otto ore di lavoro con la
riduzione della pausa a pochi minuti, recuperando così quella
mezz’ora di produttività che era stata richiesta dalla proprietà.
Testimoni diretti i dipendenti che in una nota dell’azienda
affermano “Non riteniamo che siano stati scaricati sulla nostra
pelle i costi della crisi, nessuno meglio di noi può confermare,
in effetti, che l’accredito dello stipendio non ha mai subito un
giorno di ritardo e ogni prestazione lavorativa è stata sempre
regolarmente pagata. Teniamo quindi a precisare che, la collaborazione lavorativa che ci lega all’azienda è sempre stata fondata su saldi principi quali franchezza e schiettezza nell’ottica
di una sana dialettica. Il nostro scopo ora è poter lavorare serenamente sperando che si plachi definitivamente questo sciame
di inutili e sterili polemiche che hanno dato un’immagine distorta della nostra azienda e di noi che lavoriamo all’interno”.
Economia e lavoro
Arriva l’estate e scoppia il caso. Prima la notizia gira a livello
provinciale, con una serie di botta e risposta in cui naviga felice
la stampa. Poi la questione prende posto a livello nazionale, ed
anche la televisione si occupa di spiegare, o almeno ci prova,
quanto accade nella lontana e sconosciuta terra bellunese. Parliamo di lavoro, di crisi economica, meglio, di cambiamento dei
modelli economici che da un quinquennio vedono sovrapporsi a livello globale un numero cospicuo di fattori, ognuno con
un peso specifico differente e variabile nel tempo. Parliamo di
come le attività economiche possano trovare soluzione a periodi senza lavoro a cui ne seguono di straordinari, quando il
cliente vuole tutto e subito; parliamo di crisi di liquidità, di risorse economiche che il sistema non fornisce come un tempo.
Parliamo di uomini che lavorano. A Sedico si trova la Joint &
Welding, una media azienda con 30 dipendenti, che produce
laminati per conto terzi, il cui titolare, Eddi Dalla Rosa, visto il
periodo, chiede ai dipendenti un aumento nell’orario di lavoro, su base volontaria. “È stato chiesto ai lavoratori, su base del
tutto volontaria, di prestare una mezz’ora al giorno; chi non ha
aderito non fa la mezz’ora in più e non è stato ne sarà sottoposto a nessuna “pressione”. Se riusciremo ad ottenere il pareggio
di bilancio, a fine anno, ogni mezz’ora in più lavorata dai miei
dipendenti sarà liquidata con lo stipendio di dicembre. Di più:
se l’azienda farà utili, darò loro un premio” racconta Dalla Rosa.
Quindi è un provvedimento dettato dalla crisi?
“Sì, questa operazione è stata indotta dalla contingente situazione economica, che viene continuamente sbandierata da
tutti come eccezionale e drammatica. Però se si propongono
soluzioni temporanee per poter sopravvivere si viene attaccati. Abbiamo lavoro, mi sembrava fuori luogo l’uso di un ammortizzatore sociale, che dovrebbe essere dato a chi ne ha veramente bisogno. Ci avevano proposto l’utilizzo del contratto
di solidarietà, che va a pesare sull’Inps e quindi ancora sugli
imprenditori. Poi non lamentiamoci che la tassazione aumenta.
Le aziende, per far fronte alla crisi, devono diventare competitive e possono esserlo solo abbassando il costo del lavoro.
Faccio l’imprenditore da 40 anni, è la prima volta che mi capita
di dover chiedere un sacrificio ai miei dipendenti e non è nulla
piacevole. Ma se la barca fa acqua, dobbiamo metterci tutti
insieme a svuotarla per farla stare a galla”.
A questa scelta risponde la Fiom che accusa l’azienda di utilizzare uno strumento fuori legge, fuori dallo schema dei contratti nazionali e diffida l’azienda a proseguire su questo percorso
invitandola ad aprire una fase negoziale con l’organizzazione
sindacale per individuare soluzioni condivise. La polemica
divampa: intervengono Confindustria, politici locali e non,
con incontri e dichiarazioni che si susseguono fino al 17 luglio,
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Libri, musica e cultura
La Theka
Anno 2013 - N. 19
Vasco e La Bottega: frontiere di sperimentazione
Intervista a Vasco Mirandola
di Valentina De Cet
Me despiase
Ieri, el kosovaro che ‘l lavora co’ mì
el me ‘à domandà se podhée prestarghe
zhinquanta euro, el se vardéa tii pie
pa’ far su ‘l coràjo de chee paròe
chissà par quant rumegàdhe - lo sa
che ‘ò dó fiòi, el mutuo pa’a casa
e tut el resto - e za ‘l savéa, son sicuro
anca ‘a mé risposta, parché no’l se ‘à
ciapàdha, sì, sì, certo, capisco l’à dita
sgorlàndo ‘a testa intànt che ‘ndessi
verso i reparti, i guanti strenti tea man.
Però mi nò che no’ lo riconossée pì
co’là che ghe ‘à tocà dir mi dispiace
proprio co’ ièra drio sonàr ‘a sirena
e no’ restéa tenpo nianca pa’a vergogna.
Mi dispiace
Ieri, il kosovaro che lavora con me / mi ha chiesto se potevo
imprestargli/ cinquanta euro, si guardava nei piedi // mentre
formulava quella sua richiesta / chissà quanto a lungo meditata
- lo sa / che ho due figli il mutuo per la casa // e tutto il resto - e
sono sicuro conoscesse / anche la mia risposta perché non se
l’è / presa sì, sì, certo, capisco continuava // a dire scrollando la
testa, intanto che ci avviavamo / verso i reparti, stretti i guanti
nella mano. / Però io no che non lo riconoscevo // quello che
ha dovuto dire mi dispiace / proprio quando suonava la sirena
/ e non c’era più tempo neanche per la vergogna.
Questa poesia di Fabio Franzin, presente all’interno della raccolta “Fabrica”, mi ha colpito molto perché descrive in modo
molto schietto, senza retorica, fronzoli o moralismi la realtà attuale. I protagonisti dei suoi componimenti sono spesso persone comuni: gli emarginati, i reietti, gli immigrati, coloro che
hanno perso il lavoro. Alcune recensioni hanno definito la sua
poesia ‘carne e sangue’ ed è proprio per questo che il lettore
non rimane indifferente: può essere un motivo in più per leggerle o no?
I versi di Franzin, assieme a quelli di Federico Tavan, Alessandro Conte, Stefano Guglielmin, Giacomo Sandron, Andrea
Longega, Piero Simon Ostan, Francesco Targhetta, Attilio
Carminati, Silvia Salvagnini sono recitati e musicati a Venezia,
Udine, Vicenza, Padova, Treviso, Portogruaro, Pordenone da
Vasco Mirandola e La Piccola Bottega Baltazar.
“Ballate per il Nord Est”, questo è il nome del progetto, offre un
ritratto del territorio attraverso i luoghi e i linguaggi del nordest contemporaneo. Viene descritto il paesaggio devastato a
causa del boom economico, dalle campagne alle città, lungo le
tangenziali e le periferie. Vasco Mirandola è uno stimato attore
padovano. Ha lavorato in televisione, teatro e cinema (con Salvadores, Mazzacurati, Paolo Conte, Giancarlo Previati, Roberto
Citran e moti altri). Ha pubblicato tre libri di poesie-aforismi e
collaborato con danzatori, musicisti, scultori e video maker. In
altre parole può essere definito un artista poliedrico.
La Piccola Bottega Baltazar è una formazione musicale veneta
nata nel 2000 che mescola canzone d’autore, musica popolare, classica e jazz. Una sorta di laboratorio elettro-acustico
che si dedica, con cura artigianale, alla lavorazione di nuove
forme per la musica folk (http://www.piccolabottegabaltazar.
it/). La loro collaborazione, che dura ormai da diversi anni, dà
luogo ad un’inedita forma di spettacolo dove poesia, canzone,
musica e recitazione trovano un prezioso equilibrio di grande
impatto emotivo.
Mirandola racconta le motivazioni dello spettacolo “volevamo
raccontare il presente del nostro territorio e ci sembrava interessante farlo attraverso lo sguardo di quelli che sanno leggere il futuro: i poeti”. Per lui la poesia in dialetto ha un ruolo
significativo, in quanto “esce dalla stanza del sé o da quella rustica con panorama sulla campagna ricolma di echi nostalgici,
si rimbocca le maniche, gira per le strade, entra in fabbrica, si
assume il dolore del cemento, le ferite delle tangenziali, guar-
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La Theka
debole, ma che tiene in
piedi questa giostra). Targhetta ha raccontato nel
suo libro come vivono oggi
i ragazzi in una città come
Padova, che ha la nebbia e
lo spritz dentro, lo fa con
un linguaggio che prende
le parole dai supermercati,
dai bar, dagli anziani con il
giubbotto rifrangente, Silvia Gugliemin è un urlo di
rabbia per un mondo senza colori, i suoi libri sono
pieni di disegni....e così via”.
Secondo lei quale immagine multifocale del Nordest è restituita dai testi?
“Ho scritto nella scheda di
presentazione che abbiamo la sensazione di vivere in una fotografia in bianco e nero, un bianco e nero fermo che facciamo
fatica a colorare, non è solo il cemento o il tempo a ingrigire
le nostre giornate, c’è qualcosa che sta scavando piano piano
dentro l’essere umano, toglie via, scarta speranza, condivisione, solidarietà, lotta, piacere, bellezza, ci mette dentro cose che
non servono, poco per volta si è assistito in questi anni ad un
cambiamento sottile nella scala dei valori, come ci dimostrano
con spudoratezza i nostri politici, poca attenzione per le sofferenze, i problemi, un distacco dai bisogni fondamentali. Qui da
noi, ma non solo, in nome di un “miracolo” ci si ritrova pieni di
macerie. Forse anche un poeta può aiutarci a ricostruire”.
A suo parere, il linguaggio poetico, con la sua frammentarietà, può essere di qualche utilità, oggi, per “agire” sulla
realtà?”
Le rispondo con una poesia della Cavalli
Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.
però ci aiutano a guardarlo, a non averne paura, a cercare soluzioni, pensieri, atti per migliorare le cose.
Lo spettacolo finisce con una canzone sui partigiani, ci piace
pensare che i poeti sono una forma di resistenza, che gli artisti
sono una forma di resistenza, perché non lasciano passare. Un
autore russo Daniil Charms ha detto che <<bisogna scrivere
versi tali che a gettare una poesia contro la finestra il vetro si
deve rompere>>. Al di là della robustezza del vetro, è certo
che le parole hanno il potere di andare oltre, non sappiamo
fino a dove”.
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Libri, musica e cultura
da dall’altezza di chi è caduto, si prende carico di parole che
non hanno nulla di poetico, come capannone o periferia, e
mentre si guarda intorno si fa voce, suono e rumore di quello
che incontra, si impoverisce, si arricchisce, grida, ride e piange.
Il Miracolo del Nordest ha le sue macerie e le sue preghiere.
I dialetti rimangono come una conferma di radici, come alberi
che si stagliano nella nebbia, e che non vogliono saperne di
scomparire. Ne esce un paesaggio in bianco e nero ma anche
una sfida, una forma di Resistenza, di umanità. Per questo i poeti andrebbero ringraziati”.
Vasco Mirandola come è stata fatta la scelta delle poesie?
Sono questi gli autori rappresentativi della poesia contemporanea locale?
“La scelta è stata fatta innanzitutto seguendo il tema che ci piaceva affrontare, poesie che in qualche modo raccontassero il
presente del Nord Est con le sue contraddizioni, le sue ferite.
Per poi scoprire che magari non sono ferite solo del nostro
territorio ma appartengono a un disordine più ampio, raccontano un disagio condivisibile. Un altro filtro è stato quello della forma, i nuovi poeti parlano con le parole di adesso, sono
immersi per condizione e per scelta nel momento presente e
forse ci danno l’idea che la poesia può sconfinare dalle rime
o dall’autocompiacimento e accogliere anche parole difficili,
brutte, che fanno male, può permettersi di essere “civile” darci
spunti di riflessione oltre che stimoli emotivi, forse è una poesia più di pancia ecc”.
Lei è un grande appassionato di poesia e poeta: Bianciardi,
Parise, Zanzotto sono distanti ma presenti nei lavori presentati, quali altri echi ha sentito?
“Certo , siamo impregnati del passato, sono le nostre scarpe, i
nostri vestiti, ma la figura del poeta è cambiata , Fabio Franzin
ha scelto di lavorare in fabbrica, da lì alimenta la sua poesia e
sa rendere poetico un posto che apparentemente non lo è (
o meglio dà valore all’essere umano , quello più fragile, più
Anno 2013 - N. 19
La Theka
Anno 2013 - N. 19
San Giacobin
Canzone Natalizia tramandata
di Nicolas Oppio
San Giacobìn stava sui monti e colà facea il pastore. Un
bell’angelo del Signore a lui venne ad annunziar e le disse
“oh Giacobìn vivi pur con gran contento, si avvicinerà un bel
momento, che il Signor ti vuol premiar. Tua moglie benché
vecchia pure avrà una bambinetta, la più bella fanciulletta
che abbia fatto il Creator. Appena sarà nata le porrai nome
Maria, sarà madre del Messia e sarà Cristo Salvator. Manda
presto il gran Messia ad annunciare tutti i profeti, manda
presto i grandi eletti che abbia un dì da partorir”.
Ricevuta da Nonna Teresa, canzone tramandata da Nonna
Orestina, vissuta nella seconda metà del 1800.
Corrado Giaquinto, Natività della Vergine e S. Manzio (1732).
Particolare.
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Sabato 25 gennaio 2014, ore 20.45
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La Theka
Anno 2013 - N. 19
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TESTIMONI DI SOCI E COMUNITA’:
E’ NATA LA CONSULTA DEI SOCI DELLA CASSA RURALE VALSUGANA E TESINO
Favorire la partecipazione mutualistica ed accrescere il legame tra banca e comunità locale: questi i due principali obiettivi della Consulta dei Soci
della Cassa Rurale Valsugana e Tesino, organo di nuova istituzione, riunitosi per la prima volta lo scorso 3 ottobre a Grigno.
La Consulta si pone come soggetto di raccordo tra la base sociale e la Cassa Rurale, con lo scopo di mantenere e rafforzare il legame con i Soci,
attraverso l’intervento di 26 interlocutori, espressione di tutte le zone di operatività della Cassa, che avranno il compito di proporre al Consiglio
di Amministrazione progetti ed iniziative in grado di elevare la qualità delle relazioni sociali.
La Consulta può essere vista come un “laboratorio di idee”, ossia come organo all’interno del quale dovranno trovare sintesi le esigenze espresse
dalla base sociale, da tradurre in proposte concrete da sottoporre al Consiglio di Amministrazione, che ne valuterà l’opportunità e la rilevanza,
in vista di un’eventuale approvazione.
Le ragioni della scelta della Cassa Rurale di istituire questo nuovo organismo risiedono sostanzialmente nella volontà di evitare che la notevole
estensione territoriale della Cassa (che, ricordiamo, opera in tre Province – Trento, Belluno, Vicenza – con 21 sportelli) implicasse una minore
attenzione al singolo socio o alla comunità locale nel suo complesso. Il fatto che i Soci possano fare riferimento ad un proprio referente di zona
(che fungerà da vero e proprio “testimone” delle istanze degli altri soci), per proporre iniziative di carattere sociale e culturale, rappresenta infatti
un passo in avanti nel processo di rafforzamento del legame mutualistico tra socio e Cassa.
L’attuale proposta sociale garantita dalla Cassa, presentata dall’ufficio relazioni esterne in occasione del primo incontro, rappresenterà per la
Consulta una base di partenza per l’individuazione di ulteriori iniziative ritenute in grado di incrementare l’efficacia dell’azione dell’istituto nei
confronti dei principali portatori di interessi.
I componenti della Consulta hanno espresso soddisfazione per la scelta della Cassa Rurale di prevedere un organo consultivo di raccordo tra
base sociale e Consiglio di Amministrazione, rimarcando come con la nascita del nuovo organo rappresenti un’opportunità per rilanciare con
entusiasmo tra i Soci lo spirito cooperativo che deve guidare le relazioni con la Cassa Rurale.
L’attuale crisi economica, infatti, non deve portare nei soci o nella comunità frustrazione o desolazione, bensì deve rappresentare l’occasione per
sviluppare nuove idee innovative che garantiscano, in presenza di risorse finanziarie fisiologicamente sempre più contenute, il pieno raggiungimento degli obiettivi sociali della Cassa Rurale.
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“Cereali”
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