poeti e scrittori nella grande guerra
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poeti e scrittori nella grande guerra
POETI E SCRITTORI NELLA GRANDE GUERRA Al di là delle date, del racconto dei fatti, della ricerca delle cause e delle conseguenze, insomma al di là della Macrostoria c’è la Microstoria di tutta quella umanità dolente alla quale hanno dato voce poeti e scrittori che hanno partecipato alla Grande Guerra per lo più come volontari, partiti carichi di ideali e scontratisi con la realtà cruda e crudele della guerra di trincea, dove il nemico sta a pochi metri, per cui se ne percepisce il respiro e talvolta se ne spiano i gesti della quotidianità, che lo fanno sentire stranamente simile a sé, non un nemico ma un essere umano. Così la scrittura è stata per Gadda Ungaretti Jahier e Lussu una valvola di sicurezza, dove convogliare sensazioni emozioni e riflessioni per non tenersele dentro, rischiando di impazzire. Il percorso che ho proposto alla 5^B del liceo scientifico parte tuttavia da due convinti interventisti quali Marinetti e D’Annunzio, l’uno tenacemente coerente nell’aderire alle varie guerre “sola igiene del mondo” che la politica italiana gli offriva nel corso della sua vita (da quella di Libia alla Seconda Guerra Mondiale, passando attraverso la Grande Guerra-l’impresa di Fiume-la Guerra d’Etiopia) l’altro partecipante ma interessato più al gesto provocatorio-audace-eclatante in linea con la sua visione superomistica. Di Marinetti si è letto in particolare il Manifesto del Futurismo, di D’Annunzio una pagina del Notturno, scritto dopo il ferimento all’occhio e durante la convalescenza vissuta in una forzata oscurità, tanto più grave per chi aveva nella scrittura la ragione di vita. Di Gadda, pienamente inserito nella tradizione letteraria lombarda (da Parini a Manzoni) si allegano alcune pagine del suo Giornale di guerra e di prigionia, scritto tra il 1915 e il 1919 e pubblicato 40 anni dopo nel 1955, a testimonianza di quanto sia stato faticoso per lui elaborare la partecipazione ad un avvenimento così carico di dolore e di lutti. I passi scelti, in cui emerge potente la sua scrittura puntigliosa-precisa-concreta e profondamente morale, evidenziano la sua visione della Grande Guerra, nello scarto tra ideali patriottici (anche Gadda partì volontario) e realtà quotidiana, tra nobili tensioni personali e mediocrità della truppa, criticata tanto quanto gli alti gradi dell’esercito, stigmatizzati invece per l’insensatezza delle decisioni. La stessa critica alle gerarchie militari, impreparate e vanagloriose, emerge secca e potente dalle pagine scelte da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu: dal punto di vista assolutamente personale di Gadda espresso in forma diaristica ad uno spaccato di vita in trincea dove prevalgono la coralità e la polifonia delle voci intrecciate. I fatti parlano da sé: nessun commento del narratore, nessuna tentazione esornativa. L’unico dato positivo in questa assurda carneficina è il senso di calda fraternità che si fa largo nella truppa, seppur proveniente dalle regioni più distanti da loro, diverse per storia per abitudini per dialetti. Eppure l’esperienza della morte sfiorata quotidianamente tra il rimbombare delle artiglierie e l’arcaicità del corpo a corpo accomuna uomini provenienti dal Nord dal Centro e dal Sud. Tematica affrontata allusivamente anche da De Roberto nel lungo racconto La paura. E ancora di condivisione e solidarietà tra i quadri intermedi della gerarchia militare e la truppa si parla nel testo Con me e con gli alpini di Piero Jahier, di cui si forniscono alcuni passi. Il percorso si chiude con la lettura e il commento di alcune poesie di Ungaretti, tratte dal Porto sepolto, poi ribattezzato Allegria di naufragi, poi ribattezzato L’allegria, dove il mutare dei titoli segue il percorso personale del poeta, che prima, nell’urgenza della guerra, compone il suo diario personale in forma poetica, scritto avventurosamente dove capita (cartoline-margini di giornalilettere familiari) e non destinato alla pubblicazione, poi pubblicato da un suo compagno col titolo Il porto sepolto, allusione alla leggenda del porto sepolto sotto Alessandria d’Egitto e quindi allo scavo compiuto dal poeta nella sua interiorità alla ricerca di un senso che vada oltre la contingenza miseranda; a quel primo nucleo il poeta aggiunge poi altri componimenti, variando due volte il titolo per documentare il suo progressivo distacco e superamento di quella esperienza così dolorosa. Le poesie lette e commentate insieme sono: Il porto sepolto, Commiato, Veglia, Fratelli, Sono una creatura, San Martino del Carso, Fratelli, I fiumi. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. MANIFESTO DEL FUTURISMO (1909) Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali. Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli! ... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, e le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. È dall'Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari. Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri. FILIPPO TOMMASO MARINETTI NOTTURNO (1916) Ho gli occhi bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi. Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata. Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta. Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura. I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato. Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte. La stanza è muta d′ogni luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata. Imparo un′arte nuova. Quando la dura sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m′assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell′azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d′un tratto esclusi dalla soglia nera, quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d′ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti. M′era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; né m′era possibile vincere l′antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell′arte che non vuole intermediarii o testimonii fra la materia e colui che la tratta. L′esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina. La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti. Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato. Sorrisi d′un sorriso che nessuno vide nell′ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume d′una lampada bassa. Ella deve avere il mento rischiarato come dal riverbero della sabbia cocente quando eravamo distesi l′uno accanto all′altra su la spiaggia pisana, nel tempo lieto. La carta fa un fruscio regolare che nella mia imaginazione evoca quello della risacca a piè delle tamerici e dei ginepri riarsi dal libeccio. Sotto la benda il fondo del mio occhio ferito fiammeggia come il meriggio estivo di Bocca d′Arno. Vedo la sabbia corrugata dal vento, rigata dall′onda. Posso noverare i granelli, affondarvi la mano, riempirmene la palma, lasciarli scorrere fra le dita. La fiamma cresce, la canicola infuria. La sabbia brilla nella mia visione come mica e quarzo. Mi abbarbaglia, mi dà la vertigine e il terrore, come il deserto libico quando quella mattina cavalcavo solo verso le tombe di Sakkarah. Non ho difesa di palpebre né altro schermo. Il tremendo ardore è sotto la mia fronte, inevitabile. /.../ GABRIELE D’ANNUNZIO GIORNALE DI GUERRA E DI PRIGIONIA (1915-19, pubblicato 1955) Canòve, 12 settembre 1916 Scrivo il mio diario stando seduto al mio tavolino, mio per modo di dire, nella mia stanza dell’Albergo del paradiso, le cui imposte ho chiuso accuratamente; al lume della lucernetta a petrolio che trovai qui appena venuto. Non sono mai stato al fronte tanto comodo. La sera è umidissima e fredda, avendo piovuto tutto il giorno. Ieri mi coricai verso la una di notte, dopo aver fatto parecchie ispezioni ai miei pezzi, dopo aver sparato parecchi colpi, e girato con Dellarole per le trincee di 2.ª linea, che né super giù la nostra. Vidi gli appostamenti delle altre sezioni; e degli appostamenti in costruzione; in genere però trincee deboli, fangose, non curate; soldati di fanteria al lavoro senza ufficiali, al comando di graduati o sergenti: lavoro non redditizio, lungo, fiacco, sbertolato. Era una magnifica luna, ma io ero stancuccio anzi che no. Stamane mi levai tardi, mi mutai di biancheria cospargendomi di naftalina perché durante la notte alcune infami pulci, prese non so dove, mi avevano tormentato. Durante il giorno proseguii nel mio lavoretto di schizzo delle posizioni, dormii un po’ con qualche crisi di scoraggiamento e di sconforto. Verso sera tali condizioni dell’animo migliorarono; non interamente però; apersi le poesie del Leopardi, che da parecchi giorni non guardavo. Scrissi a Letizia, alla mamma e a una sconosciuta corrispondente dell’Ufficio Centrale delle Notizie per militari (Bologna, via Farini 3) per ringraziarla dell’interessamento avuto pel soldato Noris Giuseppe, fratello del mio attendente, disperso a Monfalcone. Il mio spirito pur nell’abbattimento che lo coglie tratto tratto in questa sua solitudine, e nella tristezza dei ricordi d’infanzia e d’adolescenza che vengono a pungerlo come la visione d’un bene perduto, è illuminato talora dalle speranze dell’opera futura la quale gli pare oggi meno incerta che in certi giorni della pre-guerra; poiché se la possibilità della morte utile e bella rende precaria la possibilità del lavoro avvenire, tuttavia le ragioni interne di speranza sono aumentate notevolmente dal 1913 a questa parte. Il desiderio e la passione dello studio, dell’analisi e della indagine, della creazione conclusiva, del lavoro proficuo alla gloria della nazione e alla sua saggezza, sono cresciuti (nel senso puramente psicologico della parola, intesa come esuberanza di energia spirituale), la equilibrata norma del pensiero e della vita è un po’ aumentata. /.../ Talora, pensando alle modalità della presente guerra, da me sempre giudicata come una necessità, senza declamazioni filantropiche, e non per un concetto esclusivamente deterministico (il determinismo è una delle migliaia di norme del mio giudizio) ma anche secondo il concetto dello “sviluppo storico” così detto, e anche secondo l’altro della “lotta per vivere”, e secondo un altro ancora della “brama tedesca” ecc. ecc.; talora vedo in questa guerra un pervertimento di alcuni valori, che ormai sembravano conquiste sicure dell’umanità, il quale segni oscuramento e decadimento. Il giudizio in questo senso è però tutt’altro che definitivo. /.../ Ma sul nostro fronte (parlo di quello della detta Brigata) siamo anche con una linea intera sulla destra (riva settentrionale dell’Assa) sotto le posizioni nemiche. Questa linea, mentre non ha un grande valore tattico in guerra difensiva, ché anzi espone la guarnigione al lancio di bombe dall’alto per parte degli austriaci, può servire però come approccio: inoltre sorveglia meglio le eventuali pattuglie nemiche ed è sempre un più diretto contatto col nemico: ed io credo che, salvo eccezioni, nella guerra moderna il contatto strettissimo col nemico sia sempre un vantaggio: esso impedisce bombardamenti con grossi calibri delle artiglierie nemiche, possibilità di escavazioni sotterranee e mine improvvise, ecc. Si può sorvegliare più da vicino i preliminari tattici di un attacco (rumori, trasporti, ecc.: distribuzioni di bombe fra gli attaccanti, ecc.); e inoltre (e questo è un vantaggio enorme, specie per noi italiani, facili alla trascuratezza) il contatto massimo costringe a lavori di apprestamento a difesa serii ed intensi, a una sorveglianza notturno seria ed efficace, perché chi ha in gioco la pelle dorme meno (non dico: non dorme del tutto). 25 ottobre 1917 Lasciammo la linea dopo averla vigiliata e mantenuta il 25 pttobre 1917 dopo le tre, essendo venuto l’ordine di ritirata. Portammo con noi tutte le quattro mitragliatrici, dal Krasjj all’Isonzo, a prezzo di estrema fatica. All’Isonzo, mentre invano cercavamo di passarlo, fummo fatti prigionieri. La fila di soldati sulla strada d’oltre Isonzo: li credo rinforzi italiani. Sono tedeschi! Gli orrori spirituali della giornata (artiglierie abbandonate, mitragliatrici fracassate, ecc.). Io guastai le mie due armi. A sera la marcia faticosissima fino a Tolmino ed oltre, per luoghi ignoti. Celle Lager, 31 luglio 1918 Il colonnello Cassito (capo blocco), e il generale Fochetti, di cui Tecchi è l’ufficiale d’ordinanza, ci hanno spesso onorato della loro presenza. In quei momenti un’allegria fittizia, ma sincera e cordiale, s’impadronisce dei più: è impossibile costringere la vita di tutti in un cerchio di dolore, tanto più che il dolore ha cause, manifestazioni e gradazioni diversissime nei vari individui; chi soffre per la moglie e i figli, chi per gli interessi rotolati a catafascio, chi perché non ha viveri, ecc. ecc. Invece la serenità famigliare è un fattore comune dello spirito, in certi momenti avidamente cercato. Mentre nel dolore non ci comprendiamo, (io sento di odiare chi soffre per la mancanza della vita comoda e quieta; e questi se sapessere ch’io soffro di manìa guerriera, mi odierebbero), la gioia moderata d’un’ora tranquilla ci avvicina e ci accomuna. /.../ Ultima e ignobile attività dei baraccani, dico ignobile nel senso bonario, è la manìa poetica che ha tutti colpiti coloro che si trovano nella immediata possibilità di far versi. Da questa possibilità io sono escluso, perché la mia paralisi spirituale me lo vieta in modo assoluto: già tanta difficoltà trovai nei momenti più felici e più intensi di vita; ora ogni attitudine è scomparsa, come è scomparsa la fierezza interiore, ecc. Si leggono così sonetti, motivi vecchi e nuovi, futurismo, roba carducciana, satire sulle poesie altrui, satire sulle satire, poesie dei satirici, traduzioni dal francese, ecc. ecc. ecc./.../ Ringrazio Dio con l’anima, d’avermi dato questo soccorso nell’orrore; di non aver voluto aggiungere alla sventura il martirio della “compagnia malvagia e scempia”, che tanto mi gravò le spalle nella mia vita militare; d’avermi dato il conforto di compagni buoni, onesti, intelligenti, sani, il cui ricordo non mi sarà doloroso e amaro; le loro varie buone qualiltà, che in alcuni sono ferme virtù, mi conducono anche ad umiliarmi della mia ignavia, della mia debolezza contro il dolore, della mia meschinità fisica, della mia ipersensibilità, del mio chiuso orgoglio. D’altra parte mi cresce l’odio livido, immoderato, senza fine in eterno, contro i cani assassini che hanno consegnato al nemico tanta parte della patria, tanti dei loro, tanti anni della nostra vita: contro quei cani porci con cui mi fu d’uopo litigare in treno, negli orrendi giorni del primo novembre, affinché non cantassero, mentre i tedeschi invadevano il Veneto, che essi avevano loro messo nelle mani. Cani, vili, che mi hanno lacerato e insultato, possano morir tisici, di fame: sarebbe poco. Ne conosco alcuni: se li vedessi morire riderei di gioia. Li odio ben più dei tedeschi; vorrei essere un dittatore per mandarli al patibolo. CARLO EMILIO GADDA UN ANNO SULL’ALTIPIANO Alla fine maggio 1916, la mia brigata – reggimenti 399° e 400° – stava ancora sul Carso. Sin dall'inizio della guerra, essa aveva combattuto solo su quel fronte. Per noi, era ormai diventato insopportabile. Ogni palmo di terra ci ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto. Non avevamo fatto altro che conquistare trincee, trincee e trincee. Dopo quella dei "gatti rossi", era venuta quella dei "gatti neri", poi quella dei "gatti verdi". Ma la situazione era sempre la stessa. Presa una trincea, bisognava conquistarne un'altra. Trieste era sempre là, di fronte al golfo, alla stessa distanza, stanca. La nostra artiglieria non vi aveva voluto tirare un sol colpo. Il duca d'Aosta, nostro comandante d'armata, la citava ogni volta, negli ordini del giorno e nei discorsi, per animare i combattenti. (incipit) -Vino- dissi io- e non cognac. -Già- osservò- è curioso. E’ veramente curioso. Né nell’Odissea né nell’Iliade, v’è traccia di liquori. -Te lo immagini- dissi- Diomede che si beve una buona borraccia di cognac, prima di uscire in pattuglia? Noi avevamo un piede su Troia e un piede sull’Altipiano d’Asiago. Io vedo ancora il mio buon amico, con un sorriso di bontà scettica, tirare, da una tasca interna della giubba, un grande astuccio di acciaio ossidato, copri cuore di guerra, e offrirmi una sigaretta. Io l’accettai e accesi la sua sigaretta e la mia. Egli sorrideva sempre, pensando alla risposta. -Tuttavia... E ripeté, dopo una boccata di fumo: -Tuttavia... se Ettore avesse bevuto del buon cognac, forse Achille avrebbe avuto del filo da torcere... Anch’io rividi, per un attimo, Ettore fermarsi, dopo quella fuga affrettata e non del tutto giustificata, sotto lo sguardo dei suoi concittadini,spettatori sulle mura, slacciarsi dal cinturone di cuoio ricamato in oro, dono di Andromaca, un’elegante borraccia di cognac, e bere, in faccia ad Achille. Io ho dimenticato molte cose della guerra, ma non dimenticherò mai quel momento. Guardavo il mio amico sorridere, fra una boccata di fumo e un’altra. Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Egli piegò la testa, la sigaretta tra le labbra e, da una macchia rossa, formatasi sulla fronte, sgorgò un filo di sangue. Lentamente egli piegò su se stesso, e cadde ai miei piedi. Io lo raccolsi morto. (cap. XI) Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara e il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io ti uccido” è un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra cosa. (c.XIX) Gli ufficiali trattenevano il respiro. Non Avevano sentito le parole dell'aiutante maggiore, ma, dalle mie risposte, avevano capito tutto. Muti, mi guardavano negli occhi, con un'espressione di angoscia. il tenente di cavalleria riempì il bicchiere e disse: – Beviamo alla Bainsizza! – I colleghi l'imitarono. L'offensiva sulla Bainsizza! La guerra ricominciava. (explicit) EMILIO LUSSU CON ME E CON GLI ALPINI (1919) Altri morirà per la Storia d'Italia volentieri e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita, Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno che non sa perché va a morire popolo che muore in guerra "perché mi vuole bene" "per me" nei suoi sessanta uomini comandati siccome è il giorno che tocca morire. Sotto le coperte non si conosce miseria. /.../ CRITICANO perché sto tanto coi soldati. Anche dopo l'orario. Ma questi son soldati che migliorano i superiori. E’ per migliorarmi che sto con loro. Cerco di farmi a questa virile rassegnazione. A questa allegra bravura. Eppoi, l'assistenza vera comincia dopo l'orario, fuori di disciplina. Questa è assistenza d'amore. Questa sola sarà creduta. Dunque - quando l'esercizio è finito - vado a sentir cosa pensano in camerata. Scherzo sul loro piccolo bucato. Mi interesso alla scarpa slabbrata; alla lettera che doveva arrivare. Strizzo il foruncolo nero. /.../ SCARPE Stando più basso di loro che mi circondano seduti sul declivio, vedo luccicar le brocche delle cento scarpe ferrate. Attacco a parlar scarpe, allora. Pochi han serbato le proprie. Avevano la moglie o il padre a cui doverle passare; erano scarpe aspettate. Eppoi son stati tentati dalle scarpe nuove che dà la patria. La patria - che è tanto potente - avrà certo preparato scarpe migliori del loro ciabattino. Ma quelli che han confidato nella patria si sono sbagliati; quelli che confidavano nel ciabattino han fatto bene. Levano il piede asciutto di dentro l'onesta scarpa puntuta del montanaro, tomaia arcuata su cui scivola l'acqua, suola che non sporge ETICA DEL MONTANARO Nessuno marca visita:/ odiano la malattia che non lascia servire/ perché nella montagna chi non è forte è un disgraziato./E si vergognano di esser malati/ per quell'oscuro senso dell'uomo sano,/ che veramente vi è una responsabilità della malattia:/ che alla base della malattia sta sempre il peccato./Nessuna malattia venerea tra loro/ perché l'amore al montanaro è una stagione di vita./ E la sua fine è nel frutto, che sono i figlioli./Dopo moroso tu sarai padre. /E tutti ti chiamano pare. Dopo morosa tu sarai madre. /E tutti ti chiamano mare./È franco l'amore nella montagna. PIERO JAHIER Il percorso proposto è accompagnato da una presentazione in Prezi di cui si fornisce il link: http://prezi.com/knqund5izsnn in cui sono presenti anche due sequenze filmiche: quella finale tratta da La grande guerra di Mario Monicelli, film del 1959 dove il regista, mescolando e fondendo tragedia e commedia, ripropone in grandi quadri d’insieme e in piccole sequenze focalizzate sulla quotidianità dei due protagonisti, Alberto Sordi e Vittorio Gassman, tutte le tematiche emerse nei testi precedentemente analizzati, a cui la sceneggiatura del film si ispira; e inoltre alcune sequenze di Uomini contro, la rilettura esasperata e provocatoria del romanzo di Lussu fatta dal regista Francesco Rosi nel