Il Trattato di Lisbona: fine di una crisi?
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Il Trattato di Lisbona: fine di una crisi?
Antonio Villafranca N. 63 - OTTOBRE 2007 Il Trattato di Lisbona: fine di una crisi? Il vertice di Lisbona del 18-19 ottobre si è chiuso con l’accordo sul nuovo Trattato dell’Unione europea. Si tratta della fine di un lungo processo iniziato nel dicembre del 2001 con la Dichiarazione di Laeken sul riordino e sulla semplificazione dei Trattati, passato attraverso i lavori della Convenzione sul futuro dell’Unione e sfociato nel definitivo abbandono del progetto di Costituzione europea. trova a fronteggiare già oggi? Per rispondere a tale domanda bisogna interrogarsi su quali siano non solo gli ambiti “formali” della crisi, ma anche le sue cause più profonde. Punto di partenza dell’analisi non può che essere la lettura delle principali innovazioni del nuovo Trattato, per poi verificarne l’adeguatezza rispetto alle sfide dell’Unione. Il Presidente di turno dell’Unione, il portoghese Sócrates, non ha nascosto la propria soddisfazione affermando che l’Unione è uscita da un vicolo cieco e ha finalmente voltato pagina. La stessa soddisfazione poteva essere letta sui volti degli altri leader europei che solo a tarda notte avevano raggiunto un compromesso che, almeno all’apparenza, sembrava accontentare tutti. Il processo di integrazione comunitaria può ripartire grazie a un nuovo Trattato e l’Unione europea sembra finalmente fuori dalla crisi. Questo almeno è quanto sembra emerge da una prima lettura del vertice di Lisbona e dalle dichiarazioni dei leader europei. Un Trattato “quasi” nuovo Ma siamo davvero certi che il nuovo Trattato sarà in grado di rispondere alle grandi sfide – prime fra tutte quelle della globalizzazione dei mercati e della sicurezza internazionale – che l’Unione europea si Diversamente da quanto si proponeva il Trattato di Costituzione europea, il Trattato di Lisbona non sostituisce in toto i vecchi Trattati ma si limita a modificarli. In particolare tali modifiche riguardano il Trattato sull’Unione europea (l’originario Trattato di Maastricht), che mantiene il proprio nome, e il Trattato che istituisce la Comunità europea (ovvero il Trattato di Roma), che diventa il Trattato sul funzionamento dell’Unione. L’abbandono del progetto costituzionale porta con sé anche la cancellazione dal testo di quegli elementi che avevano un più forte significato simbolico (bandiera, inno e motto). Eppure guardando al contenuto delle modifiche, esse in gran parte originano proprio dal testo della Costituzione europea, per cui non si può dire che il lavoro della Convenzione e le successive ed estenuanti Sintesi Dopo una lunga fase di negoziazione, i 27 paesi membri dell’Ue hanno finalmente raggiunto l’accordo su un nuovo Trattato, che chiude la sfortunata fase di costituzionalizzazione dell’Unione. Alcuni paesi, come la Polonia e la Gran Bretagna, hanno insistito per ottenere importanti concessioni, mentre altri paesi hanno assunto un profilo più accomodante teso alla ricerca del compromesso. Almeno formalmente, il periodo di crisi dell’Ue sembra alle spalle. Importanti modifiche istituzionali – prima fra tutte il sistema di voto a maggioranza in Consiglio e la nomina del Presidente dell’Unione – promettono un’Europa capace di velocizzare il proprio iter legislativo ed essere più visibile a livello internazionale. A prescindere però dal piano formale, la crisi dell’Unione non sembra potersi dire conclusa. Tale crisi ha infatti una natura composita (essendo al contempo una crisi economica, di leadership, di identità e di identificazione) che difficilmente può trovare risposte adeguate nel Trattato di Lisbona. Il processo di riforma dell’Unione europea non può dirsi concluso con il nuovo Trattato. Si impone una ulteriore riflessione sull’efficacia dell’azione comunitaria e sulla concreta possibilità di avanzare sempre e comunque con 27 paesi membri. negoziazioni intergovernative siano andate perdute. Lo sforzo maggiore è stato indubbiamente fatto sulla struttura istituzionale dell’Unione, ritenuta giustamente inadeguata per un’Europa che ha già 27 paesi membri e alle cui porte bussano altri paesi (primi fra tutti Croazia, Macedonia e Turchia, che hanno lo status di paesi candidati). In quest’ambito si registrano quindi le innovazioni più importanti che meritano di essere approfondite. L’Unione europea avrà anzitutto un Presidente che la rappresenterà all’esterno e che rimarrà in carica per circa 2 anni e mezzo (con un mandato rinnovabile una sola volta). Si pone dunque fine alla laboriosa rotazione semestrale per fare spazio ad un’altra figura istituzionale che entrerà in carica entro giugno del 2008. I giochi per l’individuazione di questa nuova figura sono già aperti e si intravedono i primi candidati. La scorsa settimana, alla fine di una cena con il premier britannico Brown, il Presidente Sarkozy ha affermato che Blair rappresenta il più europeista dei britannici, supportando implicitamente la candidatura dell’attuale Rappresentante speciale del Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) per il Medio Oriente. Ma stanno emergendo anche altre candidature, come il leader lussemburghese (capo dell’Eurogruppo) Jean Claude Juncker o quello danese Anders Fogh Rasmussen. L’altra importante figura istituzionale prevista dal Trattato è l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza che sostituisce la più evocativa figura del Ministro degli esteri, prevista dal testo di Costituzione europea ma invisa ad alcuni paesi (prima fra tutti la Gran Bretagna). Il nuovo Alto Rappresentante avrà alcuni poteri in più rispetto a Javier Solana, essendo anche Vice Presidente della Commissione e potendo contare su un servizio europeo per l’azione esterna di cui faranno parte diplomatici dei vari paesi europei e funzionari delle Istituzioni comunitarie. Questa nuova figura dovrebbe essere nominata dopo l’entrata in vigore del Trattato 1 , anche se logica vorrebbe che tale nomina avvenisse contemporaneamente a quella della nuova Commissione europea prevista per l’autunno del 2009. Altre significative innovazioni riguardano la Commissione, in cui non siederà più un rappresentante per ogni paese membro ma un numero di membri che sarà pari a due terzi del numero degli Stati (ma solo a partire dal novembre del 2014). Riguardo al Parlamento europeo, esso sarà composto da 750 membri (e non da 736 come prevedeva originariamente la bozza di Costituzione preparata dalla Convenzione) e beneficerà di un ulteriore ampliamento dei campi in cui la codecisione viene applicata. Altre disposizioni riguardano inoltre le cooperazioni rafforzate (attivabili da un minimo di 9 paesi membri) e il ruolo dei Parlamenti nazionali nel controllo del sussidiarietà 2 . principio di Ma senza alcun dubbio l’accordo più importante riguarda il meccanismo di voto in seno al Consiglio. Esso merita particolare attenzione perché proprio a causa sua si erano più volte arenati i vertici europei degli ultimi anni. Il Presidente polacco Kaczyński ha minacciato di far saltare l’accordo anche lo scorso giugno sotto presidenza tedesca e lo stesso ha fatto durante il vertice di Lisbona. Il suo assenso è arrivato solo dopo aver ottenuto significative concessioni (che vedremo più avanti). L’intransigente atteggiamento polacco si era in un primo tempo aggiunto alla ferma opposizione da parte della Spagna. Tale opposizione aveva delle precise motivazioni risalenti al vertice di Nizza del 2000. In quell’occasione i leader europei, coerentemente con quanto richiesto dal Trattato di Amsterdam, avevano il difficile compito di riponderare i voti dei paesi membri in Consiglio in vista dei futuri allargamenti. Anche quel vertice si era concluso a notte fonda ma con un risultato non certo entusiasmante sul sistema di voto, tranne che per Josè Maria Aznar. L’ex premier spagnolo aveva infatti chiesto con forza, e ottenuto, che la Spagna contasse di più in Europa facendosi così riconoscere 27 voti rispetto ai 29 voti dei 4 paesi grandi (Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia). In altri 1 Si veda Art. 6 del Protocollo n. 10 sulle disposizioni transitorie al progetto di Trattato che modifica il Trattato sull’Ue e il Trattato che istituisce la Comunità europea. 2 Si vedano al riguardo Art. 6 e successivi del Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. termini mentre la media di riponderazione dei voti di tutti i paesi europei era stata del 175%, la Spagna aveva potuto contare su un ragguardevole 225% (ottenendo quello che sarà chiamato il “bonus Aznar”). All’indomani della sua adesione all’Ue, la Polonia era stata posta sullo stesso piano della Spagna e quindi anch’essa beneficiava del “bonus” spagnolo. È proprio questa l’origine della sua intransigenza. I nuovi meccanismi di voti previsti dalla Costituzione europea, e adottati dal nuovo Trattato, cancellano il sistema dei voti in Consiglio, annullando di fatto il “bonus” e dando così avvio alla minaccia polacca di porre il veto sulla riforma del sistema di voto. Ma dopo l’attentato terroristico a Madrid e il cambio di governo, la Spagna aveva mutato atteggiamento aprendo al negoziato sulla Costituzione europea (e addirittura ratificandola tramite referendum nel 2005). La Polonia rimaneva così isolata nella sua ferma opposizione alla riforma del sistema di voto. Eppure tale riforma era assolutamente necessaria, perché l’uso del macchinoso e quasi incomprensibile meccanismo previsto a Nizza (il calcolo di una triplice soglia che tiene conto dei voti in Consiglio, della popolazione europea e del numero dei paesi membri) pone in serio rischio la produzione legislativa dell’Unione. Sotto le regole di Nizza infatti l’efficienza del Consiglio, espresso in termini di probabilità di approvazione di una qualsiasi proposta, è di circa il 2% 3 . Un dato del genere appare certamente preoccupante non tanto – come avevano temuto diversi osservatori all’indomani del vertice di Nizza – perché rischia di bloccare l’iter legislativo dell’Unione, quanto perché la “qualità” della produzione legislativa europea può risultarne compromessa. La difficoltà di raggiungere la maggioranza qualificata in Consiglio può generare infatti un pericoloso “gioco al ribasso” a causa del quale la Commissione è indotta ad avviare iniziative legislative il cui contenuto deve già rappresentare la sintesi di alcuni compromessi per poter poi avere delle serie chances di essere approvato dal Consiglio. Se la Commissione non assume tale atteggiamento il rischio che si corre è quello di un iter legislativo molto lungo (che, come nel caso della direttiva Bolkestein, può anche durare alcuni anni) il cui esito non potrà che frustrare le più alte aspettative della Commissione. Il Trattato di Lisbona prevede di prendere in considerazione il numero dei paesi membri (55%) e la popolazione europea (65%) riuscendo così nell’intento di riportare l’efficienza del Consiglio su un più accettabile 13% che dovrebbe attenuare fortemente il rischio del “gioco al ribasso”. Ma la dinamica negoziale delle Conferenze intergovernative e l’intransigenza polacca ha fatto sì che l’applicazione del nuovo meccanismo di voto fosse posticipato al 2014 (e non al 3 Si veda al riguardo BALDWIN, BERGÖF, GIAVAZZI, WIDGRÉN, Quale Europa, gennaio 2002, Ube. 2009 come prevedeva la Costituzione europea) e che fino al 2017 un paese possa richiedere la verifica della maggioranza secondo le regole di Nizza. La Polonia appare dunque come uno dei paesi che ha più influito sulla negoziazione riguardante la nuova struttura istituzionale dell’Unione. Vincitori e vinti Il Trattato di Lisbona contiene così tanti “opt-out”, “opt-in”, protocolli, dichiarazioni da risultare un testo estremamente complesso e di difficile comprensione anche per gli addetti ai lavori. Se si voleva semplificare i Trattati e renderli più comprensibili ai cittadini, il risultato va certamente nella direzione opposta. Al confronto il lungo e tedioso testo di Costituzione europea (che, come ricordato, sostituiva e non modificava i Trattati) brillava per semplicità. Tale complessità non può comunque sorprendere dato che è frutto delle continue richieste, delle pause di riflessione e dei compromessi ricercati negli ultimi anni. Come già anticipato, alcuni paesi si sono contraddistinti per la fermezza delle proprie posizioni a cui sono seguite continue concessioni da parte degli altri membri. A prima vista questi paesi (tra cui vanno certamente ricompresi la Polonia e la Gran Bretagna) sembrano i vincitori delle negoziazioni. La posizione della Polonia era certamente molto chiara e, come detto sopra, si concentrava principalmente sul sistema di voto. Già a giugno il Pre- sidente Kaczyński aveva ottenuto la dilazione del sistema di voto e la scorsa settimana si è visto confermare anche la possibilità di porre in “stand-by” una decisione già approvata dal Consiglio nel caso in cui la maggioranza risulti risicata (seguendo l’esempio del cosiddetto “compromesso di Ioannina”). È peraltro evidente l’interesse polacco a non cedere sul proprio potere almeno fino ai negoziati sulle prossime prospettive finanziarie dell’Unione. Inoltre il Presidente Lech Kaczyński ha ottenuto l’aumento del numero degli avvocati generali della Corte di giustizia europea (che passano da 8 a 11) assicurando così l’inserimento di un proprio rappresentante permanente (che si aggiunge a quello di Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna). La vittoria del liberale Donald Tusk sul premier Jarosław Kaczyński alle elezioni del 21 ottobre testimonia però la propensione del popolo polacco verso una più piena e meno conflittuale partecipazione all’Unione europea. Questa esperienza stimola in ogni caso delle riflessioni sul processo di allargamento. Malgrado sia indubbiamente inutile mettere in discussione i processi di allargamento passati e futuri, è tuttavia essenziale rendersi conto che non tutti gli allargamenti hanno lo stesso peso specifico e che non basta chiedere ai paesi candidati il rispetto dei criteri di Copenhagen, ma bisogna prevedere ex ante adeguate modifiche all’interno del- l’Unione (soprattutto quando si procede all’adesione di paesi di grandi dimensioni). Dello stesso tenore sono state le rivendicazioni da parte dei britannici. Non è un caso che in una conferenza stampa il premier Brown abbia ripetuto “interesse nazionale” ben 19 volte. Le conseguenze delle “red lines” britanniche sono evidenti. Anzitutto gli inglesi non rinunciano all’unanimità in alcuni campi fondamentali come la politica estera (in cui non potrà neanche essere prevista la figura del Ministro degli esteri), la sicurezza sociale e il fisco. Inoltre la Carta dei diritti fondamentali non sarà inclusa nei Trattati (come avveniva invece con la Costituzione europea), anche se avrà lo stesso valore giuridico dei Trattati (ma la Gran Bretagna e la Polonia hanno ottenuto al riguardo un “opt-out”). Anche in tema di cooperazione giudiziaria la Gran Bretagna rappresenta una eccezione, riservandosi il potere di decidere in seguito se aderirvi oppure no. Secondo il premier Gordon Brown con Lisbona è finita l’era delle riforme istituzionali. Inoltre – sempre secondo Brown – il Trattato presenta così tante clausole di salvaguardia per la Gran Bretagna (e per la sua concezione dell’Ue) che non sarà necessario procedere alla ratifica mediante referendum. Eppure pensare alla Gran Bretagna – e a Brown in particolare – come ad un grande vincitore di Lisbona rischia di essere fuorviante nella misura in cui non si tiene adeguatamente conto delle difficoltà che Brown incontrerà in patria. William Hague, portavoce sulla politica estera dei conservatori, ha già affermato che gli “opt-out” britannici saranno così facili da aggirare da ricordargli la linea Maginot rispetto ai panzer tedeschi. Anche all’interno del suo stesso partito Brown dovrà affrontare diverse resistenze legate al suo cambio di rotta rispetto alla Costituzione europea (per la quale Brown aveva sempre richiesto il passaggio referendario) 4 . I risultati britannici a livello europeo vanno quindi riletti alla luce delle difficoltà riscontrabili all’interno del paese. Meno problematica appare invece la situazione francese. In campagna elettorale la posizione di Sarkozy era opposta a quella della Royal e si basava sul rifiuto di prevedere un nuovo referendum francese sulla Costituzione europea. Tale rifiuto si traduceva in una bocciatura definitiva della Carta costituzionale. La presidenza tedesca dello scorso semestre aveva dovuto prendere atto di tale indisponibilità e optare per un Trattato meno ambizioso che rispecchiasse la promessa fatta da Sarkozy ai propri elettori. Indicativo è anche il rifiuto francese di includere nel testo del Trattato un preciso riferimento alla concorrenza tra le finalità dell’Unione (riferimento recuperato, su iniziativa italiana, nel Protocollo n. 6). A 4 In un sondaggio condotto tra il 3 e il 15 ottobre dal Financial Times/Harris è emerso che oltre il 75% dei britannici vorrebbero un referendum sul nuovo Trattato e che il 51% pensa che esso avrà un impatto negativo sulla Ue (malgrado il 61% ammetta di non sapere molto sul Trattato stesso). prescindere dal carattere simbolico di tale riferimento, ciò che conta è la visione francese del mercato unico in cui c’è evidentemente ancora spazio per i “campioni nazionali” e per un atteggiamento protezionista da parte dello Stato. La soddisfazione francese è evidente e può essere sintetizzata nella dichiarazione del Presidente Sarkozy di voler far approvare dal Parlamento francese il Trattato di Lisbona entro dicembre. La Francia è stato il paese che più di tutti ha contribuito a cancellare la Costituzione europea e adesso vuole dare il forte segnale di essere il paese che per primo (o tra i primi) approva il testo che contiene il placet del suo Presidente. Diversa è la posizione della Germania. Dopo il “periodo di riflessione” le speranze per risolvere il puzzle costituzionale dell’Europa erano state riversate sul semestre di presidenza tedesco. Va riconosciuto alla cancelliera Merkel il merito di aver compito ogni sforzo per raggiungere un accordo in realtà per nulla scontato. D’altra parte nella nuova struttura istituzionale dell’Unione la Germania – il paese più popoloso dell’Ue – vedrà crescere il proprio potere in Consiglio grazie all’applicazione del nuovo sistema di voto (in cui proprio la popolazione rappresenta uno dei due criteri per il calcolo della maggioranza). Infine l’Italia, senza distinzione di colorazione politica, è sempre stata tra i maggiori sostenitori della Costituzione europea. La strategia negoziale ha ricalcato il tradizio- nale approccio italiano in Europa teso al raggiungimento del compromesso (in questo senso unendo lo scorso semestre i propri sforzi soprattutto a quelli dei tedeschi). La più vistosa rivendicazione italiana al vertice di Lisbona – invero non molto ambiziosa – ha riguardato il numero dei seggi al Parlamento europeo. La soluzione è stata trovata in extremis, ma forse ci si poteva adoperare di più prima che lo scorso 10 ottobre lo stesso Parlamento europeo si esprimesse al riguardo. Il risultato è che l’Italia ha ottenuto a Lisbona 73 seggi, perdendo così la parità con la Francia (che si è rifiutata di cederne uno), ma mantenendo la parità con la Gran Bretagna. Conclusioni: fuori dalla crisi? Per rispondere alla domanda che ci si è posti all’inizio, bisogna ovviamente capire cosa si intenda per crisi dell’Unione. Il no francese e olandese aveva formalmente aperto il periodo di crisi. Essa può dunque – sempre sul piano formale – considerarsi chiusa con l’accordo sul Trattato di Lisbona. È però molto più importante interrogarsi sulla natura di questa crisi che, sul piano sostanziale, ha natura composita. Tale crisi riguarda infatti il campo economico (basti osservare le basse prospettive di crescita dell’Unione nel suo complesso rispetto alle altre aree del mondo), ma è anche una crisi di leadership (chi conta davvero in Europa?), una crisi di identità (quali sono gli elementi politico-culturali che caratterizzano l’Unione europea, al di là dello sterile criterio geografico?) e di identificazione (dei cittadini europei dalle “lontane” Istituzioni di Bruxelles). Rispetto a questa natura composita della crisi il Trattato di Lisbona non fornisce risposte adeguate. I cittadini europei avvertono un crescente senso di insicurezza sul proprio presente e, in misura ancora maggiore, sul proprio futuro che sembrano però non incidere sul Trattato. In altri termini la questione può essere posta su un piano molto più concreto che cerchi di capire – seguendo una provocazione dell’Economist – a cosa serva l’Unione e quale apporto essa dia in vari campi (a partire dall’economia e dalla sicurezza internazionale). Sul piano della presenza internazionale dell’Unione la questione non è tanto il nome da attribuire al responsabile della politica estera, quanto piuttosto quali concreti poteri affidargli. Ma tali poteri non potranno mai arrivare se in seno al Consiglio non si realizza un passaggio – seppur graduale – verso la maggioranza qualificata. L’incapacità dell’Unione di gestire la propria politica estera rischia inoltre di avere forti ripercussioni sul processo di allargamento. Non essendo infatti in grado di utilizzare efficacemente gli strumenti tipici della politica estera nel controllare anche i conflitti e le tensioni alle proprie porte, l’Unione si ritrova con l’unica alternativa possibile – di antico gusto “imperiale” – rappresentata dalla internalizzazione dei problemi, ovvero dalla continua “annessione” di nuovi paesi. Ma i successivi allargamenti – soprattutto verso paesi di maggiori dimensioni – rischiano di riaprire la questione dell’efficienza della macchina comunitaria e di rimettere in discussione l’accordo di Lisbona. Riguardo al campo economico (che peraltro è quello su cui più ampie sono le competenze attribuite all’Unione e su cui quindi in misura maggiore dovranno misurarsi i suoi successi) molto rimane ancora da fare. Rimangono infatti ancora senza risposta i dubbi sul coordinamento delle politiche fiscali (soprattutto all’interno dell’Eurozona), sulle politiche di bilancio (da rivedere sia dal lato delle entrate che da quello delle uscite) 5 , sulle politiche energetiche (la loro inclusione tra le politiche concorrenti dell’Unione 6 rappresentano solo un primo passo per riformare la sicurezza dell’approvvigionamento europeo e accrescere la rappresentanza esterna dell’Unione). Per concludere si può dunque dire che il Trattato va accolto 5 Si veda S. DULLIEN, D. SCWARZER, Thinking big in small steps: How to bridge the gap between economic and political requirements and the current practice in the EU budget, Paper n. 6, Eegm, www.eegm.eu. 6 Si veda l’Art. 4 del Titolo I del nuovo Trattato secondo cui l’Unione ha competenza concorrente con quella degli Stati membri in materia di energia e l’Art. 176 A del Titolo X che fissa gli obiettivi principali della politica energetica (rispetto alla Costituzione europea viene aggiunta la promozione dell’interconnessione delle reti energetiche). positivamente nella misura in cui ha sbloccato una impasse che si protraeva ormai da troppo tempo. Ciò tuttavia non permette di poter affermare che le cause che stanno dietro la crisi dell’Unione siano state risolte. Per affrontare pienamente queste ultime non sarà sufficiente, come si è limitato a dire il premier Brown, dare definitivamente per chiuse le questioni istituzionali e concentrarsi sulla concorrenza e sulla globalizzazione. Le grandi sfide che attendono l’Unione impongono una serena riflessione che riconosca, senza ipocrisia e inutili idealismi, i limiti di una negoziazione con 27 o più paesi membri 7 e che non abbia timore di dare eventuale applicazione all’Art. 35 del nuovo Trattato che prevede la possibilità per un paese di recedere dall’Unione. Bisognerà in definitiva individuare nuove soluzioni – probabilmente all’interno di una configurazione a “geometrie variabili” – che, da un lato, non cancellino l’importanza dello stare insieme e, dall’altro, permettano ad alcuni paesi (a partire dal “nocciolo duro” dell’Eurozona) di spingere il processo di integrazione ben più avanti di quanto oggi non preveda il Trattato di Lisbona. Global Watch, l’osservatorio sulle opportunità globali costituito da ISPI e Università Bocconi, monitora aree geopolitiche e geoeconomiche di particolare interesse per l'Italia. Global Watch è strutturato in quattro Osservatori, dedicati a: 9 Europa 9 Politica europea di vicinato 9 Cina/Focus China 9 Sicurezza e studi strategici Il lavoro degli Osservatori è affiancato da alcuni Programmi di ricerca: 9 Turchia 9 Paesi del Golfo 9 Caucaso e Asia centrale 9 Argentina 9 Diritti umani Global Watch ISPI Palazzo Clerici Via Clerici, 5 I - 20121 Milano www.ispionline.it Per informazioni: [email protected] [email protected] © ISPI 2007 7 Sulle difficoltà negoziali si veda F. PASSARELLI, Diversity and decision rules, Paper n. 5, Eegm, www.eegm.eu.