Il Trattato di Lisbona: fine di una crisi?

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Il Trattato di Lisbona: fine di una crisi?
Antonio Villafranca
N. 63 - OTTOBRE 2007
Il Trattato di Lisbona: fine di una crisi?
Il vertice di Lisbona del 18-19
ottobre si è chiuso con
l’accordo sul nuovo Trattato
dell’Unione europea. Si tratta
della fine di un lungo
processo iniziato nel dicembre
del 2001 con la Dichiarazione
di Laeken sul riordino e sulla
semplificazione dei Trattati,
passato attraverso i lavori
della Convenzione sul futuro
dell’Unione e sfociato nel
definitivo
abbandono
del
progetto
di
Costituzione
europea.
trova a fronteggiare già oggi?
Per
rispondere
a
tale
domanda
bisogna
interrogarsi su quali siano non
solo gli ambiti “formali” della
crisi, ma anche le sue cause
più profonde. Punto di partenza dell’analisi non può che
essere la lettura delle principali innovazioni del nuovo
Trattato, per poi verificarne
l’adeguatezza rispetto alle
sfide dell’Unione.
Il Presidente di turno dell’Unione,
il
portoghese
Sócrates, non ha nascosto la
propria soddisfazione affermando che l’Unione è uscita
da un vicolo cieco e ha
finalmente voltato pagina. La
stessa soddisfazione poteva
essere letta sui volti degli altri
leader europei che solo a
tarda notte avevano raggiunto
un compromesso che, almeno
all’apparenza, sembrava accontentare tutti. Il processo di
integrazione comunitaria può
ripartire grazie a un nuovo
Trattato e l’Unione europea
sembra finalmente fuori dalla
crisi. Questo almeno è quanto
sembra emerge da una prima
lettura del vertice di Lisbona e
dalle dichiarazioni dei leader
europei.
Un Trattato “quasi” nuovo
Ma siamo davvero certi che il
nuovo Trattato sarà in grado
di rispondere alle grandi sfide
– prime fra tutte quelle della
globalizzazione dei mercati e
della sicurezza internazionale
– che l’Unione europea si
Diversamente da quanto si
proponeva il Trattato di Costituzione europea, il Trattato di
Lisbona non sostituisce in toto
i vecchi Trattati ma si limita a
modificarli. In particolare tali
modifiche
riguardano
il
Trattato sull’Unione europea
(l’originario
Trattato
di
Maastricht), che mantiene il
proprio nome, e il Trattato che
istituisce la Comunità europea
(ovvero il Trattato di Roma),
che diventa il Trattato sul
funzionamento
dell’Unione.
L’abbandono del progetto
costituzionale porta con sé
anche la cancellazione dal
testo di quegli elementi che
avevano
un
più
forte
significato simbolico (bandiera, inno e motto). Eppure
guardando al contenuto delle
modifiche, esse in gran parte
originano proprio dal testo
della Costituzione europea,
per cui non si può dire che il
lavoro della Convenzione e le
successive ed estenuanti
Sintesi
Dopo una lunga fase di
negoziazione, i 27 paesi membri
dell’Ue hanno finalmente
raggiunto l’accordo su un nuovo
Trattato, che chiude la sfortunata
fase di costituzionalizzazione
dell’Unione. Alcuni paesi, come la
Polonia e la Gran Bretagna, hanno
insistito per ottenere importanti
concessioni, mentre altri paesi
hanno assunto un profilo più
accomodante teso alla ricerca del
compromesso.
Almeno formalmente, il periodo di
crisi dell’Ue sembra alle spalle.
Importanti modifiche istituzionali –
prima fra tutte il sistema di voto a
maggioranza in Consiglio e la
nomina del Presidente dell’Unione
– promettono un’Europa capace di
velocizzare il proprio iter
legislativo ed essere più visibile a
livello internazionale.
A prescindere però dal piano
formale, la crisi dell’Unione non
sembra potersi dire conclusa. Tale
crisi ha infatti una natura
composita (essendo al contempo
una crisi economica, di
leadership, di identità e di
identificazione) che difficilmente
può trovare risposte adeguate nel
Trattato di Lisbona. Il processo di
riforma dell’Unione europea non
può dirsi concluso con il nuovo
Trattato.
Si impone una ulteriore riflessione
sull’efficacia dell’azione
comunitaria e sulla concreta
possibilità di avanzare sempre e
comunque con 27 paesi membri.
negoziazioni intergovernative
siano andate perdute.
Lo sforzo maggiore è stato
indubbiamente fatto sulla
struttura istituzionale dell’Unione, ritenuta giustamente
inadeguata per un’Europa che
ha già 27 paesi membri e alle
cui porte bussano altri paesi
(primi fra tutti Croazia,
Macedonia e Turchia, che
hanno lo status di paesi
candidati).
In quest’ambito si registrano
quindi le innovazioni più
importanti che meritano di
essere approfondite. L’Unione
europea avrà anzitutto un
Presidente
che
la
rappresenterà all’esterno e che
rimarrà in carica per circa 2
anni e mezzo (con un
mandato rinnovabile una sola
volta). Si pone dunque fine
alla
laboriosa
rotazione
semestrale per fare spazio ad
un’altra figura istituzionale che
entrerà in carica entro giugno
del 2008. I giochi per
l’individuazione di questa nuova figura sono già aperti e si
intravedono i primi candidati.
La scorsa settimana, alla fine
di una cena con il premier
britannico Brown, il Presidente Sarkozy ha affermato
che Blair rappresenta il più
europeista
dei
britannici,
supportando implicitamente la
candidatura dell’attuale Rappresentante
speciale
del
Quartetto (Onu, Ue, Usa e
Russia) per il Medio Oriente.
Ma stanno emergendo anche
altre candidature, come il
leader lussemburghese (capo
dell’Eurogruppo) Jean Claude
Juncker o quello danese
Anders Fogh Rasmussen.
L’altra
importante
figura
istituzionale prevista dal Trattato è l’Alto Rappresentante
dell’Unione per gli affari esteri
e la politica di sicurezza che
sostituisce la più evocativa
figura del Ministro degli esteri,
prevista dal testo di Costituzione europea ma invisa ad
alcuni paesi (prima fra tutti la
Gran Bretagna). Il nuovo Alto
Rappresentante avrà alcuni
poteri in più rispetto a Javier
Solana, essendo anche Vice
Presidente
della
Commissione e potendo contare
su un servizio europeo per
l’azione esterna di cui faranno
parte diplomatici dei vari paesi
europei e funzionari delle
Istituzioni comunitarie. Questa
nuova figura dovrebbe essere
nominata dopo l’entrata in
vigore del Trattato 1 , anche se
logica vorrebbe che tale
nomina avvenisse contemporaneamente a quella della
nuova Commissione europea
prevista per l’autunno del
2009. Altre significative innovazioni riguardano la Commissione, in cui non siederà
più un rappresentante per
ogni paese membro ma un
numero di membri che sarà
pari a due terzi del numero
degli Stati (ma solo a partire
dal novembre del 2014).
Riguardo
al
Parlamento
europeo, esso sarà composto
da 750 membri (e non da 736
come
prevedeva
originariamente la bozza di
Costituzione preparata dalla
Convenzione) e beneficerà di
un ulteriore ampliamento dei
campi in cui la codecisione
viene applicata. Altre disposizioni riguardano inoltre le
cooperazioni rafforzate (attivabili da un minimo di 9
paesi membri) e il ruolo dei
Parlamenti
nazionali
nel
controllo del
sussidiarietà 2 .
principio
di
Ma senza alcun dubbio l’accordo più importante riguarda
il meccanismo di voto in seno
al Consiglio. Esso merita
particolare attenzione perché
proprio a causa sua si erano
più volte arenati i vertici
europei degli ultimi anni. Il
Presidente polacco Kaczyński
ha minacciato di far saltare
l’accordo anche lo scorso
giugno sotto presidenza tedesca e lo stesso ha fatto
durante il vertice di Lisbona. Il
suo assenso è arrivato solo
dopo aver ottenuto significative concessioni (che vedremo
più avanti).
L’intransigente atteggiamento
polacco si era in un primo
tempo aggiunto alla ferma
opposizione da parte della
Spagna. Tale opposizione
aveva delle precise motivazioni risalenti al vertice di
Nizza del 2000. In quell’occasione i leader europei,
coerentemente con quanto
richiesto dal Trattato di
Amsterdam, avevano il difficile compito di riponderare i
voti dei paesi membri in
Consiglio in vista dei futuri
allargamenti.
Anche
quel
vertice si era concluso a notte
fonda ma con un risultato non
certo
entusiasmante
sul
sistema di voto, tranne che
per Josè Maria Aznar. L’ex
premier spagnolo aveva infatti
chiesto con forza, e ottenuto,
che la Spagna contasse di più
in Europa facendosi così
riconoscere 27 voti rispetto ai
29 voti dei 4 paesi grandi
(Francia, Germania, Gran
Bretagna e Italia). In altri
1
Si veda Art. 6 del Protocollo n. 10
sulle disposizioni transitorie al
progetto di Trattato che modifica il
Trattato sull’Ue e il Trattato che
istituisce la Comunità europea.
2
Si vedano al riguardo Art. 6 e
successivi del Protocollo n. 2
sull’applicazione dei principi di
sussidiarietà e di proporzionalità.
termini mentre la media di
riponderazione dei voti di tutti
i paesi europei era stata del
175%, la Spagna aveva
potuto
contare
su
un
ragguardevole
225%
(ottenendo quello che sarà
chiamato il “bonus Aznar”).
All’indomani della sua adesione all’Ue, la Polonia era
stata posta sullo stesso piano
della
Spagna
e
quindi
anch’essa beneficiava del
“bonus” spagnolo. È proprio
questa l’origine della sua
intransigenza. I nuovi meccanismi di voti previsti dalla
Costituzione
europea,
e
adottati dal nuovo Trattato,
cancellano il sistema dei voti
in Consiglio, annullando di
fatto il “bonus” e dando così
avvio alla minaccia polacca di
porre il veto sulla riforma del
sistema di voto. Ma dopo
l’attentato terroristico a Madrid
e il cambio di governo, la
Spagna
aveva
mutato
atteggiamento aprendo al
negoziato sulla Costituzione
europea
(e
addirittura
ratificandola
tramite referendum nel 2005). La Polonia
rimaneva così isolata nella
sua ferma opposizione alla
riforma del sistema di voto.
Eppure tale riforma era
assolutamente
necessaria,
perché l’uso del macchinoso e
quasi incomprensibile meccanismo previsto a Nizza (il
calcolo di una triplice soglia
che tiene conto dei voti in
Consiglio, della popolazione
europea e del numero dei
paesi membri) pone in serio
rischio la produzione legislativa dell’Unione. Sotto le
regole di Nizza infatti l’efficienza del Consiglio, espresso in termini di probabilità di
approvazione di una qualsiasi
proposta, è di circa il 2% 3 . Un
dato del genere appare
certamente preoccupante non
tanto – come avevano temuto
diversi
osservatori
all’indomani del vertice di Nizza
– perché rischia di bloccare
l’iter legislativo dell’Unione,
quanto perché la “qualità”
della produzione legislativa
europea può risultarne compromessa. La difficoltà di
raggiungere la maggioranza
qualificata in Consiglio può
generare infatti un pericoloso
“gioco al ribasso” a causa del
quale la Commissione è
indotta ad avviare iniziative
legislative il cui contenuto
deve già rappresentare la
sintesi di alcuni compromessi
per poter poi avere delle serie
chances di essere approvato
dal Consiglio. Se la Commissione non assume tale
atteggiamento il rischio che si
corre è quello di un iter
legislativo molto lungo (che,
come nel caso della direttiva
Bolkestein, può anche durare
alcuni anni) il cui esito non
potrà che frustrare le più alte
aspettative
della
Commissione.
Il Trattato di Lisbona prevede
di prendere in considerazione
il numero dei paesi membri
(55%) e la popolazione
europea (65%) riuscendo così
nell’intento di riportare l’efficienza del Consiglio su un
più accettabile 13% che
dovrebbe attenuare fortemente il rischio del “gioco al
ribasso”. Ma la dinamica
negoziale delle Conferenze
intergovernative e l’intransigenza polacca ha fatto sì
che l’applicazione del nuovo
meccanismo di voto fosse
posticipato al 2014 (e non al
3
Si veda al riguardo BALDWIN,
BERGÖF, GIAVAZZI, WIDGRÉN,
Quale Europa, gennaio 2002, Ube.
2009 come prevedeva la
Costituzione europea) e che
fino al 2017 un paese possa
richiedere la verifica della
maggioranza
secondo
le
regole di Nizza. La Polonia
appare dunque come uno dei
paesi che ha più influito sulla
negoziazione riguardante la
nuova struttura istituzionale
dell’Unione.
Vincitori e vinti
Il Trattato di Lisbona contiene
così tanti “opt-out”, “opt-in”,
protocolli, dichiarazioni da
risultare un testo estremamente complesso e di difficile
comprensione anche per gli
addetti ai lavori. Se si voleva
semplificare i Trattati e
renderli più comprensibili ai
cittadini,
il
risultato
va
certamente nella direzione
opposta. Al confronto il lungo
e tedioso testo di Costituzione
europea (che, come ricordato,
sostituiva e non modificava i
Trattati)
brillava
per
semplicità.
Tale complessità non può
comunque sorprendere dato
che è frutto delle continue
richieste, delle pause di
riflessione e dei compromessi
ricercati negli ultimi anni.
Come già anticipato, alcuni
paesi si sono contraddistinti
per la fermezza delle proprie
posizioni a cui sono seguite
continue concessioni da parte
degli altri membri. A prima
vista questi paesi (tra cui
vanno certamente ricompresi
la Polonia e la Gran Bretagna)
sembrano i vincitori delle
negoziazioni. La posizione
della Polonia era certamente
molto chiara e, come detto
sopra, si concentrava principalmente sul sistema di
voto. Già a giugno il Pre-
sidente
Kaczyński
aveva
ottenuto la dilazione del
sistema di voto e la scorsa
settimana si è visto confermare anche la possibilità di
porre in “stand-by” una
decisione già approvata dal
Consiglio nel caso in cui la
maggioranza risulti risicata
(seguendo
l’esempio
del
cosiddetto “compromesso di
Ioannina”).
È peraltro evidente l’interesse
polacco a non cedere sul
proprio potere almeno fino ai
negoziati
sulle
prossime
prospettive finanziarie dell’Unione. Inoltre il Presidente
Lech Kaczyński ha ottenuto
l’aumento del numero degli
avvocati generali della Corte
di giustizia europea (che
passano
da
8
a
11)
assicurando
così
l’inserimento
di
un
proprio
rappresentante permanente
(che si aggiunge a quello di
Germania,
Francia, Gran
Bretagna, Italia e Spagna). La
vittoria del liberale Donald
Tusk sul premier Jarosław
Kaczyński alle elezioni del 21
ottobre testimonia però la
propensione
del
popolo
polacco verso una più piena e
meno
conflittuale
partecipazione all’Unione europea.
Questa esperienza stimola in
ogni caso delle riflessioni sul
processo di allargamento.
Malgrado sia indubbiamente
inutile mettere in discussione i
processi di allargamento passati e futuri, è tuttavia
essenziale rendersi conto che
non tutti gli allargamenti
hanno lo stesso peso specifico e che non basta
chiedere ai paesi candidati il
rispetto dei criteri di Copenhagen,
ma
bisogna
prevedere ex ante adeguate
modifiche
all’interno
del-
l’Unione (soprattutto quando
si procede all’adesione di
paesi di grandi dimensioni).
Dello stesso tenore sono state
le rivendicazioni da parte dei
britannici. Non è un caso che
in una conferenza stampa il
premier Brown abbia ripetuto
“interesse nazionale” ben 19
volte. Le conseguenze delle
“red lines” britanniche sono
evidenti. Anzitutto gli inglesi
non rinunciano all’unanimità in
alcuni campi fondamentali
come la politica estera (in cui
non potrà neanche essere
prevista la figura del Ministro
degli esteri), la sicurezza
sociale e il fisco. Inoltre la
Carta dei diritti fondamentali
non sarà inclusa nei Trattati
(come avveniva invece con la
Costituzione europea), anche
se avrà lo stesso valore
giuridico dei Trattati (ma la
Gran Bretagna e la Polonia
hanno ottenuto al riguardo un
“opt-out”). Anche in tema di
cooperazione giudiziaria la
Gran Bretagna rappresenta
una eccezione, riservandosi il
potere di decidere in seguito
se
aderirvi
oppure
no.
Secondo il premier Gordon
Brown con Lisbona è finita
l’era delle riforme istituzionali.
Inoltre – sempre secondo
Brown – il Trattato presenta
così
tante
clausole
di
salvaguardia per la Gran
Bretagna (e per la sua
concezione dell’Ue) che non
sarà necessario procedere
alla
ratifica
mediante
referendum. Eppure pensare
alla Gran Bretagna – e a
Brown in particolare – come
ad un grande vincitore di
Lisbona rischia di essere
fuorviante nella misura in cui
non si tiene adeguatamente
conto delle difficoltà che
Brown incontrerà in patria.
William Hague, portavoce
sulla politica estera dei
conservatori, ha già affermato
che gli “opt-out” britannici
saranno così facili da aggirare
da ricordargli la linea Maginot
rispetto ai panzer tedeschi.
Anche all’interno del suo
stesso partito Brown dovrà
affrontare diverse resistenze
legate al suo cambio di rotta
rispetto
alla
Costituzione
europea (per la quale Brown
aveva sempre richiesto il
passaggio referendario) 4 .
I risultati britannici a livello
europeo vanno quindi riletti
alla luce delle difficoltà
riscontrabili all’interno del
paese.
Meno problematica appare
invece la situazione francese.
In campagna elettorale la
posizione di Sarkozy era
opposta a quella della Royal e
si basava sul rifiuto di
prevedere un nuovo referendum
francese
sulla
Costituzione europea. Tale
rifiuto si traduceva in una
bocciatura definitiva della
Carta
costituzionale.
La
presidenza tedesca dello
scorso
semestre
aveva
dovuto prendere atto di tale
indisponibilità e optare per un
Trattato meno ambizioso che
rispecchiasse la promessa
fatta da Sarkozy ai propri
elettori. Indicativo è anche il
rifiuto francese di includere
nel testo del Trattato un
preciso
riferimento
alla
concorrenza tra le finalità
dell’Unione (riferimento recuperato, su iniziativa italiana,
nel Protocollo n. 6). A
4
In un sondaggio condotto tra il 3
e il 15 ottobre dal Financial
Times/Harris è emerso che oltre il
75% dei britannici vorrebbero un
referendum sul nuovo Trattato e
che il 51% pensa che esso avrà un
impatto
negativo
sulla
Ue
(malgrado il 61% ammetta di non
sapere molto sul Trattato stesso).
prescindere
dal carattere
simbolico di tale riferimento,
ciò che conta è la visione
francese del mercato unico in
cui c’è evidentemente ancora
spazio
per
i
“campioni
nazionali” e per un atteggiamento protezionista da
parte
dello
Stato.
La
soddisfazione francese è
evidente e
può essere
sintetizzata nella dichiarazione del Presidente Sarkozy
di voler far approvare dal
Parlamento francese il Trattato
di
Lisbona
entro
dicembre. La Francia è stato il
paese che più di tutti ha
contribuito a cancellare la
Costituzione
europea
e
adesso vuole dare il forte
segnale di essere il paese che
per primo (o tra i primi)
approva il testo che contiene il
placet del suo Presidente.
Diversa è la posizione della
Germania. Dopo il “periodo di
riflessione” le speranze per
risolvere il puzzle costituzionale dell’Europa erano
state riversate sul semestre di
presidenza
tedesco.
Va
riconosciuto alla cancelliera
Merkel il merito di aver
compito ogni sforzo per
raggiungere un accordo in
realtà per nulla scontato.
D’altra parte nella nuova
struttura istituzionale dell’Unione la Germania – il
paese più popoloso dell’Ue –
vedrà crescere il proprio
potere in Consiglio grazie
all’applicazione del nuovo
sistema di voto (in cui proprio
la popolazione rappresenta
uno dei due criteri per il
calcolo della maggioranza).
Infine l’Italia, senza distinzione di colorazione politica, è
sempre stata tra i maggiori
sostenitori della Costituzione
europea. La strategia negoziale ha ricalcato il tradizio-
nale approccio italiano in
Europa
teso
al
raggiungimento del compromesso (in questo senso unendo lo
scorso semestre i propri sforzi
soprattutto a quelli dei tedeschi). La più vistosa rivendicazione italiana al vertice di
Lisbona – invero non molto
ambiziosa – ha riguardato il
numero dei seggi al Parlamento europeo. La soluzione è stata trovata in
extremis, ma forse ci si
poteva adoperare di più prima
che lo scorso 10 ottobre lo
stesso Parlamento europeo si
esprimesse al riguardo. Il
risultato è che l’Italia ha
ottenuto a Lisbona 73 seggi,
perdendo così la parità con la
Francia (che si è rifiutata di
cederne uno), ma mantenendo la parità con la Gran
Bretagna.
Conclusioni: fuori dalla
crisi?
Per rispondere alla domanda
che ci si è posti all’inizio,
bisogna ovviamente capire
cosa si intenda per crisi
dell’Unione. Il no francese e
olandese aveva formalmente
aperto il periodo di crisi. Essa
può dunque – sempre sul
piano formale – considerarsi
chiusa con l’accordo sul
Trattato di Lisbona. È però
molto più importante interrogarsi sulla natura di questa
crisi che, sul piano sostanziale, ha natura composita.
Tale crisi riguarda infatti il
campo
economico
(basti
osservare le basse prospettive di crescita dell’Unione nel
suo complesso rispetto alle
altre aree del mondo), ma è
anche una crisi di leadership
(chi
conta
davvero
in
Europa?), una crisi di identità
(quali sono gli elementi
politico-culturali che caratterizzano l’Unione europea, al
di là dello sterile criterio
geografico?) e di identificazione (dei cittadini europei dalle “lontane” Istituzioni di
Bruxelles).
Rispetto a questa natura
composita della crisi il Trattato
di Lisbona non fornisce
risposte adeguate. I cittadini
europei avvertono un crescente senso di insicurezza
sul proprio presente e, in
misura ancora maggiore, sul
proprio futuro che sembrano
però non incidere sul Trattato.
In altri termini la questione
può essere posta su un piano
molto più concreto che cerchi
di capire – seguendo una
provocazione dell’Economist
– a cosa serva l’Unione e
quale apporto essa dia in vari
campi (a partire dall’economia
e dalla sicurezza internazionale).
Sul piano della presenza
internazionale dell’Unione la
questione non è tanto il nome
da attribuire al responsabile
della politica estera, quanto
piuttosto quali concreti poteri
affidargli. Ma tali poteri non
potranno mai arrivare se in
seno al Consiglio non si
realizza un passaggio –
seppur graduale – verso la
maggioranza
qualificata.
L’incapacità dell’Unione di
gestire la propria politica
estera rischia inoltre di avere
forti ripercussioni sul processo
di allargamento. Non essendo
infatti in grado di utilizzare
efficacemente gli strumenti
tipici della politica estera nel
controllare anche i conflitti e le
tensioni alle proprie porte,
l’Unione si ritrova con l’unica
alternativa possibile – di
antico gusto “imperiale” –
rappresentata dalla internalizzazione dei problemi, ovvero
dalla continua “annessione” di
nuovi paesi. Ma i successivi
allargamenti – soprattutto
verso paesi di maggiori
dimensioni – rischiano di
riaprire la questione dell’efficienza della macchina
comunitaria e di rimettere in
discussione
l’accordo
di
Lisbona.
Riguardo al campo economico (che peraltro è quello
su cui più ampie sono le
competenze
attribuite
all’Unione e su cui quindi in
misura maggiore dovranno
misurarsi i suoi successi)
molto rimane ancora da fare.
Rimangono infatti ancora
senza risposta i dubbi sul
coordinamento delle politiche
fiscali (soprattutto all’interno
dell’Eurozona), sulle politiche
di bilancio (da rivedere sia dal
lato delle entrate che da
quello delle uscite) 5 , sulle
politiche energetiche (la loro
inclusione tra le politiche
concorrenti
dell’Unione 6
rappresentano solo un primo
passo
per
riformare
la
sicurezza
dell’approvvigionamento
europeo
e
accrescere la rappresentanza
esterna dell’Unione).
Per concludere si può dunque
dire che il Trattato va accolto
5
Si veda S. DULLIEN, D.
SCWARZER, Thinking big in small
steps: How to bridge the gap
between economic and political
requirements and the current
practice in the EU budget, Paper n.
6, Eegm, www.eegm.eu.
6
Si veda l’Art. 4 del Titolo I del
nuovo
Trattato
secondo
cui
l’Unione ha competenza concorrente con quella degli Stati membri
in materia di energia e l’Art. 176 A
del Titolo X che fissa gli obiettivi
principali della politica energetica
(rispetto alla Costituzione europea
viene aggiunta la promozione
dell’interconnessione delle reti
energetiche).
positivamente nella misura in
cui ha sbloccato una impasse
che si protraeva ormai da
troppo tempo. Ciò tuttavia non
permette di poter affermare
che le cause che stanno
dietro la crisi dell’Unione
siano state risolte. Per
affrontare pienamente queste
ultime non sarà sufficiente,
come si è limitato a dire il
premier Brown, dare definitivamente per chiuse le questioni istituzionali e concentrarsi sulla concorrenza e
sulla
globalizzazione.
Le
grandi sfide che attendono
l’Unione impongono una serena riflessione che riconosca,
senza ipocrisia e inutili
idealismi, i limiti di una
negoziazione con 27 o più
paesi membri 7 e che non
abbia timore di dare eventuale
applicazione all’Art. 35 del
nuovo Trattato che prevede la
possibilità per un paese di recedere dall’Unione. Bisognerà
in definitiva individuare nuove
soluzioni – probabilmente all’interno di una configurazione
a “geometrie variabili” – che,
da un lato, non cancellino l’importanza dello stare insieme
e, dall’altro, permettano ad
alcuni paesi (a partire dal
“nocciolo
duro”
dell’Eurozona) di spingere il
processo di integrazione ben
più avanti di quanto oggi non
preveda il Trattato di Lisbona.
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