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AIAF RIVISTA 2011/3 • settembre-dicembre 2011
DIVORZIO ALL’ITALIANA. LA GIURISPRUDENZA DELLA SUPREMA CORTE
Giulia Sarnari
Avvocato del Foro di Roma
Quanto è difficile spiegare a chi vuole porre la parola fine a una vicenda coniugale che il nostro
ordinamento prevede che occorre prima separarsi, poi attendere e, successivamente, affrontare il
divorzio. E quanto è frequente sentirsi chiedere dopo essersi impegnati in una completa illustrazione del sistema, sia pur sintetica e atecnica: “... Ma poi, dopo la separazione, è facile divorziare e
definire ogni questione?”.
E persino di fronte a tale quesito diventa veramente arduo offrire una consulenza legale tranquillizzante, anche se si ipotizzano i possibili scenari che si possono aprire al momento del divorzio e
che possono seguire al divorzio. Infatti, non basta dover dire che non è sempre agevole riuscire a
ottenere, nei tre anni previsti dalla legge, un titolo di separazione legale – presupposto per poter
avanzare la domanda di divorzio (nonostante il varco aperto dieci anni orsono all’ammissibilità della pronuncia parziale di separazione) – e che non sussiste alcun automatismo al divorzio (che molti, invece, si aspettano, come se fosse un fatto amministrativo). È necessario far presente che lo
scenario del contenzioso divorzile e post divorzile può essere anche molto ampio, lungo e articolato a causa del principio di solidarietà post coniugale che vige nel nostro ordinamento.
Sovviene allora una ulteriore, frequente e logica domanda: “Ma non si può fare un accordo e definire subito e tutto senza lasciare alcuna pendenza?”. E anche a tale esigenza non è possibile dare
un riscontro positivo, perché la Suprema Corte ha incontrovertibilmente sancito che al momento
in cui si evidenzia la crisi coniugale e quindi si affronta la separazione, i coniugi non possono disciplinare gli aspetti economici del divorzio: nulli, infatti, sono i patti fatti al momento della separazione per disciplinare il futuro divorzio1 e alcuna rinuncia è possibile al momento della separazione rispetto a possibili pretese economiche conseguenti al divorzio.
Non solo. È altrettanto pacifico che anche qualora i coniugi siano addivenuti a una separazione
consensuale con cui hanno statuito di non vantare alcun diritto economico l’uno nei confronti dell’altro, ritenendo così di chiudere definitivamente ogni loro rapporto in quell’occasione con espresse clausole di rinuncia, giunti al divorzio tutto si può riaprire, secondo presupposti e criteri diversi e autonomi rispetto alla separazione.
E anche in sede di divorzio non vi è alcuna soluzione che possa garantire la definitiva risoluzione
di ogni pendenza economica con l’“ex”, salvo che ci si accordi in sede di divorzio congiunto con
una dazione economica e/o patrimoniale, la cosiddetta una tantum a norma dell’art. 5, ottavo comma, l.div. La Cassazione infatti ha stabilito che il mancato riconoscimento di un assegno divorzile
– perché non richiesto, sia in sede contenziosa che in sede di divorzio congiunto, o addirittura negato in sede giudiziaria – non preclude la possibilità di agire successivamente ex art. 9 l.div. per
una modifica2, sia pur solo se sussistono sopraggiunte circostanze di portata tale da rendere giusti-
1
Cass. 11 novembre 2009, n. 23908; Cass. 10 marzo 2006, n. 5302.
2
Cass. 10 gennaio 2011, n. 366; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2339; Cass. 25 agosto 2005, n. 17320.
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ficato l’adeguamento dell’assegno, in aumento o in diminuzione, ovvero, la sua radicale eliminazione o, per converso, la sua attribuzione, e senza alcuna possibilità di nuova valutazione degli elementi che sono stati tenuti presenti al momento del divorzio3.
Noi avvocati verifichiamo quotidianamente che la persona, nel momento in cui vive la propria relazione affettiva, sia essa fondata sul matrimonio che sulla convivenza di fatto, è spesso inconsapevole di tutti i diritti e i doveri che governano la relazione stessa. Quando la relazione affettiva
viene meno, anche la persona più avveduta e informata si sorprende di come possano sussistere
delle conseguenze economiche, talvolta davvero consistenti, e si sdegna con vigore quando si accorge che il divorzio non è affatto un punto di arrivo e, anzi, con il divorzio e dal divorzio tutto
può cominciare.
Il procedimento di divorzio, se è preceduto da un contenzioso di separazione, può svolgersi contemporaneamente a questo, non essendo inconsueto che i due giudizi si sovrappongano, oppure
può verificarsi che la transazione raggiunta in sede di separazione non abbia alcuna rilevanza.
Sulla nullità degli accordi matrimoniali in sede di separazione relativi al futuro divorzio, di cui si è
detto, la posizione della Suprema Corte sembra veramente non scalfirsi. Ancora recentemente4 si è
sancito che in sede di separazione non solo non è possibile disciplinare le conseguenze economiche del successivo divorzio, ma anche che in sede di divorzio non è possibile disciplinare il regime post divorzile e che il principio enunciato dall’art. 9 l.div. è indisponibile, con la conseguenza
della nullità dell’accordo che in sede di divorzio preveda un impegno a non modificare le statuizioni appena assunte e condivise, essendo sempre possibile agire per la revisione a norma dell’art.
9 l.div.
Certo, vi è da dire che se l’indisponibilità del diritto all’assegno divorzile viene ravvisata sostanzialmente nella sua natura eminentemente assistenziale, si potrebbe sostenere, come in diverse occasioni taluni hanno argomentato, che laddove l’assegno divorzile copra la funzione assistenziale sarebbe senz’altro indisponibile alla negoziazione delle parti, ma laddove realizzi anche la finalità
compensativa e risarcitoria, rispetto a essa l’autonomia negoziale dei coniugi potrebbe essere sovrana. Ci si riferisce pur sempre a una indisponibilità sostanziale, giacché, questo sì, sotto il profilo processuale, la domanda volta al riconoscimento dell’assegno divorzile deve essere sempre postulata da chi vi abbia interesse5 e in assenza di essa il giudice non può pronunciarsi.
Tuttavia, anche sotto questo specifico aspetto, non si può dimenticare che sussistono pronunce che
temperano anche questo principio e che hanno sancito che la domanda di assegno divorzile può
essere anche postulata “implicitamente” e quindi formulata “esplicitamente” anche in appello6, e
che i mezzi di prova a sostegno di essa possono essere formulati sino all’udienza di discussione7.
Dunque, nessuna possibilità di poter fare un accordo per il futuro divorzio.
Nell’accingersi al giudizio va considerato che se è ben vero che nel divorzio le violazioni dei doveri coniugali non rilevano più e che si può vertere solo sulle conseguenze economiche a norma
dell’art. 5 l.div., è anche vero che al momento del divorzio la conflittualità sedata o non emersa in
sede di separazione ben può riemergere e trovare spazi processuali giacché, a prescindere da una
declaratoria di addebito in sede di separazione, possono essere inserite ugualmente nel giudizio di
divorzio le motivazioni che hanno portato alla separazione quali “ragioni della decisione” che, a
norma dell’art. 5, sesto comma, l.div., costituiscono uno degli elementi determinanti la quantificazione dell’assegno divorzile.
Significativa al riguardo è una pronuncia della Suprema Corte8, che è giunta a individuare un regime di vita post separazione, sancendo che in tema di assegno divorzile il criterio delle “ragioni del-
3
Cass. 10 gennaio 2011, n. 366.
4
Cass. 14 ottobre 2010, n. 22505.
5
Cass. 12 febbraio 2009, n. 3488; Cass. 28 aprile 2008, n. 10810.
6
Cass. 28 aprile 2008, n. 10810.
7
Cass. 27 maggio 2005, n. 11319.
8
Cass. 26 novembre 2008, n. 28218.
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la decisione” di cui all’art. 5, sesto comma, l.div., fa sì che si possa aprire un accertamento relativo
non solo al periodo della vita coniugale, ma anche al comportamento dei coniugi dopo la separazione che abbia costituito un impedimento al ripristino della loro comunione spirituale e materiale e alla ricostruzione del consorzio familiare.
Anche in caso di divorzio congiunto, che dovrebbe essere immodificabile in presenza di una una
tantum, sembrano aprirsi scenari incerti: in una recente pronuncia9 la Suprema Corte ha affermato che, in presenza della costituzione del diritto di usufrutto in capo al coniuge quale dazione di
una tantum in sede di divorzio, si configura in capo al coniuge beneficiario la titolarità dell’assegno divorzile che consente di avere diritto alla pensione di reversibilità.
A ben vedere, parrebbe non esserci scampo: infatti, la mancata previsione di un assegno di separazione a norma dell’art. 156 c.c. non è ostativa e non preclude affatto la possibilità di avanzare
una domanda di assegno divorzile10 e la mancata pronuncia di addebito non preclude l’introduzione nel giudizio di divorzio di questioni relative alle relazioni interpersonali che hanno portato alla
crisi coniugale per giustificare la richiesta di quantificazione.
Con riferimento a questo specifico aspetto, peraltro, non è marginale notare che se da un lato l’inesistenza di un assegno di separazione non preclude affatto la possibilità di vedersi riconoscere un
assegno divorzile11, per cui ben può essere postulata e istruita una domanda di assegno di divorzio12, dall’altro l’esistenza di un assegno di mantenimento è stato ritenuto dalla Suprema Corte un
valido indice di riferimento per la quantificazione dell’assegno divorzile13. Ed è per tale affermazione che verifichiamo spesso in sede di merito che l’assenza di un assegno di separazione non è un
dato “tranquillizzante”, mentre la sussistenza dell’assegno di separazione è senz’altro un buon viatico per ottenere il riconoscimento dell’assegno divorzile.
Quando poi si entra nel vivo del contenzioso divorzile – che talvolta non ci si aspettava proprio di
dover affrontare, avendo stipulato una serena separazione consensuale con accantonamento di
ogni pretesa economica da parte dell’altro coniuge – ci si avvede che la sussistenza del diritto è
molto più probabile che sia accertata di quanto si creda; che la circostanza che l’altro coniuge lavori, o possa lavorare e non voglia farlo, sia un dato meno rilevante di quanto il comune sentire
ritenga e che l’indirizzo giurisprudenziale dei primi anni Novanta (formatosi dopo la seconda legge sul divorzio del 1987 che si fondava su un’interpretazione eminentemente letterale del concetto di “mancanza di redditi adeguati” di cui all’art. 5 appena rinnovato) è ormai ampiamente, e in
maniera più che consolidata, superato.
Infatti, dalla metà degli anni Novanta la Suprema Corte definisce la natura assistenziale dell’assegno, prevista dall’art. 5 l.div.: ha diritto a vedersi riconoscere l’assegno quel coniuge, non già che
non abbia mezzi per provvedere al proprio sostentamento (come il concetto di assistenza e di solidarietà coniugale potrebbe evocare), bensì che non abbia i mezzi economici, reddituali e patrimoniali che gli consentano di svolgere o quel tenore di vita svolto durante il matrimonio o quel
tenore di vita che ragionevolmente avrebbe condotto in base alle aspettative maturate durante il
matrimonio e fissate al momento del divorzio14.
Quindi, il fatto che il coniuge richiedente l’assegno divorzile svolga una propria attività lavorativa
non è motivo sufficiente per far venire meno il diritto e quando ci viene detto: “Ma lui/lei, lavora!”, sappiamo che dobbiamo spiegare che tale circostanza non è di per se stessa motivo ostativo
9
Cass. 28 maggio 2010, n. 13108.
10 Con sentenza n. 28741 del 12 febbraio 2008 la Suprema Corte ha ribadito un orientamento ormai consolidato e granitico in
forza del quale la determinazione dell’assegno di divorzio è assolutamente indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti al
momento della separazione dei coniugi.
11 Cass. 6 agosto 2010, n. 18433; Cass. 18 marzo 2010, n. 6606; Cass. 29 gennaio 2010, n. 2161.
12 Una tale domanda solitamente sorprende non poco quel coniuge che con una separazione consensuale aveva concordato
con l’altro l’assenza di un assegno di separazione o che si era visto pronunciare una separazione giudiziale senza riconoscimento di alcun assegno di mantenimento.
13 Cass. 14 luglio 2011, n. 15559; Cass. 4 ottobre 2010, n. 20582; Cass. 26 novembre 2008, n. 28218.
14 Cass. 17 febbraio 2011, n. 3905; Cass. 29 gennaio 2010, n. 2156; Cass. 2 febbraio 2009, n. 3489; Cass. 14 gennaio 2008, n. 593.
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al riconoscimento del diritto15. Può inoltre accadere che dopo tanti anni di cessazione della vita coniugale il coniuge onerato abbia degli incrementi patrimoniali che potevano essere ipotizzabili al
momento del matrimonio. In tal caso il coniuge richiedente si avvale favorevolmente di questi incrementi16.
Anche una sopravvenuta eredità, che non dovrebbe rilevare ai fini della valutazione complessiva
delle condizioni economiche delle parti dal momento che è un incremento patrimoniale non riferibile a uno sviluppo naturale e prevedibile della situazione reddituale del soggetto onerato, in realtà, è stato detto, assume la sua rilevanza17.
Vi è da notare poi che il fatto che l’art. 5 l.div. stabilisca che il giudice debba anche accertare se,
non sussistendo i mezzi, sussista anche un’incapacità oggettiva di procurarseli, non costituisce per
la Suprema Corte un temperamento al principio enunciato, giacché è consolidato l’orientamento in
base al quale il soggetto richiedente l’assegno non ha l’onere di attivarsi a impegnarsi in una qualsivoglia attività lavorativa, ma soltanto in una attività confacente al proprio livello socio-culturale
economico e allo stile di vita condotto durante il matrimonio18.
Già in questa prima fase di accertamento di sussistenza del diritto, dunque, i coniugi possono ritrovarsi a dover “tirar fuori” quanto accaduto durante il matrimonio, molti anni addietro; quanto si
pensava di aver archiviato, non meno di tre anni prima, con la vicenda separazione. E questo diventa davvero oneroso sotto il profilo probatorio, ancor più di quanto avvenuto nella precedente
fase della separazione.
Nel giudizio di separazione, infatti, il giudice, in presenza di una domanda di assegno del coniuge, deve limitarsi a equilibrare le sostanze della famiglia, togliere a chi ha di più per dare a chi ha
di meno, sicché entrambi continuino a svolgere quel tenore di vita condotto durante il matrimonio. Nel caso del giudizio per il riconoscimento dell’assegno divorzile, il giudice è chiamato a effettuare una determinazione sulla condizione personale dei due coniugi al momento del matrimonio e al momento attuale, non solo sulle loro sostanze e sui loro redditi, e, quindi, a esprimere un
convincimento meno oggettivo e più valutativo (quello espresso nel giudizio di separazione dovrebbe essere quasi meramente aritmetico). Di conseguenza il processo è più impegnativo.
Se poi l’attività di accertamento processuale si svolge realmente in due fasi, nel senso che a una precedente e primaria di individuazione dell’an debeatur segue, come insegna la Suprema Corte, quella volta all’accertamento del quantum debeatur, a norma dell’art. 5, sesto comma, l.div., nella quale devono essere prese in considerazione le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale dato da ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi, e tutto ciò in rapporto alla durata del matrimonio, ci si rende conto che l’impegno istruttorio è davvero complesso.
Anche se non si possono dimenticare quelle abnormi pronunce che hanno riconosciuto il diritto
all’assegno divorzile in presenza di un matrimonio cosiddetto “lampo”, addirittura di una settimana19, è solo il corretto bilanciamento di tutti gli elementi indicati dalla norma che può far conseguire una decisione equa. La Corte di Cassazione ha sancito che la giusta ponderazione di tutti questi criteri può anche comportare una quantificazione dell’assegno a zero e, quindi, annullare un diritto che è stato riconosciuto nella prima fase ermeneutica di accertamento20.
Non si può comunque ignorare che purtroppo, nonostante l’assenza di elementi di riscontro pertinenti da parte del coniuge richiedente, spesso il giudizio volto all’accertamento e alla quantificazione dell’assegno divorzile viene condotto come un giudizio di accertamento dell’assegno ex art.
156 c.c. L’attività istruttoria è mortificata, laddove ci si limita a effettuare una comparazione dei red-
15 Cass. 4 febbraio 2011, n. 2747.
16 Cass. 4 ottobre 2010, n. 20582.
17 Cass. 26 febbraio 2010, n. 4758.
18 Vedi per tutte Cass. 17 febbraio 2011, n. 3905.
19 Cass. 28 maggio 2008 n. 14056; Cass. 4 febbraio 2009, n. 2721
20 Fra tante vedi Cass. 19 maggio 2010, n. 12283.
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diti delle parti e a individuare il coniuge oggettivamente più debole a livello economico per attribuirgli l’assegno divorzile, senza dare spazio alla sussistenza, alla valutazione e, quindi, al bilanciamento degli altri criteri.
Ciò avviene, peraltro, proprio con il sostegno del pronunciamento della Suprema Corte che, in effetti, ha sancito più volte che il giudice può considerare prevalente e assorbente anche uno solo
di tali elementi, ritenendolo idoneo a dare fondamento alla propria decisione21.
Inoltre va segnalato che l’onere della prova, che secondo il generale principio della domanda è
senz’altro in capo al coniuge richiedente, è davvero attenuato, giacché la Cassazione ha evidenziato che la prova in ordine allo stato di bisogno, o comunque a una situazione non adeguata al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, incombe sul coniuge richiedente l’assegno. Tale prova, tuttavia, non deve essere fornita necessariamente in modo specifico poiché è sufficiente, anche
per il suo contenuto negativo, che venga desunta implicitamente da tutte le risultanze emerse22; in
particolare si afferma che quella sul tenore di vita può essere desunta anche dalle dichiarazioni dei
redditi delle parti23.
Comunque, con riguardo all’importanza che assume la condizione del coniuge al momento del divorzio, è rilevante segnalare la recente sentenza della Suprema Corte24 che sembra voglia scalfire il
principio, sino a oggi consolidato25, che attribuiva irrilevanza alla convivenza more uxorio del coniuge richiedente l’assegno, o meglio poneva a carico dell’avente diritto l’onere di provare che da
tale convivenza il coniuge richiedente l’assegno traesse una fonte stabile di mantenimento del suo
tenore di vita, sancendo, in maniera davvero innovativa, e vedremo in futuro quanto significativa,
che: “... l’instaurazione di una famiglia di fatto, quale rapporto stabile e duraturo di convivenza, attuato da uno degli ex coniugi, rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa convivenza matrimoniale e, in relazione ad essa, il presupposto per la riconoscibilità, a carico dell’altro coniuge, di un assegno divorzile, il diritto al quale entra così in uno stato di quiescenza, potendosene invero riproporre l’attualità per l’ipotesi di rottura della nuova convivenza tra i familiari di fatto”.
Ed è anche importante segnalare che la Cassazione, con attenzione ai risvolti negativi in termini di
giustizia equa che può avere l’eccessiva durata del processo, ha stabilito che se è vero che il giudice nel determinare l’assegno di divorzio deve fare riferimento ai redditi dei coniugi relativi al momento in cui è stata pronunciata la sentenza di divorzio, tuttavia, tale principio riguarda solo l’an
debeatur ed è rivolto a evitare che il diritto possa rimanere pregiudicato dal tempo necessario a
farlo valere in giudizio, ma non interferisce sull’esigenza che il quantum sia determinato alla stregua dell’evoluzione intervenuta in corso di giudizio nelle condizioni economiche dei coniugi né
sulla legittimità di determinare misure e decorrenze differenziate dalle diverse date in cui i mutamenti si siano verificati26.
A chiusura di questo scenario che si prospetta al coniuge divorziando e che avvilisce non poco colui che vorrebbe che l’ordinamento gli ponesse un rimedio “tombale” – per dirla con un termine
gergale ma di grande efficacia – ma che è senz’altro molto garantista per quel coniuge che ha impegnato tante risorse nella vicenda matrimoniale e vi ha fondato tante aspettative, non si può non
segnalare che l’onerosità processuale del giudizio divorzile è stata ulteriormente appesantita dal
pronunciamento della Suprema Corte che stabilisce che la domanda per la determinazione della
quota di pensione di reversibilità ben può essere introdotta in sede di divorzio con la domanda di
divorzio27; un appesantimento tuttavia che, a ben vedere, realizza una buona finalità di economia
processuale per entrambe le parti, anche per il soggetto onerato.
21 Cass. 6 agosto 2010, n. 18433; Cass. 15 luglio 2010, n. 16606; Cass. 27 maggio 2009, n. 12419.
22 Cass. 23 aprile 2010, n. 9710.
23 Cass. 29 gennaio 2010, n. 2161.
24 Cass. 11 agosto 2011, n. 17195.
25 Cass. 22 gennaio 2010, n. 1096.
26 Cass. 28 dicembre 2010, n. 26197.
27 Cass. 6 giugno 2011, n. 12175.
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Molto ancora si potrebbe dire sul divorzio in Italia, che non di rado si affianca anche al giudizio
di divisione della comunione legale dei beni.
Il divorzio può costituire una vicenda che non ha mai fine e addirittura sopravvive alla morte di
uno dei coniugi, laddove assistiamo a giudizi di determinazione della quota della pensione di reversibilità tra coniuge superstite ed ex coniuge che talvolta sembrano una riedizione del giudizio
di divorzio e che sono regolati dal principio primario della durata del matrimonio che non consente sempre di attribuire quote eque.
Sarebbe senz’altro opportuno che il nostro ordinamento desse maggiore spazio alla negoziazione
tra i coniugi e ammettesse la possibilità di trovare accordi definitivi, satisfattivi e vincolanti, prima
e dopo il matrimonio, mutuando da altri ordinamenti e tenendo conto di quanto da ultimo affermato dal Regolamento europeo n. 126 del 16 marzo 2011.
Autorevole dottrina28 ha osservato che il vulnus del nostro sistema è da ravvisare non tanto nella
mancanza di autonomia negoziale dei coniugi (giacché a ben vedere rispetto, ad esempio, al sistema americano e anglosassone, l’opzione per il regime patrimoniale che il coniuge effettua al momento della celebrazione offerta dal nostro ordinamento dà maggiori garanzie di effettiva libertà di
scelta di destinazione del proprio patrimonio rispetto agli accordi prematrimoniali), quanto nella
mancanza di informazione giuridica del sistema legale che scaturisce dal matrimonio, dal regime
patrimoniale scelto, dalla separazione e dal divorzio, per esercitare in modo consapevole la propria autodeterminazione.
28 Al Mureden, Rapporti Patrimoniali tra coniugi, lezione tenuta il 4 ottobre 2011 presso la Scuola di Alta Formazione in Diritto di famiglia, minorile e delle persone dell’AIAF.
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