RIVELAZIONI
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RIVELAZIONI
Filippo Curletti LA VERITÀ SUGLI UOMINI E SULLECOSE DEL REGNO D’ITALIA RIVELAZIONI DI J. A. ANTICO AGENTE SECRETO DEL CONTE CAVOUR RAIXE VENETE RAIXE VENETE www.raixevenete.net 2 PREFAZIONE Sono stato per più di due anni l’agente segreto del Conte Cavour. Comincerò per dire in che tempo ed in quali circostanze hanno avuto origine i miei rapporti col Ministro. Durante i trenta mesi circa che ho disimpegnate simili funzioni sono stato incaricato di missioni importantissime ed iniziato a molti segreti. Ciò vuol dire che ho veduto da vicino gli avvenimenti e gli uomini che hanno occupato l’attenzione pubblica in questo periodo di tempo cotanto rimarchevole. Oggi che ho ripreso la mia libertà ho pensato che il racconto delle mie missioni potrebbe interessare gli uomini seri che, studiando la storia della loro epoca, vogliano penetrare al fondo delle cose, e non si contentano di conoscerne la superficie; non ho avuto altro movente per scrivere. Qualcheduno griderà forse allo scandalo: è più comodo che di confutare. Ma quelli che mi avranno letto e che vorranno rendere giustizia alla moderazione del mio linguaggio, riconosceranno che, se vi ha scandalo, non è mia colpa, ma è colpa dei fatti. A quelli che si maraviglieranno perché io non mi sia nominato, risponderò che appunto per ragione della natura delle funzioni che esercitai, il mio nome, rimasto sempre nell’ombra, non interesserebbe per nulla al pubblico, quanto alle persone interessate, esse senza dubbio sapranno leggerlo sotto il velo delle iniziali, e non istaranno per lunga pezza dubbiose, poiché ad esse io sono assai noto. J.A. 3 Filippo Curletti 4 RIVELAZIONI I Io sono nato nelle Romagne; mio padre, magistrato ben noto nella piccola città che egli abitava, era sinceramente affezionato al governo pontificio: e ne diede prova abbandonando il suo porto per rifugiarsi a Roma, allorquando i piemontesi entrarono nelle Legazioni. Nel 1854 fui messo in relazione col Marchese Pepoli e col commendatore Minghetti, che erano nelle Romagne i capi del partito liberale 1. Fui ben presto sedotto dalle loro dottrine e diventai uno dei loro agenti più zelanti. Alla fine del 1858 la corrispondenza dei nostri comitati con Torino divenne più attiva che mai, e noi fummo sollecitati di raddoppiare di azione e di premura in vista della eventualità di cui l’Europa intera cominciava ad occuparsi. Il mio spirito, concitato all’ultimo punto dall’approssimarsi della lotta, mi fece concepire un desiderio ardente di andare a Torino, al fine di poter seguire gli avvenimenti più da vicino. Una scena tempestosa, di cui furono cagione le mie opinioni, che avevo fino allora nascoste alla mia famiglia, finì di determinarmi a simile risoluzione. 1 Il marchese Pepoli, che deve ai talenti del suo secretario una certa riputazione come scrittore politico, si faceva del liberalismo un mezzo e non un fine. Esso aveva delle viste più ambiziose e si lusingava di arrivare, in grazia dell’importanza che gli dava la sua parentela coi Napoleoni (per mezzo di Marat) ed i Brunswick (sigmaringen) (per mezzo della moglie), ad un vicereame, forse ad una corona ducale. Rendiamogli questa giustizia che egli ha saputo soffocare coraggiosamente le sue fallite speranze. 5 Minghetti e Pepoli, ai quali comunicai il mio progetto, lo incoraggiarono e mi diedero delle lettere di raccomandazione pel Conte Cavour. Arrivai a Torino avido di vedere l’uomo che tanto riempiva già di sé l’opinione pubblica in Italia. I menomi dettagli della mia prima presentazione sono ancora presenti alla mia memoria; furono un avvenimento della mia vita. Il giorno stesso del mio arrivo, mi recai presso il Conte Cavour, ebbi appena il tempo di vederlo; forse cinquanta persone riempivano l’anticamera: io profittai di un momento in cui egli apparve alla porta del suo gabinetto congedando qualcheduno, per rimettergli le lettere di cui ero latore. Le percorse in un batter d’occhio, e mi disse unicamente: “ho appunto bisogno di un giovinotto, ardito e fidato; … bene, … bene, …ritornate da me questa sera al ministero”2. La sera istessa alle ore 8, fui al ministero; un usciere senza livrea mi introdusse in un piccolo salotto, molto semplicemente ornato; nell’istante in cui entrai, il Conte Cavour discorreva in piedi con una persona, che io non conoscevo. Si voltò, ed accorgendosi di me: “ecco precisamente, generale” diss’egli al suo interlocutore, “il giovine di cui le parlavo, è romagnolo, nessuno qui lo conosce.” Calcò queste ultime parole in un modo singolare e si mise a sorridere. Compresi un momento dopo questo sorriso, allorquando il generale Saint-Frond (seppi più tardi il suo nome) dopo avermi indirizzata una quantità di domande sulla mia età, sulla mia famiglia etc…etc…, mi disse tutto ad un tratto: “sei tu capace di rapire una ragazza e di condurla questa sera a Moncalieri?”. Un poco stupefatto da prima ad una tale domanda, finii per rispondere di sì. “Ebbene! Vieni che te la faccio vedere” 2 A Torino i ministri dell’interno e degli affari esteri hanno l’abitudine di recarsi tutte le sere ai loro ministeri. Lì vi restano sovente fino ad 11 ore. 6 riprese il generale, e dietro queste parole lasciammo il ministro. Non voglio entrare nei dettagli di simile avventura colla quale incominciavano, in una guisa abbastanza strana, i miei servigi alla causa italiana: essa fece d’altronde molto rumore a Torino, dove nessuno ignora la storia della signorina Maria D… il cui fratello poco dopo fu nominato capo uffizio alle Poste. Questa spedizione non fu l’ultima di simil genere di cui fui incaricato ma delle altre non dirò parola: sono episodii della vita privata, che non hanno verun interesse pel lettore serio; non voglio occuparmi che dei fatti i quali hanno importanza dal punto di vista della storia italiana. Che il lettore mi perdoni di averlo trattenuto dal su accennato fattarello; non avrei voluto parlarne, ma per dir vero, la maniera onde incominciarono i miei rapporti col ministro mi è sembrata troppo singolare, per essere passata sotto silenzio. 7 II Qualche giorno dopo, il Conte Cavour mi faceva chiamare. Ecco testualmente quale fu la nostra conversazione. “Voi parlate in francese?” mi diss’egli in questa lingua. “Sì Eccellenza”. “Ho una occupazione da darvi… Sapete essere secreto?” “Vostra Eccellenza può contare sulla mia assoluta secretezza” risposi. “Una assoluta secretezza è necessaria. Voi avrete cinquecento franchi al mese”. Si interruppe: “è quanto vi è stato dato l’altro giorno”. Io abbassai il capo… - esso riprese: “oltre a ciò buone gratificazioni all’occasione… Vi incarico di sorvegliare SaintFrond - ciò a voi riuscirà facile - Rattazzi, Della Margarita, Brofferio, Revel, e De Beauregard. Li conoscete tutti?” “Li conoscerò” risposi. “Bisogna che io sappia ciò che fanno ogni giorno, che persone incontrano, a chi scrivono, quali lettere ricevono… infine tutto… voi mi capite… i rapporti devono essermi inviati a casa mia… Andate e siate prudente”. Il modo onde io disimpegnai questa prima missione provò al Conte Cavour che non ero nuovo né in politica, né in intrighi; e che avevo ben profittato delle lezioni di Pepoli e di Minghetti. Misi d’altronde nelle mie funzioni tutto lo zelo di uno spirito ambizioso. E non tardai a ottenere l’intera confidenza del ministro. Quando Napoleone III sbarcò a Genova, il Conte Cavour mi condusse con lui e mi incaricò di tenerlo al corrente dei menomi fatti e gesti dell’Imperatore. La mia missione si protrasse fino alla partenza di questo Sovrano da Alessandria. A quell’epoca fui mandato in Toscana, ma la sorveglianza di cui Napoleone era l’oggetto si continuò per tutto il tempo ch’egli rimase in Italia. Questo incarico mi fu d’altronde facilitato dalle comunicazioni regolari che ottenni a condizioni 8 relativamente modiche da Hyrvoix, ispettore di polizia appartenente alla casa imperiale. III Frattanto la propaganda secreta dei Piemontesi nelle Romagne e nella Toscana cominciava a produrre i suoi frutti; tutto era pronto per una rivoluzione; i comitati che agitavano gli spiriti in questi due paesi sotto la direzione del Conte Cavour, domandavano al ministro il segnale dell’azione e qualche uomo sicuro per operare il movimento. Io fui incaricato di questa missione e mandato da prima con ottanta carabinieri travestiti 3 a Firenze per mettermi a disposizione di Buoncompagni. Il piano del movimento fu stabilito in un colloquio che ebbi coll’Ambasciatore cui assistevano Ricasoli, Ridolfi, Salvagnoli e Bianchi. I miei uomini dovevano disperdersi per gruppi nei quartieri esterni della città, a dieci ore cominciare a produrre degli assembramenti colle grida di: “Viva l’Indipendenza… Abbasso i Lorena!” e dirigersi con un movimento di concentrazione verso il Palazzo Pitti: tosto che il popolo fosse così diretto noi dovevamo correre alle casse pubbliche ed impadronircene. Ricasoli incaricavasi di fare occupare dai suoi uomini i ministeri, le poste ed il palazzo granducale. Questo piano di campagna riuscì, come si sa, puntualmente; alle 4 del pomeriggio Buoncompagni era installato nel palazzo del Sovrano presso cui era accreditato; alla stessa ora tutte le casse pubbliche erano vuote, senza che una sola lira sia entrata nel tesoro piemontese. Quelli che non avevano potuto prendere 3 Quest’ultima parola è evidentemente sottintesa tutte le volte che parlo. 9 parte al saccheggio si installarono chi alle poste chi ai ministeri. Io potrei nominare più di dieci impiegati delle amministrazioni a Firenze che non posseggono altro titolo pei posti che occupano che l’attribuzione che se ne fecero a quell’epoca di loro propria autorità. Io ricevetti per mia parte dalle mani stesse di Buoncompagni una gratificazione di seimila franchi. Il mio racconto, semplice come un processo verbale, sorprenderà forse coloro che hanno veduto le agitazioni politiche solo attraverso il prisma moltiplicante della paura o dai giornali del partito vittorioso. Con tuttociò quella che io espongo è la storia di tutte le rivoluzioni. Esse sono quasi sempre l’opera di qualche uomo a cui due o tre funzionari comprati aprono le porte e di cui il popolo, per lo più indifferente alle questioni che si agitano, diventa il complice senza saperlo, prestando loro, per curiosità o per desiderio di rumore, il soccorso imponente delle sue masse. L’armata, di cui i capi erano guadagnati alla rivoluzione4, era stata allontanata e spinta sui confini del modenese sotto pretesto di sorvegliare i movimenti che potrebbero produrvisi, nel caso in cui gli Austriaci evacuassero quel ducato, ma in realtà per tenerveli in sospetto, nel caso che tentassero di penetrare in Toscana per sostegno del Granduca. Ebbi l’ordine di rendermi immediatamente a Parma per dar la mano al conte Cantelli. Prima di partire dovetti rimontare il mio personale, di cui due terzi erano scomparsi. Ciò mi riuscì facile; gli emigrati di Roma, di Milano e di Venezia mi fornirono gli elementi della mia nuova truppa. Le cose si svolsero a Parma come a Firenze, non si allontanò l’armata, ma il generale Trotti prese il partito più semplice di consegnarla nella cittadella. Devo dire ciònonpertanto che 4 L’armata toscana era allora comandata dal generale Ferrari. 10 Parma provò qualche sorpresa di vedere il conte Cantelli prendere una parte così attiva all’espulsione della Duchessa. Quantunque non si credesse alla sincerità della sua conversione politica, si supponeva peraltro che la sua gratitudine gli imporrebbe una specie di momentanea neutralità5. Nel mentre che si compivano le rivoluzioni di Firenze e di Parma, Francesco V Duca di Modena, abbandonava i suoi Stati, lasciando così il campo libero ai Zini e ai Carbonieri; meravigliati essi medesimi di un successo così inaspettato. La condotta del Duca in questa occasione è inconcepibile, se non si suppone che egli sia stato ingannato sulla vera situazione delle cose. Io sono convinto, per mia parte, che sarebbe bastato un colpo di fucile per mandare a vuoto la cospirazione di Modena, come del pari quella di Firenze e di Parma. Checchè ne sia, il Duca di Modena partito, Zini e Carbonieri si affrettarono di formare un governo provvisorio e chiamarono come governatore Farini, allora medico a Torino. Io lo seguii come capo della sua polizia politica. 5 Si sa che nel 1848 il conte Cantelli fu uno dei principali fautori della rivoluzione di Parma, in seguito di che fu nominato sindaco. Dopo la ristaurazione della Duchessa, il conte Cantelli era stato condannato a morte, e fu inoltre condannato alla restituzione di una somma di 80.000 franchi che erasi appropriato. La Duchessa gli fece grazia dell’una e dell’altra condanna. Dopo quest’epoca il Cantelli aveva simulato di mostrarsi partigiano galante della sovrana legittima: si à veduto peraltro con quale indifferenza egli abbia saputo calpestare una gratitudine molesta. 11 IV Il primo ordine che Farini mi diede entrando nel palazzo d’Este, fu di impadronirmi di tutte le chiavi, comprese quelle della cantina. “E’ inutile” mi disse “di fare un inventario”. All’arrivo della signora Farini, dovetti rimettere tutte le chiavi nelle di lei mani. Tutta l’argenteria, collo stemma ducale, fu dato a fondere. Ove ne è ito il prodotto?… Io non posso essere affermativo fino questo punto, ma credo di non ingannarmi asserendo che non fu versato al tesoro. Una circostanza che mi conferma in simile persuasione, è che a quell’epoca Farini mi ordinò di communicare ai giornali un articolo, che tutti hanno potuto leggere, e nel quale era detto che il Duca partendo, aveva portata via tutta la sua argenteria, e tutti gli oggetti di qualche valore, e non aveva, per così dire, lasciato che le quattro mura: anche le cantine erano vuote, per quanto ne asseriva cotesto articolo communicato. Esse lo erano anche pressochè, in quel momento, ma da dieci giorni. Farini teneva corte bandita nel palazzo ducale, Borromeo, Riccardi, Visoni, Carbonieri, Mayr, Chiesi e Zini erano i soliti commensali di quei pranzi principeschi. Su questo proposito viene a porsi ben naturalmente sotto alla mia penna, un piccolo fatto che rallegrò qualche giorno le conversazioni di Modena, e di cui si perderebbe, veramente, a non conoscere i dettagli. La tavola del governatore era stata fornita da un tale Ferrari, che teneva (e che tiene tuttora) l’albergo di San Marco a Modena. Suo padre è Capo dello Stato Maggiore di Francesco V. Al termine di otto giorni la lista del Ferrari ammontava a 7.000 franchi. Farini trovò concordo di pagare questa somma con un brevetto di 12 colonnello6 che Ferrari accettò. Costui si trovò tutto ad un tratto posto al livello di suo padre che conta 30 anni di servizio. Il figlio comanda oggi la piazza di Modena7, ed il padre è in esiglio!! Qualche giorno dopo l’installazione della signora Farini tutta la guardaroba della Duchessa fu data alle sartorie, dopo che essa e sua figlia l’ebbero divisa. Ciascuna di loro fece ridurre la sua parte alla propria misura. La corpulenza di Farini non gli permise di profittare della guardaroba del Duca, ma questa non sortì, per così dire, di famiglia. Riccardi, allora segretario, e poi genero di Farini, se ne impadronì. Bisogna convenire che gli abiti del Duca andavano perfettamente al suo dosso. Il saccheggio della casa ducale mi cagionò non già qualche scrupolo - ciò mi sembrava a quell’epoca, di buona guerra - ma qualche sorpresa. Contrastava infatti passabilmente col disinteresse spartano di cui Farini voleva allora dare spettacolo. Io provo qui un certo imbarazzo perché nei fatti, che mi è duopo narrare, non sono rimasto, come lo ero stato fino allora, un istrumento passivo e disinteressato dei ministri. Ma mi sono lasciato trascinare a fare della mia posizione un abuso colpevole, di cui ho divisi gli utili e di cui per conseguenza 6 Per essere giusto bisogna riconoscere che Farini non era l’inventore di questo sistema di economia domestica. Il barone Ricasoli aveva già pagato col medesimo metodo Alfredo Bianchi, fratello di Celestino Bianchi, a cui egli doveva circa 6.000 franchi per nolo di carrozza e cavalli. Alfredo aveva permutata la sua quittanza contro una nomina di secretario al ministero dell’interno. 7 Questa metamorfosi di un cuoco in colonnello non è più sorprendente di quella di un cocchiere in tenente colonnello di stato maggiore, trasformazione di cui noi abbiamo un esempio in Mezzacapo, fratello del generale di questo nome. Egli si è addormentato una sera colla frusta in mano e si è risvegliato la mattina colle spallette di aiutante di campo di suo fratello. Tutta Torino lo conosce, non già, ben si intende, come tenente colonnello. 13 devo dividere la vergogna, - avrei voluto poter passare sopra questi dettagli, ma ho promesso di dire tutto. Quelli che arriveranno a questi fatti mi scuseranno, lo spero, perché essi comprenderanno bene che nella mia situazione, ed in mezzo ad esempi che vedevo venire dall’alto era difficile di non lasciare illanguidire un poco in se stessi l’istinto della moralità. Farini si mostrava molto concitato contro i duchisti e principalmente contro i preti e le monache. “Non bisogna avere pietà con quelle canaglie” mi ripeteva egli sovente, leggendo i miei rapporti. Dietro simili disposizioni del governo si può supporre che io avevo carta bianca per gli arresti e le incarcerazioni. Noi immaginammo, Riccardi ed io, di profittare di questa posizione. Agenti della più infima specie reclutati da noi si introducevano presso le persone conosciute pel loro attaccamento alla dinastia ducale, presso i preti, nei conventi, ed all’atto di operare gli arresti, facevano comprendere che con qualche opportuno lascito di denaro si sarebbe potuto riconquistare la libertà, od anche evitare l’imprigionamento. Simili argomenti mancano ben raro di riuscita; vi si sottometteva; ed era ciò che avevasi di meglio da fare. Il prodotto di queste estorsioni era rimesso a Riccardi, genero di Farini. Le somme erano più o meno considerevoli, lo si comprende, secondo la fortuna delle persone arrestate. Guastalla e Sanguinetti banchieri, non dovettero versare nelle mie mani meno di 4.000 franchi a testa. 14 V Frattanto si preparava tutto nell’Italia centrale per le elezioni dei parlamenti provinciali, quando giunse a Torino la nota dal gabinetto francese, che domandava il richiamo, avanti il voto, dei commissari piemontesi. Il Piemonte non poteva sottrarsi a questa esigenza: vi si sottomise, quantunque di mala voglia, per le Romagne, la Toscana ed il Ducato di Parma. Là il terreno pareva abbastanza preparato perché non si avessero serii timori sul risultato delle elezioni. Ma non era così pel Ducato di Modena, di cui soprattutto le campagne, davano molta inquietudine. I partigiani della dinastia decaduta vi erano numerosi ed influenti: in una parola, il Piemonte temeva, lasciando questo paese a sé medesimo, di vederselo sfuggire dalle mani con una contro rivoluzione. Bisognava che Farini restasse, e per ciò era duopo trovare un pretesto che ingannasse il governo imperiale o piuttosto l’opinione, perché mi è difficile di credere che il gabinetto francese abbia preso un solo istante sul serio la commedia di Modena. Fece a che noi ci decidemmo, in un lungo colloquio che io ebbi su di ciò col governatore, o piuttosto ciò che accadde, perché il programma fu esattamente eseguito. Il giorno finale per la partenza di Farini, io appartai una parte dei miei uomini sul piazzale del palazzo; avevo fatto venire per ingrandirne il numero tutti i carabinieri e gli agenti di polizia che si trovavano a Reggio, a Carpi, Mirandola e Pavullo. Al momento che il governatore apparve, per montare in carrozza, si misero essi a gridare, in conformità della consegna che avevano ricevuto: “viva Farini… egli non partirà, egli è il nostro padre!!!”. Costoro seguirono la carrozza continuando le loro acclamazioni, io mi ero collocato, col resto de’ miei agenti fuori dalla porta a Parma. Al momento in cui il governatore arrivò, dietro un mio segnale, i miei agenti si misero a gridare: “viva il dittatore!!”. 15 Si gettarono sulla carrozza, ne distaccarono i cavalli e la ricondussero in città alle grida di “viva il dittatore!”. Arrivando al palazzo, ove attendevano i membri principali del governo commissariale, si stese, senza perdita di tempo, in presenza di Farini, un processo verbale che lo nominava cittadino di Modena e dittatore. Le prime firme che si leggono a piedi del processo verbale sono quelle del Conte Borromeo (secretario generale di Farini), di Carbonieri (ministro dell’interno), di Chiesi (ministro dei culti), di Riccardi (capo di gabinetto e genero di Farini), di Zironi (secretario addetto), di Zini (intendente a Modena), di Mayr (intendente a Ferrara). La sera da Farini si rifà molto della scena truffa della porta a Parma: al momento in cui furono staccati i cavalli ero a due passi dal nuovo dittatore, e lo vidi conservare a gran fatica la sua serietà. Le elezioni che si fecero qualche giorno dopo assomigliarono moltissimo alla scena che ho testé raccontata. Noi ci eravamo fatti rimettere i registri parrocchiali per stendere le liste degli elettori. E quindi preparammo tutti i biglietti. Per le elezioni dei parlamentari locali, come più tardi pel voto di annessione, un piccolo numero di elettori si presentò a prendervi parte, ma al momento della chiusura delle urne, noi vi gettammo dentro i biglietti, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti; non tutti peraltro, ciò si intende; noi ne lasciavamo da parte qualche centinajo o qualche migliajo, secondo la popolazione del collegio. Bisognava bene salvare le apparenze, almeno in faccia all’estero, perché per l’interno sapevamo a quale espediente attenerci. Non mi si accusi di esagerazione… io non esagero in nulla… tutto ciò è della più scrupolosa esattezza. Eh! Mio Dio! In Francia ove il popolo è avvezzo all’esercizio elettorale, ove la formazione dell’uffizio è presso ché seria, ove infine gran numero di persone interessate, gelose del loro diritto, 16 attorniano sempre le urne, anche in Francia, simili alterazioni di scrutinio non sono, dicesi, senza esempio. Si comprendono dunque, senza fatica, la facilità colla quale hanno simili manovre potuto riuscire in paesi ancora nuovi all’uso del suffragio universale, ed ove, per sopraggiunta, l’indifferenza e l’astensione servivano ammirabilmente alla frode, facendo sparire ogni controllo. Noi ci conducevano d’altronde in guisa da rendere perfettamente illusorie le garanzie di pubblicità e i mezzi di sorveglianza che la legge offre agli elettori. Anche prima dell’apertura del voto carabinieri ed agenti di polizia travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e l’ingresso alle medesime. Era sempre fra di loro che sceglievamo il presidente dell’uffizio e gli scrutatori. Noi non eravamo quindi molestati da questo lato. In certi collegi questa introduzione di massa nell’urna dei biglietti degli agenti (noi chiamavamo ciò completare il voto) si fece con tale sicurezza e con sì poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori inscritti. Vi si rimediò facilmente con una rettificazione nel processo verbale. Poi biglietti negativi o ostili al Piemonte, necessari al fine di dare al voto un’apparenza di sincerità, ne lasciavamo il pensiero agli stessi elettori. Per ciò che concerne Modena ne posso parlare scientemente, perché tutto vi si fece sotto i miei occhi e la mia direzione. Del resto un metodo perfettamente uguale fu seguito a Parma ed a Firenze. Il dittatore dal suo canto all’epoca delle elezioni aveva prese tutte le misure per essere sicuro del parlamento: egli obbligò i candidati a sottoscrivere prima due decreti che egli aveva preparati. Il primo pronunciava la decadenza della Casa d’Este, il secondo prorogava indefinitivamente i poteri del dittatore. Due persone sole8 si rifiutarono di sottoscrivere, ed esse, come è facile d’immaginare, non furono nominate. 8 Amadio Levi banchiere e Paglia professore. 17 L’ordine cronologico delle date conduce a parlar di un fatto che produsse in Europa una immensa sensazione, voglio dire l’assassinio del colonnello Anviti. Ecco la verità su questo avvenimento; il mio racconto non recherà d’altronde molta sorpresa9. Mi trovavo nel mio gabinetto, era, se non mi inganno, il 5 ottobre 1859. Farini arrivò correndo: “presto… presto… a Parma. Vi hanno arrestato il colonnello Anviti alla stazione della strada ferrata… il boia dei Borboni”. Queste furono le sue parole: un accento solo di questa conversazione non si è cancellato dalla mia memoria. “Cosa vuole che si faccia?” Risposi… “Vuole che glielo conduca qui?” “Oh! No! Non sapremmo cosa farne!… è un uomo particolare”. “Ma…” - non potremmo toccarlo senza far gridare – “bisognerebbe che la popolazione si incaricasse della cosa … mi capite”. Io partii - si sa ciò che accadde… - ma si ignorano alcuni dettagli che potranno edificare sul rammarico che il governo piemontese provò per questo avvenimento. Al seguito della mia triste missione ricevetti la Croce dei Santi Maurizio e Lazzaro. Il direttore della prigione Galetti, che, dietro ordine avuto, si era lasciato portar via il suo prigioniero, fu avanzato e abbandonò la direzione delle prigioni per quella delle poste10. L’uomo che dopo avere trascinato per le strade di Parma, il cadavere insanguinato del colonnello Anviti, lo decapitò, per porne la testa come trofeo sulla piramide della piazza del Governo, Davidi, fu lo stesso giorno nominato direttore delle prigioni di 9 Le persone che sanno riflettere e che senza dubbio si sono domandate sovente come poteva accadere che un uomo, il quale qualche agente di polizia aveva potuto condurre senza ostacolo dalla stazione della strada ferrata fino alla carcere, fosse stato strappato di colà da un ammutinamento, scannato, trascinato per diverse ore per le strade della città, ad onta della presenza di un corpo di 25 carabinieri incaricati della guardia alla prigione, ed in una città che possedeva allora una guarnigione di circa 6000 uomini. 10 Il direttore di prima fu destituito, come duchista. 18 Parma. Non so se occupi ancora questo posto al momento che scrivo, so però che lo occupava due mesi or sono. Allorquando qualche giorno dopo il console francese Paltrinieri domandò, in nome della Francia, che si punissero gli autori di questo assassinio, si arrestarono, con gran fracasso, durante la giornata per dargli una soddisfazione apparente, ventisette persone. La sera istessa il direttore Davidi ricevette l’ordine di lasciare evadere i prigionieri, colti d’altronde un po’ alla rinfusa, Ciò a che egli si prestò, lo si comprende, ben di buon grado; l’affare fu così soppresso e non se ne intese più parlare. 19 RAIXE VENETE www.raixevenete.net 20