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EDITORIALE
una partita difficile,
ma aperta
uest’articolo si colloca nel bel centro di un paradosso. Da una parte la situazione politica è quanto mai confusa e in rapida evoluzione, il che rende
difficile ogni analisi. Dall’altra, tuttavia, confusione e instabilità generano un urgente bisogno di capire. Un bisogno ineludibile che occorre tentare di soddisfare.
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La precarietà del quadro politico prodotto dalle elezioni
del 2006 non è una novità, ma si è acuita nelle ultime settimane. Era prevedibile che dopo la nascita del Pd la fragile alleanza dell’Unione sarebbe entrata in fibrillazione. Ma
l’instabilità ha anche cause più sostanziali, legate alle scelte compiute dal governo nel corso di quest’anno e mezzo.
È emblematico in proposito il nesso 20 ottobre/Protocollo
sul welfare. La «piazza rossa» di san Giovanni era stato un
segnale lanciato dalle forze più avanzate della sinistra (a cominciare da Prc, Pdci e Fiom) affinché la politica sociale ed
economica del governo cambiasse di segno, passando dal
rigore al risarcimento sociale. Il grande successo della manifestazione aveva rafforzato le aspettative del «popolo
della sinistra». Tanto più bruciante è stata quindi la delusione provocata dalle scelte dell’esecutivo in tema di previdenza e di lavoro. Per non dire dello schiaffo inferto al Parlamento con la decisione di porre la fiducia su un testo che
di fatto ha azzerato le modifiche apportate al ddl dalla Commissione Lavoro della Camera.
A questi fattori di instabilità del quadro politico se ne è aggiunto da ultimo un altro, costituito dalle brusche oscillazioni del Prc. Che rischiano di disorientare il corpo del
partito e il nostro potenziale elettorato. Nel giro di pochi
giorni si è passati da un incondizionato sostegno all’esecutivo a una critica bruciante, che lasciava presagire scenari
di crisi. E poi, subito dopo, a un’ulteriore correzione, tesa a
rassicurare il governo circa il sostegno del Prc.
* DEPUTATO PRC-SE, DIREZIONE NAZIONALE PRC
A LBERTO B URGIO *
Ora, l’essenziale per noi è capire in che modo questo stato
di cose si rifletterà sul nostro partito, impegnato su più
fronti: la verifica di governo; il processo unitario a sinistra; il percorso congressuale, rinviato di qualche mese.
Cominciamo dalla verifica. La prima osservazione è che
essa ha effettivamente ragion d’essere, e non dovrà certo
risolversi nel confronto sulla legge elettorale. L’azione del
governo Prodi è stata sin qui molto deludente dal punto di
vista di una forza politica che ha il compito di rappresentare in primo luogo il mondo del lavoro, il popolo della pace
e in generale i soggetti più duramente colpiti dalle politiche neoliberiste. Non è difficile documentare questa affermazione, ricordando i numerosi impegni programmatici disattesi e le decisioni in flagrante contrasto con lo spirito dell’alleanza. Dalla mancata abrogazione delle peggiori
leggi berlusconiane (la 30 e la Bossi-Fini) al rifiuto di
prendere in considerazione il ritiro delle truppe italiane
dalla guerra in Afghanistan. Dalla politica rigorista dei
«due tempi» alla vicenda Dal Molin. Dalla mancata riforma del conflitto d’interessi e dell’emittenza televisiva al
continuo aumento delle spese militari. Dal rifiuto di dar
vita alla Commissione parlamentare sul G8 di Genova al
mantenimento dei cpt. Dall’adozione di misure emergenzialiste dettate dall’ossessione sicuritaria al mancato riconoscimento delle coppie di fatto. Tutto si può dire sulla debolezza delle forze di sinistra e sulla loro irresolutezza. Ma
queste critiche non tolgono che la primaria responsabilità
dello scarso consenso raccolto dal governo Prodi e dell’instabilità del quadro politico incombe sul governo stesso e
sulle forze prevalenti della maggioranza.
Per questa semplice ragione, la verifica politica chiesta
dal Prc dovrà essere un reale momento di confronto, teso
a riequilibrare l’azione del governo a vantaggio delle
istanze, sin qui disattese, della sinistra. D’altra parte,
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questa esigenza non parla soltanto al governo, ma anche a
chi questa verifica ha chiesto. Al nostro partito.
Gran parte della stampa ha formulato previsioni ironiche, parlando di «penultimatum» e dipingendo il Prc
come il proverbiale cane che abbaia alla luna. Sarebbe
esiziale per la credibilità stessa del partito che queste irritanti valutazioni ricevessero conferma da una verifica
all’acqua di rose. Il compagno Giordano ha annunciato
che il Prc porrà obiettivi «credibili, praticabili ed esigibili». Se questo significa che la trattativa sarà condotta in
modo sobrio e concreto, badando ai risultati e non alle
apparenze, non possiamo che concordare. Sarebbe invece un grave errore adottare una strategia di autocensura,
definire condizioni minimali pur di scongiurare il rischio di un mancato accordo. Un grave errore che si aggiungerebbe ad altri errori già commessi, sui quali riteniamo occorra aprire finalmente una riflessione.
In questo primo scorcio di legislatura il nostro partito ha
interpretato con qualche eccesso di zelo la propria condizione di alleato dell’Ulivo, giungendo talvolta a rappresentare in modo propagandistico le scelte del governo. Abbiamo pagato caro questo atteggiamento. Il grave insuccesso
alle amministrative, il difficile rapporto con il movimento
contro la guerra e le aspre critiche rivolteci dagli operai di
Mirafiori sono sintomi di uno stesso problema. Da ultimo
anche la decisione di votare la fiducia sul Protocollo è stata
controversa. Ha alimentato nel popolo della sinistra dubbi
e perplessità sull’opportunità di sostenere ancora questo
quadro politico in assenza di significative correzioni di
rotta. E non per caso ha aperto contraddizioni anche all’interno della maggioranza del partito. È chiaro che ormai i
nodi sono giunti al pettine e che non sarà più possibile
barcamenarsi tra critiche estemporanee e diligenti manifestazioni di «responsabilità».
L’importanza della verifica ha indotto la Segreteria nazionale del partito a proporre il rinvio del VII Congresso del
Prc, previsto per i primi mesi del 2008. Le compagne e i
compagni della Segreteria e lo stesso compagno Giordano
hanno fatto presente che la contestualità del Congresso con
la consultazione del partito che precederà e seguirà la verifica avrebbe generato un ingorgo di difficile gestione.
Come ci poniamo nei confronti di questa proposta?
Alla luce della discussione, aperta e problematica, svoltasi nella Direzione nazionale del 3 dicembre e nelle successive riunioni delle Segreterie provinciali e regionali
(che l’hanno approvata a larga maggioranza), abbiamo
preso atto dell’orientamento prevalente. Ma – fermo restando che la proposta di rinviare il Congresso è stata
avanzata dal gruppo dirigente del partito, che ne reca la
primaria responsabilità – abbiamo fatto presente che
consideriamo non eludibili alcune condizioni, affinché il
rinvio non si trasformi in un atto di arbitrio e in una pericolosa forzatura.
In primo luogo, deve trattarsi di un rinvio di breve periodo (sei-sette mesi al massimo), tale da rispettare la scadenza statutaria del 2008.
La seconda condizione concerne la consultazione legata
alla verifica di governo. Un rinvio del Congresso in considerazione della sua contestualità con la consultazione
sul governo è accettabile solo a patto che tale consultazione impegni davvero il partito (tutti gli iscritti, che dovranno potersi esprimere in modo vincolante nelle sedi
del partito) in un’approfondita riflessione sulla partecipazione al governo e sulla linea politica che ha condotto il
Prc a compiere tale esperienza.
Questa linea oggi – lo registriamo come un fatto molto significativo – comincia a raccogliere severe critiche anche
di autorevoli esponenti della maggioranza del partito. Per
parte nostra, noi l’abbiamo duramente avversata già in
occasione del VI Congresso a Venezia, ponendo in risalto
i vistosi errori che la inficiavano (perché si sono voluti
prospettare al Paese grandi cambiamenti, palesemente
preclusi dagli orientamenti dei maggiori partiti dell’Unione? perché si è stretta con l’Ulivo un’alleanza incondizionata, per di più impegnando il partito nell’esecutivo con una delegazione sottodimensionata? perché si
è tardato sino al 2006 prima di promuovere iniziative
unitarie a sinistra che, ove assunte tempestivamente,
avrebbero impresso all’Unione un profilo politico più
avanzato?). Non è pensabile che su questioni di tale rilevanza il corpo militante del partito venga estromesso dall’elaborazione delle scelte da compiere. O che sia posto
dinanzi a un’alternativa secca – rimanere al governo o
uscirne; continuare a far parte della maggioranza o andare all’opposizione – quasi si trattasse di un referendum.
La terza condizione, infine, riguarda quello che è stato
più volte indicato dal compagno Giordano come il tema
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centrale del Congresso: l’unità della sinistra, le sue finalità e le forme della costruzione del soggetto «unitario e
plurale». Proprio perché si tratta di un tema portante del
prossimo confronto congressuale riteniamo necessario
che, nel corso dei mesi che ci separano dal Congresso,
ciascuno – a cominciare dai componenti dell’attuale
gruppo dirigente – si astenga da qualsiasi forzatura su
questa delicata materia, in merito alla quale sussistono
posizioni molto diverse nel partito (comprese quelle di
chi ritiene esaurita l’esperienza di Rifondazione comunista e maturo il tempo del suo «superamento»).
Abbiamo già avuto modo di dirlo in circostanze ufficiali e
lo ribadiamo qui nel modo più esplicito. Qualche mese fa
a Carrara il partito è stato impegnato in un’importante
Conferenza di organizzazione. In quell’occasione è stato
dibattuto anche il tema dell’unità a sinistra ed è stato sancito il principio secondo cui la costruzione del soggetto
unitario e plurale non solo non implica lo scioglimento del
Prc, ma, al contrario, lo esclude tassativamente. E fa del
rafforzamento dell’autonomia politica, organizzativa e
culturale del partito un obiettivo irrinunciabile della nostra azione. A questi impegni formali non si può derogare.
Considereremmo quindi inaccettabile che li si mettesse in
discussione durante i mesi del rinvio, approfittando della
mancata convocazione delle assisi congressuali.
Al di là degli impegni assunti a Carrara (o meglio, a loro
fondamento), contro qualsiasi ipotesi di «superamento» del Prc sussistono precise ragioni politiche. Sulle
quali conviene soffermarsi.
Da sempre – e con maggior determinazione dalle prime
avvisaglie dell’offensiva reazionaria della destra nel 2001 –
siamo convinti della necessità di superare la frammentazione della sinistra. Senza l’unità – senza piattaforme condivise su lavoro, politica economica, pace, diritti e istituzioni – sarà infatti impossibile contrastare le preponderanti forze moderate del centrosinistra. Abbiamo sempre
tenuto questa posizione tanto nel dibattito interno al partito (dove ci si rivolgevano critiche di «frontismo» e «alleantismo») quanto nelle relazioni con le altre forze della
sinistra, partecipando a tutte le iniziative unitarie succedutesi con scarsa fortuna nel corso di questi anni difficili,
sino agli «stati generali» dell’8 e 9 dicembre.
Ma, proprio perché consideriamo indispensabile e urgente l’unità della sinistra, riteniamo al contrario irricevibili le
pretese di chi propugna lo smantellamento delle forze organizzate esistenti. E le interpretazioni interessate di chi
concepisce gli «stati generali» come il primo passo verso
la costruzione di un nuovo partito. Quasi che l’unità fosse la
semplice riduzione a uno dei molti – l’annessione degli
altri per la prepotente, e distruttiva, affermazione di sé – e
non, invece, un processo inclusivo che trae linfa dal reciproco riconoscimento. Aggiungiamo che tanto più inaccettabile sarebbe un’operazione di stampo «bonapartista»
che si servisse dell’ingegneria istituzionale (nella fattispecie, della riforma della legge elettorale) per costringere i
partiti della sinistra a sciogliersi e a confluire in una unità
imposta dall’alto. Si tratterebbe a nostro giudizio di
un’operazione violenta e controproducente. Che alimenterebbe diffidenze e risentimenti, rischiando di distruggere i
germi di unità che cominciano a maturare.
La sinistra italiana oggi è composta di molti soggetti, figli
di storie e portatori di culture politiche diverse. L’ambientalismo è altra cosa dal socialismo. La cultura di classe dei comunisti è una declinazione specifica della critica anticapitalistica, fa riferimento a un impianto teorico
e a finalità strategiche non coincidenti con quelli di altre
posizioni genericamente «antagonistiche». Del resto,
tale molteplicità è plasticamente rappresentata dall’appartenenza delle forze della sinistra a ben tre diversi
gruppi parlamentari in sede europea.
Ora, il punto è che questa differenza non va semplicemente tollerata. Né soltanto rispettata. Va anche messa a
valore, poiché dà voce a una molteplice sensibilità, è una
ricchezza che sarebbe irragionevole dissipare. Ciò è particolarmente evidente proprio nel caso dei comunisti, la
cui cultura politica, nonostante tutti i tentativi di cancellarla, a partire dalla Bolognina, si dimostra vitale e radicata nel nostro Paese. Per questa ragione concretissima
(a ben guardare non c’è nulla di più concreto delle culture politiche, da cui discendono prospettive di analisi,
criteri di giudizio, quindi orientamenti e scelte pratiche)
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abbiamo contrastato – e contrasteremo – con determinazione ogni forzatura su questo terreno. Di forzature ne
sono state già compiute, da ultimo nel Cpn del 16 dicembre oltre che da parte del quotidiano «Liberazione». E
hanno prodotto conseguenze gravemente negative, inducendo in chi guarda a Rifondazione comunista un pericoloso senso di precarietà e scoraggiando il rafforzamento strutturale e organizzativo del partito. Contro simili operazioni la nostra opposizione è stata – e sarà –
incondizionata, senza cedimenti.
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Da questa impostazione del percorso unitario discende
la nostra posizione sulla questione del simbolo, che ha
destato l’attenzione dei media in occasione degli «stati
generali». Per un verso è del tutto naturale che la nascita di un nuovo soggetto politico richieda la creazione di
un simbolo diverso da quelli delle organizzazioni che entrano a farne parte. Sin qui siamo tutti d’accordo. I problemi sorgono a proposito del rapporto tra il nuovo simbolo e quelli già esistenti.
A prima vista, nessuno (eccezion fatta per quanti puntano
allo scioglimento di Rifondazione) sembra pretendere che
la creazione del nuovo simbolo de «La Sinistra – l’arcobaleno» implichi l’archiviazione dei simboli dei partiti che
partecipano al percorso unitario. Ma il punto non è la
semplice persistenza dei simboli, bensì la loro funzione.
Che, nel caso dei partiti, coinvolge in primo luogo il momento elettorale, allorché ciascuna forza politica compete
con le altre per la conquista di un consenso che si esprime,
per l’appunto, attraverso la scelta del suo simbolo. Se questo è vero, è immediatamente evidente che assicurare che
i partiti della sinistra conserveranno i propri simboli e
pretendere al tempo stesso che essi si presentino alle elezioni con il simbolo del soggetto unitario sarebbe soltanto
un modo elegante – e un po’ furbesco – per togliere con
una mano quel che si offre con l’altra.
I simboli cancellati dalla scheda elettorale diverrebbero
in breve amorfi segni grafici, privi di vita e di significato. E le stesse formazioni politiche, private della loro visibilità, perderebbero ben presto autonomia e ragion
d’essere. Il che sarebbe, oltre tutto, un grave errore
anche dal punto di vista del rendimento elettorale, per la
banale considerazione, suffragata da innumerevoli esperienze, che la forzata convergenza di più formazioni politiche in un cartello elettorale causerebbe la dispersione
dei consensi di quanti non scorgerebbero la propria
esperienza collettiva e le proprie idee rappresentate da
un simbolo privo di storia.
Se si afferma senza riserve mentali che i partiti continuano a esistere, si deve accettare la conseguenza di questo
fatto. Esistono i partiti, esistono i loro organismi dirigenti e le regole democratiche attraverso cui essi prendono le
proprie decisioni. Questo è quello che conta per noi. In
materia elettorale, saranno gli organismi dirigenti del
partito – in ambito territoriale e centrale – a scegliere di
volta in volta come presentarsi alle elezioni. Come è sempre accaduto, come è giusto che continui a essere.
Abbiamo detto in apertura che ci troviamo in una situazione politica caratterizzata da un elevato grado di instabilità. Ciò ci ha costretti a una riflessione lunga e articolata. Sarebbe tuttavia sbagliato desumerne che si tratti di
una situazione bloccata o priva di vie d’uscita. Al contrario, è nostra opinione che raramente il confronto politico sia stato aperto come ora. Perciò riteniamo indispensabile prendervi parte per cercare di condurlo verso esiti
positivi, mentre pensiamo che isolarsi, attestandosi su
posizioni di sterile denuncia, favorirebbe solo l’affermazione delle posizioni altrui.
È aperto, il confronto politico, tanto in seno al partito
(dove si determinano fluidificazioni e si intravede il superamento di violente contrapposizioni che in questi anni
hanno gravemente indebolito il Prc), quanto sulla scena
politica nazionale (dove il nostro partito può svolgere un
ruolo determinante per un cambio di direzione nell’azione del governo e per una maggiore influenza della sinistra). A questa complessa partita politica parteciperemo
quindi attivamente, impegnando tutte le nostre risorse di
intelligenza e volontà. Fornendo, come sempre, il nostro
contributo costruttivo, affinché il Prc sia sempre più forte
nell’ambito di una forte sinistra di alternativa. EDITORIALE
un antidoto contro la destra revisionista e razzista
la coerenza di Giovanni Pesce
n giorno dello scorso novembre nel parcheggio
del supermercato di una cittadina della Sassonia,
quattro giovanotti in bomber nero ornato di svastiche, stanno molestando pesantemente una immigrata
di sei anni che, terrorizzata, piange e grida attirando l’attenzione di una tedesca poco più adulta di lei che corre in
suo aiuto. I quattro lasciano andare la bambina e puniscono l’intrusa incidendole una croce uncinata su un
fianco. Vorrebbero completare l’opera con la sigla SS
tracciata sul viso con lo stesso coltello, ma la ragazza riesce a scappare e li denuncia.
Negli stessi giorni a Roma, giovani italiani con lo stesso
abbigliamento aggrediscono e feriscono tre rom. Episodi
di razzismo, rivendicati da gruppi dell’estrema destra in
gran parte d’Europa: con un’ormai evidente unità d’intenti e di azione fra i «cuori neri» neofascisti e neonazisti,
concordi nel rivendicare il comune passato e i suoi idoli
(con buona pace di chi ancora tenta di salvare la faccia degli
italiani «brava gente» tutti, anche quelli in camicia nera).
Non è un caso che i brani musicali più apprezzati dai fascisti irriducibili esaltino insieme i combattenti di Salò e i difensori di Berlino («in questa camicia c’ho creduto/ adesso non mollo/non sono un venduto» «ormai non sei più
solo/l’Europa torna a lottare/ per il sangue e contro l’oro»)
ed eleggono a loro icone Rudolf Hesse «ucciso dalla democrazia» e «il capitano Priebke» imprigionato per le sue
idee. Niente da invidiare a una delle più diffuse canzoni
italiane dell’ultima guerra «Camerata Richard», che celebrava l’incontro in trincea di un italiano e un tedesco affermando che «camerati di una guerra/ camerati di una
sorte/ chi divide pane e morte/ non si scioglie sulla terra».
L’attuale ritrovata fraternità ha trovato il suo cemento nel
razzismo e nell’odio per ogni diversità – etnica, religiosa,
comportamentale, di scelta sessuale – vissuta come insidia
U
* DIREZIONE NAZIONALE PRC
B IANCA B RACCI T ORSI *
alla propria tradizione e al proprio stile di vita, la paternità
della quale risale alla nozione di «razza del sangue e dello
spirito», in nome della quale Julius Evola auspicò, negli
anni Trenta, una più stretta convergenza tra fascismo e nazismo, entrambi portatori di una «coscienza imperiale».
I bersagli del primo teorico novecentesco della destra fascista erano l’ebreo e il comunista, due figure che spesso si
sovrapponevano, incarnazioni viventi della aborrita modernità e della temuta uguaglianza, la cui distruzione era
ritenuta indispensabile alla vittoria di due popoli guerrieri, o meglio della loro elite di superuomini, puri ariani di
razza e di pensiero, ai quali spettava il dominio del mondo.
Una concezione selettiva e aristocratica alla quale Mussolini, superati i furori del futurismo e del diciannovismo,
preferì il populismo «dell’Italia proletaria e cattolica». Lo
stesso Hitler, liberatosi con un massacro dell’ala estrema
delle SA, optò per il più rozzo razzismo «di sangue e
suolo» elaborato da Rosemberg, che Evola aveva bollato di
plebeismo e naturalismo: nella sua versione popolare, ciò
si tradusse nell’accusa agli ebrei di essere i responsabili di
tutte le difficoltà – in primo luogo economiche – della
Germania dei primi anni Trenta, che sfociarono nella
«notte dei cristalli» e nei primi campi di sterminio.
Individuare e indicare un capro espiatorio al malcontento diffuso, sfruttando antichi pregiudizi e nuove paure, è
un espediente che risulterà sempre utile per distogliere
la rabbia delle masse dai veri responsabili di una situazione di crisi.
Nel dopoguerra i neofascisti italiani limitarono la loro
propaganda, del resto molto circoscritta, al compianto
per la patria tradita e alla glorificazione dei repubblichini
caduti «per l’onore d’Italia» legittimi combattenti di un
esercito regolare, rispettoso delle leggi di guerra. Leggi
che non valevano per i partigiani, perché scriverà Pisanò:
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Il percorso dalle nostalgie neofasciste degli anni Cinquanta alla presenza ormai
continua di nazifascisti, ex e in attività di servizio, nelle strade, nelle scuole, negli
stadi e nelle assemblee elettive a tutti i livelli, è stato lungo e graduale, reso possibile,
come tutti i successi dell’estrema destra, dalla ambigua tolleranza della «destra
democratica» e dall’acquiescenza di una parte della sinistra
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«non si può pensare di riservare lo stesso trattamento a
chi combatte non vestendo una divisa riconoscibile e a
chi opera nell’ombra in abiti civili… impossibile a riconoscersi a prima vista come militare». Banditi li chiamava l’alleato tedesco e come tali li trattarono i variegati
eserciti di Mussolini, gareggiando in ferocia con le SS.
Di fronte all’impossibilità di contestare gli orrori perpetrati dal nazismo qualcuno tentò di dissociare le responsabilità della Repubblica di Salò da quelle del suo alleato
con una incredibile rappresentazione di Mussolini come
difensore del suo popolo dagli eccessi dei tedeschi che,
pur con la scusante del «tradimento», avevano ecceduto
nella vendetta. Poco peso hanno in quegli anni Pino Romualdi e altri seguaci di Evola che esaltano il valore tedesco e mettono in dubbio le qualità guerriere degli italiani,
ma saranno proprio loro a stabilire i contatti con i nuovi
movimenti dell’estrema destra che cominciano a nascere
in diversi paesi europei e a diffondere in Italia il pensiero
del critico/continuatore di Evola, Alain de Benoist che
sfuma il razzismo in «differenzialismo» e incita a una
battaglia culturale contro ogni forma di «mondialismo» a
favore di «piccole patrie» contraddistinte dal legame con
la propria tradizione e rigidamente monoetniche. Una
nuova versione della concezione eroico-mistica del fascismo delle origini che ha finito per convivere con il più
rozzo e violento razzismo e con il più tradizionale anticomunismo che uniscono oggi sotto gli stessi simboli rampolli dell’alta borghesia nera e sottoproletari disperati.
Il percorso dalle nostalgie neofasciste degli anni Cinquanta alla presenza ormai continua di nazifascisti, ex e in attività di servizio, nelle strade, nelle scuole, negli stadi e nelle
assemblee elettive a tutti i livelli, è stato lungo e graduale,
reso possibile, come tutti i successi dell’estrema destra,
dalla ambigua tolleranza della «destra democratica» e dall’acquiescenza di una parte della sinistra.
I primi tentativi del centro destra a maggioranza Dc di
ammettere il Msi nel cosiddetto «arco democratico» furono respinti dalla ferma reazione di un Paese nel quale
la coscienza antifascista era profonda e viva al di sopra di
ogni differenza politica. Il luglio Sessanta delle magliette
a strisce e la caduta del governo Tambroni eletto con i voti
missini, fu la prova che un popolo, convinto assertore dei
valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana,
vigilava deciso a bloccare ogni velleità di ritorno al passato, lo stesso popolo che rifiutò, negli anni Settanta, la più
insidiosa teoria degli opposti estremismi.
Perfino quando la crisi del Pci era più che annunciata con
le prese di distanza dalle sue origini e dalla sua storia, vecchi partigiani e giovani antifascisti, non solo comunisti,
reagirono con indignazione alla riesumazione (che allora
apparve ai più incomprensibile e gratuita) da parte della
direzione comunista, di quello che fu poi chiamato triangolo rosso emiliano, a indicare la zona dove si era verificata l’uccisione di alcuni fascisti per mano partigiana dopo il
25 aprile. Episodi a suo tempo condannati dal Pci, i cui responsabili, o presunti tali, erano stati giudicati dal tribunale con una severità che non trovò riscontro nei processi
a carico di criminali fascisti, colpevoli di torture e stragi di
ben altra entità. Pochi anni dopo (ma il Pci era già diventato Pds) non suscitò reazioni degne di nota la comprensione espressa da Violante per «le ragioni dei ragazzi di
Salò»: una frase che poteva passare (e passò) come espressione di pietà per giovani illusi e ingannati dai falsi miti
mussoliniani, ma in realtà aprì la strada a quella che doveva diventare sostanziale equidistanza tra fascisti e partigiani, salvo una selezione interna tra buoni e cattivi attuata
con il discutibile criterio della «buona fede» individuale.
Mescolando con scarsa attendibilità storica, l’analisi defeliciana della Resistenza come guerra tra due fazioni, che
escludeva ogni partecipazione di un popolo inerte e spaventato (la zona grigia), con testimonianze più che dubbie
di fascisti dichiarati, cominciò allora e arriva fino a oggi, in
un crescendo di cui non si vede il termine, una campagna
mediatica tesa a sminuire il valore della Guerra di liberazione e/o a relegarla in un lontano passato le cui differenze non hanno più ragione di essere: il fascismo è finito da
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decenni, quindi l’antifascismo non ha più ragione d’essere, lo ha riconosciuto anche Fini, cambiando nome e simbolo al suo partito e condannando le leggi razziali, due atti
che gli hanno consentito l’ingresso nell’«arco costituzionale» e poi nel governo della Repubblica. Condannabile
resta il nazismo al quale si affianca però, a condividerne le
«tragedie» del Novecento, assunto come secolo degli orrori, il Comunismo, accusato dalla Tv di Stato di essere la
causa prima di tutti i fascismi europei che sarebbero nati
per reazione al pericolo rosso.
Alla vergognosa trasmissione del secondo canale tv sulla
Rivoluzione d’Ottobre ha fatto eco la proposta del deputato Volontè dell’UDC di istituire il reato di apologia del
Comunismo preceduta a sua volta dalla richiesta di alcuni membri del Parlamento Europeo di abolire, oltre alla
croce uncinata, anche la falce e martello.
D’altronde croci celtiche, fasci littori, immagini di gerarchi fascisti circolano liberamente su manifesti, striscioni,
magliette e gadgets in palese violazione della costituzione
italiana e delle leggi contro l’apologia di fascismo; un tribunale derubrica in rissa l’omicidio di un giovane antifascista da parte di un coetaneo con la svastica tatuata sul
petto; si lasciano aggredire gli spettatori di un concerto
della Banda Bassotti a meno di 50 metri da una caserma
della Polizia; alla interrogazione di un deputato del Prc sull’ennesima aggressione di Forza Nuova, un sottosegretario
agli Interni, DS, ha risposto parlando di «scontri fra ideologie opposte». Una tolleranza inaccettabile, ma non sufficiente alla destra (sia quella definita «estrema» sia quella «istituzionale») che pretende sia eliminata ogni forma
di opposizione in scuole e territori autodefiniti «neri»,
copertura delle spedizioni punitive contro gay, mendicanti, extracomunitari e antifascisti, la cancellazione dai ca-
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lendari come dai libri scolastici di ogni celebrazione della
Resistenza, il riconoscimento, morale e legale, di morti e
reduci di Salò, corsi scolastici che diffondano la cosiddetta
«memoria dei vinti».
L’ultima richiesta avanzata dall’autorevole giunta del Comune di Milano riguarda la facoltà di dividere i nemici di
allora in onorevoli e non. Si presume rientrino nella
prima categoria alcuni appartenenti a formazioni monarchiche, liberali e militari che riscattarono la loro
colpa con chiare professioni di anticomunismo avvalorate da atti conseguenti, come Edgardo Sogno, organizzatore della Gladio, armata segreta pronta a intervenire in
caso di vittoria elettorale delle sinistre, come Taviani che
consentì l’insabbiamento nell’armadio della vergogna
dei fascicoli relativi a procedimenti contro crimini nazisti e fascisti, oltre ai pochi partigiani di sinistra disposti a
essere assimilati alle brigate nere di Salò e a pentirsi di
legittime azioni di guerra alle quali tutti gli italiani erano
chiamati dal legittimo governo Badoglio oltreché dalla
propria coscienza di cittadini.
Il discrimine è ancora una volta l’anticomunismo, in nome
del quale possono essere ritenuti poco democratici proprio coloro che la democrazia conquistarono e difesero.
Chi non si pente invece non è degno di rispetto né da vivo
né da morto da parte dei nemici di allora: come Giovanni
Pesce, medaglia d’oro alla Resistenza, morto a Milano il
27 luglio scorso. Emigrato in Francia dove lavora in miniera e milita nella Jeunesse Communiste, Pesce, non
ancora diciottenne, combatte nelle brigate internazionali in Spagna dove è ferito, torna clandestinamente in Italia, è arrestato e condannato al carcere e poi al confino
fino alla caduta del fascismo. L’8 settembre ha 25 anni,
un uomo maturo per un tempo che faceva crescere in
fretta, in più con un’ampia preparazione politica e militare, quindi è un dirigente e come tale viene inviato a Torino e poi a Milano con l’incarico di creare e dirigere un
Il discrimine è ancora una volta l’anticomunismo, in nome del quale possono essere
ritenuti poco democratici proprio coloro che la democrazia conquistarono e difesero.
Chi non si pente invece non è degno di rispetto né da vivo né da morto da parte dei nemici
di allora: come Giovanni Pesce, medaglia d’oro alla Resistenza, morto a Milano il 27
luglio scorso
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particolare settore della Resistenza, i GAP, partigiani di
città organizzati in piccoli gruppi nella clandestinità più
stretta che si muovono rapidi e improvvisi in azioni di sabotaggio, esecuzioni di spie e massacratori, liberazioni di
compagni catturati, copertura armata di mobilitazioni
popolari come l’assalto delle donne ai forni, gli scioperi
operai e le manifestazioni studentesche.
Come i loro compagni delle formazioni di montagna, la
condizione per combattere e vivere è la solidarietà popolare: una porta che si apre per nasconderli, un passante
che dà false indicazioni agli inseguitori, il silenzio di chi
vede e sa ma non tradisce, anche rischiando la libertà e la
vita. Tedeschi e fascisti li odiano e li temono in egual misura, favoleggiano di rifugi misteriosi, di comandanti
stranieri, di enormi rifornimenti di travestimenti e armi,
cibo e denaro, si sentono spiati continuamente e continuamente in pericolo.
Il gappista Visone (questo è lo pseudonimo di Giovanni)
impara ad agire e vivere da solo, a uccidere a sangue freddo, a veder morire compagni e compagne più cari dei fratelli; la sua compagna Nori, «la più bella delle staffette» è
arrestata, torturata, internata in un lager tedesco, e lui
continua a combattere. Sopravvissuti entrambi si sposano,
continuano la loro vita di lavoratori e di comunisti senza
mai pentirsi, rifiutando la definizione di «zona grigia»,
per il popolo che ha reso possibile vivere e vincere, non accettano il parallelo fra chi morì per liberare il suo paese
dalla più aberrante delle tirannidi e chi quella tirannide
difese cercando di impedire l’avvento di un mondo diverso e migliore. Continuano a spiegare a quelli che verranno
dopo la necessità di continuare a combattere il fascismo, in
ogni tempo, in ogni luogo, con ogni mezzo.
Senza tregua, come recita il titolo del libro in cui Giovanni Pesce racconta la sua esperienza di soldato e di partigiano, in Spagna, sempre dalla stessa parte, quella giusta,
senza tentennamenti né rimpianti, un uomo che ha tutte
le carte in regola per essere proposto come esempio di
come non deve essere un antifascista per meritare il ri-
spetto che la destra può offrire a un ex nemico e puntualmente conferma il giudizio il vicesindaco di Milano, di
Alleanza Nazionale, che in un’unica seduta propone la
costruzione di un sacrario comune per le tombe di repubblichini e partigiani come atto di riconciliazione e si
oppone a dare sepoltura a Visone nel Famedio, perché
«la storia dimostra che Pesce, a differenza di altri partigiani, non è stato uomo di riconciliazione». Un commento che sarebbe piaciuto al compagno Pesce, che forse
avrebbe commentato con la consueta pungente ironia
che i migliori elogi ai comunisti sono quelli dettati dall’odio dei nemici, un odio contraccambiato, appunto,
senza tregua, in nome della memoria di un passato aspro
e glorioso che non può essere dimenticato né travisato.
Fra tante e tanti che raccolgono il messaggio di Giovanni
e Nori e dei loro compagni, mai pentiti perché non compirono mai azioni di cui pentirsi, ci sono anche i giovani
comunisti sardi che il 20 ottobre a Roma portarono uno
striscione enorme con la scritta «senza tregua».
EDITORIALE
la rivoluzione d’Ottobre,
il ’68 e la rifondazione comunista
novant’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre ci si può
ancora interrogare sul significato e sull’insegnamento di quell’esperienza epocale, che segnò e
determinò la storia del Novecento? Su ciò che rappresentò la nascita dell’Unione Sovietica per le speranze e le
aspirazioni di decine di milioni di proletari in tutto il
mondo e, successivamente, per la lotta vittoriosa contro
il nazi-fascismo e per la liberazione di tanti popoli del
terzo mondo dalla schiavitù coloniale, si è detto e scritto
in gran quantità. Non è, pertanto, su questo che mi soffermerò nelle seguenti brevi considerazioni, quantunque
ritenga fondamentale la riaffermazione instancabile dell’importanza e dell’unicità di un evento rivoluzionario,
che impresse una svolta radicale alla storia dell’umanità.
Per la prima volta le masse dei proletari e degli sfruttati da
oggetti divenivano soggetti attivi del proprio destino, da
classe subalterna si trasformavano in classe dirigente. I
rapporti di produzione venivano completamente rovesciati, nel senso che, a differenza di tutte le rivoluzioni precedenti, le quali avevano determinato la trasmissione della
proprietà dei mezzi di produzione da una classe di sfruttatori a un’altra classe di sfruttatori, per quanto più avanzata, la rivoluzione dei Soviet realizza un obiettivo senza precedenti: la soppressione delle classi sfruttatrici e la collettivizzazione dei mezzi di produzione.
La rivoluzione dei Soviet – e qui torno all’interrogativo iniziale – fu resa possibile dalla convergenza dei due fattori
che Lenin, apportando un’innovazione teorica che chiudeva definitivamente col positivismo, il gradualismo, il determinismo di cui erano impregnate le socialdemocrazie e
i partiti operai europei, tanto nelle loro versioni riformiste
quanto in quelle massimaliste, riteneva indispensabili: il
fattore soggettivo (il partito rivoluzionario, come avanguardia cosciente, organizzata, determinata) e il fattore
A
* GIORNALISTA
C LAUDIO B UTTAZZO *
oggettivo (il più alto livello di maturazione delle contraddizioni nei rapporti di produzione e nei rapporti di classe).
Lenin, cioè, sviluppa ulteriormente il pensiero di Marx e
di Engels, approfondendo l’analisi dello Stato e dell’organizzazione del capitalismo nell’epoca dell’imperialismo. E la sua analisi lo conduce a teorizzare la rottura
della catena mondiale dell’imperialismo nei punti dove
essa presenta i suoi anelli più deboli. Nello specifico,
nella Russia zarista. È, questa, un’innovazione teorica di
tale portata, da sconvolgere tutte le certezze dei pensatori marxisti fino a quel momento. Tanto che non mancò da
più parti chi accusasse Lenin di deviazionismo, di tradimento del marxismo. Lenin dimostrò concretamente
come la rivoluzione fosse possibile anche in un paese capitalisticamente arretrato, quantunque si rendesse ben
conto che, se la rivoluzione non avesse presto vinto anche
in almeno uno o due paesi avanzati dell’Occidente, quella russa avrebbe avuto ben poche prospettive.
Di analoga portata innovativa la concezione leniniana del
partito rivoluzionario come avanguardia cosciente del
proletariato, fortemente e centralmente organizzato. Un
partito il cui compito fosse, al suo interno, di elaborare
una teoria e una prassi rivoluzionaria, formare i quadri e
darsi una struttura unitaria e capillare. Al suo esterno, di
suscitare e guidare la lotta di classe, radicarsi nei Soviet,
nei sindacati e in tutte le strutture organizzate del proletariato; ma anche in tutti luoghi di conflitto sociale (Dobbiamo sostenere, saper guidare – dice Lenin – tutte le rivendicazioni e i malcontenti: si tratti di insegnanti che
reclamano una migliore retribuzione o dei pope che protestano contro le gerarchie ecclesiastiche). Mai, però,
Lenin concepì il partito come strumento di gestione del
potere. Il partito, come guida cosciente del proletariato,
sarebbe dovuto rimanere tale anche dopo la vittoria rivo-
9
La rivoluzione dei Soviet realizza un
obiettivo senza precedenti: la soppressione
delle classi sfruttatrici e la
collettivizzazione dei mezzi di produzione
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luzionaria. Il potere doveva appartenere al proletariato
in quanto classe. Tutto il potere ai soviet! Questa era la
parola d’ordine di Lenin.
Questi temi leniniani verranno, poi, ulteriormente sviluppati alla luce della specificità italiana e delle peculiarità dei rapporti di produzione e dell’organizzazione sociale e istituzionale dell’Occidente da un altro grande innovatore marxista, che risponde al nome di Antonio
Gramsci. Gramsci coglie la gigantesca novità della Rivoluzione d’Ottobre. Al contempo, sa che la rivoluzione in
Italia e in Occidente non può risolversi in una presa del
Palazzo d’Inverno.
Di qui, la sua originalissima riflessione sull’egemonia,
sulle riforme strutturali come strumento di accelerazione delle contraddizioni capitalistiche e del processo di
modificazione dei rapporti di produzione e di forza tra le
classi. E la riflessione, inoltre, sulle alleanze di classe e,
ancor più, sulla forma e sul ruolo del partito come intellettuale collettivo. Le tesi di Lione, che segnano uno
scontro frontale con Bordiga e il gruppo dirigente bordighiano, sono un punto di discontinuità e di innovazione
profonda, che non tolgono nulla alla valenza e alla continuità rivoluzionaria delle posizioni gramsciane. Semmai, ne sono un arricchimento.
Non è qui mio intendimento soffermarmi sugli errori, le
storture, le degenerazioni, a volte anche gli orrori, prodotti dalla storia dell’esperienza sovietica e del cosiddetto socialismo reale. E neppure voglio soffermarmi sulla storia,
di tutt’altro segno, ma anch’essa degna di analisi critica,
del movimento comunista in Occidente, e in particolare
sulla storia del Pci. Occorrerebbe una trattazione a parte.
Mi soffermo brevemente, invece, per restare sul tema
dell’innovazione, sulle vicende di un anno a partire dal
quale a mio giudizio nulla può essere più affrontato come
prima sul tema della rivoluzione e della prospettiva socialista: il 1968.
Le novità che irrompono impetuosamente sulla scena nell’esplosione globale di quell’anno non sono ancora state
sistematizzate in un pensiero unitario. Va, tuttavia, premesso che proprio la mancata comprensione e sintonizzazione con quelle novità sono, forse, alla base dell’incapacità di innovazione in senso rivoluzionario dei partiti comunisti e della loro progressiva deriva socialdemocratica.
Di fronte alla difficoltà di misurarsi col nuovo e all’impossibilità di dare risposte con un pensiero mummificato, invece di innovare quegli strumenti, li abbandonano del
tutto, scegliendo la via più semplice della rinuncia e dell’accodamento alle compatibilità del sistema.
Lungi da me un’esegesi acritica del ’68, che è, tra l’altro,
molto complesso e vede una molteplicità di protagonismi
non tutti riconducibili a un’unica matrice. La modernizzazione capitalistica fa irrompere, a partire da quell’anno,
sulla scena sociale e politica una serie di soggetti nuovi. A
muoverli – ed è una novità storica assoluta – non sono solo
le contraddizioni economico-sociali del capitalismo, ma
contraddizioni che attengono a sfere che possiamo definire sovrastrutturali, ma che, come ci aveva già insegnato
Gramsci, non sono da meno, in quanto motrici della trasformazione rivoluzionaria, di quelle strutturali. A essere
sottoposta a critica di classe non è solo l’organizzazione
capitalistica del lavoro, ma sono le gerarchie sociali che
essa produce nella fabbrica, nella scuola, nella famiglia,
nei rapporti interpersonali, nella cultura. La contestazione investe i modelli di vita, di esistenza, di espressione, di
rappresentazione nell’arte, nella letteratura. Il ruolo stesso della medicina e della psichiatria nel sistema capitalistico viene inesorabilmente smascherato. Non c’è rivoluzione, se non si mette a soqquadro l’intero sistema delle
relazioni borghesi. E, poiché le contraddizioni sovrastrutturali non sono vissute solo dal proletariato economicamente sfruttato, ma da tutta una serie di figure sociali fino
ad allora egemonizzate dalla borghesia, ma che nel capitalismo monopolistico divengono cinghia di trasmissione
subalterna dei saperi e dei valori borghesi, ecco che queste sono sottoposte a un processo di proletarizzazione, che
fa di esse dei produttori differiti di plusvalore.
EDITORIALE
è evidente che un partito comunista che non riesce o non è abituato a concepire che
un processo rivoluzionario si possa produrre al di fuori del proprio controllo e della
propria influenza, resta spiazzato e guarda con diffidenza, se non a volte con vera e
propria ostilità, a tali processi. Non v’è dubbio che Lenin e Gramsci avrebbero capito e si
sarebbero teoricamente attrezzati di fronte a tali novità
È un cambiamento di proporzioni gigantesche. I movimenti sociali che, a partire dal ’68, si producono non sono
più, e soltanto, portatori di rivendicazioni economico-sociali; ma sono portatori di una critica complessiva al capitalismo, di un progetto di società alternativa al capitalismo.
Essi sono, cioè, non più solo movimenti di lotta su temi
parziali, non più meri movimenti sociali con un obiettivo
immediato e limitato al tempo del suo raggiungimento; ma
sono veri e propri soggetti politici, portatori autonomi di
un progetto di cambiamento e tendono ad autoriprodursi.
È evidente che un partito comunista che non riesce o non
è abituato a concepire che un processo rivoluzionario si
possa produrre al di fuori del proprio controllo e dalla
propria influenza, resta spiazzato e guarda con diffidenza,
se non a volte con vera e propria ostilità, a tali processi.
Non v’è dubbio che Lenin e Gramsci avrebbero capito e si
sarebbero teoricamente attrezzati di fronte a tali novità.
L’89 ha dimostrato definitivamente che i vecchi partiti
comunisti (sia in Oriente, sia – se pur per ragioni diverse – in Occidente) non erano più in grado di rigenerarsi
a sinistra e, nella loro maggioranza, hanno finito per autoliquidarsi o riciclarsi su posizioni socialdemocratiche,
peraltro su quelle più moderate.
Penso che, in questo panorama, l’esperienza di Rifondazione comunista sia quanto di più originale e innovativo
sia emerso, dopo i rivolgimenti del 1989, nel panorama
della sinistra anticapitalistica mondiale. Il suo massimo
merito storico è di aver capito che la forma, il modo di organizzarsi e di fare politica di massa di un partito rivoluzionario nelle nuove condizioni storiche va profondamente modificato. È poco comunista? Al contrario. Poiché penso che nessuno sia in grado oggi di proporre un
progetto definito di trasformazione sociale (a meno che
non se lo faccia a tavolino), ritengo che, marxisticamente, esso vada costruito nell’esperienza concreta. E in questo senso – c’è poco da fare – siamo a un nuovo inizio.
Tutti siamo chiamati a una nuova sperimentazione,
anche a costo di sbagliare ed essere costretti a un nuovo
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inizio. A Bernard Russell, che gli chiedeva cosa sarebbe
successo se un piccolo contadino giunto al potere avesse
usato questo potere per creare una nuova classe sfruttatrice, Lenin rispose: «Ci sarà sempre un altro piccolo
contadino che si rivolterà contro la nuova classe sfruttatrice». Come a dire: la lotta di classe continua e nulla è
mai per sempre dato, nulla è mai certo.
Cosa sta avvenendo, d’altronde, oggi in Cina? Non si sperimenta anche lì? Non mi sento un liquidazionista. E poiché siamo tutti chiamati a portare avanti ciascuno la propria esperienza di innovazione, guardo con interesse e curiosità anche all’esperimento cinese. Trovo singolare che
alcuni compagni riconoscano alla Cina il diritto di sperimentare nuove strade, ma poi neghino questo diritto al
proprio partito. Finiremo male, dicono. E perché, la Cina
finirà bene? E da dove traggono tutte queste certezze?
Rifondazione Comunista esiste ormai da circa 15 anni. E
Rifondazione Comunista esiste ormai da circa 15 anni. E sono ormai almeno 10 anni
che sento periodicamente dire da qualche profeta di sventure: è un partito
socialdemocratico, non è un partito solido, farà la fine del Pci-Pds. Beh!, finora non è
successo. So che il 20 ottobre, a Roma, c’era un milione di persone. Sfido chiunque a
dirmi quale partito comunista oggi al mondo sia in grado di organizzare una
manifestazione di un milione di persone
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sono ormai almeno dieci anni che sento periodicamente
dire da qualche profeta di sventure: è un partito socialdemocratico, non è un partito solido, farà la fine del Pci-Pds.
Beh!, finora non è successo. So che il venti ottobre, a
Roma, c’era un milione di persone. Sfido chiunque a dirmi
quale partito comunista oggi al mondo sia in grado di organizzare una manifestazione di un milione di persone.
Guardo con interesse alla Cina – dicevo – ma anche al Venezuela, a Cuba. Al Pc greco e portoghese; ma anche alla
Die Linke tedesca, che non si chiamerà comunista (ma
non si chiamava comunista neanche la Sed dell’ex-Germania orientale, e neanche il Poup polacco e neppure il
Posu ungherese, tutti nati, questi partiti, dalla fusione tra
i partiti comunisti e le sinistre socialiste e socialdemocratiche di quei paesi), ma insidia ormai da sinistra le
posizioni della Spd.
Il ruolo dirigente del partito, la sua sfida per l’egemonia
rimangono un obiettivo; ma si determinano oggi in un
modo diverso da come indicato da Lenin e poi da Gramsci nei rispettivi contesti storici. La sfida di Rifondazione
è di divenire la catalizzatrice di un’alleanza orizzontale
con i movimenti e le altre forze della sinistra alternativa.
Ma esplicare questa funzione catalizzatrice non equivale
forse a esercitare un’egemonia?
Pensiamo oggi non solo a quanti lavoratori, ma anche a
quanti studenti, giovani precari, a quante e quanti provengono da esperienze dei movimenti pacifisti, femministi, ambientalisti guardano oggi a Rifondazione comunista come al proprio partito di riferimento o, comunque, al partito a loro più vicino. Quando si dice che le
contraddizioni non sono solo quelle tra capitale e lavoro,
ma anche tra uomo e donna e tra uomo e natura, si sta facendo forse un’operazione antimarxista o si sta togliendo
centralità alla contraddizione capitale-lavoro? Ma, se
così fosse, perché Engels avrebbe sentito l’esigenza di
scrivere un trattato apposito sull’origine della famiglia e
sulla sottomissione della donna? Davvero, di fronte all’enormità assunta oggi dalla questione ambientale e di
fronte alla vastità e varietà dei movimenti delle donne, ce
la possiamo cavare dicendo loro che l’ortodossia marxista spiega che quanto loro rivendicano è tutto compreso
nella contraddizione capitale-lavoro? Da questo punto di
vista, Rifondazione Comunista ha compiuto innovazioni
profonde e necessarie, senza nulla perdere – io credo –
della sua «purezza» rivoluzionaria. Penso che questo
partito, pur nella necessaria duttilità dell’azione politica,
abbia – e ciò, anche a differenza di altri partiti comunisti
che si ritengono depositari dell’ortodossia – tenuto
fermo sui principi fondamentali e non negoziabili con
tale determinazione, da mettere a rischio la propria stessa sopravvivenza o da rischiare una momentanea, ma non
per questo meno dolorosa, impopolarità, come avvenuto
del ’98, quando ritirò il sostegno al primo governo Prodi,
o come è avvenuto ogni qual volta si sia trattato di schierarsi con determinazione dalla parte degli immigrati e
dei rom (non tutti i partiti comunisti lo fanno) o a favore
EDITORIALE
dell’indulto (anche questo, non tutti i partiti comunisti lo
fanno) o ancora, come in questi giorni, di contrastare
l’ondata xenofoba e le leggi securitarie.
Certo, se l’impianto generale va bene, ci sono anche cose
che non mi convincono. Su questo mi sento di esercitare
una critica, che però non mi fa sentire estraneo all’esperienza complessiva del partito e al suo sforzo di
(ri)costruzione di un pensiero e di una prassi marxista.
Penso che la costituzione della Sinistra Europea, nel
modo settario e parziale in cui essa è stata avviata, vada
decisamente contrastata. Ma anche qui, non in nome di
una antistorica unità dei «partiti comunisti e operai»
(c’è ancora chi usa questa espressione?), ma per dar vita
a un coordinamento di tutte le forze e i movimenti della
sinistra anticapitalista, ecologista e femminista presenti
in Europa, compresi tutti i partiti comunisti.
Così come penso che, in Italia, l’unità vada costruita a
partire da quanti hanno aderito alla manifestazione del
venti ottobre. La partecipazione a quella manifestazione,
per la sua valenza sociale e di classe, è la discriminante
imprescindibile, la condicio sine qua non, per la costruzione di una piattaforma unitaria.
E, poiché quella manifestazione è stata essenzialmente una
manifestazione di comunisti con decine di migliaia di bandiere rosse con falce e martello orgogliosamente sventolate da tantissimi giovani in una mescolanza inedita dei simboli del Prc e del Pdci, l’unità che si è realizzata in quel corteo, e di cui i gruppi dirigenti dei due partiti devono
prendere atto, è, in ultima analisi, l’unità dei comunisti.
Dicevo prima che, in termini generali, l’unità può, teoricamente, realizzarsi nei modi più vari nei diversi paesi, a
seconda delle peculiarità storiche e politiche delle singole realtà. È, però, indiscutibile, che nella specifica realtà
italiana, segnata storicamente da una forte e originale
presenza comunista con un retroterra teorico di rilevanza
internazionale e con esperienze di massa che hanno scritto la storia democratica e determinato le conquiste politiche e sociali del nostro paese, la nuova costruzione di una
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forza anticapitalistica non può prescindere dalla propria
tradizione storica e dai nomi e dai simboli che l’hanno caratterizzata. Chi, in questo paese, ha inteso rompere con
tale tradizione si è già visto la deriva che ha imboccato.
Senza, poi, considerare che, nel clima di regressione reazionaria, di anticomunismo e di revisionismo che si respira in questa fase storica, la scelta dell’abbandono di
quei simboli spianerebbe ancor più la strada alla criminalizzazione delle idee e della storia comunista nel nostro
paese, se non alla loro messa al bando per legge, come già
avvenuto in altri paesi europei.
Assolutamente non possiamo permetterci la gravissima
responsabilità storica di legittimare la pericolosa e crescente campagna anticomunista in Europa. Sarebbe un
crimine imperdonabile.
Certo, si può costruire un’unità più ampia della sinistra,
pur senza dar vita a un partito unico. Ma, anche qui, nessuna unità a sinistra, che non si costruisca e non si cimenti nelle lotte sociali, è possibile. In questo, l’insegnamento della Rivoluzione d’Ottobre ha, a tutt’oggi, una
validità non emendabile. bipolarismo e sistema
maggioritario
i nodi vengono al pettine
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A
lla fine i nodi del maggioritarismo e della seconda repubblica sono
venuti al pettine. Dei guasti e dei fallimenti che essi portavano con sé,
e che pure erano facili da prevedere, hanno preso coscienza perfino
molti degli apprendisti stregoni che ce li hanno propinati con furore ideologico
per più di un decennio. Eccoci allora di nuovo a discutere di riforme elettorali
(e anche, purtroppo, di quelle costituzionali), nella speranza di imprimere così
al sistema politico italiano quell’equilibrio stabile che non si è riusciti più ad
avere da quando è crollato l’assetto della prima Repubblica. Ma stavolta qualche novità c’è. Una di queste è che pare finalmente caduto il tabù del proporzionale, demonizzato fino a ieri, soprattutto nel centrosinistra – e questo è un
bene. Così come è sicuramente un passo avanti aver preso atto che produrre
maggioranze artificiali in forza delle regole elettorali non costituisce di per sé
una garanzia di stabilità ed efficienza dei governi. Detto in altri termini, quello
che è ormai in discussione è il bipolarismo, almeno nella forma in cui si è
affermato in Italia. Chi l’avrebbe mai detto? Insomma, la coltre di nebbia ideologica che ha avvolto la seconda Repubblica si è un po’ diradata e quindi è
legittimo presumere che si stiano creando le condizioni per uscire una buona
volta dalla transizione infinita del nostro sistema politico. Ma da qui a ritenere
di aver trovato il bandolo della matassa ancora ce ne passa.
Il dibattito in corso, infatti, si presenta carico di insidie, tanto più quanto più
esso sembra aver acquistato un livello di consapevolezza che negli anni scorsi
non aveva mai avuto. Le insidie provengono innanzitutto dai due macigni che
incombono sulle parti in causa: il referendum Guzzetta e il destino del governo Prodi. Ma, più in generale, il fatto è che siamo a un punto in cui il gioco
delle riforme non può più essere a somma positiva, nel senso che avrebbero
un po’ tutti qualcosa da guadagnarci (o nessuno da perderci, il che è lo stesso). Si ha un bel dire che le riforme devono essere un bene di tutti, e quindi
vanno fatte in modo ampiamente condiviso: la realtà è ben diversa. Come si
dice, ora «il gioco si fa duro». Non è un caso che quest’ultima iniziativa riformatrice provenga dalla leadership del Partito democratico. Infatti, essa va letta
nel quadro della riorganizzazione del sistema politico che la nascita del Pd ha
messo in moto, per la prima volta in maniera autonoma e unilaterale rispetto
alla struttura di opportunità istituzionale. Una riorganizzazione che mira esplicitamente a superare l’attuale bipolarismo coatto, onnicomprensivo e per
blocchi, che era stato determinato in gran parte dalle regole elettorali maggioritarie, ma in parte anche da una effettiva polarizzazione imperniata sulla
figura di Berlusconi. Ecco, il punto è: con che cosa si vorrebbe sostituire questo bipolarismo coatto? Qual è, insomma, il progetto veltroniano?
Quando, folgorato sulla via di Damasco, il segretario del Pd si è inaspettatamente convertito al «proporzionale», ha dichiarato che il suo scopo è quello
di dar vita a un bipolarismo «virtuoso», che cioè consenta nell’immediato
alleanze di governo più omogenee e un pluripartitismo moderato (meno
E NRICO M ELCHIONDA *
Alla fine i nodi del
maggioritarismo e della
seconda repubblica sono
venuti al pettine. Dei
guasti e dei fallimenti che
essi portavano con sé, e
che pure erano facili da
prevedere, hanno preso
coscienza perfino molti
degli apprendisti stregoni
che ce li hanno propinati
con furore ideologico per
più di un decennio
* D OCENTE DI S CIENZE P OLITICHE PRESSO
L 'UNIVERSITÀ DI NAPOLI «L'O RIENTALE »
ISTITUZIONI
frammentato), ma che in prospettiva
faccia valere la vocazione maggioritaria del suo partito. È importante
capirsi su che cosa si debba intendere con «vocazione maggioritaria».
Infatti, questa espressione è stata
intesa dai più come una generica
ispirazione soggettiva, laddove in
scienza politica essa ha un significato
ben preciso: la capacità di un partito
di raggiungere una maggioranza
autonoma di seggi e quindi di formare un governo da solo. Ora, poiché è da escludere che Veltroni desideri o si illuda di poter tradurre in
realtà un sistema a partito predominante (cosa che non era riuscita
neppure alla Dc, e in tempi ben
diversi), è evidente che sta pensando
a una classica situazione di bipartitismo, che – com’è noto – si caratterizza appunto per il fatto che vi sono
due partiti a vocazione maggioritaria
i quali si alternano periodicamente
al governo. Tant’è vero che l’iniziativa del Pd non solo ha già messo in
moto un processo di riorganizzazione anche all’interno dell’altro polo
del sistema, ma si è anche convogliata verso la ricerca di un accordo sulle
riforme con il leader del maggiore
partito di opposizione.
Infatti, per potersi realizzare, il progetto ha bisogno di essere accompagnato da una struttura di opportunità appropriata. Non lo è, evidentemente, il sistema elettorale vigente,
così come non lo era il Mattarellum
e non lo sarebbe quello che scaturisse eventualmente dal referendum
Guzzetta. Perché questi sono tutti
sistemi dagli effetti maggioritari, e
ormai anche Veltroni ha capito che
nel contesto italiano il maggioritario
può al massimo offrire una struttura
delle opportunità entro cui i partiti
sono indotti a formare coalizioni
massime vincenti di cui poi restano
prigionieri. Quel che per i partiti più
grandi è insopportabile, in questo
bipolarismo coatto, è il fatto di avere
bisogno di tutti, anche dei più piccoli, per poter vincere le elezioni e
soprattutto il potere di ricatto che
pertanto questi ultimi possono esercitare. A maggior ragione questa
situazione risulterà poi insopportabile a un partito moderato come il Pd
se è costretto a scendere a patti con
forze alternative o genuinamente
riformatrici quali sono quelle alla
sua sinistra. Ma qui il discorso vale
anche all’inverso, per cui sbagliano
coloro i quali a sinistra si aggrappano
al bipolarismo coatto pensando così
di sottrarsi al rischio della marginalizzazione e alle tentazioni di splendido isolamento, senza rendersi
conto che quello rappresenta piuttosto un vincolo rispetto alla sfida di
una vera competizione per l’egemonia con il Pd. Si impone, di conseguenza, la necessità di attrezzarsi per
questa sfida, con cui non potrà certo
cimentarsi una sinistra frammentata
come quella attuale: il che non significa però avallare orientamenti che –
rovesciando il ragionamento – concepiscano la legge elettorale come
uno strumento (una scorciatoia,
rispetto all’agire politico) per imporre l’aggregazione delle forze e affermare la propria posizione di supremazia nei confronti dei più deboli.
Se questo è il quadro, possiamo cercare di capire quali siano le regole
elettorali più confacenti agli interessi
e ai progetti in campo. A questo
scopo, non è superfluo ricordare che
in un processo di riforma di regole
del gioco come quelle elettorali, pur
essendo problematico distinguere
nettamente le opzioni di valore dai
calcoli di parte, a prevalere nel comportamento degli attori sono sempre
questi ultimi, che tuttavia non sono
del tutto univoci. Orbene, per valutare la logica di un sistema elettorale
si deve guardare, oltre che al risultato complessivo (misurabile, ma ex
post), a quegli aspetti che influiscono
sul processo di trasformazione di voti
in seggi, ma che influiscono anche
sul comportamento degli attori coinvolti: partiti, candidati ed elettori. A
svolgere una funzione nevralgica, da
questo punto di vista, sono le
seguenti quattro dimensioni: a) la
formula elettorale (sistema di calcolo
per la conversione voti-seggi), b) il
tipo di collegi o circoscrizioni (ambito di assegnazione dei seggi), c) le
soglie di rappresentanza (sbarramenti formali per l’accesso alla distribuzione dei seggi), d) la struttura della
votazione (tipo di scelte presentate
agli elettori e loro canalizzazione
nella procedura di distribuzione dei
seggi).
A seconda di come si definiscono
tutte queste dimensioni si avrà un
sistema elettorale la cui logica di
funzionamento è più o meno maggioritaria o proporzionale, come
risulta dall’indice di disproporzionalità, che misura appunto la deviazione dalla proporzionalità nel rapporto voti-seggi. Così, nei sistemi proporzionali questo indice è ovviamente più basso che in quelli maggioritari, ma si differenzia notevolmente da caso a caso. Per farsi
un’idea, si consideri che il valore
dell’indice di disproporzionalità (di
Gallagher), che nei sistemi maggioritari va dal 9% in su, è del 2,5% in
Germania e dell’8% in Spagna.
Poiché uno degli effetti pratici più
importanti della disproporzionalità è
il premio in termini di seggi che i
partiti maggiori (in particolare, i
primi due) ottengono rispetto alla
quota di voti riportati, non c’è da
sorprendersi se in Spagna mediamente questo premio (per i due partiti maggiori) risulti del 12,2%,
mentre in Germania solo del 4,1%.
Si capisce, allora, perché i sistemi
proporzionali possano avere effetti
così diversi sul formato e sulla meccanica dei sistemi partitici, sostenendo pluripartitismi moderati come
quello tedesco o addirittura bipartitismi come quello spagnolo.
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Se invece l’obiettivo è quello di impiantare partiti a
vocazione maggioritaria fino a conseguire un sistema
bipartitico, allora è più al modello spagnolo che si deve
guardare. Ed è proprio ciò che sembra stia facendo il
Partito democratico, la cui proposta di riforma avanzata
recentemente da Veltroni non deve essere equivocata per
il solo fatto di dichiarare un’ispirazione proporzionale e
di ammiccare ai simpatizzanti del sistema tedesco
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Poiché i due «modelli» tedesco e spagnolo sono appunto le fonti a cui si
ispirano le principali ipotesi di riforma elettorale attualmente in discussione in Italia, bisognerebbe capire
come essi producano risultati così
diversi. Fermo restando che tali risultati discendono in misura non marginale dalla struttura preesistente del
sistema partitico, se vogliamo comprendere la logica dei due sistemi
non è necessario che ne descriviamo
(per l’ennesima volta) la concatenazione delle procedure, ma può bastare che se ne focalizzino gli aspetti
determinanti. Diciamo allora che i
due sistemi non si differenziano
molto per la formula utilizzata, ma
per il tipo di collegi entro cui essa
viene applicata, che sono mediamente molto piccoli in Spagna e molto
grandi in Germania. Dal momento
che la grandezza del collegio è correlata (in maniera inversamente proporzionale) con la soglia «effettiva»
di rappresentanza, è il sistema tedesco ad avere più bisogno di un vero e
proprio sbarramento formale (al 5%)
per ostacolare un’eccessiva frammentazione partitica. Invece, i due sistemi
si differenziano formalmente per la
struttura della votazione, perché in
Germania accanto allo scrutinio di
lista (con liste chiuse e senza voto di
preferenza) è previsto un canale uninominale maggioritario, sennonché
quest’ultimo nella procedura di
distribuzione dei seggi è nettamente
subordinato al primo.
Ora, anche da questi rapidi cenni, è
facile desumere che entrambi questi
modelli proporzionali si prestano
bene allo scopo di innescare un
bipolarismo meno rigido di quello
attuale, che riduca la frammentazione partitica e favorisca la formazione di maggioranze più coese. Se
invece l’obiettivo è quello di
impiantare partiti a vocazione maggioritaria fino a conseguire un sistema bipartitico, allora è più al modello spagnolo che si deve guardare. Ed
è proprio ciò che sembra stia facendo il Partito democratico, la cui proposta di riforma avanzata recentemente da Veltroni non deve essere
equivocata per il solo fatto di dichiarare un’ispirazione proporzionale e
di ammiccare ai simpatizzanti del
sistema tedesco. È vero, essa ha cercato di combinare diversi sistemi (il
tedesco del 1949, lo spagnolo e il
Mattarellum nella versione del
Senato), ma in effetti la sua logica di
funzionamento è una via di mezzo
tra un proporzionale «molto rafforzato» alla spagnola e un maggioritario tout-court. Essa infatti prevede
un doppio canale di voto come nel
modello tedesco, ma al contrario di
questo predilige fortemente il voto
uninominale. La formula che contraddistingue il sistema è quella proporzionale, però essa si applica al
livello delle circoscrizioni (e non a
livello nazionale come in
Germania), che per di più sono di
piccolo formato (come in Spagna).
E, come se non bastasse, a tutto ciò
si potrebbe aggiungere perfino uno
sbarramento legale (di fatto inutile)
per i partiti minori.
È facile calcolare l’effetto «meccanico» disproporzionale che un sistema
del genere avrebbe sulla conversione
dei voti in seggi. Ma ancora più preoccupante sarebbe il suo effetto «psicologico», che non dovrebbe tardare
molto a mettere in moto una logica
del voto utile viste e considerate non
solo le conseguenze riduttive del
meccanismo in sé ma anche le caratteristiche marcatamente personalistiche che la struttura della votazione
uninominale rimetterebbe all’opera
dopo la breve parentesi che ci separa
dal funzionamento del Mattarellum.
Insomma, non c’è dubbio che un
sistema del genere avrebbe una forte
propensione al bipartitismo. Quindi
non si capisce quali forze, a parte il
Pd e il partito di Berlusconi, possano
avere interesse a sostenerlo. Il
discorso potrebbe cambiare, invece,
se ci si orientasse verso un sistema
alla tedesca (o verso altri sistemi,
non difficili da escogitare, che ne
seguano la stessa logica). In questo
caso si potrebbe ridurre la frammentazione del sistema partitico senza
concentrare la competizione in
maniera eccessiva e innaturale e
senza neppure bloccarne la logica
bipolare. Da questo punto di vista,
bisognerebbe liberarsi una volta per
tutte dell’atavica paura che in Italia
un sistema elettorale proporzionale
debba dar luogo necessariamente a
un assetto centrista, caratterizzato
dall’occupazione stabile del centro
dello spazio politico e da pratiche
consociative di governo. Certo, tutto
può succedere, ma sta agli attori
politici e non a un sistema elettorale
dare dignità e contenuti reali alla
competizione democratica. ESTERI
appunti
per una discussione
sull’America Latina
Perché si sperperano colossali risorse nell’industria per uccidere e non
si utilizzano invece per salvare vite umane? Perché non si costruiscono
scuole al posto di sottomarini nucleari e ospedali invece di bombe “intelligenti”? Perché non si producono vaccini invece di veicoli blindati e
più alimenti invece che più bombardieri? Perché non si dà impulso
alle ricerche per combattere l’AIDS, la malaria e la tubercolosi invece
di fabbricare scudi spaziali? Perché non si conduce una guerra contro
la povertà invece che contro i poveri?
Nonostante servano soltanto 150 miliardi di dollari per raggiungere le
Mete del Millennio, si afferma ipocritamente che non si sa dove ottenere le risorse finanziarie necessarie. Menzogna! Ci sono soldi in eccesso,
quello che manca è la volontà politica, l’etica e l’impegno reale da
parte di chi deve prendere le decisioni.
B RUNO S TERI *
Insomma, parlare
dell’America Latina oggi è
– al tempo stesso e per
contrasto – parlare di noi
qui in Europa:
dell’involuzione delle
sinistre europee (e
dell’attacco frontale di
cui, nel nostro continente,
sono oggetto i comunisti);
della crisi acuta delle
nostre democrazie (sempre
più svuotate di controllo e
partecipazione popolare e
alterate da processi di
carattere oligarchico)
* DIRETTORE DI «ESSERE COMUNISTI»
Dall’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di
Felipe Perez Roque, Ministro delle Relazioni estere della Repubblica di Cuba
Q
uel che segue è la traccia di un ragionamento sull’America Latina che
avrei dovuto svolgere nell’ambito di un’iniziativa organizzata dal circolo
Prc di Cagliari, se un contrattempo non avesse impedito la mia partecipazione. Può essere utile presentare, a posteriori e in forma scritta, gli spunti che
avrei sviluppato nell’intervento. Non mi pare si tratti di cose del tutto nuove e
penso che su di esse avremmo potuto senz’altro registrare sintonia con gli altri
due interlocutori presenti nell’occasione, Fabio Amato e Mauro Bulgarelli. Tuttavia, vedo che sulle esperienze più significative in corso nel suddetto continente
persistono punti di vista fortemente differenziati tra le forze della sinistra di alternativa. Persino all’interno del mio partito, come è noto, c’è chi viaggia su binari
palesemente divergenti da quelli qui proposti. Poiché si tratta di questioni che
rinviano a una dimensione strategico-ideale e influenzano il profilo politico generale di una forza politica, non è male ribadire nel merito qualche elemento distintivo: soprattutto se si vuole che, nella nostra sinistra, la giusta esigenza unitaria non costruisca sulla sabbia e la formula «partire dai contenuti» non resti lettera morta.
Democrazia p as s e -p arto ut
Mi capita spesso di tornare, in discussioni siffatte, a quello che considero un
punto essenziale delle divergenze. Si dice «democrazia» e invece di chiarire,
si aggiunge oscurità a oscurità. Ci si richiama genericamente a una nozione
divenuta «passe-partout», pronta a ogni uso (e quindi sempre meno significante): al punto che c’è chi fa riferimento a essa per invocarne
l’«esportazione» in ogni angolo del globo, anche a costo di imporla con la
forza delle armi (di distruzione di massa). Il significato di «democrazia» è
oggi talmente sfigurato che in nome di essa – in nome della sua planetaria
diffusione – si è pronti a relegare in soffitta niente meno che il «principio di
non ingerenza», cioè a dire uno degli architravi su cui si sono sin qui basati
i rapporti internazionali, le relazioni tra gli stati e tra i popoli: non a caso, è
17
18
questo uno dei punti d’approdo dell’ideologia «neocons», che ispira le politiche dell’attuale establishment
statunitense.
Molto banalmente, se qualcosa arriva dall’alto (appunto,
come le bombe) vuol dire che non arriva dal basso: con
ogni evidenza, a esser posta fuori gioco è precisamente
la democrazia intesa come costruzione «dal basso»,
«partecipata» nella società e nelle istituzioni, come processo inestricabilmente connesso all’avanzamento sociale
di un popolo, nonché rispettoso della sua storia e della
sua specifica cultura. In suo luogo, si fa strada una nozione di democrazia vista come «pacchetto di regole»,
come «tecnica dell’operare democratico», così come è
stata elaborata dall’Occidente «civilizzato» (e capitalista),
da esportare chiavi in mano e, se necessario, coattivamente. Consapevoli o meno, con ciò si è già dentro a
una concezione di stampo «neocoloniale». Non va infatti
dimenticato che, al di là della rappresentazione ideologica, tale armamentario concettuale ha fornito di fatto una
copertura – che nelle intenzioni di chi l’ha proposta
avrebbe voluto essere egemonica e «universale» – a motivazioni molto meno presentabili, concernenti concretissimi interessi materiali e mire geopolitiche. In ogni
caso, i risultati di tali impostazioni sono sotto gli occhi di
tutti: si veda (per ora) l’Iraq o l’Afghanistan.
Potere popolare o oligarchia?
Si dirà: cosa c’entra tutto questo col Latino America? Ebbene: c’entra, eccome. Basti pensare al modo in cui non
dico da destra ma perfino dalla nostra cosiddetta «sinistra» liberale si guarda a Cuba, all’esperienza chavista, o
alle riforme strutturali inaugurate da Evo Morales in Bolivia: diffidenza nel migliore dei casi, se non esplicita
censura. Non c’è da stupirsi. Se alla democrazia si toglie
il suo peso «sostanziale», la sua profonda interconnessione con le dinamiche sociali e i loro conflitti, il modo
in cui i suoi istituti si relazionano con le differenziazioni
di censo e col potere economico – se conseguentemente
si ritiene che essa «è formale oppure non è affatto»
(come ad esempio ebbero a dire Achille Occhetto e
Claudia Mancina, all’alba dell’era post-comunista), è
evidente che si finisce poi per assumere come disvalore
«totalitario» tutto ciò che – in una realtà contraddittoria
e socialmente contrastata quale è quella latino-america-
na – procede in direzione del «poder popular». È questo
il luogo di una battaglia ideologica di prima grandezza, la
cui posta non è solo la possibilità di comprendere e valorizzare la rinascita sociale e politica di un continente fino
a ieri ridotto a «giardino di casa» del potente vicino
americano; ma è anche la ragione della nostra «diversità» rispetto alla mutazione involutiva di quella che è
stata la sinistra (non solo comunista) europea. Insomma,
parlare dell’America Latina oggi è – al tempo stesso e per
contrasto – parlare di noi qui in Europa: dell’involuzione
delle sinistre europee (e dell’attacco frontale di cui, nel
nostro continente, sono oggetto i comunisti); della crisi
acuta delle nostre democrazie (sempre più svuotate di
controllo e partecipazione popolare e alterate da processi
di carattere oligarchico).
Paradossi del pensiero unico
Ma siamo poi così sicuri che anche sul piano della «democrazia formale» le cose siano così chiare come ce le
vorrebbero raccontare?
Qualche giorno fa ho trovato in rete, trasmessa da compagni belgi, un significativa parabola. Supponiamo che il
presidente di un Paese A elabori una Costituzione e la
sottoponga al responso popolare. Immaginiamo altresì
che il presidente di un Paese B sottoponga anch’egli al
voto una Costituzione e che una parte importante dei
suoi cittadini la boccino. A questo punto, il presidente
del Paese B decide di varare comunque la Costituzione
senza che vi sia alcun ulteriore referendum popolare.
Domanda: chi è più democratico tra i due? Sostituiamo
ora al presidente A Hugo Chavez e al presidente B
l’Unione Europea e proviamo a rispondere. Eppure Chavez è, ci dicono, un anti-democratico, populista e totalitario, mentre l’Ue è la quintessenza della democrazia.
Ovvero: il mondo capovolto.
Nel mondo reale, il «caudillo» Chavez per l’ennesima
volta ha inteso esporsi al vaglio del giudizio popolare, rispettandone nella sconfitta l’esito; mentre la democratica
Unione Europea prova a far passare surrettiziamente,
nel silenzio dei mezzi d’informazione, un Trattato «sostitutivo» che, in una forma appena mutata, presenta sostanzialmente gli stessi requisiti dell’originario già boc-
ESTERI
I prestiti sono erogati senza tassi d’interesse usurai.
Inoltre, le decisioni di investimento sono prese sulla base
della parità di voto tra i Paesi partecipanti,
indipendentemente dall’apporto di capitale. Si tratta
della differenza che intercorre tra un’impresa solidale
volta al progresso sociale e il saccheggio di ricchezze
ciato da francesi e olandesi.
Filantropia…
Ma passiamo dall’amara ironia alla
descrizione di qualche fatto. Ha suscitato un certo scalpore un paio di
mesi fa l’arrivo nel Bronx – uno dei
ghetti statunitensi per poveri – di
autobotti della Citgo, la società incaricata di commercializzare negli Stati
Uniti il petrolio venezuelano.
L’evento ha comprensibilmente suscitato in loco una specie di festa di
popolo, poiché le autobotti trasportavano gasolio per riscaldamento a
un prezzo ridotto del 40%. Bisogna
capire: questi sono i luoghi derelitti
in cui G. W. Bush recluta la carne
da macello da spedire in Iraq ed Afghanistan. Figli di nessuno, di cui
infatti nessuno parla quando tornati
in patria si suicidano a migliaia
(come ha recentemente denunciato
un servizio shock della Cbs). Il governo bolivariano ha previsto analoghi aiuti anche per i poveri dell’Alaska e del Maine. Tra sconti e attività
filantropiche in Usa, si tratta di 80
milioni di dollari, quanto spende
complessivamente in filantropia un
colosso come la Exxon Mobil. Si è
detto giustamente: Chavez cura
l’immagine. Ed è così, anche se poi
ognuno sceglie di pubblicizzare l’immagine che più gli si addice. Il messaggio è chiaro: consideriamo nostri
fratelli tutti i poveri d’America e
non confondiamo quelli statunitensi
con l’establishment che li governa.
Certo, per quest’ultimo sono piccole
punture di spillo.
…e antimperialismo
Ben altro rilievo e impatto politico
ha l’iniziativa chavista tesa a una
strutturale integrazione del continente latino-americano. Il 3 novembre scorso, ad esempio, è stato inaugurato il Banco del Sud, polmone finanziario a dimensione
continentale: con la partecipazione
di Venezuela, Argentina, Brasile,
Bolivia, Ecuador, Uruguay e Paraguay. L’intento è di reperire e concentrare risorse economiche per il
lancio di programmi contro la povertà e per opere infrastrutturali
(segnatamente, per la costruzione di
gasdotti finalizzati al trasporto del
gas venezuelano e boliviano). C’è
una differenza sostanziale tra un’impresa come questa e le attività di organismi come il Fondo Monetario
Internazionale: nel primo caso, infatti, i prestiti sono erogati senza tassi
d’interesse usurai. Inoltre, le decisioni
di investimento sono prese sulla
base della parità di voto tra i Paesi
partecipanti, indipendentemente dall’apporto di capitale. Si tratta della
differenza che intercorre tra un’impresa solidale volta al progresso sociale e il saccheggio di ricchezze.
L’America Latina sa perfettamente
cosa significa tutto ciò. Negli ultimi
venti anni, il Fondo Monetario e la
Banca Mondiale hanno imposto a regimi imbelli e corrotti la legge del
neoliberismo: dalla metà degli anni
Ottanta, dopo la crisi del debito messicana dell’82, sono piovute anche
sul Latino-America le famigerate politiche di «aggiustamento strutturale». Le ricette che tali politiche
hanno concretizzato sono ben note:
privatizzazioni a oltranza; liberalizzazioni del mercato di capitali, beni e
servizi; taglio delle spese sociali. Al
fine di rastrellare moneta pregiata
con cui ripagare il debito contratto
con gli organismi-sanguisuga sopra
detti, i responsabili economici degli
stati debitori hanno fatto calare la
scure sui loro sistemi sanitari e previdenziali. Come sempre, dogmi di
economisti borghesi, finanzieri e
banchieri sono il controllo dell’inflazione e l’alto costo del denaro. Risultato: la devastazione sociale. Secondo
i dati dell’Igbe (Istituto brasiliano di
geografia e statistica) in una città
come San Paolo la percentuale di
abitanti delle bidonville è passata dal
7,4% del totale nel 1980 all’11% nel
2000. Queste sono state le odiose
condizioni che l’Fmi e la Bm hanno
posto per i loro prestiti. Ora, anche
grazie a iniziative come la costituzione del Banco del Sud (fermamente
voluta da Chavez), la musica sta
cambiando.
I viaggi di Chavez
Cos’è andato a fare Chavez, lo scorso agosto, in giro per l’America Latina, toccando Argentina, Uruguay,
Ecuador e Bolivia? È presto detto.
Ciò ha a che vedere con i prezzi sostenuti di cui può beneficiare chi incassa la bolletta petrolifera: ma tale
provvidenza, nel caso del Venezuela,
non va a gratificare i profitti di qualche multinazionale, bensì serve a
incrementare l’integrazione economica e il progresso sociale di un intero continente.
In Argentina, il presidente venezuelano ha stretto un accordo con Kirchner per l’acquisto di 500 milioni
di dollari del debito argentino (più
altri 500 spalmati sui prossimi
mesi): una boccata d’ossigeno per
un Paese che, a seguito della condi-
19
20
zione di inadempienza in cui è precipitato nel 2001, non gode più dell’accesso ai crediti internazionali. A fronte di ciò, le due delegazioni hanno concordato la costruzione di un impianto per la rigassificazione del gas liquido
venezuelano, risorsa vitale per ovviare alla crisi energetica in cui si dibatte
l’Argentina.
In Uruguay, l’incontro con Tabarè Vazquez ha suggellato un «Trattato per la
sicurezza energetica» tra la locale compagnia statale Anpac e la venezuelana
Pdvsa: ciò consentirà di raddoppiare la capacità produttiva dell’unica raffineria
uruguagia e di creare un’impresa mista per l’estrazione del greggio dalla Fascia
dell’Orinoco, considerata una delle maggiori riserve petrolifere mondiali.
Nell’Ecuador di Rafael Correa, Chavez ha sottoscritto un investimento di 5
miliardi di dollari per costruire una raffineria nella provincia di Manabi, la
più grande sulla costa del Pacifico.
Infine, in Bolivia – Paese che ha riaffermato il diritto di esplorare i propri giacimenti e sfruttare i propri idrocarburi – è stata inaugurata l’impresa petrolifera binazionale Petroandina, sulla base della collaborazione tra la Pdvsa e la boliviana Ypfb (Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos).
Espropri proletari
Questo attivismo della diplomazia chavista è evidentemente ispirato dall’intenzione di non lasciar cadere un’opportunità storica. Chavez sa che l’autonomia energetica è oggi una base decisiva ai fini della sovranità economica e
politica del Latino-America, nonché delle singole realtà statuali che lo compongono. Ed è a partire da tale obiettivo che vien fatto avanzare il processo
di integrazione delle politiche economiche del continente.
Lo scorso Primo Maggio è stato per il Venezuela un giorno davvero speciale.
Chavez ha annunciato l’uscita dagli organismi internazionali, Fmi e Bm. Si
tratta di una decisione che corona un più generale processo di sganciamento
dal colonialismo economico nord-americano. Parallelamente, il governo bolivariano ha infatti imposto a 10 delle 13 multinazionali che operano nel
Paese la creazione di joint ventures con la compagnia di stato Pdvsa, la quale
– beninteso – manterrà la quota maggioritaria del cartello e, quindi, il controllo (pubblico) del greggio. Si può ben capire che non si tratta di bazzecole. Stiamo parlando di colossi del calibro di Exxon Mobil, Total, Statoil, Chevron Texaco, British Petroleum ecc.: entità potenti che, in altri tempi, in
questi Paesi decidevano uomini e politiche, rimpasti di governo e colpi di
stato. Oggi, ingoiano il rospo: del resto hanno già investito in Venezuela
qualcosa come 20 miliardi di dollari e le quotazioni del petrolio consentono
pur sempre non disprezzabili margini di guadagno. In ogni caso, si tratta di
una vera svolta: che in sintesi significa «dai profitti privati al popolo». Per
attuarla, è occorso e continuerà a occorrere del coraggio politico: appunto,
quello che spesso le nostre pallide sinistre non riescono a trovare.
El pueblo unido
Disgraziatamente, il desiderio di indipendenza anticoloniale è contagioso. Per questo Castro, Chavez,
Morales sono visti come fumo agli
occhi dai padroni del mondo e dai
loro lacché.
Così, in Ecuador, Correa fissa un
secco aumento delle imposte per i
guadagni extra delle compagnie petrolifere.
E in Bolivia, Evo Morales decide –
attraverso la rinazionalizzata Ypfb –
di mantenere allo stato l’82% dei
proventi del petrolio. Il restante
18% va alle multinazionali operanti
nel suo Paese (sempre quelle:
Exxon Mobil, Total, Bp ecc). Nel
’97, quando l’allora presidente Sanchez de Lozada aveva privatizzato
tutto – dal gas all’acqua – era l’opposto: 780 milioni di dollari alle
multinazionali e 140 allo stato boliviano. Ora, i 780 milioni vanno al
poder popular (dopo che nel giugno
2004 un referendum aveva già portato la quota statale da 140 a 460
milioni di dollari). Non è stato un
cammino semplice: esso ha comportato centinaia di morti ammazzati
nel corso delle manifestazioni antimperialiste. Oggi, il «decreto supremo 28701» ha sancito la vittoria
del governo popolare: ed è stato accompagnato dall’occupazione dei
campi petroliferi e gasiferi da parte
dell’esercito boliviano e dall’imposizione alle compagnie di un limite di
180 giorni per rinegoziare nuovi
contratti.
Come si vede, i percorsi di liberazione non sono – purtroppo – un
«pranzo di gala». Anche Chavez,
quando ha deciso di espropriare
pezzi di latifondo, ha dovuto man-
ESTERI
dare l’esercito per contrastare la violenza delle guardie
padronali armate. Rispetto a simili episodi, ho chiesto recentemente – a margine di un dibattito – a un autorevole dirigente del Prc, amico sincero del risveglio sociale latino-americano, come la metteva con la questione della
nonviolenza. Mi ha risposto: non amo eserciti e armamenti, ma è parte del mio concetto di nonviolenza il riscatto sociale con tutti i suoi conflitti. E io: mi va bene
così; l’importante è accordarsi sulle cose, non sulle parole.
Socialismo
Già. Ma come impiega lo stato venezuelano i cospicui introiti derivanti dalla ritrovata disponibilità delle ricchezze
custodite nel suo territorio? Risposta: oltre che per promuovere politiche solidali con gli altri popoli latino-americani, per il miglioramento delle condizioni di vita della
sua gente e il rafforzamento del potere popolare.
Lo scorso Primo Maggio, Chavez ha infatti annunciato
molte altre iniziative importanti per la sua rivoluzione
sociale. Ha proclamato che, a partire dal Primo Maggio
del 2010, la giornata lavorativa in Venezuela passerà da
8 a 6 ore: un vero e proprio salto epocale, con benefiche
ripercussioni per i lavoratori di tutto il mondo. Il motto
è: 6 ore per il lavoro, 6 ore per dormire, 6 ore per lo
svago, 6 ore per la formazione e la rigenerazione dello
spirito. La riforma costituzionale, in cui il provvedimento era incluso, non è passata; ma certamente il governo
bolivariano provvederà comunque a procedere per via
legislativa ordinaria.
In ogni caso, il salario minimo è stato già portato a 614
mila bolivares (un incremento del 20%). A differenza di
molte altre realtà lavorative nel mondo, il salario dei lavoratori venezuelani è cresciuto mediamente dai 30 dollari del 1999 ai 300 dollari di oggi: con l’inclusione dei
buoni-pasto giornalieri, si arriva a 400 dollari. Tutto ciò,
con un’inflazione completamente sotto controllo (che a
marzo del 2007 risulta vicina allo zero).
È stata istituita la pensione sociale (60% del salario minimo) per gli anziani (da 60 anni in poi) senza contributi: fino a oggi, non avevano alcuna fonte di reddito.
Si aggiunga che in 8 anni, con il decisivo aiuto dei programmi di formazione e di centinaia di educatori cubani,
lo stato bolivariano ha condotto una lotta senza quartie-
21
re (nonché vincente) nei confronti dell’analfabetismo e
che, entro il 2020, intende debellare la povertà.
Sembrano oggi lontani i tempi del dominio oligarchico,
quando ricchezze e provvidenze andavano a una manciata di privilegiati e l’80% dei venezuelani non aveva
diritto a sanità, educazione, pensione, assistenza sociale.
Con Castro, Chavez e Morales
Tutto risolto, dunque? Certo che no. La via del riscatto e
dell’affrancamento latino-americano dalla dipendenza è
ancora da percorrere per un lungo tratto. Sappiamo che
altri Paesi, come il Cile, stanno scegliendo modelli diversi e molto meno avanzati; che il Brasile di Lula opta per
compromessi sociali più cauti e promuove in grande stile
la diffusione degli agrocombustibili (che Castro e Daniel
Ortega, come tanti altri, considerano una sciagura per i
poveri del pianeta).
E sappiamo che non basta la diplomazia del petrolio per
rispondere all’obiettivo della sovranità economica e alla
connessa sfida ambientale: su questo Cuba ha peraltro
indicato con lungimiranza una strada all’intero continente, conseguendo il primato dell’agricoltura ecologica
e traendo il 38% della sua energia da fonti rinnovabili.
Non intendiamo indulgere a toni trionfalistici. E tuttavia
non ci sfugge l’enorme importanza dei passi compiuti.
Quel che abbiamo descritto è davvero un buon inizio: si
direbbe, un inizio decisamente socialista. Non a caso,
esso continua a richiamare le attenzioni della reazione e
del terrorismo locale e internazionale. Alle nostre sinistre quindi chiediamo: da che parte state? Noi comunisti
stiamo con Castro, Chavez e Morales. Annapolis
tra speranze
e illusioni
22
A
seguito del vertice di Annapolis, e dell’impegno comune sottoscritto
da Abu Mazen e Olmert di avviare un dialogo politico che porti,
entro il 2008, a un accordo definitivo per la nascita dello stato palestinese, si può tentare un bilancio e un´analisi del vertice statunitense, che
non sia influenzato dal clima di celebrazione e di entusiasmo che ha dominato la scena in quei giorni. La maggior parte delle reazioni a caldo, soprattutto della stampa italiana, sono state comunemente improntate al più sfrenato ottimismo e le (ennesime) strette di mano fra i tre protagonisti, presentate come foriere di una rinnovata speranza, con l’auspicio che finalmente
questa volta sia davvero la volta giusta, dopo i numerosi e ripetuti fallimenti
del passato. Hanno prevalso le interpretazioni ottimiste e improntate a sottolineare le novità, le possibilità, che questa conferenza può portare in Medio
Oriente, pur se accompagnate da doverosa e motivata prudenza. È necessario, per noi che da anni lottiamo a fianco del popolo palestinese, per una soluzione basata sul principio dei due stati per i due popoli, non sottovalutare
questo sentimento di speranza, il dato di una rinnovata disponibilità al dialogo e a perseguire una soluzione politica, dopo anni in cui è prevalsa da
parte israeliana la politica dell´unilateralismo, insieme alla negazione costante della controparte. È dallo scoppio della seconda intifada che il governo
israeliano ha praticato una politica del fatto compiuto, dalla costruzione del
muro alla moltiplicazione degli insediamenti, alla continua colonizzazione di
Gerusalemme, disconoscendo sistematicamente la controparte. Prima Arafat,
umiliato con l´assedio alla Mukata, poi Abu Mazen, per proseguire con il governo prima di Hamas e poi di unità nazionale. Ma allo stesso tempo la speranza, per essere coltivata, deve avere basi solide su cui reggere. Altrimenti
si alimentano illusioni. La prudenza con cui va analizzata Annapolis, inoltre,
è dovuta non solo agli ostacoli politici, ma alla già abbondantemente commentata debolezza degli attori protagonisti del vertice. In Maryland, c´era un
George Bush a fine mandato e piuttosto malconcio per i ripetuti insuccessi
di politica estera, ansioso di riuscire a portare qualcosa all’attivo dopo otto
anni alla Casa Bianca, oltre al disastro irakeno e al pantano afghano. Olmert, in difficoltà permanente dalla sconfitta libanese in poi pressato costantemente dalla destra, quella d’opposizione come quella del suo governo, con
in testa Lieberman, che secondo dichiarazioni riportate da Haaretz, continua
a porre il tema del «trasferimento», o meglio deportazione, della popolazione israelo palestinese. Il tutto mentre si continua a procedere
nell´espropriazione di terra palestinese da parte di Israele. Barak, neo ministro della difesa, ha tenuto a precisare, proprio alla vigilia del vertice, che
Israele vuol mantenere la possibilità di entrare e uscire dalla Cisgiordania
quando e come vuole per ragioni di sicurezza, ovvero mantenere l’occupazione sotto altre spoglie. Abu Mazen, che si ritrova stretto dagli Stati Uniti e
dalla loro voglia di costringere i palestinesi ad accettare un accordo, qualun-
F ABIO A MATO *
L´Europa, ci duole
dirlo, esce da Annapolis
con un ruolo marginale.
Chi si assume l´onere di
accompagnare la trattativa
futura, di monitorarla e
sostenerla, è un solo
soggetto: Gli Stati Uniti
* R ESPONSABILE
NAZIONALE
E STERI PRC
ESTERI
Una pace che non sia percepita come giusta, verrebbe
vissuta solo come resa, e potrebbe portare a un´ulteriore e
drammatica divisione fra i palestinesi, che va evitata
que esso sia, e dall’altra Hamas, che
continua a governare Gaza e che
non è disposta a concedere nulla.
Il rischio di un fallimento, di ulteriori promesse mancate, come si capisce è quindi molto alto e le eventuali conseguenze potrebbero essere
molte e negative.
Considerato il clima di scetticismo
diffuso che aveva preceduto la riunione, e il cui fallimento preventivo
era stato da più parti annunciato,
dobbiamo riconoscere che il risultato
di far sedere, oltre a palestinesi e
israeliani, tutti i paesi arabi interessati
al conflitto, inclusa la Siria, sia stato
dal punto di vista della diplomazia
statunitense un successo, così come il
raggiungimento in extremis della dichiarazione congiunta. Un successo
relativo a una strategia portata avanti
dalla Rice, di costruzione di
un´alleanza regionale in grado di isolare le aspirazioni egemoniche
dell´Iran. È questo cambiamento di
scenario rispetto al grande Medio
Oriente, che ha permesso la convocazione di un vertice dalle vaghe premesse, in fretta e senza chiari obiettivi, a cui comunque si sono associati
anche Arabia Saudita e Siria. Gli
americani sanno che per avere speranza di tenere insieme questi paesi,
e isolare Teheran, hanno bisogno di
risolvere, o quantomeno dare impressione di volerlo, il conflitto israelo-arabo-palestinese.
Il testo della dichiarazione
In realtà, la dichiarazione aggiunge
molto poco al quadro precedente, se
non il rispettivo impegno di buona
volontà, e il riconoscimento che il
terrorismo è una categoria che va
applicata a entrambe le parti. Se
tutti hanno enfatizzato il passaggio
del testo riguardante una chiara delimitazione temporale delle trattative come elemento di novità, non
hanno aspettato molto gli israeliani
a gettare acqua sul fuoco per spegnere i facili entusiasmi, ribadendo
come in realtà quella data sia semplicemente un auspicio, nulla più.
Purtroppo, a essere confermata
come base della trattativa rimane la
disastrata road map, e a essa viene
fatto ripetuto ed esplicito richiamo
in più parti del testo. Ovvero la possibilità per Israele di chiamarsi fuori
in qualsiasi momento, di non rispettare gli obblighi già sottoscritti,
come di fatto già fa da molti anni.
Inoltre, si erige ad arbitro super partes del rispetto dell’implementazione
della road map non più il quartetto,
(Usa-Onu-Ue-Russia), ma solamente l’amministrazione statunitense.
Una cambiale in bianco davvero pericolosa, data a un arbitro, gli Stati
Uniti, che non ha dato certo prova
negli anni di imparzialità.
Si pensi a proposito alla lettera del
2004 di Bush a Sharon, in cui si dichiarava come impossibile un ritorno ai confini del ’67. In molti
hanno salutato l’impegno di Bush
come un cambiamento di strategia
dopo aver per anni semplicemente
ignorato ciò che accadeva in Terra
Santa. Crediamo che sia
un´interpretazione benevola. Bush
ha lasciato fare perché fino a oggi
ha sostenuto la politica di Sharon
prima e Olmert poi. Non è stata una
distrazione o una mancanza di impegno, bensì una condivisione, nel
nome della comune «guerra al terrore» che ha caratterizzato tutta la
sua presidenza.
L´Europa?
L´Europa, ci duole dirlo, esce da Annapolis con un ruolo marginale. Chi
si assume l´onere di accompagnare
la trattativa futura, di monitorarla e
sostenerla, è un solo soggetto: gli
Stati Uniti.
Entrambe le parti hanno convenuto
di dare all´Amministrazione Usa
questo delicato ruolo di unico arbitro a questo processo. Gli israeliani
sicuramente perché non esiste al
mondo paese più affidabile per loro.
I palestinesi perché forse credono
che proprio per questo sono solamente gli Usa a poter esercitare un
potere di pressione nei confronti di
Israele in grado di vincere le resistenze del governo di Tel Aviv su
punti chiave senza i quali, come Gerusalemme capitale dei due stati, i
confini del ’67, la partita delle risorse idriche, la questione dei profughi,
nessun accordo potrà reggere di
fronte all´opinione pubblica palestinese. A pesare, sulla credibilità
dell´Europa, la sua oramai conclamata debolezza politica, fatta di annunci e di promesse mancate. Prima
nel chiedere elezioni, definirle democratiche per poi non riconoscerne l´esito. Poi lavorando e spingendo per un accordo di unità nazionale e un nuovo governo, salvo poi
accodarsi al veto israeliano-statuni-
23
risoluzioni delle Nazioni Unite. Una pace che non sia
percepita come giusta, verrebbe vissuta solo come resa, e
potrebbe portare a un´ulteriore e drammatica divisione
fra i palestinesi, che va evitata.
tense, negando un riconoscimento che ha contribuito
non poco al precipitare della situazione interna e alla divisione intrapalestinese. Vedremo se nei prossimi vertici,
l´Europa si limiterà a confermare il suo ruolo di maggior
donatore, o se saprà bilanciare con un´iniziativa politica
autonoma l´evidente ridimensionamento subito ad Annapolis.
Stati Uniti e Israele
Le responsabilità che si sono assunti gli Stati Uniti sono
davvero grandi. Responsabilità nel senso che se è vero
che l´opzione del fallimento non può essere presa in
considerazione da Rice e Bush, un esito di questo tipo
sarà interamente sulle loro spalle. In questo senso si
gioca molto anche Olmert. Come sostenuto anche
dall´ex Presidente Jimmy Carter, nel suo libro Peace not
apartheid, purtroppo non tradotto in Italia, il fallimento
del processo politico negoziale di Oslo è in gran parte
imputabile alla mancanza da parte israeliana di una vera
volontà politica in questo senso, e di una pratica che ha
creato ostacoli su ostacoli a un accordo finale.
In gioco c´è non solo la credibilità residua di un mandato
presidenziale segnato dagli insuccessi, o la sorte politica
di Olmert, ma la fine concreta della soluzione negoziale
basata sui due stati per i due popoli. Un esito che non ci
auguriamo, ma che peserebbe, oltre che sugli Usa, tutto
sulle spalle degli occupanti. Perché, vale la pena sempre
ricordarlo, non siamo di fronte a un conflitto fra pari,
ma asimmetrico. Con uno Stato, Israele, che esiste, e un
popolo, quello palestinese, che vive da quarant´anni
sotto occupazione.
E i palestinesi?
Abu Mazen in realtà aveva poche possibilità e un margine di manovra molto stretto. Per lui, anche solo riprendere i negoziati ha il valore di una legittimazione internazionale che spera possa rafforzarlo all´interno. Comunque, la dichiarazione non aggiunge e non toglie
nulla al quadro precedente, ma dà un orizzonte politico
temporale ai negoziati, che dà fiato. Se l´opposizione di
Hamas, pur in calo di consensi dopo il colpo di mano a
Gaza, era scontata, è una forza che non può essere ignorata. Alla sua opposizione si aggiunge lo scetticismo delle
altre forze palestinesi, quelle della sinistra. I cinque partiti, Fronte popolare, Fronte democratico, Fida, Partito
del Popolo e Iniziativa democratica, avevano sottoscritto
il sette novembre un documento comune che metteva in
guardia sui rischi del vertice. Uno scetticismo che rimane
intatto all´indomani. In questo, Abu Mazen ha compiuto
l´errore di portare ad Annapolis una delegazione monocolore di Fatah, relegando l´Olp a un ruolo di spettatore.
La road map, rimanendo base di fatto di qualsiasi ulteriore progresso, temiamo sarà la trappola nella quale, ancora una volta, rischiano di rimanere incastrati i palestinesi. Anche perché il popolo palestinese, sicuramente stremato dall´inasprimento dell´occupazione, dalle punizioni
collettive, dagli embarghi, non crediamo sia solo per
questo disposto ad accettare un qualsiasi accordo che
non riconosca le rivendicazioni storiche contenute nelle
Il nostro compito
Un dato politico interessante e poco commentato, è il
percorso unitario che è stato avviato dalle forze della sinistra palestinese. Abbiamo avuto modo di incontrarle
anche a Praga, al congresso della Sinistra europea, dove
ci siamo impegnati a continuare un dialogo comune e la
costruzione di un´agenda condivisa. La ricostruzione di
una forza di sinistra anche in Palestina, capace di intervenire nel duopolio Hamas-Fatah, sulla base di un rinnovato progetto che riprenda il tema dell´indipendenza nazionale e che sappia coniugarlo con una lotta per la giustizia
sociale, può rappresentare un segnale per tutte le forze di
sinistra dei paesi arabi, in crisi da anni e strette fra il disegno del Grande Medio Oriente americano da un lato e le
forze islamiche dall´altro. E rappresentare uno stimolo
anche per la sinistra israeliana, voce sempre più debole e
isolata, purtroppo. Ma il nostro compito, oltre a questo, è
quello di continuare a denunciare le violazioni dei diritti
umani, lo strangolamento di Gaza, la costruzione del
muro e di nuovi insediamenti, che sono di fatto gli ostacoli più grandi alla pace. Non dobbiamo commettere
l´errore di far cadere l´oblio su quanto succede in Palestina. Forse, dopo Oslo, l´errore del movimento di solidarietà con il popolo palestinese è stato proprio quello di pensare che il traguardo della pace era vicino, limitandosi a
un ruolo di spettatore. Dopo Annapolis, a maggior ragione, è un lusso che non possiamo permetterci. 24
ESTERI
Ungheria
revanscismo di destra e
persecuzione anticomunista
M ASSIMO C ONGIU *
* RICERCATORE E GIORNALISTA
C
ome in altri paesi dell’Europa centro-orientale anche in Ungheria i
movimenti nazionalisti si organizzano ed esprimono orientamenti
condivisi da quanti versano nel malcontento e non riescono a trovare
la loro collocazione nella società attuale. La più recente iniziativa del radicalismo magiaro di destra riguarda la creazione della «Guardia ungherese»
(Magyar Gárda), voluta dal partito Jobbik, una delle due formazioni di
estrema destra del panorama politico nazionale. La nascita ufficiale della
Guardia ungherese, un corpo paramilitare, ha avuto luogo lo scorso mese di
agosto con una cerimonia solenne che si è svolta a Buda, nel quartiere del
Castello, alla presenza di un migliaio di persone. Tra esse Maria Wittner, una
delle protagoniste dei fatti del ’56, attualmente deputata del Fidesz di Viktor
Orbán, principale partito d’opposizione al governo di centro-sinistra. La manifestazione, che è stata aperta proprio dalla Wittner, ha visto la partecipazione di tre sacerdoti delle chiese cattolica, riformata ed evangelica, che
hanno benedetto i vessilli e i simboli nazionali fatti sventolare dai primi 56
aderenti all’organizzazione, consacrati, questi ultimi, religiosamente. Tra gli
altri, i membri della comunità ebraica d’Ungheria sono intervenuti a denunciare l’accaduto e hanno fatto notare quanto divise, berretti e stendardi somigliassero sinistramente alle croci frecciate che, sotto l’occupazione nazista,
mandarono nei campi di concentramento circa 400.000 persone.
Secondo quanto affermano i suoi ideatori, la Guardia ungherese è nata per
porre rimedio all’attuale decadenza dello stato danubiano sul piano spirituale e dei valori nazionali. Gábor Vona, presidente di Jobbik, aggiunge che
questo corpo è stato creato allo scopo di abbattere il regime «comunista»
che, a suo dire, tuttora affligge l’Ungheria. Il paese, per Vona, ha bisogno di
essere difeso da pericoli interni ed esterni che possano sottrarre a Budapest
sovranità territoriale. Per questo la Guardia si dice pronta a uno scenario di
guerra e Vona vorrebbe che i suoi membri cominciassero a seguire regolari
esercitazioni militari con armi in mano (per quanto la cosa sia illegale).
La nascita del corpo ha fatto temere che si verificassero tumulti in occasione
del cinquantunesimo anniversario dei fatti del ’56. Le paure erano alimentate
da quanto accaduto un anno prima nelle vie centrali di Budapest: in effetti,
anche stavolta hanno avuto luogo disordini, seppure meno gravi di quelli di
fine ottobre 2006. Quest’anno, due giorni prima dell’anniversario, la Guardia
ungherese ha dato vita a un’altra manifestazione nella centrale e simbolica
piazza degli Eroi, che ha accolto altri 600 membri convinti della necessità di
instaurare un magistero morale col quale rinsaldare la coscienza nazionale
della popolazione. Stando alle dichiarazioni rilasciate dai dirigenti di Jobbik,
le richieste di adesione al partito sarebbero state numerose (a oggi, complessivamente, 4.000). E le attività della Magyar Garda sembrano interessare
anche alcune personalità politiche che hanno partecipato al «rito» a titolo individuale per conferire al momento quanta più solennità possibile.
25
26
La più recente
iniziativa del radicalismo
magiaro di destra
riguarda la creazione
della «Guardia
ungherese» (Magyar
Gárda), voluta dal partito
Jobbik, una delle due
formazioni di estrema
destra del panorama
politico nazionale
L’esistenza di questa organizzazione
è diventata in poco tempo un caso
politico che ha visto il governo criticare l’opposizione, anche i partiti
della destra moderata, per il loro atteggiamento timido nei confronti
della Guardia e del suo confuso programma di difesa. Nella circostanza è
stata notata la fin troppo tiepida reazione di László Sólyom, Presidente
della Repubblica, impegnato in un
rapporto teso con il Primo Ministro,
tanto più se si pensa che la prima
delle manifestazioni ufficiali della
Guardia ha avuto luogo nelle immediate vicinanze del palazzo presidenziale. Da notare che, a quanti denunciano la pericolosità dell’iniziativa, Vona risponde che quella appena
nata è un’organizzazione «tradizionalista e culturale» non violenta. Se
è interpellato sui simboli della Guardia, in particolare quelli arpadiani
adottati negli anni Quaranta dalle
croci frecciate di Ferenc Szálasi, il
presidente di Jobbik respinge ogni
accostamento con le SS e con i corpi
paranazisti ungheresi. Sta di fatto,
però, che ricorrenti sono i suoi attacchi alla Federazione delle comunità ebraiche in Ungheria, considerata come un gruppo degenerato
che fa un uso commerciale del suo
passato storico. Così che oggi torna a
suonare un sinistro campanello d’allarme: «la storia si ripete, c’è il peri-
colo di tornare indietro».
L’esistenza di una simile organizzazione e di forze politiche che la
esprimono e ne determinano l’indirizzo mostra che in Ungheria sono
sempre attivi ambienti che guidano
la reazione, mimetizzandone i connotati con «ciò che è nuovo» e rispondendo pericolosamente all’oggettivo stato di disagio in cui versano
vasti strati della società magiara. In
un periodo di crisi materiale e di difficoltà a leggere le dinamiche di questa fase della storia europea, i settori
più retrivi della politica si impegnano nella ricerca dei capri espiatori.
Così la destra radicale ungherese
(ma anche quelle dei paesi vicini)
punta di nuovo il dito e fomenta
ostilità in generale contro le presenze straniere nel Paese, accusate di
minare le fondamenta della nazione.
Come detto, a esprimere ora questi
orientamenti sono due partiti: il già
citato Jobbik, nato nell’ottobre del
2003, e il Miép, Partito Ungherese
della Giustizia e della Vita, attivo dal
1993: un nome, quest’ultimo, che richiama alla mente quello di un partito filonazista della Seconda guerra
mondiale. Il suo leader è da sempre
István Csurka, ex scrittore, capelli tagliati a spazzola e predilezione per la
giacca nera con alamari, retaggio
della tradizione magiara. Alle elezioni del 2006, questi due soggetti poli-
ESTERI
è significativo che le anzi dette proteste siano state
presentate dai dimostranti come un nuovo ’56
tici hanno dato vita a un’alleanza
elettorale chiamata Harmadik út, cioè
Terza via, che però non ha ottenuto
il 5% dei voti, quanto cioè è necessario per l’ingresso nell’assemblea
nazionale (da cui perciò tale raggruppamento è rimasto fuori). Miép
e Jobbik sono nati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro e la composizione del secondo è anagraficamente
più giovane, ma lo scarto generazionale non impedisce che vi sia una
sostanziale convergenza di vedute.
Entrambi nutrono avversione nei
confronti degli immigrati, si distinguono per antisemitismo, xenofobia
e omofobia: in questo quadro, raccolgono anche i malumori e l’ostilità
nei confronti dell’Unione Europea,
dichiarano apertamente il loro antiliberismo e insistono sulla necessità di
ristabilire i valori cristiani in Ungheria. Ogni anno, ai primi di dicembre,
gli attivisti di Jobbik piazzano nelle
vie centrali della capitale, delle vistose croci di legno per ricordare che il
Natale è una festa religiosa e non
consumista. Le due suddette forze
politiche si battono per l’ordine –
che a loro avviso va tutelato con il
ripristino della pena di morte – e in
difesa dell’amor patrio, che deve essere soddisfatto con il recupero dei
territori perduti dall’Ungheria dopo
la Prima guerra mondiale con il Trattato del Trianon: firmata nel 1920,
l’intesa ridusse di due terzi e tre
quinti, rispettivamente, la superficie
e la popolazione dell’Ungheria. Il
Miép e Jobbik accusano il Fidesz di
tradimento per aver votato, con il
Governo, l’adesione della Romania
all’Unione Europea senza preoccuparsi troppo della minoranza magiara presente in quel paese, allorché la
destra radicale chiedeva come requisito d’ingresso l’autonomia degli ungheresi di Transilvania.
Come si vede, le destre cercano abilmente di mescolare i temi dell’attualità politica e sociale con un armamentario più tradizionale e reazionario. Esse, nella loro espressione
moderata come in quella estrema,
hanno ispirato le proteste scatenatesi
l’anno scorso contro il Governo. Le
dimostrazioni sono iniziate in un
contesto di malcontento generale per
la stretta economica annunciata dalla
maggioranza e tale da pesare soprattutto sui settori più svantaggiati della
popolazione, costituiti da famiglie a
basso reddito e pensionati. Le misure
di austerità sono state come al solito
adottate in nome dell’equilibrio dei
conti e in funzione dell’euro (per la
cui adozione sono comunque previsti
ancora degli anni). Ben presto le dimostrazioni sono diventate violente,
con l’attacco alla televisione di stato,
la notte del 19 settembre, seguita da
altre notti di scontri con la polizia e
dal presidio permanente dei manifestanti di destra sul piazzale antistante
il palazzo del parlamento. L’occupazione è durata circa un mese ed è
stata caratterizzata da espressioni di
magiarità, dall’esibizione di vessilli e
indumenti facenti parte della tradizione nazionale e da discorsi pieni di
livore e patetismo patriottico pronunciati di fronte a una platea composta anche da povera gente. Al malcontento economico si intrecciavano
(e si intrecciano tuttora) motivi nazionalistici: la sera, i manifestanti recitavano in coro il Padre nostro in
espressioni di fede cristiana mista a
elementi pagani, derivanti dal mito
degli antenati e della conquista da
parte di questi ultimi del territorio su
cui sorge l’attuale Ungheria. Ieri
come oggi, i nazionalisti chiedono
che la costituzione nazionale venga
riscritta nel segno della Sacra corona,
quella del primo monarca e santo
ungherese.
È significativo che le anzi dette proteste siano state presentate dai dimostranti come un nuovo ’56. Appare evidente che quello degli ungheresi con la loro storia più o
meno recente sia un rapporto controverso. Ma il punto di fondo, politicamente essenziale, sta nel fatto
che quanti non si ritrovano nelle logiche liberiste che governano l’Ungheria di oggi sottolineano che soprattutto il centro-sinistra ha, dalla
metà degli anni Novanta, favorito
un capitalismo selvaggio e assecondato la volontà delle istituzioni internazionali, l’Ue e la Nato, delle
quali il paese fa parte. Ad esempio,
l’Mszosz, il principale sindacato magiaro, non cessa di denunciare i problemi sociali e la mancanza di solidarietà in cui il Paese è precipitato.
Così l’esecutivo formato da socialisti
e liberaldemocratici è oggi in grave
difficoltà ed è quotidianamente bersaglio degli attacchi dell’opposizione
che lo accusa di aver impoverito il
paese.
È in tale contesto di crisi politica, sociale ed economica, che si inserisce
27
28
l’offensiva giudiziaria nei confronti
del Munkaspárt (Partito operaio), il
quale è stato di recente accusato di
«diffamazione pubblica». Questo
grave episodio, pericolosamente lesivo della tenuta democratica del
Paese e che vede sotto attacco i dirigenti comunisti, è stato originato da
una dichiarazione del gruppo dirigente del partito nel corso di una
conferenza stampa. Il commento si
riferiva alla decisione del Tribunale
di Budapest di invalidare la risoluzione del Munkaspárt di espellere alcuni membri del partito e stigmatizzava la stessa come una sentenza politica più che giuridica. Ciò ha
provocato una denuncia ai danni del
presidente Gyula Thürmer e di altri
sei membri della presidenza del
Munkaspárt, per i quali si è subito
profilata la prospettiva di essere condannati a due anni di reclusione. Lo
scorso sei novembre il tribunale di
Székesfehervár, in primo grado, ha
di fatto riconosciuto colpevoli di diffamazione pubblica la presidenza del
partito e il leader Thürmer. Nel corso
del processo gli accusati hanno basato la loro difesa (alla quale hanno
contribuito anche alcuni membri di
un’organizzazione per i diritti civili)
sulla rivendicazione della libertà di
parola e d’opinione, garantita dall’articolo 61 della Costituzione ungherese: di fatto, essi non hanno
fatto altro che esprimere un parere
su di un provvedimento della corte.
Il verdetto è stato pronunciato con
rito di sospensione. Ciò vuol dire che
se nell’arco dei prossimi due anni gli
imputati dovessero ripetere le critiche all’operato del tribunale, la sentenza avrebbe effetto immediato.
L’iter processuale non è comunque
finito qui, dal momento che il presidium del Munkaspárt si è ovviamente rivolto alla corte d’appello.
Il giorno del verdetto gruppi di militanti comunisti hanno dato luogo a
dimostrazioni di protesta davanti al
tribunale. E, in generale, il processo
ha avuto un’eco internazionale: che,
tra l’altro, ha portato a una raccolta
di firme da parte di parlamentari
italiani. Purtroppo, l’episodio non è
unico nell’area: come è noto, nella
vicina Repubblica Ceca è stata
messa fuori legge l’Unione della gioventù comunista (Ksm) e ne è stato
chiuso anche il sito (il quale però è
ancora funzionante). A Praga la destra intende presentare in parlamento un disegno di legge per rendere
illegali tutti i simboli del comunismo. In generale, un siffatto clima è
ben presente nell’area: ciò è ad
esempio dimostrato, a Budapest, dal
recente caso di profanazione della
tomba dell’ultimo leader comunista
magiaro János Kádár. Come si vede,
revanscismo di destra e persecuzione anticomunista sono le due facce
di una stessa inquietante medaglia.
Guai ad abbassare la guardia. ESTERI
Saharawi
I
l Fronte Polisario (Frente Popular para la Liberacion de Saguia El Hamra y
Rio de Oro) è l’organizzazione politica che rappresenta le popolazioni del
Sahara occidentale e da decenni si batte per la loro sovranità statuale. Significativo è il sostegno internazionale promosso al fine di superare una situazione di stallo divenuta intollerabile per le 200 mila persone che da quasi
una trentina d’anni risiedono in questo martoriato territorio, di fatto in condizione di esiliati. Era infatti la fine del 1975 quando il Marocco decideva di
rompere lo status quo lanciando un’offensiva militare con l’obiettivo di ridurre
alle ragioni del più forte il popolo saharawi e acquisire il controllo dell’intera
zona. Sono seguiti sedici anni di conflitto armato, che hanno sospinto una
parte della popolazione oltre i confini marocchini in territorio algerino e che
tuttavia non sono bastati a spezzare una strenua resistenza, organizzatasi appunto nel Fronte Polisario. Nel settembre del ’91 si è arrivati a un precario
«cessate il fuoco». Da allora, i saharawi vivono doppiamente divisi: una grande parte, circa un milione di persone, è residente in Marocco (forzosamente
«assimilata», essi tengono a ricordare, più che felicemente integrata); e altri
200 mila nella vasta regione propriamente detta Saharawi, a loro volta divisi
tra quanti vivono nei cosiddetti «territori liberati» – quelli acquisiti manu militari alla giurisdizione del Fronte – e coloro che sono rimasti nei «territori occupati», la porzione del Sahara occidentale che si estende sino alle coste
oceaniche ancora controllata dal Marocco. Queste ultime due fasce territoriali
sono tra l’altro separate da un muro, un bastione militarizzato eretto dai marocchini circa venti anni or sono, che ha frantumato nuclei familiari e sottratto gente alla propria casa d’origine: evidentemente questo genere di costruzioni è un’espressione costante dell’arroganza coloniale. Così centinaia di
migliaia di persone sono costrette a vivere grazie agli aiuti umanitari, alla
cordiale ospitalità e alla solidarietà degli algerini, al generoso sostegno di
Cuba (costantemente impegnata nell’assistenza sanitaria e nell’accoglienza
offerta gratuitamente a un gran numero di giovani studenti saharawi). Ma è
evidente che una simile situazione non può durare in eterno.
In effetti, come per i palestinesi, alle ragioni di una popolazione che chiede
di ritrovare le basi materiali e istituzionali della propria identità si contrappongono gli interessi di chi impedisce tale esito attraverso l’occupazione territoriale e la repressione militare. Si tratta di un episodio esemplare di decolonizzazione incompiuta: e come avviene spesso in questi casi, dietro la
bruta volontà di dominio spuntano prosaiche motivazioni di bottega. Dati
che risalgono al 1974 e pubblicati dalla Banca Mondiale fanno del Sahara
occidentale il territorio più ricco del Magreb e uno dei più ricchi dell’intera
Africa. Non siamo dunque semplicemente in presenza di una terra desertica,
abitata da popolazioni nomadi dedite all’allevamento di cammelli e ovini e
alla cura di alcune delimitate colture agricole. Vastissime fette di terreno
sono veri e propri giacimenti di fosfati a cielo aperto. L’oceano antistante
29
documentazione
di diritto internazionale
sulla questione
del Sahara Occidentale
R
30
questo tratto di costa africana – che, come detto, cade
oggi sotto la giurisdizione marocchina – è tra i più pescosi del mondo e contribuisce ad alimentare in termini
consistenti l’export della regione. Ma, soprattutto, il terreno sottomarino custodisce ricchi giacimenti di idrocarburi: e anche qui, purtroppo, la storia si ripete. Il 29
gennaio del 2001 il segretariato generale delle Nazioni
Unite ha riconosciuto illegali gli accordi tra il Marocco e
le multinazionali Ker Megeer (Usa) e Total (Francia). Simili contenziosi la dicono lunga sulla natura del conflitto in corso. La Francia in particolare sta dimostrando
che, quando sono in gioco i suoi interessi «vitali», non si
attarda in remore pacifiste e sostiene con decisione il
ruolo stabilizzatore (o, se si preferisce, di gendarme) che
il Marocco svolge in questa regione. Un problema non
da poco per un’Europa che intendesse volgersi al Mediterraneo e operare in quest’area all’insegna della solidarietà e di una pace equa.
Nel luglio del 2003, al termine di una serrata discussione,
l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato la risoluzione n°1495, la quale in sostanza accoglie il «Piano di pace
per l’autodeterminazione del Sahara Occidentale» già
proposto dall’inviato speciale del Segretario Onu, James
Baker. Il piano prevede la concessione di una larga autonomia alla regione Saharawi e la conferma dello svolgimento di un referendum popolare che legittimi il passaggio istituzionale in questione (o viceversa sancisca la definitiva annessione al Marocco) e che coinvolga tutti i
residenti saharawi. La suddetta risoluzione Onu ha costretto le parti in causa a prendere ufficialmente una posizione inequivoca: il Marocco è uscito allo scoperto respingendo la risoluzione. Il Fronte Polisario, seppure con riserva, l’ha accettata: l’autonomia non è certo equivalente
a una sovranità completa, all’esistenza di un’indipendente
Repubblica Araba Democratica del Saharawi, ma è tuttavia il primo riconoscimento di una peculiarità storica, politica, istituzionale. Non è una strada facile: il referendum
deve essere ancora svolto. Ma il popolo saharawi, che da
decenni vive da esule nelle tendopoli, ha dimostrato di
saper resistere anche nelle condizioni più difficili. Come
recita un loro antico detto: prima di ogni oasi c’è un deserto da affrontare. ISOLUZIONE DELL’A G
O NU N . 1514 DEL DICEMBRE
1960 SULLA DECOLONIZZAZIONE : sancisce il diritto
dei popoli all’auto-determinazione, la de-colonizzazione dei Paesi sottoposti a dominazione straniera, l’indipendenza delle misure per lo sviluppo economico, sociale e culturale, l’attivazione di misure politiche immediate per garantire l’accesso delle popolazioni
all’indipendenza, la non-conformità ai princìpi e ai valori dell’Onu di qualunque violazione della sovranità,
dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale.
RISOLUZIONE DELL’AG ONU N. 1541 DEL DICEMBRE 1960
SULLE MODALITÀ DI ATTUAZIONE DEL DIRITTO DI AUTO-DETERMINAZIONE: il processo di decolonizzazione deve avere
come esito la auto-determinazione, la quale può non
coincidere con l’indipendenza ma può corrispondere a
forme di autonomia con riconoscimento della piena sovranità sui territori amministrati e contemplare forme di
associazione con uno Stato indipendente; il processo di
auto-determinazione deve accompagnarsi all’emancipazione popolare.
IV COMMISSIONE ONU SULLA DECOLOSAHARA OCCIDENTALE (1963): riconoscimento del principio di auto-determinazione del Sahara
Occidentale in linea con la Risoluzione 1514.
DOCUMENTO
DELLA
NIZZAZIONE DEL
RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 2229 DEL 20 DICEMBRE
1966 SULL’INDIZIONE DEL REFERENDUM DI AUTO-DETERMINAZIONE: richiesta alla Spagna in qualità di potenza amministratrice di organizzare un referendum sotto egida
ONU per consentire alla popolazione Saharawi di esercitare il diritto di auto-determinazione.
RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 2883 SULLA LOTTA PER
L’INDIPENDENZA DEL SAHARA OCCIDENTALE: richiama il
principio di auto-determinazione e conferma l’appoggio
alla lotta per l’indipendenza del popolo Saharawi, sollecitando gli Stati ad accordare a questa il proprio sostegno.
RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 3292 DEL 13 DICEMBRE
1974 SUL RINVIO DELLA CONTROVERSIA SUL SAHARA OCCIDENTALE ALLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA: richiesta di un parere giuridico in ordine alla questione
della «terra nullius» all’atto della colonizzazione spagnola e alla questione dei vincoli giuridici del Sahara Occi-
ESTERI
dentale con il Marocco e la Mauritania, a norma dell’art.
96 Carta Onu e dell’art. 65 Statuto Cig.
(Fronte per la liberazione del Sahara Occidentale e del
Rio de Oro).
AVVISO CONSULTIVO DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA: emesso in data 16 ottobre 1975 contenente i pareri
proposti in ordine alla risoluzione delle controversie sottoposte all’attenzione della Cig.
RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 3222 DEL 1976 relativa all’investimento di una organizzazione regionale
della questione Saharawi, con la quale affida a un’organizzazione regionale competente (Oua) l’approccio alla
questione e le proposte di avvicinamento delle parti interessate.
RAPPORTO FINALE della missione nel Sahara Occidentale e
nei Paesi interessati su mandato della Commissione Decolonizzazione Onu con decisione presa il 27 marzo 1975 per
il periodo 8/5 – 14/6 1975.
RISOLUZIONE DEL CS DELL’ONU N. 377 DEL 22 OTTOBRE 1975
sulla consultazione delle parti in ordine alla «Marcia Verde»
nel Sahara Occidentale: richiesta al Segretario Generale Onu
di avviare consultazioni immediate con le parti interessate
per garantire che accordino ritegno e moderazione all’iniziativa intrapresa.
RISOLUZIONE DEL CS DELL’ONU N. 379 DEL 2 NOVEMBRE
1975, inerente la sollecitazione di una condotta di moderazione sulla questione in oggetto da parte di tutti i soggetti
interessati.
APPELLO DEL CS DELL’ONU DEL 4 NOVEMBRE 1975 relativo al
contenimento della Marcia Verde con mandato conferito al
presidente del Cs (Malik, Urss) di chiedere ad Hassan II la
fine della Marcia Verde.
ATTO DI RICONOSCIMENTO da parte delle Nazioni Unite
dello status di soggetto internazionale in capo al Polisario
RISOLUZIONE DEL CS DELL’ONU N. 658 DEL 27 GIUGNO
1990 di accoglimento del Piano di Regolamento delle
Nazioni Unite per la soluzione del conflitto nel Sahara
Occidentale.
RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 690 DEL 29 APRILE
1991 relativo all’istituzione della Minurso: accoglimento del Rapporto del Segretario Generale Onu in
ordine alla mediazione per la risoluzione della questione del Sahara Occidentale e istituzione della Minurso (Missione di Interposizione delle Nazioni Unite
per il Referendum nel Sahara Occidentale) per garantire il rispetto del cessate il fuoco.
RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 1495 DEL 31 LUGLIO
2003 di accoglimento della proposta del Rappresentante
Speciale del Segretario Generale Onu (James Baker III)
denominata «Piano per l’auto-determinazione del popolo Saharawi» in ordine al processo di pace e per il referendum popolare.
31
Mohamad
Abdelaziz
intervista a
(Presidente della Repubblica Araba Democratica Saharawi)
32
L
a questione del Sahara Occidentale è recentemente tornata all’attenzione del dibattito politico. Lo scorso 2 aprile, presso la direzione di Rifondazione Comunista, si è tenuto un incontro tra il segretario Franco Giordano e una delegazione
del Fronte Polisario, movimento di liberazione del popolo Saharawi, guidata da Omar
Mih, rappresentante in Italia. La riunione ha accompagnato un’audizione parlamentare
di Aminatou Haidar, esponente della lotta di auto-determinazione Saharawi, recentemente insignita della cittadinanza onoraria della città di Napoli. L’incontro ha costituito
un utile aggiornamento sulla situazione dei diritti umani nel Sahara Occidentale e l’occasione per ribadire il «sostegno del Partito alla lotta del popolo Saharawi per l’autodeterminazione». Da più di trent’anni, il Sahara è occupato dall’esercito del Marocco
che, per interessi strategici ed economici, legati allo sfruttamento delle risorse (fosfati e
pesca), continua a controllarlo militarmente, in violazione del mandato dell’Onu, che
ne ha ricordato in più occasioni il diritto di auto-determinazione, in particolare con le
risoluzioni 658 (1990), 690 (1991) e, più recentemente, 1495 (2003). In occasione di
una recente (24-25 ottobre) visita in Italia, di ritorno dalla IV Commissione Onu sulla
decolonizzazione, abbiamo incontrato il Presidente della Rasd (la Repubblica Araba Democratica Saharawi) Mohamad Abdelaziz, cui abbiamo rivolto alcune domande.
G IANMARCO P ISA *
IL 9 E 10 OTTOBRE SCORSO SI È RIUNITA A NEW YORK LA IV COMMISSIONE DELLE
NAZIONI UNITE SULLA DECOLONIZZAZIONE. IL TEMA SALIENTE È STATO QUELLO DEL
SAHARA OCCIDENTALE. PER L’ITALIA SONO INTERVENUTI: NICOLA QUATRANO, DELL’OSSERVATORIO INTERNAZIONALE, CARMEN MOTTA, PARLAMENTARE, SANDRO FUCITO, DELEGATO DAL SINDACO DI NAPOLI, FABIO MARCELLI, GIURISTA E CINZIA
TERZI, COORDINATRICE DELLE ASSOCIAZIONI A SOSTEGNO DEL POPOLO SAHARAWI
DELL’EMILIA ROMAGNA. QUALI SONO STATI I CONTENUTI DELLA COMMISSIONE E
QUALI RISULTATI HA PRODOTTO?
La IV Commissione delle Nazioni Unite per la decolonizzazione, riunitasi lo
scorso ottobre, ha discusso, in primo luogo, la questione del Sahara Occidentale. È opportuno sottolineare questo aspetto: la comunità internazionale discute
ancora oggi della questione del popolo Saharawi come di un problema di decolonizzazione. Non è la prima volta, del resto, che le Nazioni Unite affrontano
la questione: dal 1964 il tema dell’auto-determinazione Saharawi è nell’agenda dei lavori della Commissione due volte all’anno, e, in virtù delle risoluzioni
delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, è destinato a rimanervi, finché
la questione del Sahara Occidentale non sarà risolta con un referendum popolare sull’auto-determinazione, che dia al popolo Saharawi la possibilità di decidere liberamente il proprio futuro. Quest’anno la discussione in Commissione
è stata particolarmente partecipata e molti Paesi sono intervenuti per chiedere
l’applicazione del diritto di auto-determinazione per i Saharawi. Un altro
aspetto importante è stato rappresentato dalla presenza di oltre 37 personalità,
del mondo della politica, della scienza e della cultura (tra di essi anche parla-
* P RESIDENTE ASSOCIAZIONE «O PERATORI
DI P ACE – C AMPANIA » ONLUS
ESTERI
La IV Commissione delle Nazioni Unite per la
decolonizzazione, riunitasi lo scorso ottobre, ha discusso,
in primo luogo, la questione del Sahara Occidentale. è
opportuno sottolineare questo aspetto: la comunità
internazionale discute ancora oggi della questione del
popolo Saharawi come di un problema di decolonizzazione
mentari, intellettuali, giuristi etc.) a sostegno della causa Saharawi. Infine, è
stata molto significativa per noi la presenza di una rappresentanza del Comune
di Napoli, che ha attivamente preso parte alla discussione. I lavori della Commissione si sono conclusi con l’approvazione di un documento che conferma
gli sforzi della comunità internazionale per l’applicazione delle risoluzioni delle
Nazioni Unite e sancisce il diritto all’auto-determinazione, ricordando anche la
necessità di indire un referendum nei territori Saharawi per decidere del futuro della regione.
IL
TEMA DELLA DECOLONIZZAZIONE SEMBRA ESSERE SCOMPARSO DALL’AGENDA
INTERNAZIONALE E SI FATICA ANCORA A RICONOSCERE NELLA QUESTIONE
SAHA-
RAWI NON SOLO UN PROCESSO DI EMANCIPAZIONE E DI RIVENDICAZIONE DEI PROPRI DIRITTI MA ANCHE, E PER CERTI VERSI SOPRATTUTTO, UNA LOTTA DI AUTO-DETERMINAZIONE.
QUAL
È LA POSIZIONE DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE IN ME-
RITO E, IN PARTICOLARE, QUELLA DELL’UNIONE
EUROPEA
E DELL’UNIONE
AFRICANA?
Come dicevo prima, la questione del Sahara è questione di decolonizzazione,
dal momento che il governo del Marocco continua, da più di quaranta anni, a
occupare il Sahara Occidentale, a rifiutarsi di contribuire attivamente al processo negoziale e a violare i diritti umani e i diritti di libertà del popolo Saharawi. La comunità internazionale riconosce tale questione come una questione di decolonizzazione, ma finora non sono stati fatti molti passi in avanti
sulla strada dell’auto-determinazione, anche perché il governo del Marocco ha
sempre ostacolato questo processo, capitalizzando il sostegno dei propri alleati.
Tuttavia, in Europa si sta sviluppando una sensibilità molto forte intorno al
valore della nostra lotta, che è una lotta pacifica di rivendicazione dei nostri
diritti, non è una lotta violenta né tanto meno una lotta che intende sopraffare o violare i diritti del popolo marocchino. Pertanto, l’Unione Africana ha riconosciuto lo status internazionale del Fronte Polisario, che rappresenta il popolo Saharawi, e diversi Stati africani hanno riconosciuto la Rasd, cioè la Repubblica Araba Democratica Saharawi, che rappresenta l’istituzione politica
del Sahara Occidentale. Per quanto riguarda l’avanzamento del negoziato,
siamo entrati di recente in una nuova fase: a giugno è iniziato un ulteriore
round negoziale tra il Fronte Polisario e il Marocco sotto l’egida delle Nazioni
Unite, la prima sessione si è tenuta nello stesso mese di giugno, la seconda
sessione ad agosto e la terza sessione è attesa per quest’autunno, in Svizzera,
in una data che deve essere ancora confermata. In questo nuovo round negoziale, il Fronte Polisario ha presentato una proposta costruttiva, finalizzata all’organizzazione di un referendum popolare affinché il popolo Saharawi liberamente possa scegliere tra tre alternative: l’indipendenza, l’integrazione nello
Stato marocchino, oppure l’autonomia sotto la sovranità del Marocco. Faccio
notare che, nella sua deliberazione, il
Fronte Polisario ha incluso anche la
proposta fatta propria inizialmente
dal Marocco, vale a dire quella dell’autonomia nell’ambito della sovranità marocchina, e vi ha compreso
anche l’ipotesi della piena integrazione nell’ambito del Marocco; inoltre,
il Polisario ha già dichiarato ufficialmente che, nel caso la scelta cadesse
sull’indipendenza, la sovranità sul
Sahara Occidentale sarebbe negoziata
in modo aperto con il Marocco, tenendo in considerazione le preoccupazioni del governo marocchino,
specie per quanto riguarda le questioni economiche e della sicurezza.
IL 3
AGOSTO SCORSO SI È REGISTRATA
UNA VERA E PROPRIA PROVOCAZIONE
DELLA POLIZIA MAROCCHINA CONTRO
QUATRANO, OSSERVASENZA ALCUNA
COMANDANTE KHAR-
IL MAGISTRATO
TORE INTERNAZIONALE.
RAGIONE, IL
BOUCH DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA DI
LAYOUNE
NE HA SEQUESTRATO LA VET-
TURA TRATTENENDOLA CON VARIE
SCUSE PER QUASI
24
ORE, E TRATTE-
NENDO POI LO STESSO
QUESTO
QUATRANO.
DÀ LA MISURA DEL CLIMA
MAROCCO SULLA
SAHARAWI. CI PUOI DARE
UN QUADRO DELLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI CONTRO I SAHARAWI DA
PARTE DEL GOVERNO DEL MAROCCO E
CHE SI RESPIRA IN
QUESTIONE
DELLA REPRESSIONE INTERNA CONTRO
I SOSTENITORI MAROCCHINI DEL POPOLO
SAHARAWI?
Conosco quanto è successo la scorsa
estate e, purtroppo, non si tratta dell’unico caso. Siamo profondamente
33
34
preoccupati per la situazione assai pericolosa in cui versa il
popolo Saharawi, soprattutto per quello che riguarda i
profughi che vivono nell’Algeria meridionale. La situazione dei profughi nei campi che si trovano nella regione di
Tindouf è gravissima, specialmente per quello che riguarda le condizioni igienico-sanitarie e la situazione umanitaria in generale. Non bisogna dimenticare che questi profughi vivono in quelle regioni e in quelle condizioni ormai
da 32 anni. La nostra preoccupazione riguarda in primo
luogo la sistematica violazione dei diritti umani, ma anche
la violenta repressione contro la popolazione dei territori
occupati del Sahara Occidentale. Siamo convinti che il referendum potrebbe rappresentare una soluzione negoziale
a questo stato di cose ma siamo anche preoccupati, considerando il prossimo round negoziale e la chiusura da
parte del governo del Marocco, che questa opportunità
vada persa. Per noi, la tutela dei diritti umani del nostro
popolo e la lotta per la auto-determinazione, attraverso il
referendum popolare, devono andare avanti insieme. Le
principali preoccupazioni che abbiamo sono queste: la
questione dei diritti umani e, in generale, della protezione
della popolazione civile; la situazione umanitaria delle popolazioni rifugiate nell’Algeria meridionale, con particolare
riferimento alla situazione alimentare e igienico-sanitaria;
la questione politica, che ci spinge a ritenere che oggi sia
necessario un nuovo piano per risolvere la questione del
Sahara Occidentale, perché siamo rimasti l’unica colonia
in territorio africano e dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi
per superare l’intransigenza del governo marocchino.
Chiediamo una soluzione diplomatica, giusta e democratica, basata sul diritto internazionale e sulla tutela dei diritti
umani e per questa soluzione il popolo Saharawi sta lottando da 32 anni.
L’ANNO
NAPOLI, IERVOLINO HA CONAMINATOU HAIDAR,
L’AUTODETERMINAZIONE. DA QUI
SCORSO IL SINDACO DI
FERITO LA CITTADINANZA ONORARIA AD
LEADER DELLA LOTTA PER
SI SONO SVILUPPATE VARIE INIZIATIVE SUL TERRENO DELLA
SOCIETÀ CIVILE IN ITALIA A SOSTEGNO DELLA CAUSA
RAWI.
CI
SAHA-
PUOI ILLUSTRARE CHE TIPO DI IMPEGNO LA SOCIE-
TÀ CIVILE (PARTITI, SINDACATI, ASSOCIAZIONI) HA POTUTO
METTERE IN CAMPO E CHE TIPO DI SOSTEGNO O PROGETTI IL
POPOLO
SAHARAWI
RITIENE PIÙ EFFICACI PER LA PROPRIA
CAUSA?
Questa occasione rappresenta una circostanza particolarmente importante per noi. Colgo l’occasione per salutare
le autorità della città di Napoli e il movimento di solidarietà con il popolo Saharawi che è attivo e presente a Napoli. Il fatto che il sindaco abbia concesso la cittadinanza
onoraria ad Aminatou Haidar, che da anni si batte per i
diritti del popolo Saharawi e che ha ripetutamente subito
vessazioni, discriminazioni e torture da parte delle autorità del Marocco, è un fatto di grande importanza che salutiamo con riconoscenza. Inoltre, non va dimenticato,
come si diceva prima, che Napoli è stata presente anche
ai lavori della recente Commissione sulla decolonizzazione delle Nazioni Unite e anche questo è uno sforzo che
testimonia della partecipazione alla lotta, legittima e pacifica, del popolo Saharawi per i propri diritti. Ovviamente,
quanto vale per la città di Napoli vale anche per tutte
quelle altre realtà, in Italia e nel mondo, che esprimono
vicinanza e sostegno al Sahara Occidentale. L’appello che
noi muoviamo alle istituzioni politiche e alla società civile è che si mobilitino per il Sahara Occidentale, perché la
stabilità, la giustizia e la pace possano vivere nella regione. Sono numerose le forme di intervento che la società
civile, le associazioni e i comitati hanno realizzato negli
ultimi anni a sostegno del popolo Saharawi: ci sono progetti di educazione nelle scuole, ci sono iniziative di acco-
ESTERI
glienza di giovani e bambini Saharawi nelle scuole italiane, ci sono diverse altre manifestazioni di solidarietà
come quelle dei comitati cittadini a sostegno del nostro
popolo e della nostra lotta. Noi invitiamo tutti a venire
nel Sahara, a visitare i nostri campi, a conoscere la nostra
realtà. Solo così, del resto, è possibile capire la situazione
nella quale viviamo.
IL 12
CAMERA DEI DEPUTATI SI È
SAHARAWI. LA MOZIONE DI SOSTEGNO AL FRONTE POLISARIO (PRIMO FIRMATARIO
CARLO LEONI, CO-PRESIDENTE DELL’INTERGRUPPO PARLAMENTARE ITALIA-SAHARAWI), È STATA APPROVATA CON UNA
MAGGIORANZA SIGNIFICATIVA. CIÒ LASCIA BEN SPERARE
ANCHE PER IL FUTURO. NON È UN CASO CHE, ANCORA PIÙ DI
RECENTE (19-21 OTTOBRE), NELL’OCCASIONE DELLA 33A
CONFERENZA DELL’EUCOCO (IL COORDINAMENTO EUROPEO
DEI COMITATI DI SOSTEGNO), IL MINISTRO DEGLI ESTERI,
D’ALEMA VI ABBIA ACCOLTO NELLA SALA DELLA VITTORIA
ALLA FARNESINA CON UN AUSPICIO: «IL NOME DI QUESTA
SALA VI SIA DI BUON AUGURIO». CHE PROSPETTIVE VEDI PER
LA LOTTA DI INDIPENDENZA DEL POPOLO SAHARAWI?
LUGLIO SCORSO ANCHE LA
PRONUNCIATA A FAVORE DEL POPOLO
L’incontro recente con il ministro D’Alema è stata una
circostanza preziosa, che testimonia della vicinanza del
popolo italiano e della sensibilità da parte delle autorità
italiane verso la questione del Sahara Occidentale e, in
particolare, il tema dei diritti del popolo Saharawi.
Anche l’ultima conferenza dell’Eucoco ha rappresentato
un momento significativo, perché ha permesso di mettere in contatto diverse realtà che si stanno impegnando
da anni sulla questione dell’auto-determinazione Saharawi e anche perché ha consentito un aggiornamento
sugli sforzi diplomatici che sono in vigore, a livello internazionale, ad esempio per il riconoscimento dello status
di soggetto di diritto internazionale al Fronte Polisario. Il
Fronte Polisario è l’organizzazione politica che rappresenta la storia della lotta per l’auto-determinazione del
popolo Saharawi. La mozione del Parlamento italiano riconosce il Fronte Polisario ed è un primo passo: il nostro
obiettivo è quello di un riconoscimento pieno, da parte
di tutta la comunità internazionale, del Fronte Polisario
quale espressione della volontà politica del popolo Saharawi per la propria auto-determinazione. Pertanto, è necessario dare seguito a questa mozione parlamentare, ad
esempio sostenendo il lavoro dell’Osservatorio Internazionale sui Diritti Umani nel Sahara Occidentale, che ha
già svolto diverse missioni presso il nostro popolo e che
sta sviluppando un lavoro di informazione molto utile e
importante. La città di Napoli, tra le altre, può sostenere
il lavoro dell’Osservatorio, perché è oggi più che mai necessario difendere i diritti del popolo Saharawi, proteggere i diritti umani nel territorio del Sahara e lavorare
insieme perché i negoziati possano concretizzarsi. Le
prospettive per la lotta pacifica del nostro popolo potranno essere positive se si darà modo al popolo Saharawi di
decidere liberamente del proprio futuro, in linea con le
risoluzioni dell’Onu e la giustizia internazionale. 35
solidarietà
con il popolo saharawi
Intervento tenuto il 10 ottobre 2007 presso la IV Commissione Onu-New York
A LESSANDRO F UCITO *
36
Signor Presidente, signori della IV Commissione,
H
o l’alto onore di intervenire in questa sede prestigiosa perché delegato dal Sindaco di Napoli, onorevole Rosa Russo Iervolino, nella
qualità di consigliere comunale e presidente della commissione relazioni internazionali del Comune di Napoli.
Napoli: terza città d’Italia, da secoli punto di riferimento per l’intera regione
del Mediterraneo, crocevia di popoli del Nord-Africa, esperienza di coabitazione pacifica dei suoi cittadini con immigrati, etnie e religioni diverse. Sede
nei prossimi giorni del Forum delle religioni. In questo spirito negli ultimi
anni il Comune di Napoli ha promosso l’accoglienza dei bambini saharawi e
conosciuto la loro realtà.
La testimonianza di Aminattou Haidar, leader del popolo saharawi, imprigionata e torturata a lungo nelle carceri marocchine, perseguitata per le sue idee,
ha indotto il Comune di Napoli a conferirle la cittadinanza onoraria perché diversa fosse la considerazione nei suoi confronti del governo marocchino.
Solo per salvare dalla pena di morte Safya Hussaini Tudu, condannata in Nigeria perché nubile e incinta, si è negli ultimi anni riconosciuta tale onorificenza nella nostra città.
Abbiamo appreso, attraverso l’accoglienza dei bambini che promuoviamo da
diversi anni insieme ad altre città italiane, della condizione di vita dei bambini
saharawi. Essi vivono spesso in campi profughi, non accolti nelle scuole del
Marocco, in una condizione di privazione e difficoltà sanitaria e alimentare.
Tali privazioni dipendono non dall’assenza di risorse, ma dalla mancanza di
un sistema istituzionale di regole e funzioni, possibile solo in presenza di
uno stato riconosciuto.
Conosciamo le deliberazioni delle Nazioni Unite in merito al riconoscimento
e all’autodeterminazione del popolo saharawi e chiediamo che esse si traducano in atti concreti che rendano possibile l’indizione di un referendum in
tempi immediati.
Restiamo fermamente convinti che solo il diritto internazionale e il pieno riconoscimento dei suoi organismi possa consentire ai popoli di convivere pacificamente e non da occupati e occupanti e guardiamo con grande rispetto
a una lotta condotta nel nome della pace e della assoluta non violenza.
Disattendere le aspettative di chi chiede, attraverso il diritto internazionale,
* CONSIGLIERE
NAPOLI
COMUNALE AL
COMUNE
DI
ESTERI
autodeterminazione significherebbe,
purtroppo, riconoscere le ragioni di
chi sceglie il conflitto e la violenza;
ciò per noi rappresenterebbe una
sconfitta. Anche noi abbiamo chiesto al Governo italiano di intervenire per il rispetto di tali principi e di
rappresentare ciò in sede Onu.
Apprendiamo con soddisfazione
quanto deliberato dal Parlamento
Italiano nello scorso mese di luglio.
Vi chiediamo di procedere sulla strada dell’indizione di un referendum
sull’autodeterminazione del popolo
saharawi, ma anche di raccogliere le
preoccupazioni alimentate dai rapporti del Segretario Generale dell’Onu circa le violazioni dei diritti
umani che permangono nei territori
occupati.
Per far ciò è necessario che il mandato della missione «Minurso»
(Missione di Interposizione delle
Nazioni Unite per il referendum nel
Sahara Occidentale) sia esteso alla
vigilanza sul rispetto dei diritti
umani, diritti questi fondamentali
per ciascun individuo, e indispensabili per la reale possibilità di esprimere forme effettive di democrazia,
ivi compreso il referendum.
Ringrazio la commissione, il Presidente e tutti i presenti per l’attenzione prestata e l’opportunità offerta. 37
«massa critica»
annotazioni teorico-politiche
I
38
I
n primo luogo vorrei discutere la tesi, non da pochi avanzata, che l’unificazione delle sinistre ha come preminente compito la ricostruzione
della rappresentanza politica del lavoro. Questa posizione presuppone
un convincimento, a mio giudizio, sbagliato: l’idea che all’egemonia capitalistica generalizzata degli ultimi 25 anni corrisponda un drastico abbattimento
della rappresentanza politico-istituzionale del lavoro. Secondo me, è esattamente il contrario. Alla complessiva caduta dell’autonomia politica del lavoro si è accompagnata un’espansione sistemica della logica e della realtà della
rappresentanza. Che cos’è la concertazione come sistema e come metodo se
non una forma organica di rappresentanza politica socializzata e quindi di
egemonia? Non è forse ciò la causa del fatto che nei principali paesi europei
il sindacato maggioritario ha assunto, da molto tempo, una connotazione
accentuatamente statale, mantenuta fin dentro la globalizzazione? Forse che
la concertazione riguarda solo la contrattazione sindacale e non anche la legislazione e il governo della spesa pubblica?
In realtà il nesso tra rappresentanza e concertazione è un nesso intrinseco,
non estrinseco o meramente ideologico. Per questo non è certo casuale che
fenomeni sociali pur così estesi come la disoccupazione di massa o il precariato occupazionale non trovino soggettività concertative organicamente
rappresentative, essendo dimensioni negative del lavoro.
La logica della rappresentanza esige, infatti, la formazione di soggetti sociali
corporati, cioè definiti dalle relazioni e dalle compatibilità di sistema e non
riconoscibili al di fuori di esse. L’esigenza di dividere l’unità del lavoro sociale in soggettività contrattuali, come già vide e postulò Hegel, è l’a-priori politico di Stato e società civile, congiuntamente.
II
Il concetto stesso di soggetto è inseparabile da quest’uso politico-statuale
della modernità capitalistica, che lo costituisce e lo articola. La tramatura dei
soggetti della società civile, in realtà, è in contraddizione con la figura materiale, unificata e cooperativa, della prassi produttivo-riproduttiva; con ciò
che Marx nei Grundrisse nomina «general intellect», qualificandolo come sapere produttivo generale e individuo sociale, mai come soggetto.
Qui sta la sola matrice materiale dell’autonomia politica di classe, di una democrazia emancipativa che infrange il compatibilismo del sistema curando
l’indipendenza riproduttiva dei salariati e dei proletari e, su questa base, si
mostra in grado anche di iniziativa riformatrice nel governo dello sviluppo e
dell’innovazione.
Il lavoro vivo esiste solo come potenza etico-politica diretta, invocarne la
soggettività è strutturalmente contraddittorio perché il lavoro vivo è realmente capitale, suo valore d’uso, come mise in rilievo Claudio Napoleoni.
F RANCESCO N APPO *
Solo le forze non
arrese alla concertazione
e alle guerre della
globalizzazione potranno
dar vita a formazioni
unitarie durevoli (…) Per
far questo, è bene
ribadirlo, la lotta deve
essere portata contro
tutti i compatibilismi,
compresi quelli generati
dai partiti, dalle
coalizioni, dagli stessi
movimenti
* COMITATO P OLITICO NAZIONALE – P RC
POLITICA INTERNA
quella metafora di «massa critica» introdotta dal compagno Bertinotti e nel dibattito spesso ridotta al significato
di adeguato peso elettorale.
Quella metafora, a mio giudizio, trova la sua giusta dimensione etico-politica ma anche la sua piena efficacia,
se collocata all’interno della differenza concettuale e pratica che decide della natura e dell’avvenire della politica:
quella tra potenza e potere (Agamben) tra la vita che si
dà forma solo nel presentarsi e l’esistenza assoggettata
che riceve la sua forma solo dall’essere collocata nell’orizzonte trascendentale del sistema.
La sua soggettività non è altro che la relazione corporata
del capitale con se stesso, che si maschera da responsabilità produttiva del lavoro.
Ben oltre il mero conflitto che la concertazione non
esclude né in linea di principio né di fatto, la potenza
politica del movimento operaio nell’esercizio della sua
autonomia non è rappresentabile. L’autonomia politica
del lavoro vivo, infatti, non ha altro presupposto che
l’unità materiale della socialità produttiva in lotta contro
le «astrazioni reali» del sistema. Per questo l’insorgenza
politica di classe, mentre disocculta la fonte vera della
valorizzazione, il lavoro vivo, svela e disegna l’unità di
produzione e riproduzione nei linguaggi della cooperazione sociale, al di fuori di ogni prospettiva produttivistica e statalistica e della sua logica di potere.
III
I movimenti politici di classe e di massa non possono
rappresentare che il loro possibile frantumarsi corporativo e la loro sconfitta. Felice la loro vita quando riescono,
a lungo e a fondo, a presentare, non a rappresentare, al
complesso dei poteri ostili la forza e la fecondità della
loro indipendenza liberatrice.
Tale differenza tra rappresentanza statale e presentazione
della comunità di classe, tatticamente componibile ma
tendenzialmente divaricante, non è che la differenza tra
principio di soggettività e realtà dei corpi collettivi, differenza interna al linguaggio stesso che Wittgenstein indicò con i termini di «stato di cose» e «forme di vita».
In questo contesto strutturale appare chiara la distinzione fra le trazioni di massa di valenza generale e le coalizioni politiche cui esse si rapportano. Queste ultime, comunque esse si configurino (alleanze programmatiche,
confederazioni, federazioni, nuovi partiti unificati, ecc.),
quale specifico ruolo sono chiamate a svolgere per la
crescita dell’autonomia di classe e della democrazia
emancipativa? Quale ruolo, se non devono e non possono rappresentare pratiche politiche di massa e forme di
vita che nascono proprio affrancandosi da quei processi
istituzionali di soggettivazione (Foucault) che della rappresentanza sono il presupposto?
Il quesito riguarda allo stesso modo, sostanzialmente,
singoli partiti, gruppi di partiti affini, tessuti associativi
politicizzati, perché discrimine di qualunque soluzione è
IV
Esperienza della libertà di massa ed emancipazione oltre
le compatibilità vengono allora a coincidere nella pratica
comunista della democrazia. «Massa critica», allora, non
deriva né dall’alleanza, né dalla federazione, né dall’unificazione delle sinistre, in quanto tali, ma dall’ancoraggio
di qualsiasi soluzione credibile alla composizione politica
di classe in quanto eccedenza della cooperazione produttiva e dell’innovazione sociale rispetto alle regole dello
sfruttamento e agli istituti dell’oppressione.
Solo le forze non arrese alla concertazione e alle guerre
della globalizzazione potranno dar vita a formazioni unitarie durevoli. In tal caso la loro essenziale funzione, nel
generale moto democratico di liberazione della prassi,
sarà dato dalla loro attitudine a incrementare l’autonomia riproduttiva di classe, fonte ultima della loro legittimazione e loro alimento strategico.
Per far questo, è bene ribadirlo, la lotta deve essere portata contro tutti i compatibilismi, compresi quelli generati dai partiti, dalle coalizioni, dagli stessi movimenti, non
declamando il proprio sdegno intellettuale ma colpendo
quei compatibilismi appena possibile. La virtù di abitare
la composizione politica di classe non ha alcuna cauzione ideologica, non è garantita né da pretese identitarie
né dalla loro dissoluzione «contaminativa», del resto opposta e complementare a quelle pretese.
Si tratta di una funzione materiale fallibile e risorgente.
Essa, per quanto discontinua e circostanziale, richiede
un sapere politico effettuale di forte impianto critico,
non deboli «narrazioni» impressionistiche.
Se questo è nel suo essenziale significato il concetto politico di «massa critica», esso diventa fondamento e discrimine di qualunque approdo unitario responsabile e realistico. Ciò che lo può distinguere da velleitarie e malaccorte operazioni elettoralistiche, non meno fragili se
gestite sotto l’insegna di un nuovo partito. Ciò che, ancora, lo può distinguere da resistenze ideologistiche rivestite di dubbia ortodossia, in realtà al servizio di interessi
frazionali di ceto politico.
Tutto dipende dalla qualità dei processi e degli attori in
gioco, dalla natura sociale delle tendenze politiche che
muovono l’unificazione delle sinistre, dalla capacità dei
comunisti di comprenderle e anticiparle in un senso o
nell’altro. 39
guerra alla povertà?
no, guerra
ai poveri
40
N
on esiste un’origine da cui partire. Segnali inquietanti hanno attraversato l’intera società italiana per decenni. Fenomeni carsici che, in particolari momenti
congiunturali, hanno portato alla definizione di politiche securitarie di diverso
segno. Era securitarismo quello che colpiva le occupazioni delle terre negli anni
Cinquanta, e che trasformava gli agricoltori in malfattori. Era securitarismo quello che
colpiva i meridionali urbanizzati, additati – in quanto poveri – come universo di
devianza e di pericolosità sociale, lo era quello che criminalizzava gli studenti e i lavoratori in lotta, che stigmatizzava i movimenti femministi, insomma chiunque e da
qualsiasi punto risultava turbativo per un determinato ordine sociale fondato sul rapporto gerarchico fra dominanti e subalterni. Il sistema mediatico, allora infinitamente
meno pervasivo, era la punta dell’iceberg di un insieme di strumenti atti al controllo
sociale che non hanno mai smesso di agire. Mutavano i contesti e gli attori, mutavano i
ruoli e le dinamiche ma l’elemento costantemente trasmesso, di generazione in generazione, manteneva intatte quelle richieste di ordine e disciplina che bloccavano ogni
forma di mobilità sociale. Anni e anni di conflitti hanno spostato la barra, hanno portato all’emancipazione di soggetti subalterni, hanno costretto a estendere un sistema di
diritti e garanzie, in una perenne tensione. Ogni diritto acquisito, lungi dal sembrare
acclarato, veniva rimesso in discussione a ogni cedimento, a ogni mutare di fase. Le
pulsioni autoritarie, che hanno investito una parte consistente delle forze politiche – si
pensi alla fase del Compromesso Storico – si sono potute realizzare anche grazie a questo sentire diffuso, che ha portato ad accettare leggi speciali privative di libertà, forme di
democrazia limitata, momenti ad alto livello repressivo.
Chi pensava che con la «caduta del muro» simili dinamiche sarebbero divenute residuali, compiva un errore clamoroso di analisi. Gli anni del nuovo
disordine mondiale e di quella che con una certa approssimazione chiamiamo globalizzazione neoliberista, esigevano nuove forme di controllo sociale
destinate a nuovi attori. Quello che nel resto d’Europa è accaduto negli anni
Settanta in Italia è avvenuto 20 anni dopo. Si è creato un nuovo esercito di
forza lavoro, proveniente prima dai paesi del Maghreb, poi dal resto del
continente africano e dall’Asia meridionale, e a seguire – con la dissoluzione
dei regimi comunisti – dai paesi dell’Est europeo e dai Balcani, che ha aperto nuove contraddizioni. Nonostante la trasformazione dell’Italia da paese di
migranti a paese di immigrati abbia assunto una sua rilevanza numerica già
a partire dalla fine degli anni Ottanta, per venti anni, tanto il sistema legislativo quanto la società intera hanno trattato tale modifica strutturale ancora
come elemento emergenziale e transitorio. Le leggi sono servite a definire i
vincoli attraverso cui introdurre braccia da lavoro e contemporaneamente a
creare condizioni di diritto speciale. Le leggi valide per gli autoctoni valgono
un po’ meno per chi arriva da altri paesi. Il securitarismo è stato in tal senso
un formidabile collante ideologico utilizzato tanto dalla destra estrema
xenofoba, quanto dalle forze liberaldemocratiche o che dichiarano di conservare elementi di socialismo.
S TEFANO G ALIENI *
Gli anni del nuovo
disordine mondiale e di
quella che con una certa
approssimazione
chiamiamo globalizzazione
neoliberista, esigevano
nuove forme di controllo
sociale destinate a nuovi
attori
* R ESPONSABILE NAZIONALE
I MMIGRAZIONE – P RC
SOCIETÀ
A crisi economiche che, in fasi alterne hanno messo a
serio rischio la stabilità del paese, si è risposto rideclinando la logica del capro espiatorio. Basti pensare alla campagna elettorale del 2001: fior fior di volantini e di
depliant dell’allora Ulivo, tessevano l’elogio di candidati
resisi protagonisti di battaglie per contenere il degrado
derivante dall’immigrazione. Il terreno era fertile: alcune
nicchie economiche rimaste sguarnite, soprattutto nelle
metropoli, venivano coperte anche da cittadini stranieri.
Nicchie economiche di vera e propria devianza come lo
spaccio di stupefacenti, le azioni di microcriminalità, nicchie giudicate riprovevoli in pubblico, meno in privato,
come la prostituzione o il lavoro al nero. Il contesto era
favorevole: cresceva a dismisura una deregulation in ogni
ambito della vita economica e sociale, lo slogan imperante era «meno stato e più mercato», il lavoro atipico diveniva sempre più la normalità, le garanzie sociali venivano
erose in funzione delle esigenze di bilancio.
La «fabbrica della paura» lavorava già alacremente, ma
un’impennata produttiva l’ha avuta a seguito degli
attentati dell’11 settembre. La paura interna si è connessa al timore di restare coinvolti nel caos internazionale,
un segnale fra i tanti lo lanciò, in un editoriale mai sufficientemente considerato, l’editorialista di Repubblica
Francesco Merlo, quando scrisse che bisognava accettare
l’idea secondo cui, per avere maggior sicurezza si doveva rinunciare a spazi di libertà.
Agghiacciante forse, ma in perfetta sintonia con l’ideologia imperante, si insegnò anche ai bambini a guardarsi
dai cittadini che potevano avere origini arabe e, in
quanto tali essere potenziali terroristi.
Ma una ulteriore mutazione era in atto e afferiva
all’idea stessa di sistema democratico. Lentamente ma
inesorabilmente mutavano le relazioni sociali nelle città,
grandi o piccole che fossero, crescevano solitudini e
squilibri, si allargava la forbice interna fra garantiti e
non, fra privilegiati e non. Un sistema gerarchico si è
costruito attraverso la compresenza di diverse categorie
identitarie: reddito, provenienza geografica, età, genere.
Una configurazione dei rapporti sociali di questo tipo
abbisognava di nuove e più autoritarie forme di governo
dei territori: Comuni e Regioni vedono così aumentare i
propri poteri e le proprie competenze, nascono i «sindaci sceriffi» che con diverse modalità accentrano in
maniera personalistica ogni elemento decisionale.
Prende corpo negli anni l’idea di sicurezza come diritto a
difendere la proprietà a ogni costo. Nelle città si investe in
circuiti di video sorveglianza (siamo uno dei paesi col rapporto fra numero di videocamere installate e popolazione,
più alto nel mondo), cresce la vendita di armi per difesa
personale, crescono le spese individuali o condominiali
per apparecchiature antifurto, per recintare i confini della
propria abitazione, per rendere invulnerabili le tane in cui
ci si nasconde, in particolari momenti, sedicenti comitati
spontanei si organizzano in «ronde» che percorrono,
rimandando a sinistri passati, le «zone a rischio».
In maniera altrettanto spasmodica, crescono paure e
allarmi rapsodici, isterie collettive, parimenti si dissolvono le reti sociali aperte: si vive soli, in famiglie mononucleari, in piccole comunità chiuse, in cui ogni soggetto è
identificato, in cui ogni intrusione di sconosciuti è percepita come pericolo incombente.
Solitudini, paure, impossibilità per molte e molti a
costruirsi una progettualità di vita, precariato esistenziale e non solo lavorativo, sono riusciti finora a impedire
che si elaborassero risposte collettive e inclusive a gravi
questioni sociali. Si combattono i poveri e non la povertà, chi vive nel degrado e non il degrado stesso. Si torna
a immaginare «città fortezze» da cui espellere gli indesiderabili e in cui ricostruire gerarchie di stampo medievale. Isole sicure, in cui profitto e consumo sono le uniche
coordinate di riferimento, all’interno di un continente
come quello europeo che si vuole ridotto a sommatoria
di tali microfortezze.
Paradossale, in un’epoca in cui le transazioni finanziarie
avvengono con la velocità della telematica, si pretende
di ingessare corpi e vite, ruoli e funzioni, di affidare al
potere imperscrutabile di chi è comandato a reprimere,
la divisione fra esclusi e inclusi.
E più questa mutazione antropologica, oltre che politica,
delle relazioni umane si compie, più la percezione di
insicurezza si espande. Prevale l’approccio emotivo agli
eventi, le stesse agende politiche vengono dettate dai
fatti di cronaca nera.
41
Prende corpo negli anni l’idea di sicurezza come
diritto a difendere la proprietà a ogni costo. Nelle città
si investe in circuiti di video sorveglianza (siamo uno dei
paesi col rapporto fra numero di videocamere installate e
popolazione, più alto nel mondo), cresce la vendita di
armi per difesa personale, crescono le spese individuali o
condominiali per apparecchiature antifurto, per
recintare i confini della propria abitazione
42
La realtà ne esce capovolta, deformata.
Basti pensare che la stessa parola
«sicurezza» un tempo patrimonio di
chi voleva estendere diritti sanciti
anche dalla Carta Costituzionale, ha
subìto una involuzione nel suo uso
comune, portando all’affermazione
priva di significato ma non di senso,
secondo cui la sicurezza non è né di
sinistra né di destra. E a sinistra,
anche in ambienti a noi vicini, si
intende per sicurezza la difesa di uno
spazio privilegiato. Si connette
immediatamente il termine alla presenza migrante, dimenticando aspetti
fondamentali.
Dimenticando che dei 3 milioni e
700 mila migranti presenti in Italia,
sono una percentuale minima quelli
dediti ad attività delittuose. Che
molti di costoro sono vittime e ostaggi di uno Stato che li considera cittadini di serie B, di un mercato del
lavoro che ne fa stralci restando
impunito, di violenze quotidiane
subite tanto da gruppuscoli fascisti
quanto dalle autorità. Che coloro –
per fortuna sempre più numerosi –
che rifiutano di subire e hanno da
tempo iniziato percorsi di auto organizzazione o di faticoso inserimento
nella realtà politica e sociale italiana
(sindacati, partiti, associazioni e reti
di movimento) subiscono ancora il
ricatto razzista di un permesso di soggiorno vincolato alla volontà di un
padrone (pardon, datore di lavoro).
Che vivere in Italia significa non
poter partecipare in maniera paritaria
al godimento dei diritti sociali, civili e
politici, essere soggetti a un doppio
rapporto di subordinazione con chi
dà lavoro e con il Ministero degli
Interni.
Che la presenza irregolare nel bel
paese è punita con un sistema di
detenzione amministrativa dentro
quelli che sono i famigerati centri di
permanenza temporanea.
Che entrare legalmente in Italia è
oggi praticamente impossibile, condannati alla logica ipocrita e da contagocce del decreto flussi, tanto è
che almeno il 65% dei migranti
regolarmente soggiornanti in Italia è
passato attraverso un periodo più o
meno lungo di irregolarità.
Un sistema di questo tipo, del resto
adottato, anche se in forme diverse
in tutti i paesi della Comunità
Europea, non può che costruire sacche di marginalità diffuse, sparse
nelle periferie, fianco a fianco con
condizioni mai affrontate di disagio
autoctono.
A un cittadino o a un nucleo familiare proveniente da altro paese,
risulta sempre difficile trovare casa –
gli affitti crescono anche in base alla
nazionalità – ci vogliono anni prima
di poter trovare una sistemazione
dignitosa, facilmente si finisce con il
vivere compressi in stanze stracolme, pagando canoni esosi e al nero
per un posto letto.
E da ultimo il lavoro. Come in ogni
ambito della vita quotidiana, sono
gli uomini e le donne straniere le
persone più soggette a rischio di
infortuni. Nell’anno di grazia 2006,
mentre finalmente calava il numero
complessivo dei morti sul lavoro,
cresceva per i lavoratori stranieri. I
dati denunciati – e che quindi non
coprono il ben più vasto bacino del
lavoro nero – parlano di 30 cittadini
rumeni morti (la prima comunità
per vittime) e di oltre 11.500 infortunati.
Una strage silenziosa verso cui non si
invocano tutela e sicurezza. Sono
straniere le persone più soggette al
rischio di aggressioni e violenze, da
parte di altri stranieri o, più spesso di
italiani. Il paradosso è che la sicurezza «dagli» stranieri risulta più importante di quella «degli» stranieri.
Lo stesso accentrare le problematiche attorno alla clandestinità risulta
fuorviante.
Già il termine clandestino è di per
sè criminalizzante, mutuato come è
dal linguaggio degli «anni di piombo». Basterebbe ricordare come la
condizione di clandestinità sia molto
spesso una costrizione e non una
scelta. Vagare invisibili in un paese,
raccogliendo le briciole di occasioni
per il sostentamento – non suoni
giustificatorio – può portare a ritrovare come unica opportunità l’ingresso nelle nicchie economiche a
cui si è già fatto riferimento. Da ultimo, la condizione speciale in cui
vivono in Italia le popolazioni rom e
sinti. Una situazione che non ha
eguali in Europa: a persone costrette
da generazioni in condizioni invivibili, in campi sosta privi di servizi
fondamentali, viene chiesto di integrarsi o di andarsene. Padri, madri e
figli sono nati in Italia, molti sono
arrivati con il disfacimento dell’ex
Jugoslavia prima e con la crisi economica e politica in Romania ulti-
SOCIETÀ
mamente. Un universo complesso che spazia dalle tante
e i tanti che sono oramai cittadini italiani a coloro che
cercano in ogni modo di sopravvivere, quando va bene,
in containers allineati in campi «attrezzati» e quando va
male lungo gli argini dei fiumi. Si muore nei campi: di
freddo o di malattia, a volte arsi vivi per una bombola
che esplode, per una stufetta che va in corto circuito, si
muore soprattutto da bambini, si muore in silenzio.
Quello che invece trova risalto è il fastidio che provoca
la loro presenza, il loro odore, le immondizie da cui sono
circondati, i loro modi di guadagnarsi da vivere, il fatto
che esistano. Razzismo disgustoso ma popolare, segno
orrendo di una guerra fra poveri che si alimenta di quotidianità, che è divenuto sentire collettivo a cui è necessario porre un argine politico e culturale, per cui è
urgente trovare un antidoto.
Appropriandosi di un’altra parola sacra «legalità», attirando consenso, gli amministratori di gran parte delle
città italiane invocano la tolleranza zero nei confronti di
ogni ultimo. Qualche atto di beneficenza sì, quello non
si rifiuta, la carità pelosa del ricco verso il diseredato, ma
politiche sociali inclusive, impiego di risorse pubbliche
per affrontare tali problematiche per quello che sono,
questioni sociali, guai a parlarne. Si rischia di vedersi
affibbiata la nomea di buonista, di anima bella, di estremista che non vive le contraddizioni in seno al popolo,
in pratica di essere imbecille.
Eppure, mai come oggi, una sinistra degna di questo
nome, dovrebbe mantenere come forte carattere identitario alcuni elementi, peraltro mutuati anche da logiche
affatto rivoluzionarie, ma eticamente e politicamente
ineccepibili. Il carattere individuale della responsabilità
di ogni atto criminoso: accettare la logica che vede oggi i
«rumeni», come tanti anni fa i «meridionali», poi i
«marocchini», poi gli «albanesi», come gruppo socialmente responsabile di ogni delitto significa liberare la
logica nazista del capro espiatorio da eliminare.
Individuare e comunicare quanto si debbano affrontare
questioni non connesse all’ordine pubblico – da risolvere
con gli apparati repressivi di cui si dispone – ma sociali,
che investono la violenza dei sistemi di relazione, non
solo fra stranieri e autoctoni ma anche trasversali e flui-
di. Questioni di classe, verrebbe da dire, come questione
di classe è oggi il vero razzismo, quello basato sulla condizione materiale delle persone e sui sistemi gerarchici
su cui si basa l’ordine costituito. La «tolleranza zero» che
si invoca, ripresa in maniera spudorata dalle esperienze
statunitensi, è oggi contro bersagli facili, come gli ultimi
degli ultimi, ma si estende per concatenazione ideologica
a chiunque risulti come corpo estraneo. Possono essere
gli studenti fuori sede, quelli che cercano spazi di vita
sociale al di fuori del mercato del tempo libero, chi fa
uso di sostanze stupefacenti, chi non è inserito nella
catena stabile dei consumi, chi si ribella per le condizioni
di eterno precariato. Si tratta, per una sinistra senza
aggettivi, di riconsiderare queste e altre soggettività
come corpo sociale da ricomporre, in cui inserirsi, da cui
imparare una nuova e più reale grammatica dei conflitti.
Si parla di un corpo che può anche trovare sponda in
alcune istanze fatte proprie dalla politica – vanno considerate in tal senso le parti migliori del disegno di legge
sull’immigrazione proposto dai ministri Amato e Ferrero
– ma che deve partire dall’assunto di come questo sia
necessario ma non sufficiente. Un nuovo codice e nuove
relazioni sociali capaci di ripudiare le patetiche e pericolose risposte di intolleranza, vanno ricostruiti nei territori, bisogna sporcarsi le mani nei luoghi in cui è più facile
che si inneschi la guerra fra poveri, nei luoghi in cui i
problemi di convivenza esistono e sarebbe miope non
riconoscerlo. Ma bisogna farlo partendo da un assioma
comune: è solo innalzando o recuperando la soglia dei
diritti e delle garanzie per tutte e per tutti che si costruiscono realmente città sicure, città aperte. 43
alcune note
sulla «tolleranza zero»
per un approfondimento
Una via italiana alla «tolleranza zero»?
A LYOSHA M ATELLA *
44
Ragazzi, sapete già tutti perché siamo qui. A parte le esagerazioni sul
massacro, si tratta di un reato odioso e feroce, che esige provvedimenti
rapidi ed energici. Sono la stampa e l’opinione pubblica a volerli e noi
glieli forniremo.
James Ellroy, L.A. Confidential1
N
el nostro Paese, a partire dalle misure estive adottate dai sindaci-sceriffi del
neonato Partito Democratico contro nomadi, migranti e lavavetri per giungere
alla cronaca delle ultime settimane (in relazione all’omicidio di Giovanna
Reggiani e alle discussioni sorte in merito al pacchetto sicurezza del Ministro Amato),
la presunta «emergenza sicurezza» si è conquistata uno spazio di massimo rilievo sia
nel «sentire comune» di larghe parti dell’opinione pubblica sia nel dibattito politico e
intellettuale nazionale.
Non è né una novità né un’anomalia italiana: ormai da decenni, con il dilagare dell’insicurezza provocata dallo smantellamento del Welfare e dalla
precarizzazione della condizione salariale, le società occidentali sono periodicamente investite da ondate di panico morale dirette, grazie al prevalere di
discorsi pubblici reazionari o apertamente xenofobi, contro una criminalità
di sussistenza ascritta alle nuove classi pericolose (ovvero le categorie sociali
più colpite dallo tsunami neoliberista) e, pertanto, meritevoli di essere condannate «a cinquemila anni più le spese».
È ormai egemone nella nostra società l’immagine, sapientemente diffusa dai
media, di un Paese esposto al rischio di un «colpo di stato dal basso» (per
utilizzare le parole di Victor Hugo) sferrato contro l’ordine sociale legittimo
da un nuovo mondo criminale abitato da immigrati clandestini, cittadini comunitari «non graditi», lavavetri, rom e nuovi poveri.
Ampi settori della classe politica italiana hanno assunto questo schema interpretativo e cercato le possibili soluzioni per uscire da una simile situazione volgendo lo sguardo oltre Oceano, con particolare attenzione alle misure
adottate nel corso della sua amministrazione dall’ex sindaco repubblicano di
New York Rudolph Giuliani.
Se tale interesse non risulta essere stupefacente né recente per gli esponenti
politici della Casa delle Libertà e benché non sia questa la prima volta che i
settori moderati del centrosinistra assumono (su questo come su altri temi)
parole d’ordine e ragionamenti propri della destra, è sorprendente lo zelo e
la passione con cui dirigenti di primo piano del Pd hanno esternato la loro
ammirazione per l’uomo forte della Grande Mela.
La ragione di tale ammirazione – ci ha spiegato il Ministro Amato in un’intervista rilasciata a «Repubblica» il 5 Settembre 2007 – risiederebbe nella
volontà di adottare uno sguardo nuovo, pragmatico e «non ideologico» sulla
nostra società e sui suoi problemi, riconoscendo gli «indubbi risultati» con-
* S OCIOLOGO
SOCIETÀ
è ormai egemone nella nostra società l’immagine,
sapientemente diffusa dai media, di un Paese esposto al
rischio di un «colpo di stato dal basso» (per utilizzare le
parole di Victor Hugo) sferrato contro l’ordine sociale
legittimo da un nuovo mondo criminale abitato da
immigrati clandestini, cittadini comunitari «non
graditi», lavavetri, rom e nuovi poveri
seguiti dalla linea della tolleranza zero adottata dall’ex-sindaco e dal Dipartimento di Polizia di New York a partire dal 1993.
Nelle prossime pagine si cercherà di approfondire proprio il tema della lotta
alla criminalità condotta dall’amministrazione Giuliani, enucleandone e analizzandone origini, caratteristiche ed effetti reali.
Nella stesura di questo articolo si faranno numerosi riferimenti, tra gli altri,
agli studi e alle ricerche condotte sull’argomento dal sociologo franco-statunitense Loic Wacquant verso il quale chi scrive ha contratto un debito di
gratitudine.
Le origini e gli sviluppi della «tolleranza zero»
I neri nati negli Stati Uniti e così fortunati da vivere oltre l’età dei 18 anni, sono condizionati ad accettare l’inevitabilità del carcere.
George Jackson, I fratelli di Soledad2
Le parole di George Jackson (detenuto afroamericano divenuto in prigione
militante comunista e dirigente del Black Panther Party) se, nel giugno del
1970, epoca in cui furono scritte, potevano apparire una forzatura, assumono un carattere quasi profetico alla luce delle trasformazioni introdotte dall’intellettualità legata alle formazioni politiche e agli istituti culturali della
destra repubblicana tanto nel dibattito criminologico quanto nella pratica di
governo della società, con la conseguente crescita esponenziale della popolazione carceraria.
Una volta sconfitti i movimenti di emancipazione e liberazione degli anni
Sessanta e avviato un processo di profonda trasformazione dell’organizzazione sociale del lavoro, in un clima di rabbiosa revanche razziale e classista, si è
infatti assistito, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, a uno spropositato aumento dei tassi di carcerazione che ha invertito la tendenza alla
decrescita del periodo anteriore. Si calcola che, se nei decenni precedenti alla
prima metà degli anni Settanta la popolazione carceraria andava progressivamente diminuendo, si è assistito nel periodo successivo a una crescita esponenziale del numero dei detenuti (la maggior parte dei quali per pene relative alla vendita e al consumo di stupefacenti).
Una crescita che, nel 2004, arriverà a toccare la cifra record di 2.130.000 detenuti e che determinerà un tasso di carcerazione di 726 individui ogni
100.000 abitanti.
Ma il dato forse più eloquente e più sintomatico del carattere selettivo di
queste trasformazioni è quello relativo alla composizione etnica della popolazione carceraria: il 49% di essa è infatti costituita da persone appartenenti
alla comunità afroamericana, nonostante essa rappresenti soltanto il 1213% della popolazione statunitense3. Ciò significa concretamente che «ogni
giorno 1 su 3 degli afroamericani maschi
di età compresa fra i 20 e i 29 anni (il
32,3%) è in carcere o sottoposto ai regimi di parole o probation»4.
Per comprendere tali fenomeni non
si può non tornare sui successi conseguiti dall’intenso lavorio intellettuale condotto dai think tanks neoconservatori all’epoca in guerra contro il debole sistema di protezioni
sociali statunitensi, contrapponendogli il principio (non particolarmente
5
nuovo ) della distinzione tra poveri
meritevoli e immeritevoli: gli uni,
secondo i princìpi del workfare (o
welfare dei miserabili), destinatari di
aiuti condizionati dalla sottomissione
ai valori e alle esigenze delle élites
dominanti (tra cui non ultimo il dovere all’accettazione di qualunque
mansione lavorativa), gli altri bersagli della nuova gestione repressiva
della miseria di massa (figlia della rivoluzione neoliberista) delineata dai
maître à penser neoconservatori.
Tra questi think tanks merita particolare attenzione il Manhattan Institute
fondato da Anthony Fisher e William Casey (successivamente direttore della C.I.A.) con l’obiettivo di
applicare i principi dell’economia di
mercato alla risoluzione delle questioni sociali.
È questo «serbatoio di cervelli» neoliberale a lanciare infatti, nei primi
anni Ottanta, una vigorosa crociata
a favore della gestione punitiva dei
comportamenti devianti e microcriminali i cui autori sarebbero appartenuti alle classi sociali e alle comunità etniche più povere delle metropoli statunitensi.
45
Al di là delle parole d’ordine sulla inflessibilità contro qualunque reato, è più che
evidente infatti come gli esiti e gli obiettivi della tolleranza zero (indipendentemente
dai risultati sbandierati) siano stati la persecuzione e la stigmatizzazione di una
popolazione composta da lavoratori impoveriti dalla rivoluzione neoliberale e che la
«linea del colore», che negli U.s.a. innerva l’intero corpo delle relazioni sociali,
condanna alla precarietà, alla miseria e al carcere
46
Uno dei primi e più importanti passaggi di questa vera e propria battaglia culturale è stata la vasta campagna pubblicitaria per la diffusione di
«Losing Ground. American Social Policy
1950-1980» di Charles Murray (consigliere dell’Amministrazione Reagan
in materia di welfare).
L’autore del saggio, considerato una
sorta di pietra miliare della rivoluzione neoliberista, si sforza di dimostrare come la degenerazione morale, la «anarchia familiare» e le condotte devianti della popolazione dei
ghetti e dei quartieri (sotto)proletari
non siano altro che la conseguenza
diretta del «senso di dipendenza»
prodotto presso questi settori sociali
dalle politiche di welfare, frutto a
loro volta della «perversione dell’ideale egualitario apparso con la
Rivoluzione Francese».
Perversioni che, oltre che «inumane» e tiranniche, risultano essere
elementi di aggravamento delle problematiche che si propongono di risolvere, in quanto (come affermerà
successivamente Murray in «The
Belle Curve: Intelligence and Class Structures in American Life») le disparità e
le ineguaglianze etniche e di classe
tanto nell’accesso alla ricchezza e al
potere quanto nella propensione a
commettere determinate tipologie di
reati sono ascrivibili a mere differenze intellettive e di conseguenza
alle carenze cognitive e morali della
popolazione (in particolare di quella
giovanile) delle inner cities, i quartieri in cui, secondo Murray, «in larga
parte risiedono le persone a bassa
capacità cognitiva».
Da ciò, il «consiglio» di Murray –
che, è bene ricordarlo, non è il capobastone di un’organizzazione white
supremacy (supremazia bianca) della
provincia profonda, ma un intellettuale prestigioso e autorevole della
destra statunitense – è di eliminare e
respingere qualunque pretesa statale
di interferire nella sfera sociale ed
economica, evidenziando tra l’altro
come il lassismo assistenziale abbia
di fatto creato una popolazione di
«poveri immeritevoli», promiscui,
depravati e, soprattutto, protagonisti
di quella criminalità di strada e di
sussistenza che insidia la sicurezza e
l’incolumità dell’America Wasp.
In definitiva quindi, secondo l’intellettualità neoconservatrice, la nuova
ed esplosiva questione sociale va
spiegata, al di là e contro qualunque
giustificazionismo sociologico (sul
quale si allunga l’ombra della «perversione egualitaria» giacobina e leninista), in termini di incapacità
morali e cognitive e lo Stato assistenziale non ha prodotto altro effetto che una nuova classe pericolosa di piccoli predatori di strada, individui oziosi e refrattari alla
disciplina del lavoro precario, dissolute ragazze madri e giovani devianti e antisociali.
Ne consegue che la società legittima
ha il dovere e il diritto di difendersi
dai nuovi e minacciosi barbari.
Anche in questo caso, il Manhattan
Institute contribuisce a definire le
linee ispiratrici di quella che sarà la
strategia politica di uno dei suoi più
assidui ed entusiasti frequentatori, il
repubblicano Rudolph Giuliani. È in-
fatti il Centro studi newyorkese a
dare ampio risalto agli studi di James
Q. Wilson e George Kelling sulla
questione criminale, con particolare
riferimento alla «teoria del vetro
rotto», la cui formulazione risale al
marzo 1982, con la pubblicazione di
un breve saggio dei due autori sul
periodico «Atlantic Monthly».
In questo articolo, Wilson e Kelling
(ovvero il vate della criminologia
reazionaria statunitense e l’ex-capo
della polizia di Kansas City) affermavano l’esistenza di un filo rosso
capace di legare il verificarsi di effrazioni di varia natura – consumo di
bevande alcoliche in pubblico, atti di
vandalismo giovanile, incuria dello
spazio urbano – e il dilagare di comportamenti apertamente criminali e
predatori, spiegando i secondi attraverso i primi.
Da qui, secondo i due autori, l’inflessibilità penale nei confronti di
qualunque comportamento deviante
e il conseguente ampliamento dei
margini di discrezionalità concessi
alle forze dell’ordine nello svolgimento delle loro funzioni risulterebbero gli unici strumenti efficaci per
combattere la delinquenza, la violenza e lo spaccio di droga nelle metropoli americane.
Tale pseudoteoria, benché ripetutamente invalidata da numerose ricerche di maggiore spessore analitico
ed empirico, ha svolto un ruolo fondamentale nel fornire una giustificazione e una legittimità «scientifiche» alla messa in opera, a partire
dal 1993, della politica di tolleranza
zero di Giuliani e del capo della Poli-
SOCIETÀ
zia newyorkese William Bratton.
Fu proprio quest’ultimo a dichiarare
prioritaria la lotta all’ultimo quartiere contro la criminalità di strada e a
individuare i principali nemici dell’ordine cittadino nei lavavetri e nei
graffitisti (ironia dei ricorsi storici),
nei piccoli delinquenti di strada e
nei giovani dei ghetti, nelle prostitute e nei senzatetto: in breve, negli
abitanti delle zone maggiormente
degradate dello spazio sociale e urbano, contro i quali avviare una
vera e propria operazione sistematica di molestia e di persecuzione.
Per condurre questa guerra di conquista dei quartieri poveri Giuliani e
Bratton si serviranno di una pluralità di strumenti. Innanzitutto l’intensificazione del pattugliamento e del
controllo delle aree urbane abitate
da minoranze etniche e dai settori
più vulnerabili della working class.
In questo quadro, vengono ampliati
i margini di operatività e discrezionalità degli agenti e delle pattuglie
in relazione alla attività di repressione di tutta una serie di comportamenti (dai reati contro la proprietà e
la persona agli schiamazzi e all’occupazione di spazi pubblici) imputati
a intere categorie sociali sottoposte a
un doppio processo di stigmatizzazione e criminalizzazione.
A tal fine viene impiegato il Compstat, un nuovo sistema informatico
centralizzato attraverso il quale le
forze dell’ordine definiscono e razionalizzano le proprie attività in funzione di una informazione sistematicamente aggiornata e geograficamente focalizzata relativamente a
effrazioni, denunce e disordini.
Per rendere più efficace il lavoro di
polizia Bratton promuove inoltre
una riorganizzazione dell’intero Dipartimento secondo i principi propri
delle teorie sul management imprenditoriale privato. I commissariati («ringiovaniti» attraverso l’allontanamento di massa di ufficiali e di
commissari) vengono sottoposti a rigidi criteri di profitto e redditività
delineati e pianificati attraverso la
formulazione di obiettivi di riduzione delle statistiche criminali.
Questa corsa a tutta velocità per il
perseguimento delle mete predefinite dal Capo Bretton ha avuto come
risultato, tra gli altri, un’incredibile
crescita del numero di arresti e
fermi che ha determinato un vero e
proprio intasamento dei tribunali e
delle carceri.
Ma questa grande trasformazione
non sarebbe stata possibile senza
l’impiego di ingenti somme economiche. L’amministrazione Giuliani
versa una cifra astronomica per supportare l’impresa di Bratton: in soli
cinque anni il budget cittadino destinato alla Polizia ha toccato i 2,6
miliardi di dollari, grazie ai quali il
Dipartimento ha assunto nel 1999 la
configurazione di un piccolo esercito
di quasi 40.000 agenti in uniforme.
Per allargare la prospettiva di analisi
e comprendere il significato politico
di questa trasformazione, è sufficiente sottolineare che la cifra destinata dalla città per la Polizia corrisponde al quadruplo di quella spesa
per gli ospedali pubblici e che, nello
stesso periodo, i servizi sociali
hanno dovuto subire un drastico ridimensionamento dei propri finanziamenti (circa un terzo) con la conseguente scomparsa di 8.000 posti.
È in questi elementi, qui brevemente
accennati, che si può individuare la
filosofia di fondo della tolleranza zero
ed è a partire da essi che si possono
analizzare le conseguenze concrete
della teoria di Giuliani e Bratton.
L’ordine regna a New York? Risultati presunti ed effetti reali del
nuovo rigore penale
Da noi tutto diventa sempre dottrina, filosofia. Basta dire facciamo
come ha fatto il sindaco di New
York che lottò contro la microcriminalità e la sconfisse, per sentirsi
dire: abbraccia la dottrina Giuliani. Lasciamo la dottrina e la filosofia a Kant, ai filosofi, e misuriamo
le politiche sulla loro efficacia.
Giuliano Amato, «la Repubblica», 5 settembre 2007
I risultati conseguiti dall’Amministrazione Giuliani nella lotta alla criminalità sono, secondo i neofiti del
verbo securitario e xenofobo d’Oltremanica, la ragione forte che dovrebbe indurci a adottare anche nel
nostro Paese principi e strumenti
propri della zero tolerance.
Ma è proprio sulla natura e la portata di tali esiti e sul loro rapporto
causale con la guerra ai poveri scatenata a New York durante gli anni
Novanta che è necessario fare qualche precisazione, al di là e contro la
cortina fumogena prodotta ad arte
dagli apparati intellettuali e mediatici della destra americana.
47
48
Innanzitutto limitiamoci a New York: la diminuzione
della criminalità e della violenza è una tendenza che si è
manifestata precedentemente all’elezione di Giuliani.
Se infatti si è assistito a un calo significativo della violenza già nel corso degli ultimi tre anni di Amministrazione
Dinkins, le statistiche criminali ci dicono, dal 1988 al
2002, di una progressiva e ininterrotta riduzione dei
reati contro la proprietà nel loro insieme.
Se è vero quindi che la criminalità è diminuita nella
Grande Mela, tale processo ha preso le mosse ben prima
dell’applicazione della dottrina Giuliani.
A ciò, va aggiunto un secondo elemento: già nel corso
degli anni Ottanta il Dipartimento cittadino di Polizia definì una strategia di intervento fondata sulla repressione
e il rigore penale, che ebbe però effetti disastrosi, dato
che proprio in quel periodo (dal 1984 al 1987) il numero di omicidi (in particolare di quelli connessi al livello
di espansione raggiunto dal mercato di strada degli stupefacenti) aveva conosciuto un netto aumento.
Se provassimo a confrontare la situazione di New York
con le tendenze relative alle attività delinquenziali di
altre città in cui sono state applicate strategie di ordine
pubblico alternative dalla tolleranza zero (quali San Diego,
Boston e San Francisco), scopriremmo che i tassi di diminuzione della criminalità di queste realtà è simile (se
non maggiore) a quello della Grande Mela.
Anche in questo caso, un’analisi più approfondita dei
fatti ci permette di sfatare alcuni luoghi comuni sapientemente elaborati e diffusi dai think tanks neoconservatori e, più in generale, di comprendere come la strategia
vessatoria nei confronti dei poveri attuata da Giuliani
non sia e non possa essere addotta come causa del riflusso della criminalità.
Le ragioni di tale calo vanno infatti cercate in una pluralità di variabili, quali per esempio quelle relative all’andamento demografico, al susseguirsi di cicli economici con
conseguenze diverse sul mercato del lavoro e alle trasformazioni interne al mercato della droga, segnato nel periodo preso in considerazione dal declino del consumo di
massa di crack (e, quindi, dei reati a esso annessi) e al
modificarsi delle relazioni tra le gangs giovanili dei ghetti.
Alla prova dei fatti, si rivela dunque inconsistente e prettamente ideologica la tesi propagandata dai neocons e dai
loro sostenitori relativa a una guerra tra l’ordine legittimo
e i mondi criminali (coincidenti tout court con la popolazione più fragile dei quartieri proletari) vinta dal primo
grazie all’adozione di una politica aggressiva e inflessibile.
Vanno invece evidenziati gli effetti concreti di questa
guerra, spesso consapevolmente messi in ombra al fine
di evitare temi di discussione che potrebbero apparire
quantomeno imbarazzanti. Fortunatamente esistono alcuni significativi rapporti che ci aiutano a gettare luce su
di essi, consentendoci di cogliere il significato che l’insieme delle politiche di tolleranza zero ha assunto per quote
importanti della cittadinanza newyorkese.
Secondo il rapporto pubblicato nel 1998 dal Task Force on
Police-Community Relations si calcola che a New York ci sia
stato, tra il 1993 e il 1994, un aumento del 35% dei civili
uccisi nel corso di operazioni di polizia e un incremento
del 53% dei decessi «sospetti» durante il periodo di custodia di polizia. Più in generale, tra il 1994 e il 1997 i casi di
denuncia contro le forze dell’ordine per danni causati da
perquisizioni violente e per abusi di potere hanno registrato un incremento rispettivamente del 50% e del 41%.
Restano da definire con precisione i bersagli e i capri
espiatori di tale zelo poliziesco. Nel suo rapporto «Police
brutality and excessive force in New York City» del 1996, Amnesty International afferma che il 75,9 % di coloro che
denunciano comportamenti violenti e abusi di potere da
parte delle forze dell’ordine è costituito da persone appartenenti alle comunità afroamericana e latina. Inoltre, va
tenuto in considerazione che la maggior parte delle vittime di tali condotte degli agenti del N.y.p.d. è di età compresa tra i 14 e i 17 anni e che questi avvenimenti si sono
nella maggioranza dei casi verificati in contesti che non
giustificano un tale uso della forza da parte dei poliziotti6.
Credo bastino questi pochi e sintetici dati per rendersi
conto di quali conseguenze la «lotta alla criminalità» teorizzata nei luminosi ed eleganti uffici degli istituti neocons
abbia avuto nelle strade e nei quartieri flagellati dalla povertà, dalla disoccupazione e dalla precarietà lavorativa ed
esistenziale. È per l’appunto in quei territori urbani e sociali, costretti a farsi materialmente carico delle devastazioni neoliberiste, che le retoriche securitarie si sono aperte la
via sfondando porte e sparando ad altezza d’uomo.
Al di là delle parole d’ordine sulla inflessibilità contro qualunque reato, è più che evidente infatti come gli esiti e gli
obiettivi della tolleranza zero (indipendentemente dai risultati sbandierati) siano stati la persecuzione e la stigmatizza-
SOCIETÀ
zione di una popolazione composta da lavoratori impoveriti dalla rivoluzione neoliberale e che la «linea del colore», che negli U.s.a. innerva l’intero corpo delle relazioni
sociali, condanna alla precarietà, alla miseria e al carcere.
Come tutto ciò possa essere fatto proprio da una sinistra
«moderna» e pragmatica è ancora misterioso, e le dichiarazioni perentorie e categoriche del Ministro Amato
più che convincenti risultano essere inquietanti.
Conclusioni
Eravamo in pochi a dire «prima di tutto la sicurezza». Oggi
siamo la maggioranza.
Manifesto di Alleanza Nazionale affisso nelle strade di
numerose città, Italia, 2007
È necessario a questo punto cercare di trarre qualche
conclusione dalle riflessioni qui accennate.
Come si è visto, il tentativo di spiegare i fenomeni legati
alla riduzione della delinquenza come risultato dello
zelo dell’amministrazione e della polizia newyorkesi
altro non è che il rilancio (portato alle sue estreme conseguenze) dell’ossessione ottocentesca per il delitto e di
una rappresentazione della società quale campo di battaglia tra le forze dell’ordine e quelle del crimine, impegnate in una guerra che, con buona pace delle anime
belle, deve essere combattuta con gli strumenti propri
delle contese belliche.
Si è cercato in queste pagine di svelarne l’inconsistenza
empirica e teorica rispetto agli obiettivi declamati e a individuarne quelli reali, evidenziandone i legami profondi con i processi di desocializzazione del lavoro eterodiretto e con il ritorno di una visione della società segnato
da un crudele e aggressivo egoismo proprietario.
La forza e il successo della tolleranza zero sta infatti nella
capacità di tradurre l’insicurezza di massa che ha investito le classi subalterne occidentali nella paura e nell’odio nei confronti dei nuovi barbari giovani stranieri e
poveri, vale a dire le vittime preferenziali dell’erosione
della condizione salariale e dei diritti sociali.
Il prevalere di queste retoriche e la loro assunzione, nel
nostro Paese, da parte del gruppo dirigente del Pd lascia-
no ragionevolmente immaginare scenari assolutamente
allarmanti e minacciosi, segnati da un precipitare delle
condizioni esistenziali e lavorative di masse cospicue di
uomini e di donne e dal loro sprofondamento in una
guerra intestina alle classi subalterne che apre la strada
(anzi, la sta già aprendo) a una pericolosa involuzione
del quadro politico, sociale e istituzionale.
Su questo fronte le comuniste e i comunisti devono ingaggiare una battaglia di lunga lena che sappia respingere l’isteria securitaria provocata ad arte dagli apologeti di
un libero mercato difeso dal pugno di ferro di uno Stato
penale e repressivo, connettendo la difesa delle garanzie
individuali e delle libertà civili con la lotta per la tutela e
l’estensione del diritto alla sicurezza sociale.
Battaglia decisiva, perché se, per parafrasare Robert Castel, la criminalizzazione dei settori maggiormente vulnerabili delle classi popolari altro non è che la strada più
breve tra l’impossibilità di tollerare una situazione e l’incapacità di modificarla radicalmente, la critica e la trasformazione dell’esistente divengono quanto mai necessari per evitare e respingere la barbarie. 1. Ellroy J. (1998), L.A. Confidential, Mondadori, Milano, p. 124.
2. Jackson G. (1970), I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di George
Jackson, Einaudi, Torino, p. 9.
3. Per i dati qui riportati, vedere Re L. (2006), Discriminazione strutturale e Color Blindness nei sistemi penitenziari degli Stati Uniti e d’Europa, in Casadei T.- Re L. (a cura di), Legge, «razza» e diritti. A partire
dalla Critical Race Theory, «Jura Gentium-Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale»
(http://www.juragentium.unifi.it/it/forum/race/re.htm).
4. Re L. (2006), Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli
Stati Uniti e in Europa, Roma-Bari, Laterza, pp. 38-39.
5. Per un’articolata trattazione delle modalità di gestione della povertà, nell’ambito delle quali la distinzione qui accennata ha svolto
un ruolo di primo piano nella storia europea fino all’avvento del
Welfare State, si veda Castel R. (1999), Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Gallimard, Parigi.
6. Dati reperibili in Amnesty International (1996), Police brutality
and excessive force in New York City, e De Giorgi A. (2000), Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, DeriveApprodi,
Roma, pp. 114-117.
49
essere comunisti,
perché?
50
NOTA REDAZIONALE
In questa sezione prosegue la discussione suscitata dalla lettera a «Essere comunisti»
di Piero Di Siena, pubblicata nel numero 3 della rivista assieme a una prima replica
del direttore Bruno Steri.
Nel presente numero proponiamo altre due risposte alla sollecitazione di Di Siena: la
prima di Maria Luisa Boccia e la seconda di Giovanni Mazzetti e Luigi Cavallaro.
M ARIA L UISA B OCCIA *
«
Cosa sono per noi, Marx, Lenin, le esperienze del passato?». La domanda sul
senso e la possibilità stessa di «essere comunisti», di porsi cioè in consapevole
rapporto con la teoria e la storia che quel nome designa, è formulata da Mario
Tronti nel 1966 in Operai e capitale. Già allora Tronti avverte l’urgenza di «scrollarsi di dosso» la sconfitta. Del movimento operaio in Occidente, non solo nell’Urss. Sconfitta racchiusa in una formula: lo sviluppo capitalistico ha subordinato a sé le lotte operaie. Ovvero ha impresso il suo segno sia alla pratica che
alla teoria del movimento operaio. Gli anni Sessanta sono da rivisitare, perché
da quell’urgenza è scaturita, in Italia e in Europa, una stagione feconda di revisionismo da sinistra della tradizione comunista. Mi sembra che anche allora
la questione fosse quella indicata da Piero Di Siena: il nome «comunismo»
può fornirci ancora un’efficace convergenza tra l’«indagine sui fondamenti di
un’anatomia della società civile» e una «teoria della trasformazione sociale
che affronti le contraddizioni della nostra epoca»?
Con questa formulazione Di Siena pone in primo piano l’esigenza di superare
la dissociazione tra teoria e pratica. Con quali paradigmi teorici leggiamo il presente? Sono ancora quelli della scienza marxiana del Capitale a poter orientare
la politica verso una trasformazione dell’ordine esistente? Oppure il rapporto
con il comunismo è sostanzialmente un problema di radici storiche, di elaborazione del patrimonio di esperienze e idee? Anch’esso compito imprescindibile
se non si vuole restare prigionieri del doppio vizio della rimozione o dell’attaccamento acritico. Entrambi, concordo con Di Siena, hanno fin qui pesantemente condizionato le vicende della sinistra, post ‘89, con un’assenza di «grande politica» e un «sostanziale riduttivismo sul tema dell’identità». Ma non è
questo il piano di riflessione proposto da Piero Di Siena e Bruno Steri. Entrambi vanno al nocciolo della questione. Comunismo è il nome che diamo alla
teoria e pratica della trasformazione, oppure quel nome è ormai fuori da questo orizzonte? Naturalmente, se la risposta è positiva, si apre intero il campo di
quale revisione critica comporti accogliere questa eredità.
Torno brevemente a Tronti, per una preziosa indicazione di metodo. «Non
esistono modelli. La storia delle esperienze passate ci serve per liberarcene»
(Operai e capitale, p. 93). Riprendendo la bella immagine di Lukàcs si tratta,
piuttosto, di creare altre forme per l’anima antica del comunismo. Non c’è
un modello storico da ripetere, né un modello teorico da realizzare. Quello
che conta, per Tronti, non è l’idea di società a venire, ma l’essere comunisti
* S ENATRICE P RC -S E
OPINIONI A CONFRONTO
L’idea forte della differenza sessuale
è quella di un ordine sociale e simbolico
sessuato, pensato e vissuto da uomo e
donna, non più da un soggetto universale, o
sessualmente «neutro» come la classe.
Cruciale, per questa prospettiva, è spezzare
la consonanza tra i nomi e le cose, stabilito
dagli uomini, protagonisti della storia e
del pensiero
che la incarna. Nel Novecento questo soggetto ha ridisegnato tutte le idee e tutte le pratiche della politica, compiendo uno scarto rispetto al proprio tempo. Accoglierne
il significato vuol dire innanzitutto compiere a nostra
volta un salto, adeguandola al presente.
Per me innanzitutto questo significa porsi la domanda se
il nome comunismo può avere senso per una femminista. Per una donna cioé che abbia scelto di guardare al
mondo e alla sua trasformazione, a partire dal senso libero della differenza sessuale. Come è noto nella tradizione i rapporti tra i sessi sono stati ridotti a «questione
femminile», un capitolo aggiuntivo del progetto politico
di liberazione della classe operaia.
Per molte donne la domanda che ho sopra formulato si
pose al momento dello scioglimento del Pci determinando una frattura non solo dentro il partito, ma nel femminismo. La scelta di confermare quel nome fu vista da
alcune come fedeltà a un’identità e a una concezione
politica, pregiudiziale rispetto a quella femminista.
Come se non vi fosse modo di dare significato al comunismo a partire dall’essere donna o uomo.
Viceversa per me e altre fare «atto di incredulità» rispetto alla tradizione comunista non significava decretare
l’esaurirsi del suo senso. Al contrario, comportava di
dare a quel nome un significato appropriato al nostro
essere donne.
«Incredulità» è una delle parole chiave del lessico di
Carla Lonzi, autorevole esponente del femminismo italiano, autrice di testi che sono per me una fonte inesauribile di pensiero libero. L’origine stessa del femminismo
consiste in una rottura epistemologica e pratica con
tutte le tradizioni. A partire da una scelta esistenziale.
Ovvero la presa di coscienza che essere nata donna, un
fatto contingente, diviene fondamento di senso, di sé e
della realtà. Da qui il taglio con l’esperienza, il comportamento, l’accumulazione culturale precedente. E l’assunzione dell’incredulità come abito mentale e pratico verso
tutte le concezioni e tutti i progetti ricevuti dall’ordine
maschile. Il conflitto di sesso non è infatti tra «le
donne» e il patriarcato come sistema, ma, come scrive
Carla Lonzi, tra «ogni donna – priva di potere, di storia,
di cultura e di ruolo – e ogni uomo – il suo potere, la
sua storia, la sua cultura, il suo ruolo assoluto». Perché
è un conflitto la cui prima radice è la sessualità. Punto
tuttora trascurato e frainteso, quando lo si traduce nella
congiunzione tra sfera dei diritti civili e sfera dei diritti
sociali. Viceversa l’idea forte della differenza sessuale è
quella di un ordine sociale e simbolico sessuato, pensato
e vissuto da uomo e donna, non più da un soggetto universale, o sessualmente «neutro» come la classe. Cruciale, per questa prospettiva, è spezzare la consonanza tra i
nomi e le cose, stabilito dagli uomini, protagonisti della
storia e del pensiero. Tra gli uomini e il (loro) mondo,
quale che sia il punto di vista che li identifica. Anche,
ovviamente, quello comunista. Prendendo coscienza
dell’estraneità femminile a questa rispondenza. E però
anche della necessità di avere il mondo come meta, di
produrre una propria rispondenza tra i nomi e le cose.
Questo non vuol dire necessariamente abbandonare i
nomi ricevuti. Sarebbe una scorciatoia illusoria. L’«atto
di incredulità» consiste piuttosto nel riattraversare parole ed esperienze che costituiscono la trama di senso dell’esistenza quotidiana di ognuna/o, come della vicenda
umana. Ed è grazie a questa pratica che diviene possibile l’autonomia femminile nel pensiero e nella vita. E
dunque nella politica.
Rispetto al comunismo ha voluto dire prendere atto che
«ha espresso una teoria rivoluzionaria dalla matrice di
una cultura patriarcale». Per questo non si tratta di aggiungere, correggere, innovare l’analisi e il progetto politico, ma è l’oggetto teorico e pratico del comunismo che
deve essere rivoluzionato. Per intendersi è un rivoluzionamento non meno rilevante di quello che operò Marx
rispetto alle idee e ai movimenti politici del suo tempo.
Sempre da Lonzi traggo due importanti indicazioni. La
prima è che «il proletariato è rivoluzionario nei confronti
del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema
patriarcale». La seconda è che le donne hanno coscienza
del legame che esiste tra i loro bisogni e aspirazioni e
quelli degli oppressi e sfruttati, ma «non credono che sia
possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione»
(corsivo mio). Negare che la libertà femminile possa scaturire dalla trasformazione dei rapporti sociali, pensata e
agita dai comunisti, non vuol dire in alcun modo negare
51
Chiediamoci, allora, non dove e come nella politica si
esprime fedeltà a Marx, alla sua teoria della rivoluzione e
del comunismo. Ma se e come si è data dopo Marx una
radicalità di pensiero differente, con analoga potenza
trasformatrice della realtà. La questione non è dove ci
porta Marx, ma dove noi siamo in grado di condurlo. Su
questo aspetto decisivo la mia risposta è: è stato il
femminismo a raccogliere l’eredità di Marx
52
le ragioni del conflitto tra le classi. È
vero invece che «la rivoluzione femminile non può, non deve sostituire
la rivoluzione operaia». (Mario Tronti, La politica al tramonto, p. 42). E soprattutto non se lo propone. Più
semplicemente – ma quanto è arduo
farlo comprendere! – la rivoluzione
femminile si pone su un altro piano,
in un rapporto asimmetrico. Ovviamente, poiché unico è il mondo in
cui viviamo, vi è un interesse comune ad affrontare le questioni che
questo mondo ci pone, le grandi ingiustizie e i molti orrori che lo segnano. Per questo può esservi convergenza, ma non può esservi sovrapposizione. E la convergenza non potrà
mai risolvere la divergenza. Lo ha
detto con chiarezza Virginia Woolf
nel 1938. Uomini e donne hanno il
comune interesse di fare il possibile
per «distruggere il male» – innanzitutto la guerra, ora come allora. Ma
il modo migliore per farlo, non è che
le donne si affianchino agli uomini,
ripetendone parole e gesti. Poiché
siamo differenti, per storia e condizione, saranno differenti modi e parole.
Anche noi donne possiamo ricominciare da Marx. Ma di quale Marx ci
assumiamo l’eredità? Di Marx scienziato del capitalismo? La scientificità
è stata un requisito essenziale – ma
possiamo considerarla tuttora tale? –
perché al pensiero di Marx fosse riconosciuta l’autorità di dire il vero.
Innanzitutto da parte degli operai
sfruttati, deprivati di parola e conoscenza. In quanto «uomo di scienza», studioso della realtà oggettiva
del capitalismo, Marx è stato il tramite necessario per la soggettività
operaia, per la presa di coscienza di
sé.
Questo nonostante Marx abbia sovvertito in radice l’oggettività e neutralità del pensiero. Lo si vede bene
se si legge Il capitale, assieme al Manifesto del partito comunista. «Il comunismo, invece, abolisce le verità
eterne». E ancora: «le idee dominanti di un’epoca sempre e soltanto
le idee delle classi dominanti». A cominciare dalle idee di libertà di coscienza e di religione. Ma anche dall’idea di giustizia e di uguaglianza. O
di libertà del lavoro. Anche le idee
di Marx sono, marxianamente, storiche e di parte. Non eterne. E non
possiamo assumerle, senza stravolgerle, come acquisizioni certe della
teoria. Propongo allora di prendere
distanza dall’uomo di scienza, adottando nei suoi confronti, la sua stessa attitudine di rottura epistemologica.
Con un rilancio della critica dell’economia politica, nella quale metodo e
contenuto sono inscindibili. Se ne individuiamo correttamente l’oggetto
che non è la teoria economica, ma
l’economia politica stessa. Voglio dire
che la critica di Marx mostra come
l’economia si costituisca quale luogo
di verità (la definizione è di Michel
Foucault). Su questa verità si fonda
la forma moderna di naturalismo della
società e dell’essere umano. Verità
dunque alla quale la politica deve
corrispondere, adottando una conoscenza costante, chiara e distinta dei
meccanismi economici e impegnan-
dosi a rispettarli, a favorirne funzionamento e progresso. È questa intima e complessa connessione tra politica ed economia, basata su un determinato regime di verità che
chiamiamo «economia politica». Ma
né la connessione, né la verità stanno nella testa degli economisti, nelle
loro formulazioni teoriche. È il mercato il luogo dell’evidenza dei meccanisimi economici, della loro rispondenza a un intrinseca antropologia
umana, egoistica e sociale allo stesso
tempo. In fondo il liberalismo – del
quale il liberismo è una variante, per
quanto significativa – non è altro che
la teoria e l’arte del governo di questa economia naturalistica, o natura
economica della società e dell’individuo.
Se va smarrito questo nocciolo «antropologico» della critica di Marx, io
credo che perdiamo la bussola per
valutare cosa consideriamo tuttora
valido.
Distinguerei materialismo con analisi della società in termini di rapporti
economici. Ad esempio Di Siena
pone la questione di ridefinire le
classi, a partire dalla posizione nel
mercato come produttori e consumatori. Altro esempio sono le analisi femministe sui rapporti di produzione e riproduzione. Sono integrazioni indispensabili, per ripensare i
fondamenti teorici della politica. Ma
altra cosa è rendere attuale la critica
dell’economia politica, da un punto
di vista materialista.
Secondo Simone Weil, poiché «gli
uomini fanno la propria storia ma in
condizioni determinate (…) è neces-
OPINIONI A CONFRONTO
sario conoscere le condizioni materiali che ne determinano le possibilità di
azione». È questa «l’unica idea veramente preziosa che si trova nell’opera di
Marx è anche l’unica che sia stata completamente trascurata» (Weil, 1983). Ed
è convinta che l’abbandono del materialismo sia un fattore decisivo di fallimento per il movimento operaio e comunista. Conoscere le condizioni materiali non è infatti lo stesso che conoscere i rapporti economici. Nonostante infatti il ricorrere di termini quali contraddizione, sistema, rapporti o mezzi di
produzione, scambio, consumo, da parte comunista l’attenzione non è rivolta
alle condizioni di vita, alle esistenze concrete. Analisi oggettiva e astratta per
un verso, progetto, anch’esso generale e di sistema per l’altro, sono le coordinate con cui si pone la prospettiva di trasformazione della società. Oggi e non
solo ieri. A Weil, come sappiamo, non è bastata la conoscenza dello sfruttamento capitalistico. Ha voluto conoscere la condizione operaia, il modo di vivere e lavorare di uomini e donne che quella condizione la incarnano.
Provo a spiegarmi con un riferimento all’attualità. Ha analoghi risultati per
l’agire politico, descrivere la precarietà come sistema di organizzazione del
lavoro e raccontare vite precarie? Rivolgendo l’attenzione non tanto al rapporto economico-sociale in astratto, ma a chi quella forma di vita la pratica
quotidianamente, nei comportamenti, nel corpo e nell’immaginario, nei bisogni e nei desideri? Vi è da tempo carenza di inchieste sociali, di narrazioni
che mettano in parola la materialità, di conseguenza pensiero e linguaggio
mancano di corposità. Ma senza questo scambio virtuoso da dove muove il
discorso sulla precarietà? Da quali contesti e da quali protagonisti? Dove si
radica e cosa anima una politica in grado di perseguire una trasformazione e
non soltanto di ridurre il danno e i soprusi?
Bruno Steri ricorda l’esperienza del Consiglione di Mirafiori, per spiegare
quando e come matura la sconfitta, a partire da quale modificazione del sin-
dacato e della coscienza di sé dei lavoratori. Ha ragione Steri, il passaggio da sindacato di classe a sindacato
dei diritti e delle persone ha comportato un impoverimento, non un
arricchimento. Si è tolto significato
alla materialità delle vite e del concreto modo d’essere di uomini e
donne. Questo ha reso i singoli e le
singole meno protagonisti/e delle
lotte e della politica, invece di allargare l’ambito dei contenuti e l’area
sociale interessata.
E però c’è un salto da questa illuminante ricostruzione alla conclusione
che Steri ne trae. Quella che vada
rimesso al centro della «totalità sociale» il conflitto tra Capitale e Lavoro, dal quale dipende la possibilità
di instaurare una società diversa. Le
maiuscole sono opportunamente
adottate da Steri, per indicare che si
tratta di un conflitto tra entità oggettive, sistemiche vorrei dire. Senza
di questo, per Steri, non vi è modo
di determinare la scelta di campo, di
ricomporre un unico quadro teorico
e pratico.
Su questo vi è una divergenza netta,
da parte mia. Penso che la tesi del
conflitto fondamentale non sia più
sostenibile, concettualmente e politicamente. Che non vi sia modo di
ristabilire i fondamenti oggettivi, dei
quali si fa garante una teoria scientifica della società, e a partire dai
quali la politica ritrova un orientamento, su basi appunto oggettive.
So bene che questa semplificazione
è già in Marx, va però abbandonata.
Non perché sia stata smentita la previsione che l’intera società si sareb-
53
54
be divisa nei due grandi campi delle due classi, borghesia
e proletariato. Ma perché Marx riduce in questo modo la
complessa trama delle «condizioni materiali», delle esistenze, delle relazioni, delle esperienze. E questo non ci
aiuta a capire neppure la forma della «totalità» e quanto
sia più ricca, articolata e profonda della mera contrapposizione di campo, la costruzione delle identità e dei rapporti tra le classi. Come ho detto non è problema di aggiungere, completare, sostituire. Ad esempio l’intrecciarsi dei rapporti tra i sessi a quelli tra le classi. O dei
dispositivi sessuali ai modi di produzione.
Vi è sì l’esigenza di avere una rappresentazione di insieme
della realtà, senza accontentarsi di raccogliere in un unico
album le fotografie dei diversi pezzi. Ma questo non potrà
più tradursi in una immagine unitaria e sintetica, attorno
a un centro. In questo senso io sono convinta che sia avvenuta una frattura di epoche, un passaggio, per dirlo con
Foucault, da un ordine del discorso a un altro. Che non
attiene alla validità o meno del pensiero di Marx, ma a
quella forma di scienza, nella quale, come ho detto, resta
inscritto. E dalla quale va liberato con una lettura che
scompone e ricompone il testo. Senza per questo perdere
l’intima e intrinseca coerenza dei suoi enunciati essenziali.
Anzi per ritrovare il significato complessivo, il senso ultimo del pensiero di Marx. Pensiero simbolico, perché ha
generato una straordinaria trasformazione di realtà. È
questo che ci induce a leggerlo, per trovarvi risposte, ma
soprattutto un’apertura di senso sulla realtà.
Chiediamoci, allora, non dove e come nella politica si
esprime fedeltà a Marx, alla sua teoria della rivoluzione
e del comunismo. Ma se e come si è data dopo Marx
una radicalità di pensiero differente, con analoga potenza trasformatrice della realtà. La questione non è dove ci
porta Marx, ma dove noi siamo in grado di condurlo. Su
questo aspetto decisivo la mia risposta è: è stato il femminismo a raccogliere l’eredità di Marx. In modo esplici-
to, perché ha ripreso, con un salto teorico e pratico, la
critica del paradigma di verità dominante, ovvero di una
società e di una antropologia umana, fondate sull’economia. Lo ha fatto rispetto ai rapporti e all’organizzazione
dell’attività umana. Rispetto alla forma dominante di sapere e alla scienza come metodo conoscitivo garante di
oggettività e neutralità. E, soprattutto, rispetto al materialismo, andando a scavare nelle vite e nei corpi per
produrre soggettività e sapere.
Penso che questo differente modo di produrre pensiero e
pratica politica sia rimasto largamente incompreso, alla
lettera ignorato, da parte della sinistra. Mentre a mio avviso sarebbe essenziale verificarne la fecondità, proprio
sulle questioni cruciali che sono state, e restano, il fulcro
del comunismo. Come affrontare la naturalizzazione dell’economia politica? E con essa l’interiorizzazione della
mercificazione dell’essere umano? Nel sesso come nel lavoro?
È però preliminare lo scambio sul diverso modo di intendere sia la teoria che la politica. Altrimenti si crede di
intendersi sui contenuti, ma restano del tutto incomunicanti proprio i differenti approcci alla realtà, perfino i
linguaggi e l’uso dei concetti. OPINIONI A CONFRONTO
che cosa vuol dire
«essere comunisti»
L UIGI C AVALLARO
G IOVANNI M AZZETTI
Alzi la mano chi sa
rispondere alla domanda
«Insomma che società
volete?» se non in termini
negativi (una società non
fondata sul profitto, una
società che non
discrimini, che non
predetermini
l’ineguaglianza tra esseri
umani, che non sia
ingiusta come questa ecc.).
Noi sappiamo dire «una
società che non», ma non
sappiamo più dire «una
società che sì»
P
erché essere comunisti oggi? La domanda che ha posto Piero Di Siena,
sul n. 3 di questa rivista, circola ormai insistente e chiama al redde rationem quanti, all’indomani della svolta della Bolognina, non si rassegnarono a consegnare agli archivi un’identità politica e culturale che centinaia di
milioni di persone, nel corso del Ventesimo secolo, avevano assunto su di sé.
In effetti, bisogna dar atto a Di Siena che la strada sin qui percorsa sul piano
teorico e politico dal movimento (e poi partito) originatosi nel 1991, in alternativa al neonato Partito democratico della sinistra, appare tutt’altro che soddisfacente.
Nessuna novità
Sembrano al riguardo pertinenti le considerazioni che Marco d’Eramo, in un
articolo sul «il manifesto» del sette dicembre scorso, ha svolto a proposito
dell’opportunità di mantenere la testatina «quotidiano comunista» su quel
giornale: «nessuno di noi sa dire con esattezza in che cosa consista il comunismo. A ragione denunciamo i misfatti del capitalismo, gli orrori generati
dal fondamentalismo liberista di mercato, gli eccidi dell’imperialismo umanitario. Ma alzi la mano chi sa rispondere alla domanda «Insomma che società
volete?» se non in termini negativi (una società non fondata sul profitto,
una società che non discrimini, che non predetermini l’ineguaglianza tra esseri umani, che non sia ingiusta come questa ecc.). Noi sappiamo dire «una
società che non», ma non sappiamo più dire «una società che sì».
Le considerazioni di d’Eramo, del resto, non sono nuove. Cose analoghe
aveva scritto ben diciassette anni fa Rossana Rossanda, osservando che «il
manifesto» si dice tutto «comunista», ma preferisce non definire la parola». E
poiché questa afasia sui contenuti, come dicevamo, è testimoniata all’evidenza anche dalla breve storia del Partito della Rifondazione comunista, Di
Siena sembrerebbe proprio aver ragione: se in quasi vent’anni i comunisti
non sono riusciti a definire ciò che «vogliono», non sarà perché non sono in
grado di volere nulla di concreto?
In quest’ottica, il processo federativo che si sta avviando con i Verdi, la Sinistra democratica e il Pdci può avere addirittura un impatto deflagrante. Ci
sembra infatti evidente che, dietro lo slogan della «sinistra plurale», si cela il
tentativo di tenere insieme istanze diversissime e non di rado contraddittorie: diritti sociali e pratiche di autogestione, eguaglianza di opportunità e differenze identitarie, lotta alla povertà ed ecologismo «radicale», programmazione economica e libertarismo. Ma bisogni ed esigenze così differenti non
possono convivere senza un’adeguata sintesi capace di ordinarli: c’è il rischio della babele. E se così dovesse essere, è facile prevedere che su «La Sinistra, l’arcobaleno» calerebbe ben presto una pietra tombale, sulla quale –
citando Marx – si potrebbe scrivere: «c’era la volontà, ma mancava la capacità». Un esito che relegherebbe la sinistra a un ruolo meramente testimo-
55
Da anni, ormai, sosteniamo che il fumoso concetto di «globalizzazione» svolge la
funzione di convincere la società del sopravvenire di una rottura radicale, che avrebbe
posto il mondo dei rapporti sociali su una base completamente nuova. Ma la tesi della
radicale discontinuità fra passato e presente è precisamente quella che consente al
capitale di disarmare i suoi avversari, millantando un’assoluta novità che impedirebbe
di battersi anche avvalendosi delle esperienze passate
56
niale e di cui anche i comunisti sarebbero indubbiamente responsabili.
Per affrontare adeguatamente l’interrogativo posto da Di Siena, ci
sembra dunque opportuno distinguere i due problemi che si celano
dietro la sua domanda. C’è infatti
un primo problema che attiene al
«senso» politico e culturale
dell’«essere comunisti», ed è quello
cui allude (almeno letteralmente) Di
Siena; c’è poi un altro problema,
che investe un partito che reca inscritto nella propria ragione sociale
l’obiettivo della «rifondazione del
comunismo», e che brutalmente
può esser enunciato così: bisogna
sciogliere Rifondazione comunista?
Si potrebbe obiettare che i due problemi sono in realtà connessi. Ma la
riflessione può procedere più chiaramente se, in un primo momento,
essi vengono separati. Un partito,
certamente, vive di appartenenza e
identità, ma un’identità meramente
negativa, che cioè non comprenda il
carattere necessariamente determinato della negazione dialettica, si risolve nel nulla astratto, cioè in un
mero contenitore di tutto ciò che è
«anti». E non ci vuol molto a comprendere che l’indeterminatezza
culturale e programmatica porta con
sé i germi del personalismo: solo
l’identificazione plebiscitaria con un
capo carismatico può orientare scelte collettive non mediate da un preventivo ordinamento gerarchico di
conoscenze, bisogni e interessi, che
lo si voglia o no.
Il nome e la cosa
Veniamo dunque alla questione di
senso, sulla quale sola qui ci soffermeremo: si può «essere comunisti»
oggi? Sostiene Di Siena che la realtà
è cambiata: «Se nell’Ottocento e nel
Novecento il problema della liberazione del lavoro dalla sua condizione di sfruttamento era un processo
di emancipazione collettiva da una
condizione altrettanto collettiva di
subordinazione, e aveva nella realizzazione del principio di uguaglianza il
suo compimento, ora tale processo
non può che prendere le mosse dall’individuo che lavora, e trova il suo riscatto
nella realizzazione della sua libertà». Se
questo è il problema, «che cosa
c’entra con tutto ciò la proprietà
collettiva dei mezzi di produzione,
una certa condizione del rapporto
tra partito e masse, una certa idea
della funzione e del ruolo dello
Stato nella società e nell’economia,
in una parola il comunismo, cioè quel
movimento che per forza di cose è
figlio della società di massa del Novecento e che ha vissuto la sua
esperienza ambiguamente a cavallo
tra totalitarismo e democrazia, che
di quella società rappresentano i
modelli politici prevalenti non a
caso ambedue in crisi?».
La tesi è chiara: poiché «comunismo» è il nome di una «cosa» – le
esperienze del movimento operaio
del Novecento – e questa cosa si è
sostanzialmente dissolta in una realtà che non la contiene più, non ha
senso continuare a usare quel nome
per rapportarsi alla nuova situazione
sociale. Nel termine «comunismo»,
dice insomma Di Siena, si poteva intravedere la forza e la progettualità
di un particolare movimento, quello
operaio del Novecento; ora che quel
movimento non c’è più, quella parola ha perso la sua forza. Perché
aggrapparcisi ancora?
Una simile argomentazione risulterebbe condivisibile se nome e cosa fossero immediatamente uno, sì che –
scomparsa la cosa – risultasse insensato continuare a usarne il nome
per definire ciò che è altro. Ma questa confusione tra parole e cose è
decisamente fuorviante. Sebbene la
nomenclatura non sia un processo
arbitrario e gli esseri umani abbiano
sempre cercato di procedere sulla
base di un legame di senso tra il nome
e la cosa, la parola non è la cosa: vi si
riferisce soltanto. Il problema ci
sembra piuttosto questo: può il termine «comunista» essere ancora
sensatamente riferito alle lotte per
«la trasformazione dell’ordine sociale esistente all’altezza delle contraddizioni dell’oggi»?
Sappiamo che negli ultimi vent’anni
questo interrogativo ha ricevuto risposte negative e positive. Molti comunisti hanno rinunciato alla loro
identità, perché si sono convinti che
quel nome non riusciva più a racchiudere i loro bisogni e le loro
aspettative. Altri comunisti, come ricorda lo stesso Di Siena, hanno invece assunto un approccio vagamente kantiano, declinando il comunismo «come un orizzonte o come
un’idea regolativa, una sorta di guida
per l’azione», perché ai loro occhi il
nome, pur non essendo la cosa, ser-
OPINIONI A CONFRONTO
viva piuttosto come «strumento per la promozione di
uno scopo che come mezzo per simboleggiare un riferimento già esistente». E qui, aggiungiamo noi, la strada si
è biforcata: da un lato sono andati coloro che individuavano solo una continuità tra la dinamica propria del Novecento e quella odierna e ritenevano che la differenza
andasse ricercata nel momentaneo prevalere di una delle
due parti in conflitto, a causa dell’abdicazione (tradimento?) dei «compagni»; per costoro, bastava (e basta)
continuare ad autodefinirsi comunisti per esserlo.
Nell’altra direzione, invece, si sono inoltrati coloro che,
pur considerando lo stato presente come «prodotto» della
dinamica passata, hanno avvertito il bisogno di una rielaborazione delle precedenti categorie interpretative, perché
i soggetti stessi non erano più immediatamente quelli della
fase precedente. Accanto alla continuità, infatti, costoro
riconoscevano il sopravvenire di un mutamento profondo e dunque il bisogno di una «rifondazione comunista».
Purtroppo, questa rifondazione è mancata. Il nome è rimasto a aleggiare nel vuoto e per questo Di Siena può
coerentemente sostenere che l’essere comunisti, oggi, gli
appare anacronistico.
Ma la rifondazione è ancora possibile?
La risposta a questa domanda presuppone una coerente
individuazione del grado di novità del mondo in cui ci
muoviamo. Da anni, ormai, sosteniamo che il fumoso
concetto di «globalizzazione» svolge la funzione di convincere la società del sopravvenire di una rottura radicale,
che avrebbe posto il mondo dei rapporti sociali su una
base completamente nuova e obbligherebbe – Di Siena lo
sostiene con enfasi – a riorganizzare il conflitto senza potersi riferire alle pratiche sociali passate. L’esperienza si
struttura così in un’opposizione che non contempla altro
che una discontinuità e per questo si può giungere a sbarazzarsi del proprio nome ed affannarsi a trovare una collocazione che non è già data.
Ma la tesi della radicale discontinuità fra passato e presente è precisamente quella che consente al capitale di
disarmare i suoi avversari, millantando un’assoluta novità che impedirebbe di battersi anche avvalendosi delle
esperienze passate. Chi non si fa abbindolare si accorge
57
invece facilmente che anche in passato lo scopo della valorizzazione veniva perseguito con la speculazione finanziaria, col mancato impiego di una parte rilevante della
forza lavoro, con la riduzione dei salari, col prolungamento dell’orario di lavoro e con la riduzione al minimo
delle misure di sicurezza, oltre che con una valanga di
messaggi pubblicitari volti a creare consenso.
D’altra parte, nonostante questa continuità, si deve pur
riconoscere che negli ultimi decenni ci sono stati cambiamenti profondi nel tessuto sociale. Sfortunatamente,
però, la sinistra e i comunisti continuano a rappresentarseli come se fossero interamente ascrivibili a una «reazione» del capitale, che – destrutturando il tradizionale
terreno di lotta del proletariato organizzato (la famosa
«grande fabbrica fordista») – avrebbe irrimediabilmente
compromesso la sua capacità di continuare ad agire
«come classe», lasciando al suo posto «individui» corvéable à merci e facili prede dell’immaginario seducente del
consumo e dell’arricchimento.
Questo modo di ragionare, che considera quell’individuo
che ha fatto un’embrionale comparsa sulla scena sociale
negli ultimi trent’anni come se il movimento comunista
del Novecento non avesse nulla a vedere con la sua genesi, è in realtà sbagliato. Può anche darsi che nessuno o
quasi di coloro che si batterono per il comunismo intendesse «far nascere» l’individuo. Ma uno degli insegnamenti fondamentali del materialismo storico è appunto
che gli effetti delle azioni sociali non sono necessariamente contenuti nelle intenzioni degli agenti, perfino
quando costituiscono una conseguenza indefettibile delle
loro azioni.
Per dirla chiaramente, a noi pare che quell’individuo
che, confuso e impotente, calca oggi la scena della società, sia un prodotto stesso della lotta per l’emancipazione
dalla subordinazione di classe. Nel perseguimento non solo
idealistico dell’eguaglianza, che è stato reso possibile in
grazia della (parziale) collettivizzazione dei mezzi di produzione, dell’affermazione del diritto al lavoro e dell’or-
58
ganizzazione in partiti delle masse, si sono infatti create
le condizioni concrete per un insieme di relazioni nelle
quali la posizione di classe è progressivamente receduta,
scaraventando sulla scena sociale (solo) l’individuo.
Bisognerebbe in effetti ricordare che Marx rimarcò sempre che il ruolo storico del proletariato non era quello di
conquistare migliori condizioni di riproduzione di se
stesso, ma di togliere se stesso come lavoro salariato. E
cos’è stata la politica del pieno impiego conquistata nei
trent’anni di welfare state se non il superamento di un
rapporto casuale delle masse con le condizioni della propria riproduzione? E ciò non ha forse comportato anche
il superamento embrionale della condizione di merce
propria della forza lavoro che si presenta come classe? A
cos’altro si alludeva, negli anni Ottanta, quando si parlava di «società dei due terzi», se non a una condizione
nella quale ormai solo una minoranza della popolazione
era condizionata dal bisogno immediato?
Insomma, proprio facendo i conti con «lo stato di cose
presente», come suggerisce Di Siena prendendo a prestito le parole dell’Ideologia tedesca, non si può non riconoscere che il movimento comunista ha contribuito alla profonda trasformazione della società, al punto di creare quell’embrione di superamento del rapporto di classe che si esprime
nella comparsa degli individui. Il problema, piuttosto, è
sorto dal fatto che questi «individui», sebbene prodotti
dalla dinamica che aveva preso corpo nel Novecento,
non venivano alla luce in un mondo fatto per loro: al
contrario, per poter disporre coerentemente del general
knowledge, cioè delle potenti forze produttive che pure
avevano mediato il loro stesso sviluppo, avevano bisogno di rimodellare (diciamo pure di rivoluzionare) le
forme del comunismo allora esistenti: quelle statuali.
Che questo bisogno implicasse la necessità di intraprendere un percorso di liberazione dalla gabbia della «società disciplinare», ovunque impostasi fino alla metà degli anni
Sessanta, è fuori discussione e l’anticomunismo «viscerale»
del ’68 ne fu la migliore conferma. Ma era ed è sbagliato,
a nostro parere, contrapporre l’obiettivo
dell’«eguaglianza» a quello della «libertà», come invece fa
Di Siena seguendo l’uso corrente. La «liberalizzazione»
degli assetti neocorporativi che avevano strutturato le so-
cietà a Est e a Ovest della cortina di ferro non richiedeva
affatto l’affermazione di una «libertà» meramente negativa,
come invece si credette offrendo al capitale un’insperata
occasione per riproporre un’antistorica egemonia, ma postulava al contrario una libertà positiva: una riduzione degli
elementi coercitivi e autoritari dello «statalismo», che –
per dirla con Gramsci – facilitasse il «passaggio dallo Statogoverno allo Stato-società regolata», e – parallelamente –
un cambiamento del modo in cui i soggetti si rapportavano all’insieme delle loro relazioni, che ristrutturasse realmente (e non solo idealisticamente) i limiti immanenti
alla loro inevitabile «particolarità».
«Quali fossero questi nuovi valori, né l’esistenza né
l’ideologia potevano dirlo: l’esistenza è muta e cieca,
l’ideologia dice sempre altro – è cioè pretestuale. Quei
valori dunque c’erano, ma non si definivano. Solo il momento successivo della razionalizzazione avrebbe potuto
nominarli», scrisse Pasolini di quel nuovo «assalto al
cielo». Sono passati quarant’anni, ma nominare e definire quei valori resta ancora la condizione sine qua non per
poter essere coerentemente comunisti. IDEE
questione meridionale
e questione sarda
i temi dell’autonomia
e l’elaborazione dei comunisti
seconda parte
(prima parte pubblicata sul numero 3 – ottobre 2007)
G IANNI F RESU *
4. Renzo Laconi e la svolta autonomista
Il II Congresso regionale del PCI, tenutosi a Cagliari nel maggio del ‘45, non
era stato in grado di realizzare sino in fondo la svolta da tutti attesa; a pagarne le spese fu il Segretario regionale Antonio Dore sostituito da Velio Spano,
il più autorevole ed esperto tra i comunisti sardi. Il tutto avvenne nella conferenza regionale del Partito tenutasi nell’aprile 1947 a Cagliari e presieduta
da Palmiro Togliatti, che aveva sferzato duramente i ritardi del Partito sardo
rispetto al resto d’Italia e polemizzato contro le resistenze alla linea nazionalmente definita. Le contraddizioni in cui si dibattevano i comunisti sardi erano
per Togliatti dovute al loro modo di ricondurre le questioni dell’autonomia direttamente alle contraddizioni di classe, senza comprenderne la valenza democratica. Afferrare il significato democratico e non di classe della questione
autonomistica significava renderla battaglia unitaria di tutte le forze democratiche, bandiera dell’intero popolo sardo. Per Togliatti recintare settariamente
la battaglia autonomistica alle sole classi subalterne ne avrebbe depotenziato
la spinta, senza peraltro agevolare il compito di conquista egemonica dell’articolazione sociale da parte dei lavoratori. Le classi subalterne dovevano divenire classe dirigente nell’allargamento progressivo degli spazi di democrazia
sociale, economica, politica, e anche le lotte per l’autonomia costituivano un
banco di prova, una verifica della maturità dei comunisti.
L’obiettivo posto da Togliatti era costruire il grande partito delle masse sarde.
Dunque, nonostante la dialettica della Costituente avesse spinto il Pci su posizioni piuttosto rigide, fu proprio Togliatti a sollecitare una svolta autonomistica tra i comunisti sardi. Di questa svolta diviene protagonista assoluto un
giovane dirigente, Renzo Laconi, destinato a essere l’interprete più originale
della concezione togliattiana sul «Partito nuovo» in Sardegna.
Renzo Laconi, oltre a essere stato uno dei più autorevoli dirigenti comunisti
del partito in Sardegna, è stato stretto collaboratore di Togliatti. A soli trenta
anni è eletto nell’Assemblea costituente e, nonostante la sua giovane età, diviene membro della Commissione dei settantacinque, incaricata di redigere il disegno costituzionale; partecipa alla Commissione ristretta dei diciotto, quando Togliatti è impossibilitato a prendervi parte; è il relatore del gruppo comunista
sul disegno costituzionale e in tale vece apre gli interventi dei comunisti nella
discussione generale dell’Assemblea.
Laconi pose costantemente la questione autonomistica al centro della sua
azione di costituente. In tal senso intervenne all’Assemblea Costituente, richiamando con urgenza il licenziamento dello Statuto autonomistico della
Sardegna, già approvato il 29 aprile del 1947 dalla Consulta regionale e quindi presentato dall’Alto Commissario al Governo De Gasperi. La situazione
L’obiettivo posto da
Togliatti era costruire il
grande partito delle masse
sarde. Dunque, nonostante
la dialettica della
Costituente avesse spinto
il Pci su posizioni
piuttosto rigide, fu
proprio Togliatti a
sollecitare una svolta
autonomistica tra i
comunisti sardi
* PRC-COMITATO POLITICO NAZIONALE
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60
economica e sociale della Sardegna richiedeva infatti un
intervento rapido, perché se era vero che le condizioni di
arretratezza dell’Isola avevano radici secolari, lo era altrettanto che il ventennio fascista e la guerra ne avevano
aggravato la patologia.
In quest’importante intervento Laconi rivendicava al Pci
l’eredità di un processo di emancipazione che affondava le
sue radici nelle lotte antifeudali e più in generale nelle
aspirazioni storiche del popolo sardo. Le ragioni dell’autonomismo sardo non venivano per Laconi solo da motivi
storici o geografici ma dal modo stesso attraverso cui si è
sviluppato il rapporto della Sardegna con il Piemonte
prima e l’Italia poi. L’annessione della Sardegna era infatti
il frutto di un atto diplomatico militare e non del processo
di rinnovamento sociale e unificazione economica che ha
contraddistinto il Risorgimento. In tal senso Laconi si richiamava alle secolari lotte di contadini e pastori contro la
signoria feudale per gli usi civici della terra, riaffiorati con
la legge delle chiudende del 1820 e l’editto istitutivo della
proprietà perfetta, che aboliva il feudalesimo nell’Isola, del
1836. Anche quelle riforme, nate con l’intento di giungere alla modernizzazione economica dell’isola, non mutarono la natura dello sfruttamento coloniale delle risorse
sarde da parte prima del capitalismo mercantile e poi di
quello industriale. Da ciò le contraddizioni mai sanate tra
le esigenze di progresso e una realtà fatta di isolamento e
miseria, dove l’unico rifugio possibile era nella tradizione
dei modi di vita, lavoro e relazione sociale.
E da questa contraddizione scaturisce, ancora, sulle
labbra del pastore e del contadino isolano il grido che
guidava i padri nelle lotte contro il Piemonte: torrare a
su connottu; sos muros a terra, grido che non risponde
certo a una chiara prospettiva politica, che non indica,
forse, esattamente la strada di rinnovamento dell’economia isolana, ma esprime la ribellione dell’uomo
semplice contro uno stato di cose ingiusto e il rimpian1
to dei tempi passati, migliori forse del presente .
Per queste ragioni qualsiasi movimento culturale e politico degno di questo nome, sorto in Sardegna, non poteva
che assumere carattere regionale e autonomistico. Ciò
trovava puntuale riscontro nella letteratura sarda, nelle
lotte, nella propaganda, nella politica isolana.
Riassunta venticinque anni fa in un programma politico della corrente che faceva capo al Partito sardo
d’azione, condivisa dalle componenti più avanzate del
movimento socialista, la rivendicazione autonomistica
è oggi patrimonio di tutti i partiti dell’Isola e costitui2
sce la comune rivendicazione di tutti i sardi .
Era dal riconoscimento di questa storia che il diritto di cittadinanza dei sardi, nello Stato italiano rinnovato, andava ricostruito su basi politiche nuove.
In Sardegna la consapevolezza sul valore democratico della
battaglia autonomista era anche il risultato delle esperienze
di lotta popolare (dai contadini di Bonorva, ai pastori, ai minatori del Sulcis, ai pescatori degli stagni). Questo perché le
condizioni di arretratezza e miseria della Sardegna avevano
sicuramente un’origine riconducibile ai rapporti sociali di
produzione esistenti, ma chiamavano fortemente in causa
la struttura centralizzata di una amministrazione burocratica, sempre più sclerotica e inefficiente, l’inadeguatezza della
struttura giuridica e politica del paese. Per vincere i mali
della Sardegna bisognava farla uscire dalla condizione di
passività a cui era stata condannata nei secoli dai diversi dominatori, farla divenire soggetto attivo del suo sviluppo e
della sua emancipazione. Ciò inevitabilmente doveva passare da un profondo rinnovamento democratico della struttura amministrativa e la creazione di una specifica legislazione adatta alle esigenze della Sardegna, vale a dire dall’attuazione dell’autonomia regionale.
Autonomia, programmazione economica. La stagione
delle lotte per la Rinascita
Proprio sul tema dell’autonomia regionale in quegli anni
si era venuta a determinare una inversione di posizioni
tra Dc e Pci: la prima sostiene inizialmente un’ipotesi riformatrice di forte decentramento regionale e poi però ritarda enormemente la creazione delle regioni ordinarie; il
Pci invece, assume in un primo momento un atteggiamento ostile verso ogni ipotesi di ridimensionamento
IDEE
delle prerogative dello Stato centrale, per poi fare propria
la rivendicazione regionale come riforma imprescindibile.
Nonostante questa convergenza a livello regionale l’approvazione dello Statuto e del Piano Pinna, trovarono un
ostacolo insormontabile nelle scelte del governo nazionale, che nell’estate del 1947 respinse il Piano per mancanza di copertura finanziaria. Tutto questo aveva portato il
Pci a organizzare la mobilitazione per l’autonomia, con
una grande manifestazione popolare, alla quale aveva
aderito anche la Dc, e il convegno regionale dei partiti autonomisti del settembre del 1947, nel quale era stata lanciata la parola d’ordine della lotta unitaria dei partiti sardi
per l’autonomia. Come è noto lo Statuto venne approvato, seppur ampiamente modificato e profondamente ridimensionato, rispetto a quello approvato dalla Consulta,
solo il 31 gennaio del 1948, cioè allo scadere del mandato dell’Assemblea Costituente.
La delusione suscitata da questo esito fece scaturire un inasprimento della dialettica politica tra Dc e Pci. Ne è un
esempio l’articolo al vetriolo scritto da Velio Spano per «Il
3
Lavoratore» intitolato Regionalismo democristiano . In esso
Spano riportava l’ultima discussione in seno alla Costituente e accusava la Dc di aver sacrificato le ragioni autonomistiche della Sardegna sull’altare dei suoi piccoli interessi. Gli
ostacoli frapposti e il risultato conseguito chiarivano per
Spano che il partito di De Gasperi considerava «La Sardegna come una riserva possibile della reazione» ed era
mosso dalla volontà di «isolarla da ogni influenza democratica». Al contrario si sarebbero dovuti riconoscere «i torti
secolari che sono stati fatti alla Sardegna» risarcendo il popolo sardo e mostrando fiducia nei suoi confronti. A questo articolo ne seguiva un altro, pubblicato il 7 febbraio su
«Il Lavoratore», nel quale Spano parlava di «cretinismo paternalistico savoiardo» riemergente e polemizzava duramente con la tesi secondo cui lo Statuto approvato era persino troppo avanzato per i sardi.
[Tale tesi, scrive Spano] mette a nudo le vere intenzioni di quei parrucconi di costituzionalisti continentali e
di politicanti sardi che avevano cercato di nascondere
la loro pelle di anti-autonomisti sotto le vesti del regionalismo. Ecco il punto! Che cos’era dunque il regionalismo di lorsignori?
Noi concepivamo e concepiamo lo Statuto come un
mezzo che aiuti il popolo sardo a camminare, a camminare svelto. Quei signori concepiscono lo Statuto
come un osso gettato a un cane per evitare che ringhi.
Noi siamo autonomisti, siamo sardisti, quei signori
sono regionalisti. E il loro regionalismo mostra oggi
apertamente la sua doppia faccia sociale e politica: la
faccia sociale conservatrice della vecchia e fallita classe dominante la quale, stabilendo una eguaglianza
giuridica formale tra le regioni italiane, vuole in realtà
sancirne la disuguaglianza profonda e perpetuarne lo
sfruttamento coloniale del capitalismo settentrionale
4
sulle masse rurali del Mezzogiorno e delle Isole .
È a partire da questa grande delusione che prende le mosse
la stagione delle lotte autonomistiche per il Piano di Rinascita. Nel 1949 Velio Spano, segretario e massimo dirigente
sardo del Pci, chiese e ottenne l’autorizzazione ad assentarsi dalla Sardegna per partecipare, insieme alla delegazione
del Comitato Centrale, alle celebrazioni per la proclamazione della Repubblica popolare cinese che iniziarono il primo
ottobre 1949. Nel periodo di assenza di Spano la segreteria
regionale, della quale facevano parte Laconi e Lay, fu allargata con l’ingresso di Luigi Pirastu (allora Capogruppo in
Consiglio Regionale) e la sua direzione venne affidata temporaneamente al partigiano emiliano Luigi Orlandi, mandato da Roma per aiutare nella costruzione del partito e per
contribuire a riassorbire le tensioni accumulatesi.
Proprio in questa fase Laconi propose di incentrare l’iniziativa del Pci attorno alla rivendicazione del «Piano del Lavoro». L’idea avanzata da Laconi era che si facesse leva sull’articolo 13 dello Statuto autonomistico e sulle previsioni del
piano organico per la rinascita economica e sociale della
Sardegna finanziato dallo Stato. Attorno a questa rivendicazione bisognava costruire un movimento di lotta di massa,
unitario di tutte le forze democratiche, capace di coinvolgere contadini, pastori e tutti i lavoratori della Sardegna. Nell’intento di Laconi infatti il Piano per il Lavoro avrebbe dovuto essere il terreno concreto per la realizzazione dell’alleanza operai-contadini attraverso una profonda e radicale
riforma agraria e un intervento infrastrutturale per l’uso razionale delle risorse idriche dell’isola. A tal fine venne convocato un primo congresso regionale promosso dalle Camere del lavoro che si concluse con l’invito ai lavoratori, alle
forze politiche e quelle culturali per l’organizzazione di un
«Congresso del Popolo Sardo».
Quattro mesi dopo il Convegno organizzato dalle Camere
del Lavoro di Cagliari, Sassari e Nuoro si teneva al Teatro
Massimo di Cagliari il Congresso del popolo sardo, nel
quale il tema di un Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna era affrontato come prima
battaglia attuativa della Costituzione e dello Statuto.
L’obiettivo era fare del Piano la bandiera autonomistica di
tutto il popolo sardo, senza distinzioni ideologiche o di
partito. Laconi era il relatore introduttivo.
Sul piano storico l’assenza di capitali da investire nella
61
La risposta del Governo a guida democristiana si
concentrò invece nella stagione, per molti versi effimera
e dannosa, dell’industrializzazione forzata, attraverso la
quale la gran parte delle risorse pubbliche vennero
dirottate per favorire famiglie potenti come i Moratti e i
Rovelli e rinsaldare ulteriormente il blocco sociale tra
classe politica e capitalismo parassitario del Nord Italia
62
modernizzazione sociale ed economica era riconducibile al mancato formarsi
in Sardegna di una classe borghese degna di questo nome. Le classi possidenti sarde, come quelle meridionali, avevano vissuto di rendita parassitaria
spendendo quella rendita senza alcuna ricaduta produttiva e senza alimentare quote significative di risparmio. Da ciò l’evidente contrasto tra l’opulenza
della nobiltà inurbata e la decadenza sia delle campagne che delle città. Una
condizione che anche Gramsci aveva fotografato, seppur con differenze significative, nelle note di Americanismo e fordismo in rapporto alla struttura economico-sociale del napoletano5.
Neanche i tentativi tesi a stimolare l’iniziativa economica, attraverso la formazione di un capitale originario, come era avvenuto con la Legge delle chiudende o con la Legge Cocco Ortu, riuscirono a trasformare la natura della borghesia della Sardegna e con essa la sua società. L’unificazione totale del 1848 –
che sopprimeva gli antichi istituti autonomistici del Regno di Sardegna uniformando l’Isola al resto dei domini piemontesi – veniva dopo una serie di
provvedimenti legislativi tesi a integrare anche economicamente la Sardegna
agli Stati continentali. In tal senso la legge delle chiudende del ’20 e quella
sulla proprietà perfetta del ’36 erano finalizzate a distruggere il sistema feudale suscitando il formarsi una borghesia imprenditoriale di tipo europeo. Allo
stesso scopo tendevano la liquidazione dei beni e dei diritti della Corona sulle
risorse industriali e la creazione a opera di Cavour di una Banca locale per
mettere a frutto il risparmio. Da questo punto di vista l’unificazione totale e
l’abolizione dell’autonomia rispondevano al tentativo di aprire la Sardegna ai
capitali stranieri e inserire l’Isola nei flussi commerciali del tempo. Tuttavia
questo tentativo era fallito perché la borghesia sarda non era riuscita a reggere il confronto con le profonde trasformazioni in atto. In una simile situazione non c’è stata alcuna modernizzazione ma solo l’accaparramento delle risorse da parte della borghesia forestiera che ha iniziato a commerciare i prodotti della Sardegna portando fuori da essa i profitti. Da questa debolezza delle
sue classi dirigenti si originavano molti dei guasti che angustiavano la Sardegna sul piano sociale ed economico. Ne da conto lo stesso Antonio Gramsci in
un articolo del 1919, falcidiato dalla censura, intitolato I dolori della Sardegna.
Perché deve essere proibito all’«Avanti!» ricordare che a Torino hanno la
sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società
mineraria sarda? (…) Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono
pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno
scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze
proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del
cuoio, uno dei quali è presidente
della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare
che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e
degli artigiani è trattata peggio
della colonia eritrea, in quanto lo
Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevan6
dovi un tributo imperiale?
Anche nel secondo dopoguerra, poi,
la riforma agraria Segni non aveva
mutato la sostanza dei rapporti sociali nelle campagne e l’opera di bonifica
procedeva con una lentezza e disorganicità che impedivano qualsiasi
modernizzazione e resa produttiva
dell’agricoltura sarda. La soluzione
della questione agraria era la strada
per far fronte al problema dello scarso
popolamento della Sardegna. In tal
senso il Piano sarebbe dovuto intervenire per porre fine alla concentrazione della proprietà fondiaria e alla contemporanea polverizzazione nella sua
distribuzione. Bisognava costruire
aziende agrarie moderne su superfici
estese e con strutture sociali progredite avendo come prospettiva la riorganizzazione economica delle comunità. A questa trasformazione doveva
concorrere l’opera di popolamento
delle campagne attraverso la creazione di reti stradali, borgate rurali e case
coloniche dando nuove possibilità di
lavoro. Questo, insieme all’opera di
bonifica che uno specifico ente regionale avrebbe dovuto assumere come
attività sua propria, per far fronte a
una situazione non riscontrabile in
nessuna altra regione d’Italia.
IDEE
Senza entrare nel dettaglio della proposta avanzata basti
qui richiamare le articolazioni di intervento che si prospettavano per il piano: dalla riorganizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento a un nuovo piano di raccolta e
distribuzione delle risorse idriche, da un piano energetico
regionale alla riorganizzazione del credito regionale, dalla
modernizzazione della trasformazione industriale al rilancio della struttura commerciale. La proposta di Piano doveva seguire una filosofia il più possibile integrata tra i
settori d’investimento pubblico, avrebbe dovuto svolgere,
verso l’economia e la società, quella funzione centralizzante delle risorse per un comune obiettivo di sviluppo
che era mancata in passato.
La battaglia per il Piano di rinascita durò tredici anni e
andò costituendo in suo favore un grande movimento popolare che diede un contenuto nuovo e avanzato alla vecchia rivendicazione autonomistica, evitando al contempo
l’idea tradizionale del meridionalismo che concepiva lo
sviluppo come un’opera unilaterale dello Stato centrale,
attuata in via amministrativa dalle burocrazie regionali.
L’idea del Piano di Rinascita si basava sull’esigenza di
sfruttare a pieno le risorse della Regione, intesa non più
come organo passivo di politiche elaborate a Roma, ma
ente propositivo e protagonista capace di avanzare e realizzare politiche di programmazione economica e sviluppo. Una programmazione dal basso, capace di coinvolgere i cittadini e gli stessi Enti Locali.
In Sardegna la lotta autonomista per la programmazione
democratica conferisce un contenuto nuovo alla vecchia
ideologia autonomistica, rimasta concettualmente e politicamente separatista e sostanzialmente autarchica. L’idea di
programmazione democratica legata al Piano di rinascita si
basava sul rifiuto delle vecchie concezioni autonomiste secondo cui il Sud e le Isole lasciate libere di svilupparsi per
conto proprio, senza i condizionamenti nazionali, avrebbero risolto da sole i propri problemi. Questa impostazione era
ideologicamente liberista e si basava sulla rivendicazione
per i punti franchi e contro i protezionismi doganali.
Ma la lotta per la rinascita rifiutava anche l’impostazione
centralistica, burocratica e assistenziale del vecchio meridionalismo, secondo la quale lo sviluppo del Mezzogiorno
poteva realizzarsi attraverso leggi speciali decise e finanzia-
te da Roma e tese a interventi infrastrutturali. Dunque finanziamenti a pioggia – secondo il modello della Cassa straordinaria del Mezzogiorno – che oltre a perdersi nei mille
rivoli del clientelismo politico e spesso delle reti malavitose,
svuotavano di qualsiasi soggettività la Regione. Fin dal 1950
la proposta del Piano di rinascita postulava invece un forte
mutamento di politica economica che ovviamente per potersi realizzare necessitava di armonizzarsi con quella nazionale. Così si prospettavano riforme di struttura come la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma agraria. Intorno a queste linee si sviluppò un movimento popolare
che dopo tredici anni era riuscito a strappare un importante corpo di leggi articolato sul piano regionale e nazionale.
Attraverso esse la regione non era relegata al ruolo passivo
di destinataria di fondi (la cui entità e finalità è stabilita
dallo Stato centrale), ma le viene riconosciuto il potere di
partecipare alla contrattazione sugli investimenti pubblici in
tutti i suoi aspetti preliminari e attuativi.
Ma l’aspetto più avanzato, progressivo, del piano era che
esso non si configurava come un intervento burocratico
formulato da organi meramente tecnici. L’idea del piano
era che esso avrebbe dovuto strutturarsi secondo un forte
coinvolgimento democratico della Regione, degli Enti Locali, delle comunità. Queste erano le premesse, la concreta realtà politica; e l’involuzione del quadro nazionale
aveva impedito al piano di essere attuato secondo i suoi
principi ispiratori. Al di là dei limiti nell’attuazione, gli effetti positivi del piano erano tutti nel movimento che intorno a esso si era costituito e nel risveglio democratico
che esso aveva suscitato presso municipi e comunità.
In concreto la stagione delle lotte per la Rinascita portò la
Sardegna a compiere un indubbio balzo in avanti, anche
se va detto per esteso che quel che si realizzò solo in minima parte corrispondeva alle proposizioni del Congresso
del popolo sardo. Nelle intenzioni dei comunisti il piano
di Rinascita doveva condurre a una programmazione economica integrata capace di mutare i rapporti sociali di
produzione, anzitutto nelle campagne, e sbloccare i meccanismi di accumulazione e distribuzione delle ricchezze.
La risposta del Governo a guida democristiana si concentrò invece nella stagione, per molti versi effimera e dannosa, dell’industrializzazione forzata, attraverso la quale
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la gran parte delle risorse pubbliche vennero dirottate per
favorire famiglie potenti come i Moratti e i Rovelli e rinsaldare ulteriormente il blocco sociale tra classe politica e
capitalismo parassitario del Nord Italia. Dunque una
nuova stagione di colonizzazione che se da un lato ha fornito preziosi posti di lavoro, dall’altra ha portato fuori dall’Isola i profitti realizzati lasciando in loco solo il peso ingombrante e inquinante delle produzioni.
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A tanti anni di distanza, di quelle lotte resta anzitutto
un’eredità che riaffiora carsicamente in diverse battaglie dei
giorni nostri, (quella per la restituzione alla Sardegna di ciò
che le spetta in termini di entrate fiscali; per la smilitarizzazione; per l’autogoverno del territorio in materia di tutela
ambientale e modello si sviluppo; per trattenere e ridistribuire le ricchezze suscitate dal turismo di lusso che lasciano all’Isola solo le briciole dei lavoretti stagionali ecc., ecc.).
Dopo la modifica del Titolo V e l’attribuzione alle Regioni
ordinarie di potestà legislative analoghe a quelle delle Regioni a Statuto speciale, la realtà e le esigenze concrete impongono un lavoro di adeguamento e rilancio del nostro
scheletro costituzionale. C’è un intero quadro di interventi, analisi, elaborazione e lotte che va riempito. Ancora una
volta sull’autonomia si può trovare il terreno per ricondurre a unità la trama frammentata della società sarda. Gli
ostacoli a tale ricomposizione non vengono, oggi come in
passato, solo da un dominio politico ed economico «forestiero», ma trovano linfa e strumenti di contrasto proprio
in parte significativa delle classi dirigenti sarde, in una borghesia abituata a vivere di rendite parassitarie e di un prestigio sociale che non merita. 1. Renzo Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, scritti e discorsi, (19451967), EDES, Cagliari 1988, p. 225.
2. Ibid.
3. V. Spano, Per l’unità del popolo sardo, Edizioni della Torre, Cagliari
1978, p. 79.
4. V. Spano, Contro il cretinismo paternalistico, p. 82.
5. Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 2143
6. Antonio Gramsci, I dolori della Sardegna, ed. piemontese
dell’«Avanti!», 16 aprile 1919, in Scritti 1915-1925, Moizzi Editore,
Milano 1976, p. 177.
IDEE
falce
e martello
R OBERTO G RAMICCIA *
Quella che segue è l’anticipazione del testo in catalogo della mostra di arte contemporanea, dal titolo «Falce e martello», che si terrà a breve a Roma e che raccoglierà decine e decine di opere eseguite sul tema da una selezione di artisti di grande valore.
Croce e Falce e martello sono i due simboli che più di ogni altro hanno segnato la storia di una parte cospicua dell’umanità. Così come, del resto, hanno
fatto i Vangeli e il Manifesto del Partito comunista di Marx (Rorthy). Ma, oltre a
questo, Falce e martello, per chi è nato in Italia non molto tempo dopo la fine
della guerra e ha vissuto in ambienti raggiunti dall’influenza del Pci, ha rappresentato qualche cosa di più intimo e familiare: la speranza e la fede in un
futuro migliore per tutti, vissuta e agita giorno dopo giorno.
Intendiamoci bene, non si può dire che chi portava nel cuore questo simbolo
(più spesso la «vocazione» ti sorprendeva durante l’adolescenza oppure cresceva dentro di te lentamente sin dall’infanzia) lo facesse avendo necessariamente rinnegato la fede cattolica. In parrocchia, dove si andava a giocare a
biliardino e a pallone, dopo la messa o il catechismo, c’erano croci dappertutto. Anche a scuola, in ogni classe ce n’era una attaccata al muro, dietro la cattedra. In molte case al tramonto nella Roma delle borgate le vecchiette snocciolavano il rosario. E nessuno si sognava di mettere in discussione queste
cose. Tanto meno i comunisti.
Ricordo che, nel frattempo comunista ero diventato anch’io, non mi sorpresi
più di tanto quando in assemblea qualcuno raccontò che due partigiani comunisti, prima di sposarsi e mentre infuriava la guerra antifascista, dormissero in
clandestinità nello stesso letto ma con il crocifisso in mezzo, eretto come
baluardo insuperabile di castità. Che è come dire che il giorno dopo, forse,
avrebbero sparato sui fascisti e i tedeschi per liberare l’Italia, ma la croce non
solo non la rinnegavano ma la utilizzavano – sia detto con rispetto – come un
catenaccio per difendere la grazia. Che dio tremendo e vendicativo sarebbe
stato quello che avesse condannato all’inferno due fidanzatini impauriti che,
alla vigilia di una possibile e prematura fine, si fossero concessi il ristoro di
qualche più intensa effusione… Questa cosa la pensai allora e la penso ancora. Ma, ugualmente, non mi sentii e non mi sento di censurare quei due
coraggiosi. Alla fine, si poteva, comunque, essere comunisti combattenti e
credere in dio e temerlo e uniformarsi alle sue regole, o meglio alle regole che
la chiesa imponeva in suo nome.
Del resto nel PCI questa cosa è sempre stata ritenuta normale. Concetto
Marchesi, grande latinista comunista aveva un gran rispetto della religiosità
solidale e compassionevole dei primi cristiani, la portava ad esempio.
Dell’incontro con le masse cattoliche nel Pci si è fatto sempre un gran parlare
Falce e martello, per
chi è nato in Italia non
molto tempo dopo la fine
della guerra e ha vissuto
in ambienti raggiunti
dall’influenza del Pci, ha
rappresentato qualche
cosa di più intimo e
familiare: la speranza e la
fede in un futuro migliore
per tutti, vissuta e agita
giorno dopo giorno
* SCRITTORE E CRITICO D’ARTE
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dalla Resistenza, alla svolta di Salerno di Togliatti fino al
Compromesso storico di Berlinguer.
A distanza di decenni, della croce e del cattolicesimo,
quello che mi è rimasto è il rispetto per coloro i quali, da
cattolici, si sono battuti per la difesa della dignità degli
ultimi. Don Ciotti, recentemente, ha affermato che la
fede e la bontà non bastano. Ci vuole la giustizia. Se no i
conti non tornano. A questi preti la falce e martello non
fa paura. Non fa paura perché la giustizia si ottiene solo
liberando gli oppressi dallo sfruttamento e dal bisogno,
che è esattamente ciò che i comunisti hanno sempre cercato di fare, al netto di errori e orrori.
Del resto nessuno si sognerebbe di mettere in discussione
la croce perché la Chiesa condannò a morte Giordano
Bruno o bruciò sul rogo decine di migliaia di presunte streghe, o perché benedisse, tre secoli dopo, le armi dei franchisti o i gagliardetti dei fascisti prima di andare in battaglia. O perché scomunicò i comunisti (ci volle Giovanni
XXIII per togliere quell’anatema). Sulla croce Gesù Cristo
morì veramente. Si era azzardato a cacciare a scudisciate i
mercanti dal tempio e a predicare l’uguaglianza. E questo
nessun cardinale Bellarmino lo poteva cancellare, nemmeno con la più atroce delle nefandezze. E guardate che quella di Giordano Bruno fu atroce per davvero: far bruciare
sul rogo una delle più sconfinate intelligenze che la storia
dell’umanità abbia mai conosciuto, con la mordazza serrata sulla bocca sanguinante come un lucchetto… Succedeva
agli albori di un secolo, il Seicento, decisivo per la storia
dell’Umanità, il secolo di Caravaggio e della rivoluzione
scientifica. In una delle piazze più belle di Roma, l’unica su
cui non si affacci una chiesa, per gli smemorati la statua di
Giordano Bruno lo ricorda ancora.
Eppure nessuno si azzarda a contestare la croce e, anzi, la
Chiesa oggi più che mai riafferma con determinazione
rinnovata i suoi principi e i suoi simboli, travalicando
abbondantemente i confini del suo magistero per invadere i territori in cui la laicità dello Stato dovrebbe essere
garantita. Il papa serra le fila di cardinali e vescovi e pontifica su delicatissime materie sociali e bioetiche («dico»,
fecondazione assistita e altro ancora) che riguardano folle
di uomini e di donne non necessariamente credenti e
tanto meno praticanti. Ma nessuno, nonostante tutto ciò,
ripeto nessuno si permetterebbe mai di mettere in discussione il simbolo di Cristo.
Perché mai allora da tempo ormai si mette in discussione
il simbolo dei comunisti? Lo hanno fatto non molto tempo
fa, con violenza inusitata, due eurodeputati dell’Est in
sede ufficialissima, chiedendone addirittura la messa fuori
legge, sostenuti nientemeno che da Franco Frattini, commissario europeo alla giustizia, libertà e sicurezza e con il
sostegno aggiuntivo di esponenti Ds, come il vicepresidente della Commissione esteri della camera, Umberto
Ranieri, il quale si è addirittura lamentato del ritardo con
cui questo simbolo è stato del tutto rimosso dal suo partito (postcomunista). Né le difese di ufficio di qualche esponente storico della dirigenza dell’ex Pci sono apparse con-
vincenti. E mostrano di essere pronti a liquidarlo, il fatidico simbolo, tutti coloro che vorrebbero scapicollarsi a fondare un nuovo partito unico della Sinistra buttando alle
ortiche la loro storia, con tanto di araldica e di identità.
Capisco che l’esempio dei Ds possa essere contagioso. Ma
un conto è liberarsi della Quercia per fondare il Partito
democratico, un conto è buttare alle ortiche un simbolo
per il quale milioni e milioni di uomini nel mondo hanno
sacrificato la vita. La falce e martello, come simbolo dell’unità fra operai e contadini, aveva fatto la sua comparsa
in Italia sin dal 1919 sulla bandiera del partito socialista e
dal 1924 compariva su quella dell’Unione Sovietica. Una
lunga strada di sofferenze e di errori, di sangue e patimenti ma anche di straordinari e insuperati successi.
Ora si dirà che, dopo la caduta del muro di Berlino e il fallimento dell’esperienza storica del Socialismo Reale, dopo
la sconfitta del Comunismo, insomma, tutto questo era inevitabile nel mondo e anche in Italia. Questa verità, che oggi
appare incontestabile ai più, non regge a un minimo di
verifica critica. Non è questa la sede per fare lunghe disamine ma una cosa almeno si può dire: è proprio la caduta del
muro ad aver dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, il
vero volto e la vera natura di un capitalismo trionfante che,
privo di freni e contrappesi, straripa imponendo al mondo
la sua egemonia senza egemonia. La sua indubbia e oggi
incontrastata influenza, infatti, configura i lineamenti di un
dominio globalizzato materiale e immateriale che, tuttavia,
è incapace di governare i destini dell’umanità, salvaguardandone almeno gli interessi generali minimi. Ritagliamo
una pagina del magnifico libro di Raul Mordenti «Gramsci
e la rivoluzione necessaria» e riflettiamoci su.
Scrive Mordenti. «Il dominio capitalistico sul mondo è
oggi senza dubbio egemonico, perché si è proclamato
(senza che nessuno, o quasi, abbia osato contraddirlo)
come l’unico modello di mondo possibile, e anzi l’unico
immaginabile; a tal punto che esso riesce a presentare il
proprio assetto di potere come naturale, e detta anche ai
suoi pallidi avversari interni non solo l’agenda dei temi,
ma perfino i modi, i tempi e le forme della competizione.
Costringe il dominato a sforzarsi di diventare identico al
dominante, anche quando vuole combatterlo, cosa c’è di
più egemonico di questo?
Eppure, al tempo stesso l’attuale dominio capitalistico sul
mondo non è egemonico (nel senso proprio del concetto di
egemonia) né può esserlo giacché, nel momento della sua
schiacciante vittoria, esso si rivela del tutto incapace di
risolvere i problemi dell’umanità associata, il capitalismo
non si può estendere organicamente (se non nella forma
dello sfruttamento e della deprivazione, fino alla morte per
fame) alla totalità dei popoli del mondo, e insomma provoca (al tempo stesso!) crisi di sovrapproduzione e crisi di sottoconsumo, il capitalismo non può risolvere in alcun modo
il problema cruciale del rapporto fra l’uomo e il pianeta che
lo ospita, che tende dunque verso il disastro ecologico irreversibile; tanto meno il capitalismo può risolvere il problema della pace fra gli uomini e anzi secerne di continuo e in
IDEE
Brecht diceva «il comunismo è una
cosa semplice difficile da realizzare».
Ebbene liberare i popoli del mondo dal
bisogno (…) Ma che simbolo ci volete
mettere sopra questo immane e
rivoluzionario processo? Un papavero, una
margherita, un crisantemo? Non
scherziamo
modo crescente, dalle sue stesse viscere, guerra e terrorismo, guerre terroristiche e guerre di sterminio. In questo
senso il capitalismo ci domina, pur senza governarci».
In Russia è successo in poco più di quindici anni quello che
nessuno avrebbe ritenuto possibile sino a trenta anni fa. Un
capitalismo selvaggio e criminale si è sostituito a un
Socialismo di Stato che faceva acqua da tutte le parti.
Ebbene che cosa è accaduto: dopo le evoluzioni alcoliche di
Eltsin, è arrivato il dispotismo di Putin, la ricchezza per
pochi, la miseria per gli altri, la speranza di vita accorciata
di dieci anni per quasi tutti e la mortalità infantile schizzata alle stelle (cioè alle stalle). A proposito di Sanità pubblica, sapete in che posizione l’Oms colloca gli Stati Uniti in
quanto a efficacia-efficienza del suo Sistema Sanitario: al
trentasettesimo posto; il Regno Unito, tanto per citare i due
paesi iperliberisti più lodati dal senso comune occidentale
corrente, non se la passa molto meglio, è infatti al diciottesimo posto. In Italia siamo al secondo, dopo la Francia. Con
tutte le pecche della nostra Sanità pubblica quel po’ di Stato
Sociale strappato nel corso dei decenni dalle masse, organizzate – guarda caso – sotto la falce martello e le bandiere
del Sindacato, – e che ancora sopravvive – nonostante l’attacco forsennato dei liberisti filoamericani che evidentemente non leggono le Statistiche dell’Oms – garantisce
degli standard assistenziali sconosciuti negli States e in
Inghilterra (chi avesse dei dubbi vada a vedere Sicko, il film
di Michael Moore).
Ma se qualche giustificazione può avere la violenta campagna revisionistica contro un Comunismo internazionale considerato morto e defunto e sul cui cadavere, non si
sa perché, tutti si accaniscono, fino a proporre osceni e
rivoltanti parallelismi con il nazismo e la croce uncinata,
giustificazioni che in verità prendono origine da una lettura a senso unico della storia che persino Papa Wojtyla
ha rifiutato definendo il Comunismo storico come un
«male necessario», e cioè una cosa che fa pensare alla
violenza salvifica e risanatrice del chirurgo (che cosa è
stata Stalingrado se non un concentrato di violenza spirituale e fisica per schiacciare sotto il tacco lo scorpione
velenoso del nazismo?) – ebbene queste giustificazioni
non esistono proprio, non esistono affatto a sostegno
della condanna trasversale e bipartisan di quello che ha
rappresentato la parabola del nostro comunismo nazionale e dei suoi dirigenti storici.
Non è che agli occhi del mondo ci dobbiamo scusare se
Antonio Gramsci è stato il massimo pensatore italiano del
secolo scorso, Palmiro Togliatti uno dei massimi statisti e
Umberto Terracini il Presidente della Commissione che
ha prodotto una delle più avanzate Costituzioni del
mondo. Con le purghe e i gulag essi non ebbero niente a
che fare. Se questi personaggi non ci fossero stati (i «se»
contano e come) la nostra storia nazionale sarebbe stata
diversa e non certo migliore. Ebbene questi tre uomini
con la Falce e martello avevano molto a che fare e, pur di
non rinnegarla, hanno affrontato le prove più dure e crudeli. E, badate bene, di violenza ne subirono tanta (anni
di carcere, morte in galera, pistolettate) ma non ne
espressero alcuna, tranne quella sacrosanta contro i fascisti e i tedeschi invasori. Nonostante questo, lo sport
nazionale è diventato quello di rimuoverne la memoria
(nel settantesimo anniversario della morte di Gramsci chi
parla di lui e dove e come?) o di trattarli come volgari soldatini di Stalin. Ma torniamo a Mordenti e a una sua citazione illuminante tratta dal libro già menzionato.
«Ci sono nella storia della cultura politica numerosi precedenti di processi di demonizzazione spinta fino alla
contumelia e al dileggio, cioè tentativi di distruzione
intenzionale e sistematica di una tradizione politico-culturale; quello che costituisce un unicum assoluto è il fatto
che nel caso della tradizione gramsciana e comunista tale
operazione distruttiva venga compiuta in prima persona
da coloro che potrebbero definirsi come gli eredi diretti di
quella tradizione. Insomma non è certo Andreotti a portare fino in fondo la critica alle malefatte della Dc, e non
è Intini a dire tutto il male possibile di Bettino Craxi, e
meno che mai è Fini a fare rivelazioni scioccanti sui crimini di Salò o sul golpismo fascista degli anni sessantasettanta; sono invece spesso degli ex-comunisti a spingere l’autocritica verso il passato del Pci fino alla falsificazione storica e alla calunnia. Costoro somigliano così al personaggio di una storiella di Totò il quale si ostinava a ridere mentre uno sconosciuto lo picchiava selvaggiamente
insultandolo e chiamandolo «Pasquale», alla domanda
perché ridesse tanto nonostante le botte che riceveva, la
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risposta era: «Tanto io mica so’ Pasquale!». E ancora: «…c’è qualcosa di veramente paradossale nella singolare (s)fortuna storiografica di Palmiro Togliatti.
Non saprei come definire altrimenti il fatto che il massimo costruttore di egemonia (nell’Italia del suo tempo) sia stato abbandonato dopo la morte senza
difesa a spregiudicate operazioni propagandistiche dei suoi avversari, e che
tali operazioni vedano anzi per protagonisti anche studiosi che (…) dovrebbero essere annoverati fra i difensori naturali di Togliatti».
Sarebbe troppo facile considerare gli ex comunisti che in Italia e nel mondo
denigrano il Comunismo come dei semplici rinnegati (anche se la tentazione
è forte). È per questo che penso ci debba essere una spiegazione più profonda. In Italia e fuori. Ma soprattutto in Italia dove, dalla fondazione del Pcd’I a
Berlinguer, è veramente difficile trovare colpe imperdonabili (errori sì e
numerosi ma sempre per difetto di determinazione e di «cattiveria», direi, più
che per eccesso).
La spiegazione che si può azzardare è quella che si racchiude nel contraccolpo
psicologico che subisce chi si trova, in poco tempo, sballottato dalle vicende epiche di un’impresa prometeica – la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento e la
sua emancipazione dal bisogno materiale e dalla soggezione spirituale – alla
melma di una congiuntura politico-amministrativa da retrobottega (la gestione
del postcomunismo). Insomma dalle stelle alle stalle. In queste condizioni non
rimaneva che rinnegare Prometeo, dire che il sogno era un sogno appunto, un
brutto sogno. Rimuoverlo. Cancellarlo. Venirne a capo. Fare finta di niente,
dando libero sfogo alle piccole ambizioni personali che in passato venivano, se
non represse, sicuramente subordinate alle necessità più alte e collettive dettate
da una nobile causa. Uccidere i padri diventava indispensabile così come falsificarne la storia. Mai più testimoni! Siamo proprio sicuri che sul Reichstagh quel
Primo maggio del ’45 un soldato dell’armata rossa issasse la bandiera rossa con
la falce e martello? C’è chi dice che si tratta di un falso. E sarà vero che l’Armata
Rossa è entrata per prima a Berlino? Come può essere accaduto, se il capo assoluto di quell’armata era un uomo cattivo e sanguinario come Giuseppe Stalin?
Tirare giù dal Reichstag la bandiera rossa con la Falce e martello diventa indispensabile perché quel momentaneo trionfo segnava, pur costruito su fiumi
di lacrime e di sangue, la tappa più commovente ed esaltante di un viaggio
che era partito dalla presa del Palazzo d’inverno, aveva scosso il mondo dalle
fondamenta e poi lo aveva salvato, in concorso con altre forze certamente, dal
peggiore dei pericoli planetari che la storia abbia mai conosciuto: la follia di
Hitler, forte del sostegno criminale di un intero popolo fattosi soggiogare.
Il fatto che, con tutti i suoi limiti e le sue nefandezze, la scalata al cielo azzardata dall’Urss avesse terrorizzato le borghesie di tutti i paesi capitalistici e che
questo terrore avesse migliorato le condizioni di lotta delle classi lavoratrici in
questi paesi è una cosa che va al di là della guerra, e che ogni persona onesta
dovrebbe riconoscere. Per paura che «succedesse come in Russia», i padroni
si acconciarono a concedere quello che non avrebbero mai concesso senza la
Rivoluzione di Ottobre. Questo con buona pace dei liquidatori in toto dell’esperienza sovietica e anche per capire la ragione per la quale persino il papa
polacco arrivò a definire il comunismo «un male necessario».
Ma tant’è, così vanno le cose nel mondo e si potrebbe pure iniziare un processo di elaborazione del lutto, difficile per carità perché quella comunista è
una specie di religione laica alla quale è arduo abiurare, ma il punto è che non
si può. Se uno ha gli occhi non dico aperti ma socchiusi e non è completamente rimbecillito dall’areosol narcotizzante del pensiero unico, non può non
vedere che oggi più che mai l’avvertimento di Rosa Luxemburg è attuale.
«Socialisme ou barbarie» soleva ricordare questa grandissima rivoluzionaria
(di cui prudentemente si parla molto meno che di Stalin). Oggi si potrebbe
aggiungere alla barbarie, semplicemente e tragicamente, l’ipotesi di una prospettiva di distruzione ambientale totale propedeutica alla fine del mondo. Le
forme di questo Socialismo dovranno
essere nuove e diverse. E questo non
è certo il luogo per declinarne i principi, anche se siamo convinti che,
alla fine, due siano gli elementi fondamentali. Brecht diceva «il comunismo è una cosa semplice difficile da
realizzare». Ebbene liberare i popoli
del mondo dal bisogno (renderli cioè
realmente liberi) e governare i beni
comuni nell’interesse generale,
orientando democraticamente le
enormi energie che si libererebbero –
di nuovo – verso l’interesse generale
significa non solo conquistare la giustizia, di cui parla Don Ciotti, ma
anche salvare il pianeta. E far pace
con Prometeo, naturalmente.
Ma che simbolo ci volete mettere
sopra questo immane e rivoluzionario processo? Un papavero, una margherita, un crisantemo? Non scherziamo.
La mostra che ci è venuto in mente
di fare non è di antiquariato. Non è
nemmeno una operazione nostalgica
o propagandistica. I tanti artisti coinvolti non hanno nessun comune
denominatore ideologico. Una cosa
però, oltre al talento, ce l’hanno
tutti: la curiosità umana e almeno,
dico almeno, un sospetto: che Falce
e martello non siano ferri vecchi. 69
ALBERTO BURGIO*
DINO GRECO**
TRA CRISI E NUOVE SFIDE
UNA RIFLESSIONE A PIÙ VOCI SUL SINDACATO
DOSSIER
SINDA
CATO
Sono molte le questioni aperte che fanno del movimento
sindacale oggi un protagonista della fase politica e, contestualmente, uno snodo cruciale della crisi. Ne citiamo tre –
tra loro strettamente connesse – che ci pare diano il senso
della rilevanza di un plesso di problemi che, se approfonditi nelle loro molteplici implicazioni, fornirebbero un
suggestivo quadro dell’attuale situazione politica e storica.
Il tema dell’indipendenza delle organizzazioni sindacali (cui
si lega l’alternativa tra sindacato generale e di classe e sindacato neo-corporativo); il tema della democrazia, che investe la scottante questione della rappresentatività; il tema,
infine, della natura e della funzione del sindacato, tra deriva compatibilista e mercatista ed esercizio autonomo della
soggettività, quale vettore critico di un progetto di trasformazione e di un altro progetto di società.
Queste considerazioni ci hanno suggerito di dedicare
un’ampia sezione monografica della rivista al sindacato.
Abbiamo chiesto a sei dirigenti sindacali di assumere
questi temi – e le sfide che essi evocano – come riferimenti di sfondo per una riflessione sulle vicende più recenti e sui passaggi imminenti che scandiranno l’agenda
nei prossimi mesi. Inevitabilmente la partizione per argomenti da noi pensata e proposta ai nostri interlocutori
è stata in buona misura rielaborata secondo le attitudini,
le convinzioni, le intenzioni politiche di quanti hanno
* Deputato Prc – Se,
membro della commissione Lavoro pubblico e privato
** Cgil – direttivo nazionale
70
accettato di collaborare alla realizzazione di questo inserto. Ne è sortita una riflessione a più voci tale – ci pare –
da rappresentare un utile materiale di analisi e di confronto su una questione di fondamentale importanza per
le chances democratiche di questo Paese: il futuro del
sindacato, posto di fronte a un bivio cruciale e complesso
fra indipendenza e neo-collateralismo politico; fra deriva adattiva, mercatista, e riaffermazione di una nuova
soggettività del lavoro; fra implosione corporativa e ricomposizione solidale della rappresentanza; fra pratica
radicale della democrazia e regressione oligarchica; fra
conflitto di classe e metamorfosi parastatale. Si tratta di
antitesi secche, difficilmente riconducibili a sintesi perché appartenenti a paradigmi inconciliabili.
Una cosa è acclarata, al di là dei diversi accenti dei contributi di seguito proposti: il sindacato italiano è attraversato – non diversamente da quanto avviene negli altri
Paesi europei – da una crisi profonda, non mimetizzabile attraverso l’esibizione propagandistica dei dati di un
tesseramento sempre più veicolato dai «servizi» e sempre meno espressione di un’estensione della rappresentanza e della contrattazione collettiva. E la crisi attraversa in particolare la Cgil che più di ogni altro sindacato, all’opposto di altri più tradizionali modelli, aveva con
maggiore consapevolezza investito sulla propria natura di
sindacato generale, attrezzato di un programma fondamentale in parte invecchiato e in parte dimenticato.
In queste pagine, Cesare Melloni ci ricorda quanto l’impoverimento progressivo della contrattazione collettiva, a
partire dai luoghi di lavoro, abbia isterilito e non di rado
del tutto neutralizzato la capacità del movimento sindacale
di porsi al livello dell’impresa, della sua organizzazione, in
definitiva, del suo potere. E rischi di costringere le organizzazioni sindacali in una dimensione prevalentemente
difensiva, indotta da un processo generale di riorganizzazione del capitale nel tempo della globalizzazione, al quale
non si è stati in grado di contrapporre una strategia di ricomposizione del lavoro nelle sue mutate e spesso disarticolate espressioni. Alla ristrutturazione dell’impresa transnazionale e deterritorializzata, alla profonda alterazione
dei rapporti di forza che essa ha prodotto, è conseguito
anche un processo reale, pervasivo, di egemonia del capitale che insieme al sistema di fabbrica ha scompaginato
anche le idee della propria controparte, reclutando al proprio apparato ideologico adepti e catecumeni nelle stesse
file della sinistra politica e sociale.
Si è così prodotto un effetto destabilizzante nella teoria e
nelle idee, prima ancora che nelle pratiche del sindacato,
vittima di un continuo effetto di spiazzamento: flessibilità sempre più spinta del mercato del lavoro e della pre-
stazione e subordinazione a ogni sollecitazione dell’impresa hanno via via eroso, nelle parti e nell’insieme, l’intera impalcatura dei diritti. Al punto che quella stessa
trincea eretta intorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella straordinaria battaglia difensiva del 2002 è
stata aggirata, come una maginot sindacale, dall’offensiva
condotta con metodo contro la costruzione giuslavoristica di impronta costituzionale, erosa dall’interno sino a
divenire irriconoscibile.
Non è casuale, su un altro versante, che mentre è in pieno
dispiegamento l’attacco frontale al fondamentale strumento solidaristico – il contratto nazionale di lavoro – e mentre
milioni di lavoratori ne attendono inutilmente il rinnovo,
il sindacato – unitariamente – sposti l’accento sul fisco
(certamente in debito con il lavoro dipendente) chiedendo
(certo, doverosamente) allo Stato quello che tuttavia non si
chiede più, o si fatica a chiedere nella proporzione dovuta,
al padrone. È come se il valore del lavoro, il corrispettivo
della prestazione, al pari di tutto ciò che entra immediatamente in conflitto con il profitto, ingenerasse una reticenza, una prudenza reverenziale, il sospetto di lavorare contro
le ragioni della competitività dell’impresa, poste al di sopra
di tutto e, dunque, contro l’interesse generale. Quasi che
aumenti cospicui delle retribuzioni rappresentassero soltanto la premessa per l’indifferibile soddisfazione di bisogni primari, e non anche un evidente sostegno della domanda (oltre che, non ultimo, un incentivo all’innovazione
dell’impresa, dei processi produttivi dal lato delle tecnologie, dei prodotti, dei sistemi organizzativi).
Ecco allora che l’accelerazione di questi mesi non viene
dal nulla. Il pomo della discordia, il recente accordo sul
welfare, segna una netta linea di demarcazione, imprime
una svolta che era da tempo in incubazione e che ora assume una plastica evidenza. Come nota Tiziano Rinaldini, non si tratta tanto dei limiti quantitativi di quell’intesa (pur rilevanti in una situazione sociale che sconta un
pesantissimo deficit redistributivo), quanto piuttosto
degli elementi di qualità che tracciano una precisa traiettoria: dalla conferma di un regime pensionistico che sacrifica le nuove generazioni (senza scalfire la modestissima attrezzatura degli ammortizzatori sociali) alla legittimazione negoziale, sul terreno decisivo dei contratti a
termine, del più imponente processo di precarizzazione e
manomissione del diritto del lavoro della storia repubblicana; dalla decontribuzione della parte variabile del
salario aziendale (che depotenzia il contratto nazionale e,
contemporaneamente, incentiva la pratica della contrattazione decentrata nelle sue forme più ambigue e subalterne) a quello strabiliante regalo alle imprese che è la
detassazione delle prestazioni straordinarie, foriera di
DOSSIER SINDACATO
orari di lavoro più lunghi e infortuni fatalmente più frequenti.
La stessa conduzione del confronto – difficilmente assimilabile a una vera vertenza in quanto privo di una piattaforma approvata dai lavoratori e dai pensionati – si è svolta
dentro due vincoli dichiaratamente insuperabili: l’unità
con la Cisl, vero dominus della situazione, e l’imperativo
categorico di non disturbare con la mobilitazione e la lotta
i delicati equilibri in seno alla maggioranza di governo o,
per meglio dire, alla sua parte più moderata. Si è così
drammaticamente posto il tema dell’autonomia e dell’indipendenza del sindacato, di cui variamente trattano in
queste pagine Mirto Bassoli e Nicola Nicolosi. Di tale «camicia di Nesso» gli attori politici del negoziato si sono dimostrati ben consapevoli. E hanno avuto buon gioco a
stringere il nodo scorsoio al collo del sindacato, che ha
fatto, letteralmente, buon viso a cattivo gioco. Una volta
confezionato il pacco – un pacco che ha portato con sé gravissime violazioni della stessa regola costituzionale nel
processo di formazione della decisione legislativa – non è
rimasto che difenderlo a ogni costo e con ogni mezzo.
Se la Cisl lo ha fatto volentieri riconoscendo nell’intesa
la conferma di un proprio antico asse strategico, la Cgil si
è divisa, più in profondità di quanto non dicano la cronaca ufficiale e i dissensi dichiarati. Alla crisi del rapporto
con i lavoratori (non certo sanato da un referendum gestito con regole a dir poco lasche e con una grottesca inibizione delle manifestazioni di dissenso) si è unita una
crisi tutt’altro che transeunte nei rapporti interni che si
vorrebbero compressi nel vetusto schema del centralismo democratico, invocato per affermare un oscuro primato della confederalità, intesa come marchio registrato
di proprietà della struttura orizzontale a cui ogni altro livello dell’organizzazione dovrebbe obbedienza.
Chi scrive ritiene, come è evidente, che il sindacato
debba molto cambiare per arginare la deriva in corso e
per provare a scrivere un’altra storia. Occorre, innanzitutto, sottrarsi all’ossessione monetarista dominante e
dire che non vi è niente di avventuristico nel destinare,
hic et nunc, quote aggiuntive di prodotto interno lordo
alla spesa pubblica sociale, perché sussistenza, sanità,
lavoro, previdenza, istruzione sono – oltre che diritti costituzionalmente protetti – leve formidabili per uno sviluppo qualitativamente nuovo. E, per esempio, battersi
perché si prenda l’onerosa ma indispensabile decisione
politica di sanare il vuoto contributivo che rischia di annientare il futuro di quella generazione che da oltre dieci
anni ha impattato con il passaggio al regime pensionistico contributivo e, contemporaneamente, con il dilagante processo di precarizzazione del lavoro.
Poi, è necessario ricordarsi della migliore tradizione giuslavoristica di questo Paese e predisporre una piattaforma
sociale perché si riconoscano due e due sole fattispecie di
lavoro: quello autonomo e quello economicamente dipendente che dev’essere dotato di un corredo omogeneo di diritti inalienabili, non derogabili, neppure dagli interessati. E ancora: è urgente ridefinire un modello contrattuale
fondato su nuove grandi aggregazioni (industria, terziario,
servizi) incentrato sul contratto nazionale e su una nuova
contrattazione di filiera e di sito, orientata a unificare solidalmente ciò che è stato spezzettato e disperso e, per
questa via, riconnettere la contrattazione aziendale a quei
bisogni sociali e a quei movimenti che trovano nel territorio il loro centro di annodamento: generando tutte le sinergie e tutti i possibili rapporti di rete per tessere tenacemente l’ordito di una contrattazione su base europea, tale
da ridurre la devastante asimmetria decisionale fra capitale e lavoro che genera dumping sociale e competizione fra
lavoratori per la sopravvivenza.
Nello stesso tempo occorre liberarsi della colpevole,
prudente, sospetta intermittenza con cui anche il sindacato rivendica l’abolizione del diritto duale che la legge
Bossi-Fini ha imposto in Italia, segregando milioni di
lavoratori immigrati in una condizione servile di lavoro e
di vita e rammentarsi, una volta ogni tanto, che ogni affermazione dei diritti è destinata a essere frustrata e a
rovesciarsi nel suo contrario se non è per tutti. Infine, è
indispensabile rifondare le regole che presiedono alla
vita del sindacato incardinandole su uno statuto di democrazia integrale, che preveda la piena espressione
della dialettica interna, che superi ogni inibizione dell’esercizio dei pluralismi e che riconosca la sovranità
formale e sostanziale dei lavoratori in ogni ambito e atto
negoziale. Su queste coordinate – sottese agli interventi
di Francesca Re David e Paolo Sabatini – sembra possibile ridefinire il profilo di un sindacato capace di praticare, piuttosto che velleitariamente predicare, la propria
ambizione di soggetto politico, ri-proponendosi come
forza del cambiamento e non improvvisandosi, di volta
in volta, come un semplice ammortizzatore dei danni sociali provocati dalle politiche liberiste. 71
72
MIRTO BASSOLI*
PER UNA CGIL «LIBERA, VOLONTARIA, AUTONOMA
E INDIPENDENTE»
Nel libro scritto a due mani, in occasione dei cento anni
della Cgil, da Vittorio Foa e Guglielmo Epifani, si afferma a
un certo punto che se si dovesse fare un bilancio della storia di questi cento anni e si dovesse mettere un punto d’arrivo, questo andrebbe messo sul tema dell’autonomia.
L’autonomia come valore alto, identitario, fondativo
della Cgil. Tema che, in effetti, è stato presente fin dalla
fase delle origini della Confederazione, all’inizio dello
scorso secolo. Tema rilanciato con forza da Di Vittorio, il
quale usava dire: «il movimento sindacale deve essere
assolutamente indipendente da tutti i partiti politici, dal
governo e dallo Stato stesso». Tema che ha subìto diverse interpretazioni e declinazioni, anche negli ultimi decenni, fino alle evidenti contraddizioni dei giorni nostri.
Perché di contraddizioni è giusto parlare. L’esperienza ultima del percorso che ha portato a sottoscrivere il Protocollo sul welfare ha lasciato molti segni, anche evidenti, delle
difficoltà da parte della Cgil di interpretare il rapporto con
un «Governo amico» o, se vogliamo, non più nemico.
Una vertenza che non è mai stata tale. Una complessiva
caduta dell’autonomia rivendicativa del sindacato, l’affidamento, più o meno esplicito, alle dinamiche interne al
quadro politico, perdendo di vista, da parte del movimento sindacale, un’interpretazione del proprio ruolo
coerente con la propria natura.
Avevo sostenuto, in epoca non sospetta, che un sindacato debole sul piano dell’autonomia rivendicativa non
* Segretario Generale Cgil di Reggio Emilia
avrebbe fatto un «favore» a questo Governo, ma, paradossalmente, ne avrebbe enfatizzato quelle che rappresentano a sua volta debolezze: l’assenza di coesione interna alla maggioranza; un programma mai compiutamente metabolizzato. La crisi di febbraio del 2007 ha
esplicitato questa condizione, definitivamente sancita
dopo la nascita del Partito Democratico.
Il tentativo da parte dei Governi di turno di agire come un
cuneo dentro il movimento sindacale, mettendone in discussione l’autonomia, non è nuovo. Basti ricordare l’accordo di S.Valentino del 1984, con il conseguente rischio di
scissione nella Cgil. Oppure la fase del 1992, cioè l’accordo
con il Governo Amato, con le conseguenti dimissioni di
Trentin. Molti, dentro e fuori il sindacato, hanno trovato
analogie tra quanto è avvenuto quest’anno e quei drammatici momenti per la storia del movimento sindacale.
Il ruolo che ha giocato la Cgil, pur con contraddizioni in-
DOSSIER SINDACATO
negabili, ha sempre impedito la chiusura di un patto
«neocorporativo». Quanto avvenne con il «Patto per
l’Italia» sottoscritto nel 2004 da Cisl e Uil rappresenta
una conferma di questo.
La scelta, operata questa volta, del Referendum ha evitato che un disegno politico teso a costringere il movimento sindacale dentro un ruolo innaturale si completasse.
Se l’idea, fatta propria da alcune Confederazioni nel nostro
Paese e da una parte significativa dei soggetti della rappresentanza politica, è quella di sancire appunto un patto neocorporativo, questo presuppone la rottura del principio di
rappresentanza generale del mondo del lavoro, a partire
dall’istanza avanzata dalla Cisl di tutela solo dei propri
iscritti e non della generalità dei lavoratori.
L’identità e la natura del sindacalismo confederale sono
strettamente connesse alla pratica, o meno, delle regole di
democrazia. In gioco oggi c’è principalmente questo, perché il più grande antidoto contro una sorta di mutazione
genetica del movimento sindacale sta proprio nell’avere la
capacità di consegnare la decisione finale sugli atti negoziali all’insieme dei lavoratori, che si tratti di contratti collettivi di lavoro o di atti di concertazione generale.
Ma naturalmente non c’è solo questa, pur importante,
questione. Ci sono anche le politiche che il sindacato
mette in campo, gli obiettivi che si propone di raggiungere attraverso la propria azione, a partire dal nodo fondamentale rappresentato dalla contrattazione.
Si discute, in questa fase, del rischio della trasformazione
progressiva verso un modello di «sindacato di mercato».
Ci sono ampie e convergenti elaborazioni in tal senso: la
Confindustria, la Cisl, alcuni illustri giuslavoristi.
L’idea di fondo è che possa prendere piede un sindacato
che interpreta in senso adattativo il proprio ruolo, assumendo le esigenze competitive delle imprese come vincolo nella propria azione, abbandonando la tutela dei diritti
come asse portante e fondamentale, rinunciando alla funzione solidale rappresentata dal contratto nazionale.
Alcuni analisti, che si ritengono esperti di questioni sindacali, si spingono fino a individuare nel modello del
«sindacato dei diritti» di Bruno Trentin l’origine dei
mali attuali della Cgil e del sindacalismo confederale.
Si tratta di analisi inaccettabili ed evidentemente strumentali. È immaginabile un sindacato generale e confederale che non costruisca la propria identità su principi
quali l’allargamento dei diritti, lo sviluppo della solidarietà tra i lavoratori e che non fondi la propria azione,
appunto, sull’autonomia e sulla democrazia?
Forse si, è immaginabile, ma non c’entrerebbe nulla con
l’esperienza del sindacato che abbiamo conosciuto per
oltre un secolo. Un’esperienza che si è nel tempo forte-
mente evoluta, ma che non ha mai rinunciato a questi
principi di fondo, almeno per quanto riguarda la principale confederazione italiana, la Cgil.
Ribadire dunque il principio dell’autonomia e di come
questa si deve esercitare nei processi di contrattazione e
nelle fasi concertative con i soggetti istituzionali, non significa precludere lo spazio d’azione sui temi sociali e del
lavoro da parte dei partiti, né tantomeno mettere in discussione la sovranità del Parlamento.
In accordi come quello sottoscritto a luglio, c’è un tempo
per la negoziazione e c’è un tempo per decisioni che
competono ai soggetti istituzionali e della rappresentanza politica.
Se il Governo sottoscrive un’intesa, buona o meno buona
che sia, tantopiù dopo il voto di conferma sancito dal referendum, è chiamato a difenderlo in Parlamento attraverso la sua maggioranza. Non è impedito agire per migliorarlo, posto naturalmente che ci siano gli spazi sul
piano politico, negli equilibri parlamentari, per agire in
tal senso. E non mancano certo le questioni sulle quali
quel Protocollo potrebbe o dovrebbe essere migliorato, a
partire dal grande vuoto sul tema della precarietà.
Non ho mai considerato negativamente ipotesi d’impegno dei partiti della sinistra in Parlamento per determinare un miglioramento di quell’intesa, né tantomeno
una sorta di invasione nel campo del sindacato. Tuttavia,
anche se auspicabile, temo che difficilmente ci siano le
condizioni perché questo possa concretamente avvenire.
Aggiungo: credo che abbiano fatto bene i partiti della sinistra che, pur nell’impossibilità di produrre miglioramenti al Protocollo, non hanno fatto venir meno il proprio voto in Parlamento.
Altra cosa è immaginare un percorso che guardi a una prospettiva di medio periodo, nella quale immaginare un’iniziativa sui temi del lavoro, sulla sua legislazione, che provi
a produrre un avanzamento del quadro normativo.
La legge 30 è ancora legge dello Stato. È stata solo marginalmente scalfita dal Protocollo sul welfare. Serve una
prospettiva che guardi a una nuova legislazione, per dare
qualità e stabilità al lavoro, per ridurre i processi di
frammentazione dentro le imprese, per ridare la funzione che gli compete alla contrattazione collettiva.
Questo, insieme al tema dei futuri assetti della contrattazione; la funzione che s’intende assegnare al contratto
nazionale e, più in generale, alla contrattazione collettiva, può fare emergere la prospettiva per il movimento
sindacale. Anche per questa via confermare quell’idea di
sindacato che Di Vittorio definiva attraverso quattro parole fondamentali: «libero, volontario, autonomo e indipendente». 73
74
CESARE MELLONI*
RITORNARE A RAPPRESENTARE IL LAVORO, IN
AZIENDA E NEL TERRITORIO
Premessa
Si pone oggi, con la forza dirompente dei fatti, la necessità di una nuova strategia rivendicativa per il sindacato
confederale, a partire da una presa d’atto della «crisi di
efficacia della contrattazione collettiva». Le stesse funzioni della rappresentanza, così come si sono fin qui configurate, sono entrate in una fase di crescente difficoltà.
Le considerazioni che seguono si soffermano, in particolare, su alcuni elementi analitici riguardanti la crisi della
contrattazione collettiva.
L’ipotesi di lavoro di queste note scommette sulla possibilità di un nuovo compromesso fra le ragioni del capitale e le ragioni del lavoro. Nuovo, perché lascia alle proprie spalle il compromesso dell’epoca fordista, e, però,
non rinuncia a rappresentare il lavoro come soggetto autonomo oltre le differenze di condizione, di professionalità, di cultura, di nazionalità.
Delocalizzazione delle imprese = deterritorializzazione delle funzioni di comando
F. Garibaldo, citando Harrison, a sua volta specifica una
descrizione del «paradigma emergente della produzione»
come un «processo di verticalizzazione e parallelizzazione.
Intendo dire che le imprese per un verso si verticalizzano
per un altro verso si paralellelizzano, si decentrano. Si verticalizzano perché c’è una verticalizzazione di tutte le funzioni strategiche, che emigrano il più alto possibile nella
* Segretario generale Cgil di Bologna
struttura della rete, dall’altra parte si ha la parallelizzazione delle funzioni di tipo manifatturiero».
Questa citazione descrive efficacemente la profondità dei
cambiamenti in atto che vengono amplificati e accelerati
dal processo di finanziarizzazione dell’economia che agisce sempre di più, a livello di impresa, con l’«obiettivo
principale del management [che] consiste nel fare salire
la quotazione di borsa di un determinato titolo azionario» (Gallino). Detto in altri termini cambia il rapporto
fra attività caratteristica di una determinata impresa, generatrice di profitti e le aspettative di rendimento finanziario di un titolo azionario nel gioco di borsa.
Le seconde non sono più una derivata lineare dei primi,
ma tendono ad autonomizzarsi fino al punto di retroagire – a volte – pesantemente sull’attività caratteristica
d’impresa. Basti ricordare i casi Parmalat, Cirio, Enron e
un altro lungo elenco di imprese collassate dalle logiche
proprie della finanziarizzazione che arriva a rendere endemico il conflitto di interessi di controllati e controllandi nella governance di imprese e nel sistema finanziario-borsistico.
DOSSIER SINDACATO
Dunque siamo di fronte a un mutamento radicale del paradigma di funzionamento delle imprese, dove la frammentazione dei cicli produttivi, attraverso i processi
combinati di delocalizzazione di stabilimenti e di esternalizzazione di funzioni aziendali, è esattamente l’altra
faccia dei processi di concentrazione del potere economico delle imprese.
La delocalizzazione diviene perciò sinonimo di deterritorializzazione, cioè di rescissione dei legami storici costruiti dalla impresa con il luogo in cui essa si è formata e
sviluppata. Si allontanano i centri di decisione e dunque
si indebolisce il gioco politico che, nei passaggi di crisi,
dava forza all’alleanza fra sindacati e poteri locali per interloquire con le scelte di imprese.
Lo spiazzamento dei sistemi nazionali di regolazione
sociale
La linea guida che attraversa e unifica nella stessa logica
i sistemi nazionali di regolazione sociale si potrebbe
riassumere nella affermazione della centralità dell’impresa, nelle politiche economiche degli Stati nazionali, a
cui corrisponde l’imperativo della competizione globale
come strategia a cui uniformare l’insieme degli strumenti giuridici, economici e sociali disponibili.
Il bersaglio principale, preso di mira in tutti i Paesi europei dalle imprese globali, con il sostegno delle associazioni d’impresa, è però il contratto nazionale di lavoro,
come forma di definizione pattizia del sistema di relazioni industriali. Nella logica della impresa globale il contratto nazionale di lavoro rappresenta una rigidità, un limite, al pieno dispiegarsi di una logica di competizione
d’impresa che, senza quello strumento, può arrivare a
mettere in concorrenza fra loro lavoratori di aree territoriali differenti e poi differenti sistemi-aree, disposti a
quel punto a tutte le facilitazioni pur di attuare nuovi insediamenti di impresa.
L’indebolimento del contratto nazionale di lavoro è avvenuto in tutti i Paesi europei che disponevano di quello
strumento, attraverso un uso spregiudicato proprio delle
forme della delocalizzazione d’impresa.
In alcuni casi la delocalizzazione è stata giocata come
secca sostituzione di attività svolte in un determinato territorio; in altri casi come scelta di investimento per lo sviluppo fatto altrove.
Il ruolo del contratto nazionale viene poi messo in discussione dalla revisione delle legislazioni nazionali in
materia di diritto del lavoro, nonché dai ripetuti interventi di direttive europee (ad esempio sui contratti a termine e sugli orari di lavoro) su materie lavoristiche.
Nel nostro Paese il tentativo più organico e coerente in
questo senso ha preso corpo nella Legge 30/2003 sul
mercato del lavoro. È la forma stessa del contratto collettivo che viene messa in discussione, a partire da quello
che viene considerato il punto d’arrivo del processo di
deregolamentazione contrattuale: l’individualizzazione
del rapporto di lavoro.
Le «nuove» relazioni industriali
A livello di impresa il ruolo sindacale viene messo al
margine delle funzioni regolative del rapporto di lavoro
(formazione, inquadramento professionale, orari di lavoro, permessi, salario ecc.), che passano alla gestione
diretta azienda-singolo lavoratore. L’organizzazione del
lavoro interna all’impresa si fonda sempre più su schemi
basati sul rapporto individuale (la cui forma, come abbiamo visto, è incentivata dallo sviluppo in chiave liberista del diritto del lavoro), magari mediati dalla logica di
gruppo di lavoro (nelle diverse funzioni aziendali), che
funziona come presa in carico e gestione di problemi di
funzionamento di un determinato reparto e di problemi
individuali del lavoratore. In realtà il vincolo competitivo viene fatto valere anche all’interno dell’organizzazione aziendale poiché si richiede, in primo luogo, l’adesione ai valori dell’azienda, al suo «marchio», anche a
costo di allentare il rapporto di solidarietà fra lavoratori
della stessa azienda, oltre che di aziende diverse (e magari concorrenti). Le forme attraverso le quali questo
processo di «individualizzazione» viene attuato prevedono l’adozione di una ampia strumentazione, che può
variare seguendo la gerarchia top-down della scala parametrale. Così nelle funzioni tecnico-gestionali-dirigenziali si possono prevedere, per alcuni ambiti, lavori di
gruppo e condivisione di obiettivi-responsabilità (con i
relativi risvolti remunerativi e/o di status inclusi determinati servizi: mutua, asili, circoli aziendali ecc.); mentre, scendendo di livello, nelle linee più operative-esecutive può esserci una parcellizzazione delle mansioni di
tipo taylorista.
Ma i moduli di riorganizzazione delle imprese possono
giungere fino alla segmentazione del ciclo che può essere
affidato per alcune sue parti a imprese giuridicamente diverse, che utilizzeranno, per mansioni prima inserite pienamente nelle funzioni aziendali, lavoratori alle proprie
dipendenze (cui verranno applicati condizioni e trattamenti differenti rispetto a quelli adottati nella azienda). È
ciò che si chiama outsourcing interno, che va quindi ad aggiungersi al più noto e praticato outsourcing (o terziarizzazione-esternalizzazlone di funzioni aziendali).
75
76
Ipotesi per un sindacalismo all’altezza del nuovo scenario: per un nuovo compromesso fra capitale e lavoro
È cambiato il contesto geopolitico in cui si svolgevano le
relazioni sindacali, con la crisi della dimensione degli
Stati nazionali come spazio determinato entro cui giocavano gli attori sociali. È cambiato il paradigma produttivo e finanziario con la deterritorializzazione delle logiche
di funzionamento delle imprese globali.
Questi due fatti hanno determinato la crisi definitiva
della forma «big businnes – big union» che aveva caratterizzato il compromesso «fordista» del capitalismo occidentale. I rapporti di forza fra capitale e lavoro si sono
spostati a favore del primo con l’avvento della logica della
«deregulation» come linea guida del neo-liberismo.
Come si è visto la «deregulation» ha riguardato con la
stessa forza sia l’arretramento delle protezioni sociali dei
sistemi di welfare, come le forme di contrattazione collettiva a livello dei singoli Stati.
Per tornare al ruolo fin qui svolto dai contratti nazionali di
lavoro, oggetto in questi anni di ripetuti tentativi di ridimensionamento, è evidente che il rilancio del loro significato e della loro efficacia regolativa è affidato alla loro
evoluzione verso il contratto europeo. In questa prospettiva si pone al sindacato il problema di procedere a un accorpamento fra grandi aggregati di categoria (es.: industria, terziario, servizi pubblici, ecc.) capaci di dare luogo
a una semplificazione contrattuale cui fare corrispondere
una struttura di categoria capace di ricomprendere le
nuove filiere produttive internazionalizzate in una forma
organizzativa tendenzialmente unitaria.
Si potrebbe, così, sia pur nel medio periodo, superare una
situazione, come l’attuale, nella quale le differenti regolazioni vengono giocate dalle imprese in una logica di dumping contrattuale che segmenta e divide – contrapponendoli fra loro – i lavoratori dei diversi Paesi. Gli stessi C.a.e.
(Comitati Aziendali Europei) presenti nelle imprese europee (cioè con stabilimenti collocati in diversi Paesi dell’Unione), da organismo puramente consultivo, quale sono
oggi, potrebbero evolvere – dentro un nuovo quadro regolativo e organizzativo –, a un ruolo di tipo contrattuale. Al
tempo stesso per il Sindacato si pone di nuovo il problema
di ricostruire un legame sociale fra lavoratori, superando la
frammentazione delle situazioni lavorative (impresa a rete
e la lunga «sequenza» delle filiere produttive e di servizio)
con una qualità nuova della contrattazione di tipo aziendale, capace di ricomporre nelle piattaforme rivendicative i
processi produttivi al di là delle forme giuridiche e organizzative assunte dalla nuova impresa globale.
In sostanza non c’è alternativa, almeno per chi scrive, al
collegamento fra un rinnovato ruolo sindacale e una presa
reale sui processi di lavoro dove essi si svolgono, cioè il
luogo di lavoro. Nello stesso tempo occorre cogliere anche
la dimensione sociale che ha assunto la condizione lavorativa. Su di questa, infatti, insistono temi come la formazione professionale, la situazione alloggiativa, la dotazione di
welfare che appartengono all’ambiente sociale di un determinato territorio. Da questo punto di vista stabilire un
rapporto fra la contrattazione sul luogo di lavoro e la iniziativa sindacale nel territorio su questi temi, può allargare la
capacità di rappresentanza sociale e aumentare la presa del
ruolo sindacale sulle determinanti sistemiche dello sviluppo a livello di territorio.
In estrema sintesi, a fronte del progressivo esaurirsi del
ruolo economico, sociale e istituzionale degli Stati nazionali a favore di nuovi spazi o macro-aree (Europa – Medio
Oriente – Estremo Oriente – America Latina, Nord America…), occorre disporre l’agire sindacale in questa nuova
dimensione sollecitando il passaggio di tali spazi da aree
di scambio a nuove entità istituzionali e politiche di tipo
federativo. E questo è un corno del problema che ha come
oggetto la ricostruzione di relazioni industriali nel tempo
della globalizzazione. L’altro corno, ovvero l’altra faccia
dello stesso problema è quello di recuperare la capacità,
da parte del sindacato, di rappresentare le molteplici dimensioni assunte dal lavoro (contenuti, modalità, tempi,
percezione di sé e proiezioni sociali del lavoro) laddove
esso realmente si svolge: azienda e territorio. In mezzo c’è
una transizione da percorrere combinando in modo «intelligente» difesa e innovazione delle politiche e degli
strumenti di azione sindacale. DOSSIER SINDACATO
77
NICOLA NICOLOSI*
DOVE VA LA CGIL?
In uno scritto di Aris Accornero del novembre del 1971
sulla fondazione del rapporto sindacato-partito, l’autore
tratta i diversi approcci adottati dal movimento operaio
di tradizione socialista sulla questione.
Ne emergevano tre modelli di riferimento: 1) della socialdemocrazia tedesca, imperniato sulla «alleanza» fra
sindacato e partito operaio; 2) dell’anarco-sindacalismo
francese, incentrato sulla separazione tra sindacato e
partiti; 3) dell’esperienza del comunismo sovietico, dove
la dipendenza del sindacato dal partito unico ha lasciato
tracce marcate.
Il primo dei tre modelli continua ancora, seppur con gli
aggiustamenti storici; gli altri due sono stati cancellati
dalla storia e dalla competizione tra il sistema capitalista
e le esperienze del socialismo reale.
Va precisato che altri modelli si sono articolati nello scenario europeo: quello britannico e quello italiano.
La variante britannica vede il sindacato stesso che si fa
partito, con la creazione e il finanziamento di una formazione politica di orientamento lavorista. La legge elettorale britannica maggioritaria e uninominale spinse il
sindacato a sostenere propri candidati nei diversi collegi
elettorali. Oggi, seppur con forme diverse e meno strutturate, questo rapporto si mantiene vivo e non esclude
conflittualità tra rappresentanza politica e sociale.
Il caso italiano ha una propria particolarità e ha rappresentato una vera novità nel panorama delle esperienze sindacali in Europa. L’Italia, ieri come oggi, è il Paese del plura-
* Coordinatore nazionale «Lavoro e Società»
lismo sindacale. Questo ha permesso di uscire dagli schemi
rigidi dell’esperienza socialdemocratica e sovietica.
Lo stesso movimento operaio nazionale si è via via allontanato dagli schemi descritti dalla fine degli anni Cinquanta e non ha più considerato quella direzione politica
e sindacale confacente al caso italiano.
Lo storico Adolfo Pepe, in merito al rapporto partito –
sindacato, sostiene che il caso italiano «ha avuto una
evoluzione caratterizzata dalla particolare situazione politica e organizzativa della classe operaia, nel quadro di
uno sviluppo industriale intensivo e selettivo che approfondì tutte le caratteristiche sociali dello Stato unitario».
Ovviamente questo pensiero era legato al processo crescente dell’organizzazione industriale del lavoro che ha
accompagnato l’Italia fino alla metà degli anni Settanta
come paradigma dello sviluppo e della redistribuzione
sostenuta dalle lotte sindacali su salario, orario di lavoro,
politiche sociali e welfare. Azione sindacale e politica che
78
ha garantito la maggiore redistribuzione a favore della
classe lavoratrice. Questo è successo nel secolo scorso e
prima del processo di globalizzazione neoliberista.
Nella fase attuale siamo a ridefinire la nostra missione
come movimento sindacale e come rappresentanza di interesse.
La Cgil è la più importante organizzazione sindacale italiana, non solo per numero di iscritti, ma per storia, radicamento nel Paese e nella società, per la forza simbolica che
rappresenta, per il sentimento di giustizia sociale che persegue e per le conquiste fatte dal mondo del lavoro nei suoi
cento anni di storia. La Cgil ha risolto il problema della relazione sindacato – partito con la fine delle componenti di
partito (congresso 1991) almeno formalmente.
Tuttavia la questione ha attraversato tutto il secolo scorso
e con forme e intensità diverse si ripropone anche in
questi primi anni del nuovo millennio. Vale ricordare
che, dopo il ventennio fascista, il sindacato venne rifondato direttamente dai tre partiti di massa (comunista, socialista, democristiano) e le designazioni alle cariche direttive avvenivano su loro mandato.
Si potrebbe sostenere, a ragione, che l’unità sindacale
era la sintesi dell’unità dei tre partiti. Argomento che si
ripeterà negli anni Settanta nella fase della politica di
«Unità nazionale».
Quella stagione politica si caratterizza con la proposta del
Pci del compromesso storico, dopo una fase di lotta che
aveva visto un grande protagonismo sociale e politico ai
vari livelli.
Studenti, figli di operai, impiegati, cittadini impegnati
nei quartieri, nelle scuole, nell’associazionismo vario,
nel movimento delle donne. Fase storica segnata negativamente dall’emergere del terrorismo, sconfitto anche
dall’azione compiuta dalle Istituzioni delle Repubblica e
dal movimento operaio.
Oggi si ripropone, con natura diversa, la questione. Non
ci sono più i partiti di massa che hanno garantito nelle
due fasi analizzate la lotta al fascismo e al terrorismo e
non c’è più il quadro di riferimento internazionale caratterizzato dal bipolarismo tra le due potenze nucleari, Usa
e Urss. Inoltre, a parere di alcuni dirigenti della Cgil, la
fase di evoluzione che ha portato alla nascita del Partito
Democratico fa venire meno quegli aspetti di divisione
che hanno determinato la scissione del ’48 con Cisl e Uil.
Da più parti viene posta la domanda: «dove va la Cgil?» La
risposta non può che essere articolata, e provo a esprimere
il mio punto di vista. La Cgil, con le politiche espresse in
questi ultimi decenni, mantiene un profilo politico che la
distingue dalle altre confederazioni, a partire dal suo essere Confederazione Generale. In questo richiamo c’è l’im-
pegno a rappresentare socialmente e politicamente il
mondo del lavoro e a elevarlo a protagonista della politica.
C’è tutto il sentimento unitario, classista e plurale, dove il
principio di libertà sindacale si accompagna alla necessità
del mandato di rappresentanza che viene conferito dalle lavoratrici e dei lavoratori. Inoltre agli iscritti è garantito il
diritto di critica con la parola, lo scritto, e ogni altro mezzo
di diffusione. Sono alcuni aspetti che differenziano la Cgil
da altre esperienze confederali.
Il cammino intrapreso dal nostro sindacato con gli ultimi
congressi, e in particolare con quello di Rimini del 2006,
avviene nel mezzo di profonde inquietudini e trasformazioni della società italiana.
Dalla politica all’economia, alla globalizzazione, le mutazioni – repentine ed esponenziali – impongono nuove vie
da percorrere e nuovi compiti da assumere. Con la convinta riaffermazione dei valori sociali, di equità e di giustizia
propri del movimento sindacale. L’autonomia della Cgil,
valore più che mai attuale, va accompagnata con una capacità progettuale che ne rafforzi la democrazia interna, il
pluralismo, la capacità di ascolto, il far contare sempre più
i lavoratori anche nelle scelte dei gruppi dirigenti. A questo si riferisce la ormai decennale presenza della nostra
area programmatica Lavoro Società perché parte della storia
della Cgil e articolazione radicata del confronto democratico nella Confederazione Generale del Lavoro. DOSSIER SINDACATO
FRANCESCA RE DAVID*
DALLA FIOM UN CONTRIBUTO IN TEMA
DI DEMOCRAZIA E MODELLO SINDACALE
Il dibattito che si è aperto in Cgil dopo la consultazione
delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei
pensionati sul Protocollo sul welfare firmato da Cgil, Cisl e
Uil, dalla Confindustria e dal Governo, non è estraneo alla
riflessione sul modello sindacale e di rappresentanza sociale, la cui necessità di innovazione è posta al centro della
Conferenza di organizzazione per una rinnovata confederalità che la Cgil ha in programma nei primi mesi del 2008.
Le trasformazioni in atto nelle relazioni sociali stanno producendo effetti importanti riguardo all’iniziativa sindacale
e politica che investe il nostro Paese: l’avvio del confronto
sulla riforma della struttura contrattuale; le difficili trattative in corso per il rinnovo di importanti contratti nazionali,
in particolare quello dei metalmeccanici; il rapporto fra
rappresentanza sociale e rappresentanza politica la cui delicatezza è resa evidente dai processi di scomposizione-ricomposizione che investono i partiti; la relazione fra concertazione e sovranità del Parlamento, che proprio la trasformazione in legge del Protocollo sul welfare ha
prepotentemente posto all’ordine del giorno.
È utile soffermarsi sul primo punto per riflettere non
tanto sul merito di quell’accordo, quanto sulle questioni
relative alla democrazia sindacale, che interferiscono
chiaramente rispetto al modo in cui la Cgil intende stare
dentro una fase così delicata dando peso all’autonomia
della rappresentanza sociale.
Il direttivo della Cgil del 21 e 22 ottobre ha infatti deciso di
avviare una fase di discussione che coinvolge tutte le catego* Responsabile organizzazione Fiom – Cgil
rie e tutte le strutture confederali, a partire dall’esperienza
della consultazione sul Protocollo. La Fiom non ha condiviso che al centro della riflessione fosse posto il voto di non
approvazione dell’accordo confederale espresso dal Comitato centrale, riconoscendo però la necessità di ragionare
collettivamente su di un sistema di regole che garantisca
trasparenza e partecipazione alle decisioni dei lavoratori,
dei pensionati e dei gruppi dirigenti, reso più urgente dal
salto di qualità nei rapporti unitari fra Cgil, Cisl e Uil.
La Fiom ha fatto da anni della democrazia di rappresentanza, e quindi del vincolo al voto delle lavoratrici e dei
lavoratori sulle piattaforme e sugli accordi tramite il referendum, il cuore della propria iniziativa: è un aspetto
di rilevanza assoluta per un sindacato che vuole esprimere l’autonomia del punto di vista del lavoro, soprattutto
in un’era in cui il conflitto capitale-lavoro si inscrive
dentro i processi innescati dalla globalizzazione liberista,
per cui il dominio della finanza e la concorrenza fra imprese nel mercato mondiale stanno producendo una subordinazione degli Stati all’idea che solo la crescita del
profitto garantisce il bene comune. Questo provoca disuguaglianza nella considerazione delle ragioni delle lavoratrici e dei lavatori rispetto a quelle dell’impresa.
È quindi naturale per la Fiom considerare fondamentale
lo strumento del referendum, che è anche garanzia di
unità sindacale in quanto al di là delle valutazioni dei
gruppi dirigenti, vincola le organizzazioni al rispetto del
voto delle persone cui quegli accordi si applicano. La definizione di un sistema di regole sul referendum di andata e di uscita ha consentito infatti a Fim, Fiom e Uilm di
riprendere il percorso unitario dopo la difficilissima fase
degli accordi separati per il contratto nazionale dei metalmeccanici che ha segnato i primi anni del 2000.
La prima stranezza nella discussione in Cgil deriva perciò
dal fatto che questa si sia aperta dopo il voto, che ha consegnato un larghissimo consenso ai sì all’accordo; i metalmeccanici lo hanno respinto con una percentuale di no superiore al 52%; ma essendo un referendum confederale,
come è ovvio il risultato generale è vincolante per tutti.
La seconda stranezza deriva dal fatto che gran parte della
discussione abbia ruotato intorno alla legittimità o meno
del voto del Comitato centrale della Fiom, che ha ovviamente preceduto tutta la campagna referendaria, e che fra
l’altro ha vincolato esplicitamente la Fiom a rappresentare
nelle assemblee il punto di vista confederale, senza fare
una campagna di informazione o appelli al voto per il no all’accordo. Come si fa infatti a sostenere che non è legittimo un voto negativo da parte di una struttura sindacale,
mentre invece è legittimo un voto positivo, come avvenuto
in altre sedi o in altre occasioni? La questione che andava
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posta in premessa alla consultazione semmai poteva essere relativa alla legittimità o meno per tutti gli organismi dirigenti di esprimersi formalmente rispetto a un accordo
già approvato dal massimo organismo, il comitato direttivo della Cgil. Ma anche questo tema richiama la necessità
di impostare un sistema complessivo di regole per dare
ancora più valore al referendum nel caso di consultazione
confederale unitaria, non sciupando questo strumento di
democrazia fondamentale riducendo il suo esito ogni volta
a uno pseudo congresso. Sistema di regole che esiste nello
statuto della Cgil per la consultazione promossa dalla sola
Cgil verso i suoi iscritti, che esiste fra i metalmeccanici per
accordo Fim, Fiom, Uilm, ma che non esiste per gli accordi unitari confederali. E allora le questioni da affrontare
sono: come garantire a chi vota la massima informazione
condivisa da tutti sui contenuti dell’accordo; come permettere a chi dissente di far conoscere il proprio punto di
vista senza che questo sia vissuto come uno strappo; come
definire la platea di chi partecipa al voto per dare maggiore autorevolezza al risultato: nei metalmeccanici, ad esempio, votano sul contratto tutte le aziende in cui si fanno le
assemblee per presentare la piattaforma, cioè tutte le
aziende in cui è presente almeno un sindacato, e quella
platea serve da riferimento per calcolare il quorum del referendum di approvazione dell’accordo.
È urgente porsi il problema di dare regole condivise nel
rapporto fra i gruppi dirigenti del sindacato, con lavoratrici, lavoratori, pensionate, pensionati. Infatti la soluzione
alle questioni connesse alla democrazia di rappresentanza
chiama il tema della natura del sindacato, su cui in tutta Europa ci si interroga, scontando una crisi di rappresentanza
evidente soprattutto nell’industria. Infatti è proprio nei
luoghi dove le merci si producono che si fa più acuto lo
scontro fra capitale e lavoro, che passa attraverso un oscuramento del lavoro manifatturiero di cui sono spia evidente i bassi salari, l’inaridimento dello Stato sociale, insieme
all’affermazione del tutto infondata della sua residualità. Se
non ci si vincola in modo chiaro e sempre più forte alle lavoratrici e ai lavoratori, trasformando in forza collettiva le
loro ragioni attraverso il sindacato, e quindi la contrattazione e il conflitto sociale, si lascia spazio al punto di vista
delle imprese che affermano come nella concorrenza globale l’unico modello possibile sia quello corporativo. Ciò
significa che il destino del singolo è legato all’andamento
dell’impresa in cui lavora, rompendo ogni solidarietà fra
lavoratrici e lavoratori, subordinati all’andamento del profitto della propria azienda. Questo intende Montezemolo
quando chiama i lavoratori «i miei collaboratori»; questo
sottintendono tutti coloro che pensano a una nuova struttura contrattuale in cui il contratto nazionale si fa sempre
più leggero e l’eventuale crescita del salario viene legata alla
redditività di impresa, con effetti più devastanti nell’arco
del tempo delle stesse gabbie salariali. Dentro questo schema, gli effetti sulle condizioni di lavoro, sugli orari, sulla
precarietà sarebbero segnati.
Darsi regole di democrazia in grado di contenere le differenze, di ascoltare, di dare valore a chi vogliamo rappresentare, è l’antidoto fondamentale per affrontare una fase così
complessa: non si può cedere alla tentazione di semplificare, perché la situazione è complessa e l’attacco al lavoro è
andato molto avanti, come dimostrano la durezza dei rinnovi contrattuali anche quando le imprese sono in una fase
di grande espansione del profitto; è necessario riaffermare
un modello di convivenza che rovesci la centralità, dalle
compatibilità finanziarie alle compatibilità sociali,
In Italia, il sindacato confederale ha saputo più che in
altri Paesi mantenere la rappresentanza proprio per il
suo essere sindacato generale, orizzontale e di categoria,
con la pretesa di intervenire dentro i luoghi di lavoro e
per ciò stesso essere portatore di un progetto di società
fondato sulla ricerca della giustizia sociale. La sinistra, in
Italia e in Europa, non è stata in grado fino a oggi di dare
una adeguata rappresentanza politica al lavoro nello
scontro di poteri in atto; per provarci, anch’essa, ha bisogno di un sindacato autonomo, indipendente dai padroni e dai governi, come la Fiom sostiene fin dal 1996.
Preservare questo punto di vista è di vitale importanza per
negare spazio a una visione corporativa delle relazioni sociali, dove non si distinguono più le differenze di campo,
e quindi non c’è più spazio alla mediazione di interessi diversi; dove i ruoli si confondono sovrapponendo il valore
dello strumento della concertazione fra le parti sociali e il
governo e le prerogative del Parlamento, tema su cui la
Cgil ha sempre posto la massima attenzione.
Il confronto che si sta aprendo sulla riforma della struttura contrattuale sarà per tutti un banco di prova fondamentale, perché segnerà il modello di relazioni sociali
per i prossimi anni. Le regole per l’esercizio della democrazia nell’assunzione delle decisioni, il referendum
delle lavoratrici e dei lavoratori sulla piattaforma e sull’accordo sono perciò assolutamente centrali.
La grande partecipazione al voto sul Protocollo sul welfare è un fatto importante; la scelta della Fiom su come
stare dentro quella consultazione ha avuto il grande merito di porre all’ordine del giorno la questione della natura del sindacato, a partire dalla democrazia; l’errore più
grave sarebbe infatti compiere scelte fondamentali senza
soffermarsi fino in fondo a discuterne il significato.
Questo è il compito che impegna tutte e tutti. E questo è
il confronto che serve alla Cgil. DOSSIER SINDACATO
81
TIZIANO RINALDINI*
A PROPOSITO DI AUTONOMIA
E INDIPENDENZA DEL SINDACATO
Senza il tentativo di affermare il principio della solidarietà tra lavoratori come interesse comune distinto dall’interesse di chi li utilizza e li vorrebbe in concorrenza
(in guerra) fra di loro, il sindacato non sarebbe mai nato.
Gli stessi sindacati di mestiere, pur nei loro limiti corporativi, nacquero per affermare questo principio.
Il tema si ripropose con il sindacato industriale e la tensione tra i suoi sviluppi in alternativa verso il sindacato
generale oppure verso il sindacato di mercato aziendalistico o al massimo settorialistico. In genere oggi si dimentica tutto ciò, come ad esempio testimonia la significativa confusione che spesso si fa tra sindacato di settore
e sindacato di categoria.
La questione non si pone solo sul piano della forma dell’organizzazione e delle sue delimitazioni interne, ma innanzitutto sul piano della concezione del sindacato.
Come dimostra l’attuale situazione, strutture di categoria
possono essere portatrici di una concezione di sindacato
generale, mentre l’opposto può avvenire da strutture
confederali.
Comunque la tensione tra questi due opposti sviluppi del
fare sindacato ha per lungo tempo accompagnato le vicende storiche del movimento sindacale. In Europa in particolare, e nel nostro Paese, grande forza e importanza ha avuto
la concezione del sindacato come sindacato generale.
Ora, è proprio su questo punto che la situazione pare
chiudersi con l’affermazione di una quadro che costringe
* Sindacalista Cgil Emilia Romagna
82
il fare sindacato nella dimensione della subalternità al
mercato così com’è.
È mia convinzione che qui si situi il nodo decisivo per la
riflessione sull’autonomia e l’indipendenza del sindacato (che coinvolge anche il futuro della sinistra).
Spesso si è fatto scandalo in questi anni per il termine
indipendenza, con cui la Fiom in particolare ha voluto
rappresentare il problema.
Faccio notare che il termine fu abbondantemente usato
nell’immediato secondo dopoguerra da Di Vittorio (senza
suscitare particolari scandalizzate reazioni) a ulteriore dimostrazione dello straordinario spessore di dirigente sindacale di un compagno che non a caso aveva le sue radici
all’interno delle esperienze plurali del nascente sindacalismo italiano della prima parte del secolo.
In realtà però le reazioni oggi sono comprensibili alla
luce del fatto che il termine indipendenza assume un significato inequivocabile rispetto al quadro della situazione con cui ci confrontiamo; rinvia alla condivisione o
meno di un’analisi della situazione attuale e a scelte davvero e radicalmente innovative, anche rispetto a importanti aspetti della storia passata.
Nel porre la questione il riferimento è ad alcune considerazioni sullo stato delle cose che ovviamente possono
non essere condivise; in questo caso però si spera che lo
si voglia e sappia argomentare con analisi verificabili.
La prima considerazione si riferisce alle caratteristiche
strutturali (non solo politiche e culturali) del modello
produttivo economico e finanziario che si è imposto con
il capitalismo degli ultimi decenni; un modello la cui
struttura non ammette un vincolo sociale, e che in particolare non considera il lavoro come potenziale portatore
di un diverso punto di vista rispetto al capitale, lo riduce
a pura merce, dal diritto del lavoro al diritto commerciale, fattore di produzione, risorsa umana, non più lavoratori ma collaboratori.
Il tentativo dei lavoratori di aprirsi uno spazio autonomo
attraverso il fare sindacato entra immediatamente in
contrasto con questo modello; quando va bene porta a
forme di resistenza, quando va male soccombe.
La seconda considerazione è che a fronte di questa radicalità alternativa, per il fare sindacato non è possibile
rinviare a una dipendenza da una idea alternativa di società, di modello sociale, politico ed economico di cui
altri dall’esterno del sindacato siano portatori.
L’esperienza storica che abbiamo alle spalle ha, credo irreversibilmente, consumato le ipotesi su ciò costruite.
È su queste considerazioni che si fonda il riscontro della
gabbia in cui oggi si trova il sindacato rispetto alla sua decisiva necessità di essere promotore di contrattazione
collettiva sulla condizione di lavoro (non certo propaganda o semplice subalternità adattiva) e nel contempo
quindi di poterla configurare come affermazione, seppur
parziale, di un punto di vista autonomo rispetto al capitale. Discende da questo la ineludibilità del problema della
indipendenza come unica possibilità rispetto alla deriva
verso il sindacato di mercato (cioè di questo mercato); da
questo derivano i connotati fondamentali a cui oggi il
termine indipendenza rinvia.
Innanzitutto misurarsi su questo terreno richiede una
scelta di radicalità democratica rispetto al rapporto tra lavoratori e lavoratrici e organizzazioni sindacali: il riconoscimento di fatto (e quindi anche di forma) ai lavoratori e
alle lavoratrici della titolarità sulle richieste che si presentano alle controparti e degli accordi che li riguardano.
I lavoratori e le lavoratrici non sono oggetti da consultare,
ma soggetti che vanno messi nelle condizioni di decidere
secondo forme adeguate e vincolanti per le organizzazioni.
Nel contempo si pone per il sindacato il problema di costruire ed essere portatore di una idea propria (indipendente) di società, di modello sociale ed economico, alternativa a quella che si è affermata, e quindi un’idea che
oggi in primo luogo si proponga di riaprire spazio al soggetto sociale a nome del quale esiste il sindacato stesso,
renda cioè non incompatibile con l’esistente il conflitto
sociale, la possibilità di affermare un punto di vista altro
rispetto a quello del capitale, la dialettica e la democrazia,
la possibilità di non considerare l’attuale realtà come
l’unico orizzonte e di perseguire l’obiettivo fondamentale della giustizia sociale.
È questa la sponda che rende credibile la volontà di rafforzare la necessaria contemporanea capacità di promuovere e sostenere lotte, iniziative, rivendicazioni che
rifiutino ai vari livelli la segmentazione, frantumazione e
divisione su cui oggi il modello che si è imposto tenta di
schiacciare una soggettività solidale dei lavoratori.
Qualsiasi seria riflessione sul futuro del sindacato e tanto
più sulla riapertura di processi di unificazione sindacale
DOSSIER SINDACATO
partono da questi problemi, diversamente sono destinati a
costruire sulla polvere, anzi sulle ceneri, sempre più appiattiti su un piano di adeguamento a una realtà che nega il
lavoro e quindi le classi; considera il lavoro puro strumento di valorizzazione del capitale, al massimo da prendere in
esame fuori dal lavoro come mercato del lavoro.
Per quanto poi riguarda la Cgil in particolare sarebbe la
fine della sua storia, di sindacato generale e di classe (tra
i due termini, come è noto, per la storia della Cgil il legame è inestricabile e indissolubile).
Uno sguardo più ravvicinato alla realtà con le ultime vicende ci può aiutare a chiarire e a verificare questa traccia di riflessione più generale. A fronte di un governo che per la
prima volta nel nostro Paese (a parte la particolare esperienza dell’immediato secondo dopoguerra), vede presenti
tutte le forze di sinistra, la caduta di autonomia del sindacato, non più al coperto di una autorità politica esterna e
superiore, assume una evidenza clamorosa, così come
l’evidente carattere arbitrario a cui si trova esposto l’utilizzo di procedure democratiche modulate a seconda delle
contingenti convenienze dei gruppi dirigenti per tutelarsi
rispetto a chi al proprio interno dissente. Gli effetti, non a
caso, sono particolarmente gravi per la Cgil.
Vorrei qui ricordare che sino a poco tempo prima della
notte del Protocollo sul welfare la Cgil sosteneva che per
aprire una trattativa era indispensabile una proposta del
Governo condivisa dal Governo nel suo insieme; solo
successivamente il sindacato avrebbe precisato le sue posizioni, che comunque sarebbero passate attraverso una
verifica democratica prima della stretta finale.
Dopo aver lasciato trascorrere molti mesi senza alcuna
mobilitazione generale, tranne quelle di alcune sue parti
come la Fiom, con una rapidissima svolta la Cgil ha chiesto una proposta del solo Presidente del Consiglio (e di
due ben precisi Ministri), l’ha accettata ( a maggioranza)
nonostante la non condivisione della parte di sinistra del
governo e nonostante che non venisse neppure accolta la
richiesta della Cgil stessa di piccole modifiche, ritenen-
dosi ingannata sulla proposta finale.
Dopodiché, insieme a Cisl e Uil, realizzata una consultazione dei lavoratori sulla base di una unica voce («o è così
o è peggio» e ancora «o è così o cade il Governo»), ha assunto una posizione a sostegno di fatto della immodificabilità del Protocollo da parte del parlamento. Insieme a
Confindustria.
Ne è derivato l’oggettivo ricatto nei confronti di quella
parte di sinistra del governo che non era stata chiamata a
condividere la proposta, e ancor di più uno stravolgimento dello stesso strumento della concertazione che ne
introduce una concezione lesiva delle reciproche autonomie di sindacato, forze politiche e istituzioni. Siamo
ben oltre le vicende del 1992 e 1993. Sono situazioni che
possono ripetersi in forme e conseguenze sempre più
gravi, su questioni di ancora maggiore rilievo.
È il caso della ridefinizione della struttura della contrattazione a fronte del dichiarato intento non di renderla
più conforme alla possibilità di un confronto paritario tra
interessi del lavoro e interessi del capitale, ma adattarla a
uno schiacciamento dell’identità lavorativa sulla fortuna
dell’impresa in cui lavora (a sua volta schiacciata sul modello competitivo che si è affermato nel mondo). I lavoratori «premiati» dovrebbero essere quelli che più si
conformano e identificano con le aziende quando queste
hanno risultati di alta redditività; per chi resta tagliato
fuori c’è la prospettiva dei minimi di povertà; quindi,
ben che vada, un passo in avanti verso la perdita di valore del contratto nazionale, e, quando a lorsignori converrà, la sostituzione con la legificazione sui minimi.
Si capiscono chiaramente le posizioni al proposito della
Cisl e Uil, non si capisce con chiarezza la posizione della
Cgil, e comunque, pur essendo ormai nel vivo della vicenda, non appare data alcuna possibilità ai lavoratori di intervenire e decidere prima che il quadro sia compromesso.
Nel frattempo molte cose lasciano pensare che tutto
venga affidato alla leva fiscale del governo, sorvolando
sulle differenze concettuali di fondo (il contratto nazionale, ad esempio, deve permettere redistribuzione al di
là dell’inflazione o no?), dopo che è stata sottoscritta la
scelta del governo di privilegiare con il recente Protocollo il salario nelle aziende purché variabile.
Non solo, ma la questione del risparmio fiscale appare
esplicitamente e totalmente concepita in una logica finalizzata ad allontanare il conflitto sociale nei confronti del capitale, ignorando le conseguenze di questa impostazione
rispetto alle conseguenze sui problemi dello Stato sociale.
D’altra parte sono gli stessi contenuti del Protocollo a testimoniare il piano inclinato in cui il sindacato si trova.
Il limite di quel Protocollo non è tanto rispetto ai risulta-
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ti quantitativi (che pure non sono soddisfacenti), ma rispetto all’assenza di misure di contrasto e contraddizione con la natura dei processi prima descritti di annichilimento degli spazi per una contrattazione collettiva autonoma e solidale. Per alcuni aspetti questa realtà viene
persino rafforzata (incentivazione degli straordinari e
privilegio del salario variabile, ad esempio).
Si arriva al paradosso del caso Vodafone, dove gli stessi
dirigenti sindacali che con fondati motivi spiegano che
non si poteva fare di più con l’accordo realizzato a causa
di quanto la legge 30 ha reso possibile per la «cessione
del ramo di attività di impresa», hanno difeso poche settimane prima il Protocollo che ha lasciato pressoché intoccato questo importantissimo punto di quella legge.
A conclusione di questa nota vorrei che il lettore tornasse alla breve analisi di partenza.
È lì, infatti, che ritengo vi sia il decisivo punto di partenza e la consapevolezza da assumere se si vuole fare i conti
e opporsi credibilmente al quadro con cui ci confrontiamo e aprire una strada a un futuro per il sindacato.
Pare evidente che il problema è tema di interesse politico e democratico generale, vitale per la sinistra; nel contempo la sua dimensione non è solo nazionale, si colloca
in un quadro internazionale, ed europeo in particolare.
Come tale va affrontato.
Le caratteristiche dell’esperienza storica del movimento
sindacale nel nostro Paese dovrebbero favorirne la consapevolezza e il contributo sulle risposte da costruire.
Sarebbe grave e paradossale se accadesse l’opposto. PAOLO SABATINI*
DEMOCRAZIA SINDACALE E MOVIMENTO OPERAIO
Nella storia del movimento operaio il tema della democrazia sindacale, intendendo con essa l’insieme delle regole di
democrazia interna e delle norme previste da leggi e contratti, ha seguito gli alti e bassi che hanno caratterizzato la
lunga storia di questo movimento. Nel corso dello scorso
secolo, caratterizzato da lunghi cicli di lotta tendenti a
emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, migliorare le
condizioni lavorative ed economiche, conquistare i diritti
sindacali, la questione della democrazia sindacale è stata
una costante che ha accompagnato le lotte.
Oggi il tema delle regole e dei diritti sindacali si ripropone
come l’elemento fondamentale per arginare la deriva neo
concertativa e, per molti aspetti, autoritaria, che ha caratterizzato le scelte operate dai vertici delle maggiori confederazioni sindacali nel corso degli ultimi quindici anni.
L’esempio più calzante della regressione raggiunta sul
tema della democrazia sindacale è ben rappresentata dall’accordo interconfederale del 23 luglio 2007 che interviene su vari aspetti della vita lavorativa e, poi, su quella
dei futuri pensionati. Non mi addentro in una analisi
dell’accordo essendo stato ampiamente trattato in questi
mesi, ma ritengo utile soffermarmi sul metodo con cui si
è arrivati alla stipula dell’accordo stesso e, poi, con cui è
stato sottoposto alla votazione dei lavoratori e dei pensionati. La prima cosa che salta agli occhi è che all’accordo di luglio si è arrivati senza alcun mandato da parte dei
lavoratori e delle lavoratrici.
Su temi così importanti quali il welfare e le pensioni, che ri-
* Vice-coordinatore nazionale SdL Intercategoriale
DOSSIER SINDACATO
guardano la totalità del mondo del lavoro, si è fatto un accordo, sottoscritto dai segretari generali confederali, senza
alcuna consultazione preventiva tra coloro che ne subiranno gli effetti, ossia i lavoratori e le lavoratrici. La seconda
riguarda le modalità con cui si è svolta la consultazione
«autocertificata». Il metodo scelto, quello di far illustrare
l’accordo nei luoghi di lavoro vincolando i relatori a sostenere il sì e la presenza dei seggi elettorali delle sole sigle
sindacali che avevano sottoscritto l’accordo e tra queste dei
soli sostenitori del sì, fa gridare allo scandalo. Se questo
metodo fosse stato utilizzato dal presidente Chavez in Venezuela, per far approvare le proposte di modifica alla costituzione venezuelana, nel referendum in corso in questi
giorni, gli stessi firmatari dell’accordo avrebbero gridato
all’attentato alla democrazia e alla instaurazione di una dittatura nel Paese sud americano.
Esempio calzante appunto, ma che segue altri accordi interconfederali che hanno radicalmente mutato la condizione del mondo del lavoro e i rapporti di classe nel nostro Paese. Parliamo degli accordi del ’92 e del ’93 con i
quali si aboliva la scala mobile sulle retribuzioni e si introduceva la «politica dei redditi» e il recupero dell’inflazione determinato dai Ccnl, delle varie riforme del sistema pensionistico (Amato del ’93 e Dini del ’95), ecc.
Gli effetti di tali accordi sono sotto gli occhi di tutti.
Prima di tali riforme, per andare a lavorare, ci si iscriveva nelle liste del collocamento, che avviavano al lavoro
seguendo graduatorie stabilite con criteri oggettivi, il lavoro era tutelato da una forte presenza dei delegati di reparto oltre che da norme garantiste, si percepiva una retribuzione in grado di garantire il potere di acquisto per
mezzo dei rinnovi dei Ccnl e della contrattazione aziendale e con un sistema di indicizzazione delle retribuzioni
(scala mobile) che scattava automaticamente ogni qualvolta vi era un aumento dell’inflazione. Infine si andava
in pensione con 35 anni di contributi con un importo
corrispondente all’80% dell’ultima retribuzione che,
essendo agganciata al Ccnl, veniva adeguata automatica-
mente a ogni rinnovo contrattuale.
Oltre a queste forme di diritti e di retribuzioni dirette vi
erano ulteriori forme di tutele esterne al luogo di lavoro
quali ad esempio le case di edilizia popolare, una sanità e
scuola pubblica più efficienti e meno costose, un servizio
di trasporto pubblico meno costoso e più esteso ecc. Insomma le lotte degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta
ci consegnarono un Paese in cui i rapporti di forza erano
più favorevoli al mondo del lavoro che aveva certezze
normative, di vita e salari in crescita. Oggi la situazione,
come sappiamo, è totalmente mutata. Per trovare un lavoro, precario e mal retribuito, occorre la raccomandazione, le retribuzioni sono ben lontane dal salvaguardare
il potere d’acquisto, gli anni lavorativi per andare in
pensione sono sempre di più e le pensioni dal 2012, anno
in cui entrerà in vigore la riforma Dini, saranno molto
inferiori alle attuali.
Si aggiunga a questo disastro il fatto che non si costruiscono più case per i lavoratori, che la sanità è sempre più
costosa come i trasporti, che la scuola pubblica è stata,
quasi ovunque, ridimensionata, che i servizi sociali, asili
nido, assistenza ecc, sono stati in buona parte privatizzati, con costi troppo elevati per i redditi da lavoro dipendente ecc. Sarà un caso ma i mutamenti degli ultimi
quindici anni corrispondono esattamente alla fine ufficiale del «sindacato dei consigli», la sua sostituzione
con il «nuovo» modello di rappresentanza sindacale, le
Rsu, previste nell’accordo del luglio ’93 e l’avvio della
politica della «concertazione» tra governo e parti sociali. Per entrare nel merito del modello di rappresentanza
sindacale è forse utile tentare una veloce ricostruzione
storica del modello della rappresentanza sindacale.
Dopo le lotte degli anni Cinquanta, la conquista del Ccnl,
dei primi diritti sindacali e dei primi embrioni di scala
mobile delle retribuzioni in alcuni comparti privati, gli
anni Sessanta si aprono con lotte operaie importanti mirate a sconfiggere i licenziamenti politici e imporre non
solo miglioramenti economici ma anche i primi veri di-
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ritti sindacali. È del 1962 la prima legge sui diritti sindacali con l’elezione delle «commissioni interne» nei luoghi di lavoro. Fu una prima conquista importante, anche
se mediata tra interessi di classe. Questa legge consentiva alle organizzazioni sindacali di presentare liste, alle
elezioni della commissione interna, divise però tra impiegati e operai. Gli eletti avevano potere di contrattazione a livello aziendale. Questo sistema, seppur migliorativo della situazione precedente, produceva di fatto una divisione di classe tra i lavoratori e innescava tensioni tra
operai e impiegati essendo visti i secondi come portatori
degli interessi padronali.
I cicli di lotte del ’66 e poi l’autunno caldo del ’69 misero
in crisi questo modello, puntando a obiettivi più alti e unificanti del movimento operaio. Quelle lotte non solo portarono al miglioramento delle condizioni economiche e
sociali dei lavoratori ma costrinsero il padronato, il governo e le organizzazioni sindacali ad affrontare il tema dei diritti individuali, collettivi e sindacali. Nel 1970 in Parlamento approvavano la L. 300/70, lo Statuto dei lavoratori,
che, se da un lato introduceva importanti diritti a favore
dei lavoratori (basti pensare all’art. 18 che impedisce i licenziamenti arbitrari nelle aziende con più di 15 dipendenti) dall’altro consegnava i diritti sindacali esclusivamente nelle mani delle organizzazioni sindacali.
Il fulcro intorno a cui questi ruotavano era che i diritti
sindacali spettavano alle organizzazioni sindacali che
avevano i requisiti per eleggere la Rsa (rappresentanza
sindacale aziendale), ossia li avevano le organizzazioni
maggiormente rappresentative o quelle stipulanti accordi collettivi applicati nell’unità produttiva. Le Rsa non
erano (e non sono) elette dai lavoratori ma nominate
dalle organizzazioni sindacali. Questo impianto autoritario, che consegnava il potere decisionale nelle mani delle
segreterie sindacali sottraendolo all’autodeterminazione
dei lavoratori, venne fortemente contestato dal movimento operaio che, in un crescendo di iniziative politiche, riuscì a imporre un nuovo soggetto contrattuale nei
luoghi di lavoro, il consiglio dei delegati, eletti su scheda
bianca e sottratti al controllo delle burocrazie sindacali. I
delegati erano eletti liberamente dai lavoratori e a questi
rispondevano direttamente, spingendosi sino a forme
molto avanzate di autorganizzazione operaia. Fu quella
che passò alla storia come la stagione dei consigli, prosecuzione di un ciclo iniziato nei primi anni Sessanta.
Molto della legislatura attuale e dello Stato sociale, seppur fortemente ridimensionato, risale a quegli anni. Dal
punto unico di contingenza, per arrivare al sistema pensionistico a ripartizione o ancora la soppressione delle
mutue, sostituite del servizio sanitario nazionale, furono
conquiste a fianco delle quali avanzava di pari passo la
democrazia sindacale. Una breve stagione che ha segnato
fortemente la storia del movimento operaio.
Poi la progressiva offensiva delle centrali sindacali tese a
mettere sotto controllo un sistema che sfuggiva al rigido
controllo degli apparati. L’occasione fu la sconfitta degli
operai della Fiat dell’80, i consigli di fabbrica vennero piegati e ricondotti sotto il controllo delle organizzazioni sindacali fino ad arrivare all’accordo del luglio ’93 che introduceva le Rsu quale agente contrattuale nei luoghi di lavoro. Quell’accordo sancì un tuffo nel passato, seppellendo
un sistema basato sulla democrazia diretta per reintrodurre una forte e diretta fonte di controllo sulle Rsu aziendali.
In effetti le Rsu, regolamentate inizialmente mediante accordi interconfederali nel comparto privato, altro non
sono che la fusione delle due precedenti leggi ossia quella
del ’62, che prevedeva l’elezione della commissione interna su liste presentate dalle organizzazioni sindacali, e la L.
300/70, che prevedeva la nomina delle Rsa da parte delle
stesse organizzazioni sindacali.
Il nuovo sistema di fatto intendeva inibire la candidatura
ed elezione di lavoratori non controllati dai sindacati e
garantire il controllo politico delle Rsu mediante la nomina, senza alcun vincolo, di un terzo della stessa, mentre i rimanenti due terzi venivano eletti su liste presentate dalle organizzazioni sindacali e separate tra operai,
impiegati e quadri. Una normalizzazione in gran parte
riuscita visti i risultati. Un ulteriore colpo fu inferto dai
referendum del ’95 che abrogarono parti importanti
della L. 300/70, ossia il diritto alla trattenuta sindacale e
la maggiore rappresentatività, che rappresentava uno dei
criteri per stabilire a quali organizzazioni spettassero
importanti diritti sindacali (dal diritto di assemblea
messo in continuazione in discussione dal padronato,
fino ai permessi retribuiti per i dirigenti sindacali).
Oggi la situazione è paradossale, non essendo sopraggiunta nessuna norma a sanare il vuoto lasciato dai referendum, poiché sono i padroni a decidere chi può avere i
DOSSIER SINDACATO
diritti sindacali. Dopo i referendum molti diritti sindacali spettano infatti solamente alle organizzazioni «stipulanti accordi collettivi applicati nell’unità produttiva» (ex
art. 19 L. 300/70), ma al contempo non vi è alcun criterio
che imponga alle aziende di contrattare con le organizzazioni sindacali e, in mancanza di obblighi basati su criteri
oggettivi, le aziende possono scegliere di contrattare e
fare accordi con alcune di esse e di non farli con altre.
Questo elemento, che costituisce una forma di discriminazione sulla base delle convenienze economiche e politiche, si aggiunge al fatto che, nel comparto privato, un
terzo degli Rsu viene nominato dalle organizzazioni sindacali che stipulano il Ccnl. Il risultato è una sorta di monopolio sindacale che interagisce con il padronato e con i
governi sulla base di un reciproco riconoscimento.
Questi elementi nel corso degli anni hanno prodotto una
torsione del sistema democratico e colludono con la libertà di organizzazione sindacale sancita nella carta costituzionale. Leggi, accordi, norme sembrano tagliate su
misura di Cgil Cisl Uil ed hanno un effetto inibitore alla
crescita e sviluppo di organizzazioni sindacali alternative
che, viceversa, vengono private di importanti diritti
(basti pensare al diritto di assemblea) o non vengono
convocate dalle controparti, se non a costo di lotte significative, anche in aziende o comparti in cui sono magari
maggioritarie. Insomma la democrazia sindacale e
l’espansione dei diritti dei lavoratori sono stati una costante, come dicevamo, del movimento operaio, crescendo con le lotte prodotte dallo stesso e favorendone a
loro volta l’espansione e la radicalità degli obiettivi. Di
contro la compressione dei diritti e la limitazione della
democrazia favoriscono lo spostamento dei rapporti di
forza verso il padronato e concorrono al peggioramento
delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati.
Oggi tutti gli indicatori economici, sociali e politici ci dicono che le condizioni dei lavoratori hanno subito un
netto arretramento che può essere arrestato soltanto ridando loro la possibilità di tornare a organizzarsi partendo dai loro bisogni e per far questo occorrono sicuramente una nuova legge sulla rappresentanza dei lavoratori e l’abrogazione di tutte quelle norme che consentono la
precarietà, a cominciare dalla legge 30 e dalla possibilità
di reiterare all’infinito i contratti a termine. Una svolta
reale che consenta una ripresa del movimento operaio
non può che passare dalla eliminazione del lavoro precario e da una nuova legge sulla rappresentanza sindacale e
dei diritti dei lavoratori.
È a tutti evidente che la precarietà di milioni di lavoratori e
lavoratrici, che indebolisce la capacità di lotta e rende difficoltoso avviare una fase rivendicativa di carattere offensivo, così come la mancanza di una reale democrazia sindacale e di un quadro normativo che estenda e tuteli i diritti sindacali, sono due facce di una stessa medaglia. Su
questi due fondamentali argomenti, precarietà e diritti
sindacali, sono stati depositati dei quesiti referendari, mediante i quali i promotori intendono abrogare la legge 30,
parte del D.L. 368 sui contratti a termine e parte dell’art. 19
L. 300/70, per restituire a tutti i diritti sindacali.
La nostra organizzazione sindacale li sosterrà con convinzione, auspicando che saremo in tanti e tante a mobilitarci per raccogliere le oltre 600.000 firme necessarie
e poi a fare la battaglia referendaria, una battaglia che si
può vincere visto che la questione della precarietà del lavoro è un tema che riguarda ormai l’intera popolazione
del nostro Paese. 87
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direttore responsabile – Bianca Bracci Torsi
redazione – Mauro Belisario,
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diffusione e abbonamenti
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editore
associazione culturale essere comunisti
via Buonarroti 25 – 00185 Roma
stampa
tipografia Jacobelli – Pavona (Roma)
chiuso in Tipografia il 31 dicembre 2007
grafica
progetto grafico, impaginazione e service
editoriale: DeriveApprodi
credits immagini
p.11: Nicolaj Kogut (1921); p. 18: Rolf
Köple; p. 20: Daniel Beltra; p. 24: Hatem
Moussa; p. 26: Mikhail Metzel; p. 28:
Blalla W. Hallmann; p. 43, p. 48, p. 49:
da Au pied du mur; p. 53: da «Le passant ordinaire» n. 50; p. 54: Ms/Nieva; p.
60, p. 63, p. 64: Nanni Balestrini; p. 69,
p. 72, p. 74, p. 78, p. 84: Anna Maria Di
Oronzo; p. 77: Qalandar Memon; p. 81:
Maya Rizkallah; seconda di copertina:
Nanni Balestrini
www.esserecomunisti.it
a notizia è che il nostro sito sta, giorno
dopo giorno, crescendo. Cresce
rinnovandosi: una nuova veste grafica,
nuove sezioni (a partire da quella
multimediale, arricchita ogni giorno con
nuovi audiovisivi), un doppio
aggiornamento quotidiano e già in
mattinata articoli e commenti sui fatti del
giorno. E ancora: più attenzione alla
cultura, una rassegna stampa più
completa e articolata, un maggior numero
di interventi, commenti e interviste
redazionali. E i risultati si vedono:
l’attenzione dei nostri lettori è in costante
crescita al punto che, dall’uscita del
secondo numero della rivista a oggi,
abbiamo guadagnato migliaia di contatti
giornalieri.
Insomma: ci stiamo ritagliando uno spazio.
Come la rivista ha bisogno degli abbonati
(e del loro sostegno, dei loro suggerimenti),
il sito ha bisogno dei lettori, della loro
fiducia e del loro sguardo critico. In questi
anni ce l’abbiamo fatta anche e, forse, in
primo luogo, grazie al fatto che la fiducia e
la critica non sono mai venute meno. E
grazie a voi, lettori e abbonati della rivista,
a cui chiediamo di moltiplicare per due il
vostro già preziosissimo lavoro di
suggeritori e critici: ciascuno di voi
coinvolga una nuova compagna o un nuovo
compagno, diffondendo la rivista e facendo
conoscere il sito (consultabile all’indirizzo:
www.esserecomunisti.it). Scommettiamo
che non rimarranno delusi?
L
registrazione Tribunale di Roma
n. 170/2007 del 08/05/2007
anno I, numero 4, dicembre 2007
bimestrale
Poste Italiane s.p.a. – spedizione in A.P.
70% Roma n. 96/2007
Per la realizzazione di questo numero non
è stato richiesto alcun compenso.
Si ringraziano tutti gli autori e collaboratori.