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EDITORIALE una partita difficile, ma aperta uest’articolo si colloca nel bel centro di un paradosso. Da una parte la situazione politica è quanto mai confusa e in rapida evoluzione, il che rende difficile ogni analisi. Dall’altra, tuttavia, confusione e instabilità generano un urgente bisogno di capire. Un bisogno ineludibile che occorre tentare di soddisfare. Q La precarietà del quadro politico prodotto dalle elezioni del 2006 non è una novità, ma si è acuita nelle ultime settimane. Era prevedibile che dopo la nascita del Pd la fragile alleanza dell’Unione sarebbe entrata in fibrillazione. Ma l’instabilità ha anche cause più sostanziali, legate alle scelte compiute dal governo nel corso di quest’anno e mezzo. È emblematico in proposito il nesso 20 ottobre/Protocollo sul welfare. La «piazza rossa» di san Giovanni era stato un segnale lanciato dalle forze più avanzate della sinistra (a cominciare da Prc, Pdci e Fiom) affinché la politica sociale ed economica del governo cambiasse di segno, passando dal rigore al risarcimento sociale. Il grande successo della manifestazione aveva rafforzato le aspettative del «popolo della sinistra». Tanto più bruciante è stata quindi la delusione provocata dalle scelte dell’esecutivo in tema di previdenza e di lavoro. Per non dire dello schiaffo inferto al Parlamento con la decisione di porre la fiducia su un testo che di fatto ha azzerato le modifiche apportate al ddl dalla Commissione Lavoro della Camera. A questi fattori di instabilità del quadro politico se ne è aggiunto da ultimo un altro, costituito dalle brusche oscillazioni del Prc. Che rischiano di disorientare il corpo del partito e il nostro potenziale elettorato. Nel giro di pochi giorni si è passati da un incondizionato sostegno all’esecutivo a una critica bruciante, che lasciava presagire scenari di crisi. E poi, subito dopo, a un’ulteriore correzione, tesa a rassicurare il governo circa il sostegno del Prc. * DEPUTATO PRC-SE, DIREZIONE NAZIONALE PRC A LBERTO B URGIO * Ora, l’essenziale per noi è capire in che modo questo stato di cose si rifletterà sul nostro partito, impegnato su più fronti: la verifica di governo; il processo unitario a sinistra; il percorso congressuale, rinviato di qualche mese. Cominciamo dalla verifica. La prima osservazione è che essa ha effettivamente ragion d’essere, e non dovrà certo risolversi nel confronto sulla legge elettorale. L’azione del governo Prodi è stata sin qui molto deludente dal punto di vista di una forza politica che ha il compito di rappresentare in primo luogo il mondo del lavoro, il popolo della pace e in generale i soggetti più duramente colpiti dalle politiche neoliberiste. Non è difficile documentare questa affermazione, ricordando i numerosi impegni programmatici disattesi e le decisioni in flagrante contrasto con lo spirito dell’alleanza. Dalla mancata abrogazione delle peggiori leggi berlusconiane (la 30 e la Bossi-Fini) al rifiuto di prendere in considerazione il ritiro delle truppe italiane dalla guerra in Afghanistan. Dalla politica rigorista dei «due tempi» alla vicenda Dal Molin. Dalla mancata riforma del conflitto d’interessi e dell’emittenza televisiva al continuo aumento delle spese militari. Dal rifiuto di dar vita alla Commissione parlamentare sul G8 di Genova al mantenimento dei cpt. Dall’adozione di misure emergenzialiste dettate dall’ossessione sicuritaria al mancato riconoscimento delle coppie di fatto. Tutto si può dire sulla debolezza delle forze di sinistra e sulla loro irresolutezza. Ma queste critiche non tolgono che la primaria responsabilità dello scarso consenso raccolto dal governo Prodi e dell’instabilità del quadro politico incombe sul governo stesso e sulle forze prevalenti della maggioranza. Per questa semplice ragione, la verifica politica chiesta dal Prc dovrà essere un reale momento di confronto, teso a riequilibrare l’azione del governo a vantaggio delle istanze, sin qui disattese, della sinistra. D’altra parte, 1 2 questa esigenza non parla soltanto al governo, ma anche a chi questa verifica ha chiesto. Al nostro partito. Gran parte della stampa ha formulato previsioni ironiche, parlando di «penultimatum» e dipingendo il Prc come il proverbiale cane che abbaia alla luna. Sarebbe esiziale per la credibilità stessa del partito che queste irritanti valutazioni ricevessero conferma da una verifica all’acqua di rose. Il compagno Giordano ha annunciato che il Prc porrà obiettivi «credibili, praticabili ed esigibili». Se questo significa che la trattativa sarà condotta in modo sobrio e concreto, badando ai risultati e non alle apparenze, non possiamo che concordare. Sarebbe invece un grave errore adottare una strategia di autocensura, definire condizioni minimali pur di scongiurare il rischio di un mancato accordo. Un grave errore che si aggiungerebbe ad altri errori già commessi, sui quali riteniamo occorra aprire finalmente una riflessione. In questo primo scorcio di legislatura il nostro partito ha interpretato con qualche eccesso di zelo la propria condizione di alleato dell’Ulivo, giungendo talvolta a rappresentare in modo propagandistico le scelte del governo. Abbiamo pagato caro questo atteggiamento. Il grave insuccesso alle amministrative, il difficile rapporto con il movimento contro la guerra e le aspre critiche rivolteci dagli operai di Mirafiori sono sintomi di uno stesso problema. Da ultimo anche la decisione di votare la fiducia sul Protocollo è stata controversa. Ha alimentato nel popolo della sinistra dubbi e perplessità sull’opportunità di sostenere ancora questo quadro politico in assenza di significative correzioni di rotta. E non per caso ha aperto contraddizioni anche all’interno della maggioranza del partito. È chiaro che ormai i nodi sono giunti al pettine e che non sarà più possibile barcamenarsi tra critiche estemporanee e diligenti manifestazioni di «responsabilità». L’importanza della verifica ha indotto la Segreteria nazionale del partito a proporre il rinvio del VII Congresso del Prc, previsto per i primi mesi del 2008. Le compagne e i compagni della Segreteria e lo stesso compagno Giordano hanno fatto presente che la contestualità del Congresso con la consultazione del partito che precederà e seguirà la verifica avrebbe generato un ingorgo di difficile gestione. Come ci poniamo nei confronti di questa proposta? Alla luce della discussione, aperta e problematica, svoltasi nella Direzione nazionale del 3 dicembre e nelle successive riunioni delle Segreterie provinciali e regionali (che l’hanno approvata a larga maggioranza), abbiamo preso atto dell’orientamento prevalente. Ma – fermo restando che la proposta di rinviare il Congresso è stata avanzata dal gruppo dirigente del partito, che ne reca la primaria responsabilità – abbiamo fatto presente che consideriamo non eludibili alcune condizioni, affinché il rinvio non si trasformi in un atto di arbitrio e in una pericolosa forzatura. In primo luogo, deve trattarsi di un rinvio di breve periodo (sei-sette mesi al massimo), tale da rispettare la scadenza statutaria del 2008. La seconda condizione concerne la consultazione legata alla verifica di governo. Un rinvio del Congresso in considerazione della sua contestualità con la consultazione sul governo è accettabile solo a patto che tale consultazione impegni davvero il partito (tutti gli iscritti, che dovranno potersi esprimere in modo vincolante nelle sedi del partito) in un’approfondita riflessione sulla partecipazione al governo e sulla linea politica che ha condotto il Prc a compiere tale esperienza. Questa linea oggi – lo registriamo come un fatto molto significativo – comincia a raccogliere severe critiche anche di autorevoli esponenti della maggioranza del partito. Per parte nostra, noi l’abbiamo duramente avversata già in occasione del VI Congresso a Venezia, ponendo in risalto i vistosi errori che la inficiavano (perché si sono voluti prospettare al Paese grandi cambiamenti, palesemente preclusi dagli orientamenti dei maggiori partiti dell’Unione? perché si è stretta con l’Ulivo un’alleanza incondizionata, per di più impegnando il partito nell’esecutivo con una delegazione sottodimensionata? perché si è tardato sino al 2006 prima di promuovere iniziative unitarie a sinistra che, ove assunte tempestivamente, avrebbero impresso all’Unione un profilo politico più avanzato?). Non è pensabile che su questioni di tale rilevanza il corpo militante del partito venga estromesso dall’elaborazione delle scelte da compiere. O che sia posto dinanzi a un’alternativa secca – rimanere al governo o uscirne; continuare a far parte della maggioranza o andare all’opposizione – quasi si trattasse di un referendum. La terza condizione, infine, riguarda quello che è stato più volte indicato dal compagno Giordano come il tema EDITORIALE centrale del Congresso: l’unità della sinistra, le sue finalità e le forme della costruzione del soggetto «unitario e plurale». Proprio perché si tratta di un tema portante del prossimo confronto congressuale riteniamo necessario che, nel corso dei mesi che ci separano dal Congresso, ciascuno – a cominciare dai componenti dell’attuale gruppo dirigente – si astenga da qualsiasi forzatura su questa delicata materia, in merito alla quale sussistono posizioni molto diverse nel partito (comprese quelle di chi ritiene esaurita l’esperienza di Rifondazione comunista e maturo il tempo del suo «superamento»). Abbiamo già avuto modo di dirlo in circostanze ufficiali e lo ribadiamo qui nel modo più esplicito. Qualche mese fa a Carrara il partito è stato impegnato in un’importante Conferenza di organizzazione. In quell’occasione è stato dibattuto anche il tema dell’unità a sinistra ed è stato sancito il principio secondo cui la costruzione del soggetto unitario e plurale non solo non implica lo scioglimento del Prc, ma, al contrario, lo esclude tassativamente. E fa del rafforzamento dell’autonomia politica, organizzativa e culturale del partito un obiettivo irrinunciabile della nostra azione. A questi impegni formali non si può derogare. Considereremmo quindi inaccettabile che li si mettesse in discussione durante i mesi del rinvio, approfittando della mancata convocazione delle assisi congressuali. Al di là degli impegni assunti a Carrara (o meglio, a loro fondamento), contro qualsiasi ipotesi di «superamento» del Prc sussistono precise ragioni politiche. Sulle quali conviene soffermarsi. Da sempre – e con maggior determinazione dalle prime avvisaglie dell’offensiva reazionaria della destra nel 2001 – siamo convinti della necessità di superare la frammentazione della sinistra. Senza l’unità – senza piattaforme condivise su lavoro, politica economica, pace, diritti e istituzioni – sarà infatti impossibile contrastare le preponderanti forze moderate del centrosinistra. Abbiamo sempre tenuto questa posizione tanto nel dibattito interno al partito (dove ci si rivolgevano critiche di «frontismo» e «alleantismo») quanto nelle relazioni con le altre forze della sinistra, partecipando a tutte le iniziative unitarie succedutesi con scarsa fortuna nel corso di questi anni difficili, sino agli «stati generali» dell’8 e 9 dicembre. Ma, proprio perché consideriamo indispensabile e urgente l’unità della sinistra, riteniamo al contrario irricevibili le pretese di chi propugna lo smantellamento delle forze organizzate esistenti. E le interpretazioni interessate di chi concepisce gli «stati generali» come il primo passo verso la costruzione di un nuovo partito. Quasi che l’unità fosse la semplice riduzione a uno dei molti – l’annessione degli altri per la prepotente, e distruttiva, affermazione di sé – e non, invece, un processo inclusivo che trae linfa dal reciproco riconoscimento. Aggiungiamo che tanto più inaccettabile sarebbe un’operazione di stampo «bonapartista» che si servisse dell’ingegneria istituzionale (nella fattispecie, della riforma della legge elettorale) per costringere i partiti della sinistra a sciogliersi e a confluire in una unità imposta dall’alto. Si tratterebbe a nostro giudizio di un’operazione violenta e controproducente. Che alimenterebbe diffidenze e risentimenti, rischiando di distruggere i germi di unità che cominciano a maturare. La sinistra italiana oggi è composta di molti soggetti, figli di storie e portatori di culture politiche diverse. L’ambientalismo è altra cosa dal socialismo. La cultura di classe dei comunisti è una declinazione specifica della critica anticapitalistica, fa riferimento a un impianto teorico e a finalità strategiche non coincidenti con quelli di altre posizioni genericamente «antagonistiche». Del resto, tale molteplicità è plasticamente rappresentata dall’appartenenza delle forze della sinistra a ben tre diversi gruppi parlamentari in sede europea. Ora, il punto è che questa differenza non va semplicemente tollerata. Né soltanto rispettata. Va anche messa a valore, poiché dà voce a una molteplice sensibilità, è una ricchezza che sarebbe irragionevole dissipare. Ciò è particolarmente evidente proprio nel caso dei comunisti, la cui cultura politica, nonostante tutti i tentativi di cancellarla, a partire dalla Bolognina, si dimostra vitale e radicata nel nostro Paese. Per questa ragione concretissima (a ben guardare non c’è nulla di più concreto delle culture politiche, da cui discendono prospettive di analisi, criteri di giudizio, quindi orientamenti e scelte pratiche) 3 abbiamo contrastato – e contrasteremo – con determinazione ogni forzatura su questo terreno. Di forzature ne sono state già compiute, da ultimo nel Cpn del 16 dicembre oltre che da parte del quotidiano «Liberazione». E hanno prodotto conseguenze gravemente negative, inducendo in chi guarda a Rifondazione comunista un pericoloso senso di precarietà e scoraggiando il rafforzamento strutturale e organizzativo del partito. Contro simili operazioni la nostra opposizione è stata – e sarà – incondizionata, senza cedimenti. 4 Da questa impostazione del percorso unitario discende la nostra posizione sulla questione del simbolo, che ha destato l’attenzione dei media in occasione degli «stati generali». Per un verso è del tutto naturale che la nascita di un nuovo soggetto politico richieda la creazione di un simbolo diverso da quelli delle organizzazioni che entrano a farne parte. Sin qui siamo tutti d’accordo. I problemi sorgono a proposito del rapporto tra il nuovo simbolo e quelli già esistenti. A prima vista, nessuno (eccezion fatta per quanti puntano allo scioglimento di Rifondazione) sembra pretendere che la creazione del nuovo simbolo de «La Sinistra – l’arcobaleno» implichi l’archiviazione dei simboli dei partiti che partecipano al percorso unitario. Ma il punto non è la semplice persistenza dei simboli, bensì la loro funzione. Che, nel caso dei partiti, coinvolge in primo luogo il momento elettorale, allorché ciascuna forza politica compete con le altre per la conquista di un consenso che si esprime, per l’appunto, attraverso la scelta del suo simbolo. Se questo è vero, è immediatamente evidente che assicurare che i partiti della sinistra conserveranno i propri simboli e pretendere al tempo stesso che essi si presentino alle elezioni con il simbolo del soggetto unitario sarebbe soltanto un modo elegante – e un po’ furbesco – per togliere con una mano quel che si offre con l’altra. I simboli cancellati dalla scheda elettorale diverrebbero in breve amorfi segni grafici, privi di vita e di significato. E le stesse formazioni politiche, private della loro visibilità, perderebbero ben presto autonomia e ragion d’essere. Il che sarebbe, oltre tutto, un grave errore anche dal punto di vista del rendimento elettorale, per la banale considerazione, suffragata da innumerevoli esperienze, che la forzata convergenza di più formazioni politiche in un cartello elettorale causerebbe la dispersione dei consensi di quanti non scorgerebbero la propria esperienza collettiva e le proprie idee rappresentate da un simbolo privo di storia. Se si afferma senza riserve mentali che i partiti continuano a esistere, si deve accettare la conseguenza di questo fatto. Esistono i partiti, esistono i loro organismi dirigenti e le regole democratiche attraverso cui essi prendono le proprie decisioni. Questo è quello che conta per noi. In materia elettorale, saranno gli organismi dirigenti del partito – in ambito territoriale e centrale – a scegliere di volta in volta come presentarsi alle elezioni. Come è sempre accaduto, come è giusto che continui a essere. Abbiamo detto in apertura che ci troviamo in una situazione politica caratterizzata da un elevato grado di instabilità. Ciò ci ha costretti a una riflessione lunga e articolata. Sarebbe tuttavia sbagliato desumerne che si tratti di una situazione bloccata o priva di vie d’uscita. Al contrario, è nostra opinione che raramente il confronto politico sia stato aperto come ora. Perciò riteniamo indispensabile prendervi parte per cercare di condurlo verso esiti positivi, mentre pensiamo che isolarsi, attestandosi su posizioni di sterile denuncia, favorirebbe solo l’affermazione delle posizioni altrui. È aperto, il confronto politico, tanto in seno al partito (dove si determinano fluidificazioni e si intravede il superamento di violente contrapposizioni che in questi anni hanno gravemente indebolito il Prc), quanto sulla scena politica nazionale (dove il nostro partito può svolgere un ruolo determinante per un cambio di direzione nell’azione del governo e per una maggiore influenza della sinistra). A questa complessa partita politica parteciperemo quindi attivamente, impegnando tutte le nostre risorse di intelligenza e volontà. Fornendo, come sempre, il nostro contributo costruttivo, affinché il Prc sia sempre più forte nell’ambito di una forte sinistra di alternativa. EDITORIALE un antidoto contro la destra revisionista e razzista la coerenza di Giovanni Pesce n giorno dello scorso novembre nel parcheggio del supermercato di una cittadina della Sassonia, quattro giovanotti in bomber nero ornato di svastiche, stanno molestando pesantemente una immigrata di sei anni che, terrorizzata, piange e grida attirando l’attenzione di una tedesca poco più adulta di lei che corre in suo aiuto. I quattro lasciano andare la bambina e puniscono l’intrusa incidendole una croce uncinata su un fianco. Vorrebbero completare l’opera con la sigla SS tracciata sul viso con lo stesso coltello, ma la ragazza riesce a scappare e li denuncia. Negli stessi giorni a Roma, giovani italiani con lo stesso abbigliamento aggrediscono e feriscono tre rom. Episodi di razzismo, rivendicati da gruppi dell’estrema destra in gran parte d’Europa: con un’ormai evidente unità d’intenti e di azione fra i «cuori neri» neofascisti e neonazisti, concordi nel rivendicare il comune passato e i suoi idoli (con buona pace di chi ancora tenta di salvare la faccia degli italiani «brava gente» tutti, anche quelli in camicia nera). Non è un caso che i brani musicali più apprezzati dai fascisti irriducibili esaltino insieme i combattenti di Salò e i difensori di Berlino («in questa camicia c’ho creduto/ adesso non mollo/non sono un venduto» «ormai non sei più solo/l’Europa torna a lottare/ per il sangue e contro l’oro») ed eleggono a loro icone Rudolf Hesse «ucciso dalla democrazia» e «il capitano Priebke» imprigionato per le sue idee. Niente da invidiare a una delle più diffuse canzoni italiane dell’ultima guerra «Camerata Richard», che celebrava l’incontro in trincea di un italiano e un tedesco affermando che «camerati di una guerra/ camerati di una sorte/ chi divide pane e morte/ non si scioglie sulla terra». L’attuale ritrovata fraternità ha trovato il suo cemento nel razzismo e nell’odio per ogni diversità – etnica, religiosa, comportamentale, di scelta sessuale – vissuta come insidia U * DIREZIONE NAZIONALE PRC B IANCA B RACCI T ORSI * alla propria tradizione e al proprio stile di vita, la paternità della quale risale alla nozione di «razza del sangue e dello spirito», in nome della quale Julius Evola auspicò, negli anni Trenta, una più stretta convergenza tra fascismo e nazismo, entrambi portatori di una «coscienza imperiale». I bersagli del primo teorico novecentesco della destra fascista erano l’ebreo e il comunista, due figure che spesso si sovrapponevano, incarnazioni viventi della aborrita modernità e della temuta uguaglianza, la cui distruzione era ritenuta indispensabile alla vittoria di due popoli guerrieri, o meglio della loro elite di superuomini, puri ariani di razza e di pensiero, ai quali spettava il dominio del mondo. Una concezione selettiva e aristocratica alla quale Mussolini, superati i furori del futurismo e del diciannovismo, preferì il populismo «dell’Italia proletaria e cattolica». Lo stesso Hitler, liberatosi con un massacro dell’ala estrema delle SA, optò per il più rozzo razzismo «di sangue e suolo» elaborato da Rosemberg, che Evola aveva bollato di plebeismo e naturalismo: nella sua versione popolare, ciò si tradusse nell’accusa agli ebrei di essere i responsabili di tutte le difficoltà – in primo luogo economiche – della Germania dei primi anni Trenta, che sfociarono nella «notte dei cristalli» e nei primi campi di sterminio. Individuare e indicare un capro espiatorio al malcontento diffuso, sfruttando antichi pregiudizi e nuove paure, è un espediente che risulterà sempre utile per distogliere la rabbia delle masse dai veri responsabili di una situazione di crisi. Nel dopoguerra i neofascisti italiani limitarono la loro propaganda, del resto molto circoscritta, al compianto per la patria tradita e alla glorificazione dei repubblichini caduti «per l’onore d’Italia» legittimi combattenti di un esercito regolare, rispettoso delle leggi di guerra. Leggi che non valevano per i partigiani, perché scriverà Pisanò: 5 Il percorso dalle nostalgie neofasciste degli anni Cinquanta alla presenza ormai continua di nazifascisti, ex e in attività di servizio, nelle strade, nelle scuole, negli stadi e nelle assemblee elettive a tutti i livelli, è stato lungo e graduale, reso possibile, come tutti i successi dell’estrema destra, dalla ambigua tolleranza della «destra democratica» e dall’acquiescenza di una parte della sinistra 6 «non si può pensare di riservare lo stesso trattamento a chi combatte non vestendo una divisa riconoscibile e a chi opera nell’ombra in abiti civili… impossibile a riconoscersi a prima vista come militare». Banditi li chiamava l’alleato tedesco e come tali li trattarono i variegati eserciti di Mussolini, gareggiando in ferocia con le SS. Di fronte all’impossibilità di contestare gli orrori perpetrati dal nazismo qualcuno tentò di dissociare le responsabilità della Repubblica di Salò da quelle del suo alleato con una incredibile rappresentazione di Mussolini come difensore del suo popolo dagli eccessi dei tedeschi che, pur con la scusante del «tradimento», avevano ecceduto nella vendetta. Poco peso hanno in quegli anni Pino Romualdi e altri seguaci di Evola che esaltano il valore tedesco e mettono in dubbio le qualità guerriere degli italiani, ma saranno proprio loro a stabilire i contatti con i nuovi movimenti dell’estrema destra che cominciano a nascere in diversi paesi europei e a diffondere in Italia il pensiero del critico/continuatore di Evola, Alain de Benoist che sfuma il razzismo in «differenzialismo» e incita a una battaglia culturale contro ogni forma di «mondialismo» a favore di «piccole patrie» contraddistinte dal legame con la propria tradizione e rigidamente monoetniche. Una nuova versione della concezione eroico-mistica del fascismo delle origini che ha finito per convivere con il più rozzo e violento razzismo e con il più tradizionale anticomunismo che uniscono oggi sotto gli stessi simboli rampolli dell’alta borghesia nera e sottoproletari disperati. Il percorso dalle nostalgie neofasciste degli anni Cinquanta alla presenza ormai continua di nazifascisti, ex e in attività di servizio, nelle strade, nelle scuole, negli stadi e nelle assemblee elettive a tutti i livelli, è stato lungo e graduale, reso possibile, come tutti i successi dell’estrema destra, dalla ambigua tolleranza della «destra democratica» e dall’acquiescenza di una parte della sinistra. I primi tentativi del centro destra a maggioranza Dc di ammettere il Msi nel cosiddetto «arco democratico» furono respinti dalla ferma reazione di un Paese nel quale la coscienza antifascista era profonda e viva al di sopra di ogni differenza politica. Il luglio Sessanta delle magliette a strisce e la caduta del governo Tambroni eletto con i voti missini, fu la prova che un popolo, convinto assertore dei valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana, vigilava deciso a bloccare ogni velleità di ritorno al passato, lo stesso popolo che rifiutò, negli anni Settanta, la più insidiosa teoria degli opposti estremismi. Perfino quando la crisi del Pci era più che annunciata con le prese di distanza dalle sue origini e dalla sua storia, vecchi partigiani e giovani antifascisti, non solo comunisti, reagirono con indignazione alla riesumazione (che allora apparve ai più incomprensibile e gratuita) da parte della direzione comunista, di quello che fu poi chiamato triangolo rosso emiliano, a indicare la zona dove si era verificata l’uccisione di alcuni fascisti per mano partigiana dopo il 25 aprile. Episodi a suo tempo condannati dal Pci, i cui responsabili, o presunti tali, erano stati giudicati dal tribunale con una severità che non trovò riscontro nei processi a carico di criminali fascisti, colpevoli di torture e stragi di ben altra entità. Pochi anni dopo (ma il Pci era già diventato Pds) non suscitò reazioni degne di nota la comprensione espressa da Violante per «le ragioni dei ragazzi di Salò»: una frase che poteva passare (e passò) come espressione di pietà per giovani illusi e ingannati dai falsi miti mussoliniani, ma in realtà aprì la strada a quella che doveva diventare sostanziale equidistanza tra fascisti e partigiani, salvo una selezione interna tra buoni e cattivi attuata con il discutibile criterio della «buona fede» individuale. Mescolando con scarsa attendibilità storica, l’analisi defeliciana della Resistenza come guerra tra due fazioni, che escludeva ogni partecipazione di un popolo inerte e spaventato (la zona grigia), con testimonianze più che dubbie di fascisti dichiarati, cominciò allora e arriva fino a oggi, in un crescendo di cui non si vede il termine, una campagna mediatica tesa a sminuire il valore della Guerra di liberazione e/o a relegarla in un lontano passato le cui differenze non hanno più ragione di essere: il fascismo è finito da EDITORIALE decenni, quindi l’antifascismo non ha più ragione d’essere, lo ha riconosciuto anche Fini, cambiando nome e simbolo al suo partito e condannando le leggi razziali, due atti che gli hanno consentito l’ingresso nell’«arco costituzionale» e poi nel governo della Repubblica. Condannabile resta il nazismo al quale si affianca però, a condividerne le «tragedie» del Novecento, assunto come secolo degli orrori, il Comunismo, accusato dalla Tv di Stato di essere la causa prima di tutti i fascismi europei che sarebbero nati per reazione al pericolo rosso. Alla vergognosa trasmissione del secondo canale tv sulla Rivoluzione d’Ottobre ha fatto eco la proposta del deputato Volontè dell’UDC di istituire il reato di apologia del Comunismo preceduta a sua volta dalla richiesta di alcuni membri del Parlamento Europeo di abolire, oltre alla croce uncinata, anche la falce e martello. D’altronde croci celtiche, fasci littori, immagini di gerarchi fascisti circolano liberamente su manifesti, striscioni, magliette e gadgets in palese violazione della costituzione italiana e delle leggi contro l’apologia di fascismo; un tribunale derubrica in rissa l’omicidio di un giovane antifascista da parte di un coetaneo con la svastica tatuata sul petto; si lasciano aggredire gli spettatori di un concerto della Banda Bassotti a meno di 50 metri da una caserma della Polizia; alla interrogazione di un deputato del Prc sull’ennesima aggressione di Forza Nuova, un sottosegretario agli Interni, DS, ha risposto parlando di «scontri fra ideologie opposte». Una tolleranza inaccettabile, ma non sufficiente alla destra (sia quella definita «estrema» sia quella «istituzionale») che pretende sia eliminata ogni forma di opposizione in scuole e territori autodefiniti «neri», copertura delle spedizioni punitive contro gay, mendicanti, extracomunitari e antifascisti, la cancellazione dai ca- 7 lendari come dai libri scolastici di ogni celebrazione della Resistenza, il riconoscimento, morale e legale, di morti e reduci di Salò, corsi scolastici che diffondano la cosiddetta «memoria dei vinti». L’ultima richiesta avanzata dall’autorevole giunta del Comune di Milano riguarda la facoltà di dividere i nemici di allora in onorevoli e non. Si presume rientrino nella prima categoria alcuni appartenenti a formazioni monarchiche, liberali e militari che riscattarono la loro colpa con chiare professioni di anticomunismo avvalorate da atti conseguenti, come Edgardo Sogno, organizzatore della Gladio, armata segreta pronta a intervenire in caso di vittoria elettorale delle sinistre, come Taviani che consentì l’insabbiamento nell’armadio della vergogna dei fascicoli relativi a procedimenti contro crimini nazisti e fascisti, oltre ai pochi partigiani di sinistra disposti a essere assimilati alle brigate nere di Salò e a pentirsi di legittime azioni di guerra alle quali tutti gli italiani erano chiamati dal legittimo governo Badoglio oltreché dalla propria coscienza di cittadini. Il discrimine è ancora una volta l’anticomunismo, in nome del quale possono essere ritenuti poco democratici proprio coloro che la democrazia conquistarono e difesero. Chi non si pente invece non è degno di rispetto né da vivo né da morto da parte dei nemici di allora: come Giovanni Pesce, medaglia d’oro alla Resistenza, morto a Milano il 27 luglio scorso. Emigrato in Francia dove lavora in miniera e milita nella Jeunesse Communiste, Pesce, non ancora diciottenne, combatte nelle brigate internazionali in Spagna dove è ferito, torna clandestinamente in Italia, è arrestato e condannato al carcere e poi al confino fino alla caduta del fascismo. L’8 settembre ha 25 anni, un uomo maturo per un tempo che faceva crescere in fretta, in più con un’ampia preparazione politica e militare, quindi è un dirigente e come tale viene inviato a Torino e poi a Milano con l’incarico di creare e dirigere un Il discrimine è ancora una volta l’anticomunismo, in nome del quale possono essere ritenuti poco democratici proprio coloro che la democrazia conquistarono e difesero. Chi non si pente invece non è degno di rispetto né da vivo né da morto da parte dei nemici di allora: come Giovanni Pesce, medaglia d’oro alla Resistenza, morto a Milano il 27 luglio scorso 8 particolare settore della Resistenza, i GAP, partigiani di città organizzati in piccoli gruppi nella clandestinità più stretta che si muovono rapidi e improvvisi in azioni di sabotaggio, esecuzioni di spie e massacratori, liberazioni di compagni catturati, copertura armata di mobilitazioni popolari come l’assalto delle donne ai forni, gli scioperi operai e le manifestazioni studentesche. Come i loro compagni delle formazioni di montagna, la condizione per combattere e vivere è la solidarietà popolare: una porta che si apre per nasconderli, un passante che dà false indicazioni agli inseguitori, il silenzio di chi vede e sa ma non tradisce, anche rischiando la libertà e la vita. Tedeschi e fascisti li odiano e li temono in egual misura, favoleggiano di rifugi misteriosi, di comandanti stranieri, di enormi rifornimenti di travestimenti e armi, cibo e denaro, si sentono spiati continuamente e continuamente in pericolo. Il gappista Visone (questo è lo pseudonimo di Giovanni) impara ad agire e vivere da solo, a uccidere a sangue freddo, a veder morire compagni e compagne più cari dei fratelli; la sua compagna Nori, «la più bella delle staffette» è arrestata, torturata, internata in un lager tedesco, e lui continua a combattere. Sopravvissuti entrambi si sposano, continuano la loro vita di lavoratori e di comunisti senza mai pentirsi, rifiutando la definizione di «zona grigia», per il popolo che ha reso possibile vivere e vincere, non accettano il parallelo fra chi morì per liberare il suo paese dalla più aberrante delle tirannidi e chi quella tirannide difese cercando di impedire l’avvento di un mondo diverso e migliore. Continuano a spiegare a quelli che verranno dopo la necessità di continuare a combattere il fascismo, in ogni tempo, in ogni luogo, con ogni mezzo. Senza tregua, come recita il titolo del libro in cui Giovanni Pesce racconta la sua esperienza di soldato e di partigiano, in Spagna, sempre dalla stessa parte, quella giusta, senza tentennamenti né rimpianti, un uomo che ha tutte le carte in regola per essere proposto come esempio di come non deve essere un antifascista per meritare il ri- spetto che la destra può offrire a un ex nemico e puntualmente conferma il giudizio il vicesindaco di Milano, di Alleanza Nazionale, che in un’unica seduta propone la costruzione di un sacrario comune per le tombe di repubblichini e partigiani come atto di riconciliazione e si oppone a dare sepoltura a Visone nel Famedio, perché «la storia dimostra che Pesce, a differenza di altri partigiani, non è stato uomo di riconciliazione». Un commento che sarebbe piaciuto al compagno Pesce, che forse avrebbe commentato con la consueta pungente ironia che i migliori elogi ai comunisti sono quelli dettati dall’odio dei nemici, un odio contraccambiato, appunto, senza tregua, in nome della memoria di un passato aspro e glorioso che non può essere dimenticato né travisato. Fra tante e tanti che raccolgono il messaggio di Giovanni e Nori e dei loro compagni, mai pentiti perché non compirono mai azioni di cui pentirsi, ci sono anche i giovani comunisti sardi che il 20 ottobre a Roma portarono uno striscione enorme con la scritta «senza tregua». EDITORIALE la rivoluzione d’Ottobre, il ’68 e la rifondazione comunista novant’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre ci si può ancora interrogare sul significato e sull’insegnamento di quell’esperienza epocale, che segnò e determinò la storia del Novecento? Su ciò che rappresentò la nascita dell’Unione Sovietica per le speranze e le aspirazioni di decine di milioni di proletari in tutto il mondo e, successivamente, per la lotta vittoriosa contro il nazi-fascismo e per la liberazione di tanti popoli del terzo mondo dalla schiavitù coloniale, si è detto e scritto in gran quantità. Non è, pertanto, su questo che mi soffermerò nelle seguenti brevi considerazioni, quantunque ritenga fondamentale la riaffermazione instancabile dell’importanza e dell’unicità di un evento rivoluzionario, che impresse una svolta radicale alla storia dell’umanità. Per la prima volta le masse dei proletari e degli sfruttati da oggetti divenivano soggetti attivi del proprio destino, da classe subalterna si trasformavano in classe dirigente. I rapporti di produzione venivano completamente rovesciati, nel senso che, a differenza di tutte le rivoluzioni precedenti, le quali avevano determinato la trasmissione della proprietà dei mezzi di produzione da una classe di sfruttatori a un’altra classe di sfruttatori, per quanto più avanzata, la rivoluzione dei Soviet realizza un obiettivo senza precedenti: la soppressione delle classi sfruttatrici e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. La rivoluzione dei Soviet – e qui torno all’interrogativo iniziale – fu resa possibile dalla convergenza dei due fattori che Lenin, apportando un’innovazione teorica che chiudeva definitivamente col positivismo, il gradualismo, il determinismo di cui erano impregnate le socialdemocrazie e i partiti operai europei, tanto nelle loro versioni riformiste quanto in quelle massimaliste, riteneva indispensabili: il fattore soggettivo (il partito rivoluzionario, come avanguardia cosciente, organizzata, determinata) e il fattore A * GIORNALISTA C LAUDIO B UTTAZZO * oggettivo (il più alto livello di maturazione delle contraddizioni nei rapporti di produzione e nei rapporti di classe). Lenin, cioè, sviluppa ulteriormente il pensiero di Marx e di Engels, approfondendo l’analisi dello Stato e dell’organizzazione del capitalismo nell’epoca dell’imperialismo. E la sua analisi lo conduce a teorizzare la rottura della catena mondiale dell’imperialismo nei punti dove essa presenta i suoi anelli più deboli. Nello specifico, nella Russia zarista. È, questa, un’innovazione teorica di tale portata, da sconvolgere tutte le certezze dei pensatori marxisti fino a quel momento. Tanto che non mancò da più parti chi accusasse Lenin di deviazionismo, di tradimento del marxismo. Lenin dimostrò concretamente come la rivoluzione fosse possibile anche in un paese capitalisticamente arretrato, quantunque si rendesse ben conto che, se la rivoluzione non avesse presto vinto anche in almeno uno o due paesi avanzati dell’Occidente, quella russa avrebbe avuto ben poche prospettive. Di analoga portata innovativa la concezione leniniana del partito rivoluzionario come avanguardia cosciente del proletariato, fortemente e centralmente organizzato. Un partito il cui compito fosse, al suo interno, di elaborare una teoria e una prassi rivoluzionaria, formare i quadri e darsi una struttura unitaria e capillare. Al suo esterno, di suscitare e guidare la lotta di classe, radicarsi nei Soviet, nei sindacati e in tutte le strutture organizzate del proletariato; ma anche in tutti luoghi di conflitto sociale (Dobbiamo sostenere, saper guidare – dice Lenin – tutte le rivendicazioni e i malcontenti: si tratti di insegnanti che reclamano una migliore retribuzione o dei pope che protestano contro le gerarchie ecclesiastiche). Mai, però, Lenin concepì il partito come strumento di gestione del potere. Il partito, come guida cosciente del proletariato, sarebbe dovuto rimanere tale anche dopo la vittoria rivo- 9 La rivoluzione dei Soviet realizza un obiettivo senza precedenti: la soppressione delle classi sfruttatrici e la collettivizzazione dei mezzi di produzione 10 luzionaria. Il potere doveva appartenere al proletariato in quanto classe. Tutto il potere ai soviet! Questa era la parola d’ordine di Lenin. Questi temi leniniani verranno, poi, ulteriormente sviluppati alla luce della specificità italiana e delle peculiarità dei rapporti di produzione e dell’organizzazione sociale e istituzionale dell’Occidente da un altro grande innovatore marxista, che risponde al nome di Antonio Gramsci. Gramsci coglie la gigantesca novità della Rivoluzione d’Ottobre. Al contempo, sa che la rivoluzione in Italia e in Occidente non può risolversi in una presa del Palazzo d’Inverno. Di qui, la sua originalissima riflessione sull’egemonia, sulle riforme strutturali come strumento di accelerazione delle contraddizioni capitalistiche e del processo di modificazione dei rapporti di produzione e di forza tra le classi. E la riflessione, inoltre, sulle alleanze di classe e, ancor più, sulla forma e sul ruolo del partito come intellettuale collettivo. Le tesi di Lione, che segnano uno scontro frontale con Bordiga e il gruppo dirigente bordighiano, sono un punto di discontinuità e di innovazione profonda, che non tolgono nulla alla valenza e alla continuità rivoluzionaria delle posizioni gramsciane. Semmai, ne sono un arricchimento. Non è qui mio intendimento soffermarmi sugli errori, le storture, le degenerazioni, a volte anche gli orrori, prodotti dalla storia dell’esperienza sovietica e del cosiddetto socialismo reale. E neppure voglio soffermarmi sulla storia, di tutt’altro segno, ma anch’essa degna di analisi critica, del movimento comunista in Occidente, e in particolare sulla storia del Pci. Occorrerebbe una trattazione a parte. Mi soffermo brevemente, invece, per restare sul tema dell’innovazione, sulle vicende di un anno a partire dal quale a mio giudizio nulla può essere più affrontato come prima sul tema della rivoluzione e della prospettiva socialista: il 1968. Le novità che irrompono impetuosamente sulla scena nell’esplosione globale di quell’anno non sono ancora state sistematizzate in un pensiero unitario. Va, tuttavia, premesso che proprio la mancata comprensione e sintonizzazione con quelle novità sono, forse, alla base dell’incapacità di innovazione in senso rivoluzionario dei partiti comunisti e della loro progressiva deriva socialdemocratica. Di fronte alla difficoltà di misurarsi col nuovo e all’impossibilità di dare risposte con un pensiero mummificato, invece di innovare quegli strumenti, li abbandonano del tutto, scegliendo la via più semplice della rinuncia e dell’accodamento alle compatibilità del sistema. Lungi da me un’esegesi acritica del ’68, che è, tra l’altro, molto complesso e vede una molteplicità di protagonismi non tutti riconducibili a un’unica matrice. La modernizzazione capitalistica fa irrompere, a partire da quell’anno, sulla scena sociale e politica una serie di soggetti nuovi. A muoverli – ed è una novità storica assoluta – non sono solo le contraddizioni economico-sociali del capitalismo, ma contraddizioni che attengono a sfere che possiamo definire sovrastrutturali, ma che, come ci aveva già insegnato Gramsci, non sono da meno, in quanto motrici della trasformazione rivoluzionaria, di quelle strutturali. A essere sottoposta a critica di classe non è solo l’organizzazione capitalistica del lavoro, ma sono le gerarchie sociali che essa produce nella fabbrica, nella scuola, nella famiglia, nei rapporti interpersonali, nella cultura. La contestazione investe i modelli di vita, di esistenza, di espressione, di rappresentazione nell’arte, nella letteratura. Il ruolo stesso della medicina e della psichiatria nel sistema capitalistico viene inesorabilmente smascherato. Non c’è rivoluzione, se non si mette a soqquadro l’intero sistema delle relazioni borghesi. E, poiché le contraddizioni sovrastrutturali non sono vissute solo dal proletariato economicamente sfruttato, ma da tutta una serie di figure sociali fino ad allora egemonizzate dalla borghesia, ma che nel capitalismo monopolistico divengono cinghia di trasmissione subalterna dei saperi e dei valori borghesi, ecco che queste sono sottoposte a un processo di proletarizzazione, che fa di esse dei produttori differiti di plusvalore. EDITORIALE è evidente che un partito comunista che non riesce o non è abituato a concepire che un processo rivoluzionario si possa produrre al di fuori del proprio controllo e della propria influenza, resta spiazzato e guarda con diffidenza, se non a volte con vera e propria ostilità, a tali processi. Non v’è dubbio che Lenin e Gramsci avrebbero capito e si sarebbero teoricamente attrezzati di fronte a tali novità È un cambiamento di proporzioni gigantesche. I movimenti sociali che, a partire dal ’68, si producono non sono più, e soltanto, portatori di rivendicazioni economico-sociali; ma sono portatori di una critica complessiva al capitalismo, di un progetto di società alternativa al capitalismo. Essi sono, cioè, non più solo movimenti di lotta su temi parziali, non più meri movimenti sociali con un obiettivo immediato e limitato al tempo del suo raggiungimento; ma sono veri e propri soggetti politici, portatori autonomi di un progetto di cambiamento e tendono ad autoriprodursi. È evidente che un partito comunista che non riesce o non è abituato a concepire che un processo rivoluzionario si possa produrre al di fuori del proprio controllo e dalla propria influenza, resta spiazzato e guarda con diffidenza, se non a volte con vera e propria ostilità, a tali processi. Non v’è dubbio che Lenin e Gramsci avrebbero capito e si sarebbero teoricamente attrezzati di fronte a tali novità. L’89 ha dimostrato definitivamente che i vecchi partiti comunisti (sia in Oriente, sia – se pur per ragioni diverse – in Occidente) non erano più in grado di rigenerarsi a sinistra e, nella loro maggioranza, hanno finito per autoliquidarsi o riciclarsi su posizioni socialdemocratiche, peraltro su quelle più moderate. Penso che, in questo panorama, l’esperienza di Rifondazione comunista sia quanto di più originale e innovativo sia emerso, dopo i rivolgimenti del 1989, nel panorama della sinistra anticapitalistica mondiale. Il suo massimo merito storico è di aver capito che la forma, il modo di organizzarsi e di fare politica di massa di un partito rivoluzionario nelle nuove condizioni storiche va profondamente modificato. È poco comunista? Al contrario. Poiché penso che nessuno sia in grado oggi di proporre un progetto definito di trasformazione sociale (a meno che non se lo faccia a tavolino), ritengo che, marxisticamente, esso vada costruito nell’esperienza concreta. E in questo senso – c’è poco da fare – siamo a un nuovo inizio. Tutti siamo chiamati a una nuova sperimentazione, anche a costo di sbagliare ed essere costretti a un nuovo 11 inizio. A Bernard Russell, che gli chiedeva cosa sarebbe successo se un piccolo contadino giunto al potere avesse usato questo potere per creare una nuova classe sfruttatrice, Lenin rispose: «Ci sarà sempre un altro piccolo contadino che si rivolterà contro la nuova classe sfruttatrice». Come a dire: la lotta di classe continua e nulla è mai per sempre dato, nulla è mai certo. Cosa sta avvenendo, d’altronde, oggi in Cina? Non si sperimenta anche lì? Non mi sento un liquidazionista. E poiché siamo tutti chiamati a portare avanti ciascuno la propria esperienza di innovazione, guardo con interesse e curiosità anche all’esperimento cinese. Trovo singolare che alcuni compagni riconoscano alla Cina il diritto di sperimentare nuove strade, ma poi neghino questo diritto al proprio partito. Finiremo male, dicono. E perché, la Cina finirà bene? E da dove traggono tutte queste certezze? Rifondazione Comunista esiste ormai da circa 15 anni. E Rifondazione Comunista esiste ormai da circa 15 anni. E sono ormai almeno 10 anni che sento periodicamente dire da qualche profeta di sventure: è un partito socialdemocratico, non è un partito solido, farà la fine del Pci-Pds. Beh!, finora non è successo. So che il 20 ottobre, a Roma, c’era un milione di persone. Sfido chiunque a dirmi quale partito comunista oggi al mondo sia in grado di organizzare una manifestazione di un milione di persone 12 sono ormai almeno dieci anni che sento periodicamente dire da qualche profeta di sventure: è un partito socialdemocratico, non è un partito solido, farà la fine del Pci-Pds. Beh!, finora non è successo. So che il venti ottobre, a Roma, c’era un milione di persone. Sfido chiunque a dirmi quale partito comunista oggi al mondo sia in grado di organizzare una manifestazione di un milione di persone. Guardo con interesse alla Cina – dicevo – ma anche al Venezuela, a Cuba. Al Pc greco e portoghese; ma anche alla Die Linke tedesca, che non si chiamerà comunista (ma non si chiamava comunista neanche la Sed dell’ex-Germania orientale, e neanche il Poup polacco e neppure il Posu ungherese, tutti nati, questi partiti, dalla fusione tra i partiti comunisti e le sinistre socialiste e socialdemocratiche di quei paesi), ma insidia ormai da sinistra le posizioni della Spd. Il ruolo dirigente del partito, la sua sfida per l’egemonia rimangono un obiettivo; ma si determinano oggi in un modo diverso da come indicato da Lenin e poi da Gramsci nei rispettivi contesti storici. La sfida di Rifondazione è di divenire la catalizzatrice di un’alleanza orizzontale con i movimenti e le altre forze della sinistra alternativa. Ma esplicare questa funzione catalizzatrice non equivale forse a esercitare un’egemonia? Pensiamo oggi non solo a quanti lavoratori, ma anche a quanti studenti, giovani precari, a quante e quanti provengono da esperienze dei movimenti pacifisti, femministi, ambientalisti guardano oggi a Rifondazione comunista come al proprio partito di riferimento o, comunque, al partito a loro più vicino. Quando si dice che le contraddizioni non sono solo quelle tra capitale e lavoro, ma anche tra uomo e donna e tra uomo e natura, si sta facendo forse un’operazione antimarxista o si sta togliendo centralità alla contraddizione capitale-lavoro? Ma, se così fosse, perché Engels avrebbe sentito l’esigenza di scrivere un trattato apposito sull’origine della famiglia e sulla sottomissione della donna? Davvero, di fronte all’enormità assunta oggi dalla questione ambientale e di fronte alla vastità e varietà dei movimenti delle donne, ce la possiamo cavare dicendo loro che l’ortodossia marxista spiega che quanto loro rivendicano è tutto compreso nella contraddizione capitale-lavoro? Da questo punto di vista, Rifondazione Comunista ha compiuto innovazioni profonde e necessarie, senza nulla perdere – io credo – della sua «purezza» rivoluzionaria. Penso che questo partito, pur nella necessaria duttilità dell’azione politica, abbia – e ciò, anche a differenza di altri partiti comunisti che si ritengono depositari dell’ortodossia – tenuto fermo sui principi fondamentali e non negoziabili con tale determinazione, da mettere a rischio la propria stessa sopravvivenza o da rischiare una momentanea, ma non per questo meno dolorosa, impopolarità, come avvenuto del ’98, quando ritirò il sostegno al primo governo Prodi, o come è avvenuto ogni qual volta si sia trattato di schierarsi con determinazione dalla parte degli immigrati e dei rom (non tutti i partiti comunisti lo fanno) o a favore EDITORIALE dell’indulto (anche questo, non tutti i partiti comunisti lo fanno) o ancora, come in questi giorni, di contrastare l’ondata xenofoba e le leggi securitarie. Certo, se l’impianto generale va bene, ci sono anche cose che non mi convincono. Su questo mi sento di esercitare una critica, che però non mi fa sentire estraneo all’esperienza complessiva del partito e al suo sforzo di (ri)costruzione di un pensiero e di una prassi marxista. Penso che la costituzione della Sinistra Europea, nel modo settario e parziale in cui essa è stata avviata, vada decisamente contrastata. Ma anche qui, non in nome di una antistorica unità dei «partiti comunisti e operai» (c’è ancora chi usa questa espressione?), ma per dar vita a un coordinamento di tutte le forze e i movimenti della sinistra anticapitalista, ecologista e femminista presenti in Europa, compresi tutti i partiti comunisti. Così come penso che, in Italia, l’unità vada costruita a partire da quanti hanno aderito alla manifestazione del venti ottobre. La partecipazione a quella manifestazione, per la sua valenza sociale e di classe, è la discriminante imprescindibile, la condicio sine qua non, per la costruzione di una piattaforma unitaria. E, poiché quella manifestazione è stata essenzialmente una manifestazione di comunisti con decine di migliaia di bandiere rosse con falce e martello orgogliosamente sventolate da tantissimi giovani in una mescolanza inedita dei simboli del Prc e del Pdci, l’unità che si è realizzata in quel corteo, e di cui i gruppi dirigenti dei due partiti devono prendere atto, è, in ultima analisi, l’unità dei comunisti. Dicevo prima che, in termini generali, l’unità può, teoricamente, realizzarsi nei modi più vari nei diversi paesi, a seconda delle peculiarità storiche e politiche delle singole realtà. È, però, indiscutibile, che nella specifica realtà italiana, segnata storicamente da una forte e originale presenza comunista con un retroterra teorico di rilevanza internazionale e con esperienze di massa che hanno scritto la storia democratica e determinato le conquiste politiche e sociali del nostro paese, la nuova costruzione di una 13 forza anticapitalistica non può prescindere dalla propria tradizione storica e dai nomi e dai simboli che l’hanno caratterizzata. Chi, in questo paese, ha inteso rompere con tale tradizione si è già visto la deriva che ha imboccato. Senza, poi, considerare che, nel clima di regressione reazionaria, di anticomunismo e di revisionismo che si respira in questa fase storica, la scelta dell’abbandono di quei simboli spianerebbe ancor più la strada alla criminalizzazione delle idee e della storia comunista nel nostro paese, se non alla loro messa al bando per legge, come già avvenuto in altri paesi europei. Assolutamente non possiamo permetterci la gravissima responsabilità storica di legittimare la pericolosa e crescente campagna anticomunista in Europa. Sarebbe un crimine imperdonabile. Certo, si può costruire un’unità più ampia della sinistra, pur senza dar vita a un partito unico. Ma, anche qui, nessuna unità a sinistra, che non si costruisca e non si cimenti nelle lotte sociali, è possibile. In questo, l’insegnamento della Rivoluzione d’Ottobre ha, a tutt’oggi, una validità non emendabile. bipolarismo e sistema maggioritario i nodi vengono al pettine 14 A lla fine i nodi del maggioritarismo e della seconda repubblica sono venuti al pettine. Dei guasti e dei fallimenti che essi portavano con sé, e che pure erano facili da prevedere, hanno preso coscienza perfino molti degli apprendisti stregoni che ce li hanno propinati con furore ideologico per più di un decennio. Eccoci allora di nuovo a discutere di riforme elettorali (e anche, purtroppo, di quelle costituzionali), nella speranza di imprimere così al sistema politico italiano quell’equilibrio stabile che non si è riusciti più ad avere da quando è crollato l’assetto della prima Repubblica. Ma stavolta qualche novità c’è. Una di queste è che pare finalmente caduto il tabù del proporzionale, demonizzato fino a ieri, soprattutto nel centrosinistra – e questo è un bene. Così come è sicuramente un passo avanti aver preso atto che produrre maggioranze artificiali in forza delle regole elettorali non costituisce di per sé una garanzia di stabilità ed efficienza dei governi. Detto in altri termini, quello che è ormai in discussione è il bipolarismo, almeno nella forma in cui si è affermato in Italia. Chi l’avrebbe mai detto? Insomma, la coltre di nebbia ideologica che ha avvolto la seconda Repubblica si è un po’ diradata e quindi è legittimo presumere che si stiano creando le condizioni per uscire una buona volta dalla transizione infinita del nostro sistema politico. Ma da qui a ritenere di aver trovato il bandolo della matassa ancora ce ne passa. Il dibattito in corso, infatti, si presenta carico di insidie, tanto più quanto più esso sembra aver acquistato un livello di consapevolezza che negli anni scorsi non aveva mai avuto. Le insidie provengono innanzitutto dai due macigni che incombono sulle parti in causa: il referendum Guzzetta e il destino del governo Prodi. Ma, più in generale, il fatto è che siamo a un punto in cui il gioco delle riforme non può più essere a somma positiva, nel senso che avrebbero un po’ tutti qualcosa da guadagnarci (o nessuno da perderci, il che è lo stesso). Si ha un bel dire che le riforme devono essere un bene di tutti, e quindi vanno fatte in modo ampiamente condiviso: la realtà è ben diversa. Come si dice, ora «il gioco si fa duro». Non è un caso che quest’ultima iniziativa riformatrice provenga dalla leadership del Partito democratico. Infatti, essa va letta nel quadro della riorganizzazione del sistema politico che la nascita del Pd ha messo in moto, per la prima volta in maniera autonoma e unilaterale rispetto alla struttura di opportunità istituzionale. Una riorganizzazione che mira esplicitamente a superare l’attuale bipolarismo coatto, onnicomprensivo e per blocchi, che era stato determinato in gran parte dalle regole elettorali maggioritarie, ma in parte anche da una effettiva polarizzazione imperniata sulla figura di Berlusconi. Ecco, il punto è: con che cosa si vorrebbe sostituire questo bipolarismo coatto? Qual è, insomma, il progetto veltroniano? Quando, folgorato sulla via di Damasco, il segretario del Pd si è inaspettatamente convertito al «proporzionale», ha dichiarato che il suo scopo è quello di dar vita a un bipolarismo «virtuoso», che cioè consenta nell’immediato alleanze di governo più omogenee e un pluripartitismo moderato (meno E NRICO M ELCHIONDA * Alla fine i nodi del maggioritarismo e della seconda repubblica sono venuti al pettine. Dei guasti e dei fallimenti che essi portavano con sé, e che pure erano facili da prevedere, hanno preso coscienza perfino molti degli apprendisti stregoni che ce li hanno propinati con furore ideologico per più di un decennio * D OCENTE DI S CIENZE P OLITICHE PRESSO L 'UNIVERSITÀ DI NAPOLI «L'O RIENTALE » ISTITUZIONI frammentato), ma che in prospettiva faccia valere la vocazione maggioritaria del suo partito. È importante capirsi su che cosa si debba intendere con «vocazione maggioritaria». Infatti, questa espressione è stata intesa dai più come una generica ispirazione soggettiva, laddove in scienza politica essa ha un significato ben preciso: la capacità di un partito di raggiungere una maggioranza autonoma di seggi e quindi di formare un governo da solo. Ora, poiché è da escludere che Veltroni desideri o si illuda di poter tradurre in realtà un sistema a partito predominante (cosa che non era riuscita neppure alla Dc, e in tempi ben diversi), è evidente che sta pensando a una classica situazione di bipartitismo, che – com’è noto – si caratterizza appunto per il fatto che vi sono due partiti a vocazione maggioritaria i quali si alternano periodicamente al governo. Tant’è vero che l’iniziativa del Pd non solo ha già messo in moto un processo di riorganizzazione anche all’interno dell’altro polo del sistema, ma si è anche convogliata verso la ricerca di un accordo sulle riforme con il leader del maggiore partito di opposizione. Infatti, per potersi realizzare, il progetto ha bisogno di essere accompagnato da una struttura di opportunità appropriata. Non lo è, evidentemente, il sistema elettorale vigente, così come non lo era il Mattarellum e non lo sarebbe quello che scaturisse eventualmente dal referendum Guzzetta. Perché questi sono tutti sistemi dagli effetti maggioritari, e ormai anche Veltroni ha capito che nel contesto italiano il maggioritario può al massimo offrire una struttura delle opportunità entro cui i partiti sono indotti a formare coalizioni massime vincenti di cui poi restano prigionieri. Quel che per i partiti più grandi è insopportabile, in questo bipolarismo coatto, è il fatto di avere bisogno di tutti, anche dei più piccoli, per poter vincere le elezioni e soprattutto il potere di ricatto che pertanto questi ultimi possono esercitare. A maggior ragione questa situazione risulterà poi insopportabile a un partito moderato come il Pd se è costretto a scendere a patti con forze alternative o genuinamente riformatrici quali sono quelle alla sua sinistra. Ma qui il discorso vale anche all’inverso, per cui sbagliano coloro i quali a sinistra si aggrappano al bipolarismo coatto pensando così di sottrarsi al rischio della marginalizzazione e alle tentazioni di splendido isolamento, senza rendersi conto che quello rappresenta piuttosto un vincolo rispetto alla sfida di una vera competizione per l’egemonia con il Pd. Si impone, di conseguenza, la necessità di attrezzarsi per questa sfida, con cui non potrà certo cimentarsi una sinistra frammentata come quella attuale: il che non significa però avallare orientamenti che – rovesciando il ragionamento – concepiscano la legge elettorale come uno strumento (una scorciatoia, rispetto all’agire politico) per imporre l’aggregazione delle forze e affermare la propria posizione di supremazia nei confronti dei più deboli. Se questo è il quadro, possiamo cercare di capire quali siano le regole elettorali più confacenti agli interessi e ai progetti in campo. A questo scopo, non è superfluo ricordare che in un processo di riforma di regole del gioco come quelle elettorali, pur essendo problematico distinguere nettamente le opzioni di valore dai calcoli di parte, a prevalere nel comportamento degli attori sono sempre questi ultimi, che tuttavia non sono del tutto univoci. Orbene, per valutare la logica di un sistema elettorale si deve guardare, oltre che al risultato complessivo (misurabile, ma ex post), a quegli aspetti che influiscono sul processo di trasformazione di voti in seggi, ma che influiscono anche sul comportamento degli attori coinvolti: partiti, candidati ed elettori. A svolgere una funzione nevralgica, da questo punto di vista, sono le seguenti quattro dimensioni: a) la formula elettorale (sistema di calcolo per la conversione voti-seggi), b) il tipo di collegi o circoscrizioni (ambito di assegnazione dei seggi), c) le soglie di rappresentanza (sbarramenti formali per l’accesso alla distribuzione dei seggi), d) la struttura della votazione (tipo di scelte presentate agli elettori e loro canalizzazione nella procedura di distribuzione dei seggi). A seconda di come si definiscono tutte queste dimensioni si avrà un sistema elettorale la cui logica di funzionamento è più o meno maggioritaria o proporzionale, come risulta dall’indice di disproporzionalità, che misura appunto la deviazione dalla proporzionalità nel rapporto voti-seggi. Così, nei sistemi proporzionali questo indice è ovviamente più basso che in quelli maggioritari, ma si differenzia notevolmente da caso a caso. Per farsi un’idea, si consideri che il valore dell’indice di disproporzionalità (di Gallagher), che nei sistemi maggioritari va dal 9% in su, è del 2,5% in Germania e dell’8% in Spagna. Poiché uno degli effetti pratici più importanti della disproporzionalità è il premio in termini di seggi che i partiti maggiori (in particolare, i primi due) ottengono rispetto alla quota di voti riportati, non c’è da sorprendersi se in Spagna mediamente questo premio (per i due partiti maggiori) risulti del 12,2%, mentre in Germania solo del 4,1%. Si capisce, allora, perché i sistemi proporzionali possano avere effetti così diversi sul formato e sulla meccanica dei sistemi partitici, sostenendo pluripartitismi moderati come quello tedesco o addirittura bipartitismi come quello spagnolo. 15 Se invece l’obiettivo è quello di impiantare partiti a vocazione maggioritaria fino a conseguire un sistema bipartitico, allora è più al modello spagnolo che si deve guardare. Ed è proprio ciò che sembra stia facendo il Partito democratico, la cui proposta di riforma avanzata recentemente da Veltroni non deve essere equivocata per il solo fatto di dichiarare un’ispirazione proporzionale e di ammiccare ai simpatizzanti del sistema tedesco 16 Poiché i due «modelli» tedesco e spagnolo sono appunto le fonti a cui si ispirano le principali ipotesi di riforma elettorale attualmente in discussione in Italia, bisognerebbe capire come essi producano risultati così diversi. Fermo restando che tali risultati discendono in misura non marginale dalla struttura preesistente del sistema partitico, se vogliamo comprendere la logica dei due sistemi non è necessario che ne descriviamo (per l’ennesima volta) la concatenazione delle procedure, ma può bastare che se ne focalizzino gli aspetti determinanti. Diciamo allora che i due sistemi non si differenziano molto per la formula utilizzata, ma per il tipo di collegi entro cui essa viene applicata, che sono mediamente molto piccoli in Spagna e molto grandi in Germania. Dal momento che la grandezza del collegio è correlata (in maniera inversamente proporzionale) con la soglia «effettiva» di rappresentanza, è il sistema tedesco ad avere più bisogno di un vero e proprio sbarramento formale (al 5%) per ostacolare un’eccessiva frammentazione partitica. Invece, i due sistemi si differenziano formalmente per la struttura della votazione, perché in Germania accanto allo scrutinio di lista (con liste chiuse e senza voto di preferenza) è previsto un canale uninominale maggioritario, sennonché quest’ultimo nella procedura di distribuzione dei seggi è nettamente subordinato al primo. Ora, anche da questi rapidi cenni, è facile desumere che entrambi questi modelli proporzionali si prestano bene allo scopo di innescare un bipolarismo meno rigido di quello attuale, che riduca la frammentazione partitica e favorisca la formazione di maggioranze più coese. Se invece l’obiettivo è quello di impiantare partiti a vocazione maggioritaria fino a conseguire un sistema bipartitico, allora è più al modello spagnolo che si deve guardare. Ed è proprio ciò che sembra stia facendo il Partito democratico, la cui proposta di riforma avanzata recentemente da Veltroni non deve essere equivocata per il solo fatto di dichiarare un’ispirazione proporzionale e di ammiccare ai simpatizzanti del sistema tedesco. È vero, essa ha cercato di combinare diversi sistemi (il tedesco del 1949, lo spagnolo e il Mattarellum nella versione del Senato), ma in effetti la sua logica di funzionamento è una via di mezzo tra un proporzionale «molto rafforzato» alla spagnola e un maggioritario tout-court. Essa infatti prevede un doppio canale di voto come nel modello tedesco, ma al contrario di questo predilige fortemente il voto uninominale. La formula che contraddistingue il sistema è quella proporzionale, però essa si applica al livello delle circoscrizioni (e non a livello nazionale come in Germania), che per di più sono di piccolo formato (come in Spagna). E, come se non bastasse, a tutto ciò si potrebbe aggiungere perfino uno sbarramento legale (di fatto inutile) per i partiti minori. È facile calcolare l’effetto «meccanico» disproporzionale che un sistema del genere avrebbe sulla conversione dei voti in seggi. Ma ancora più preoccupante sarebbe il suo effetto «psicologico», che non dovrebbe tardare molto a mettere in moto una logica del voto utile viste e considerate non solo le conseguenze riduttive del meccanismo in sé ma anche le caratteristiche marcatamente personalistiche che la struttura della votazione uninominale rimetterebbe all’opera dopo la breve parentesi che ci separa dal funzionamento del Mattarellum. Insomma, non c’è dubbio che un sistema del genere avrebbe una forte propensione al bipartitismo. Quindi non si capisce quali forze, a parte il Pd e il partito di Berlusconi, possano avere interesse a sostenerlo. Il discorso potrebbe cambiare, invece, se ci si orientasse verso un sistema alla tedesca (o verso altri sistemi, non difficili da escogitare, che ne seguano la stessa logica). In questo caso si potrebbe ridurre la frammentazione del sistema partitico senza concentrare la competizione in maniera eccessiva e innaturale e senza neppure bloccarne la logica bipolare. Da questo punto di vista, bisognerebbe liberarsi una volta per tutte dell’atavica paura che in Italia un sistema elettorale proporzionale debba dar luogo necessariamente a un assetto centrista, caratterizzato dall’occupazione stabile del centro dello spazio politico e da pratiche consociative di governo. Certo, tutto può succedere, ma sta agli attori politici e non a un sistema elettorale dare dignità e contenuti reali alla competizione democratica. ESTERI appunti per una discussione sull’America Latina Perché si sperperano colossali risorse nell’industria per uccidere e non si utilizzano invece per salvare vite umane? Perché non si costruiscono scuole al posto di sottomarini nucleari e ospedali invece di bombe “intelligenti”? Perché non si producono vaccini invece di veicoli blindati e più alimenti invece che più bombardieri? Perché non si dà impulso alle ricerche per combattere l’AIDS, la malaria e la tubercolosi invece di fabbricare scudi spaziali? Perché non si conduce una guerra contro la povertà invece che contro i poveri? Nonostante servano soltanto 150 miliardi di dollari per raggiungere le Mete del Millennio, si afferma ipocritamente che non si sa dove ottenere le risorse finanziarie necessarie. Menzogna! Ci sono soldi in eccesso, quello che manca è la volontà politica, l’etica e l’impegno reale da parte di chi deve prendere le decisioni. B RUNO S TERI * Insomma, parlare dell’America Latina oggi è – al tempo stesso e per contrasto – parlare di noi qui in Europa: dell’involuzione delle sinistre europee (e dell’attacco frontale di cui, nel nostro continente, sono oggetto i comunisti); della crisi acuta delle nostre democrazie (sempre più svuotate di controllo e partecipazione popolare e alterate da processi di carattere oligarchico) * DIRETTORE DI «ESSERE COMUNISTI» Dall’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di Felipe Perez Roque, Ministro delle Relazioni estere della Repubblica di Cuba Q uel che segue è la traccia di un ragionamento sull’America Latina che avrei dovuto svolgere nell’ambito di un’iniziativa organizzata dal circolo Prc di Cagliari, se un contrattempo non avesse impedito la mia partecipazione. Può essere utile presentare, a posteriori e in forma scritta, gli spunti che avrei sviluppato nell’intervento. Non mi pare si tratti di cose del tutto nuove e penso che su di esse avremmo potuto senz’altro registrare sintonia con gli altri due interlocutori presenti nell’occasione, Fabio Amato e Mauro Bulgarelli. Tuttavia, vedo che sulle esperienze più significative in corso nel suddetto continente persistono punti di vista fortemente differenziati tra le forze della sinistra di alternativa. Persino all’interno del mio partito, come è noto, c’è chi viaggia su binari palesemente divergenti da quelli qui proposti. Poiché si tratta di questioni che rinviano a una dimensione strategico-ideale e influenzano il profilo politico generale di una forza politica, non è male ribadire nel merito qualche elemento distintivo: soprattutto se si vuole che, nella nostra sinistra, la giusta esigenza unitaria non costruisca sulla sabbia e la formula «partire dai contenuti» non resti lettera morta. Democrazia p as s e -p arto ut Mi capita spesso di tornare, in discussioni siffatte, a quello che considero un punto essenziale delle divergenze. Si dice «democrazia» e invece di chiarire, si aggiunge oscurità a oscurità. Ci si richiama genericamente a una nozione divenuta «passe-partout», pronta a ogni uso (e quindi sempre meno significante): al punto che c’è chi fa riferimento a essa per invocarne l’«esportazione» in ogni angolo del globo, anche a costo di imporla con la forza delle armi (di distruzione di massa). Il significato di «democrazia» è oggi talmente sfigurato che in nome di essa – in nome della sua planetaria diffusione – si è pronti a relegare in soffitta niente meno che il «principio di non ingerenza», cioè a dire uno degli architravi su cui si sono sin qui basati i rapporti internazionali, le relazioni tra gli stati e tra i popoli: non a caso, è 17 18 questo uno dei punti d’approdo dell’ideologia «neocons», che ispira le politiche dell’attuale establishment statunitense. Molto banalmente, se qualcosa arriva dall’alto (appunto, come le bombe) vuol dire che non arriva dal basso: con ogni evidenza, a esser posta fuori gioco è precisamente la democrazia intesa come costruzione «dal basso», «partecipata» nella società e nelle istituzioni, come processo inestricabilmente connesso all’avanzamento sociale di un popolo, nonché rispettoso della sua storia e della sua specifica cultura. In suo luogo, si fa strada una nozione di democrazia vista come «pacchetto di regole», come «tecnica dell’operare democratico», così come è stata elaborata dall’Occidente «civilizzato» (e capitalista), da esportare chiavi in mano e, se necessario, coattivamente. Consapevoli o meno, con ciò si è già dentro a una concezione di stampo «neocoloniale». Non va infatti dimenticato che, al di là della rappresentazione ideologica, tale armamentario concettuale ha fornito di fatto una copertura – che nelle intenzioni di chi l’ha proposta avrebbe voluto essere egemonica e «universale» – a motivazioni molto meno presentabili, concernenti concretissimi interessi materiali e mire geopolitiche. In ogni caso, i risultati di tali impostazioni sono sotto gli occhi di tutti: si veda (per ora) l’Iraq o l’Afghanistan. Potere popolare o oligarchia? Si dirà: cosa c’entra tutto questo col Latino America? Ebbene: c’entra, eccome. Basti pensare al modo in cui non dico da destra ma perfino dalla nostra cosiddetta «sinistra» liberale si guarda a Cuba, all’esperienza chavista, o alle riforme strutturali inaugurate da Evo Morales in Bolivia: diffidenza nel migliore dei casi, se non esplicita censura. Non c’è da stupirsi. Se alla democrazia si toglie il suo peso «sostanziale», la sua profonda interconnessione con le dinamiche sociali e i loro conflitti, il modo in cui i suoi istituti si relazionano con le differenziazioni di censo e col potere economico – se conseguentemente si ritiene che essa «è formale oppure non è affatto» (come ad esempio ebbero a dire Achille Occhetto e Claudia Mancina, all’alba dell’era post-comunista), è evidente che si finisce poi per assumere come disvalore «totalitario» tutto ciò che – in una realtà contraddittoria e socialmente contrastata quale è quella latino-america- na – procede in direzione del «poder popular». È questo il luogo di una battaglia ideologica di prima grandezza, la cui posta non è solo la possibilità di comprendere e valorizzare la rinascita sociale e politica di un continente fino a ieri ridotto a «giardino di casa» del potente vicino americano; ma è anche la ragione della nostra «diversità» rispetto alla mutazione involutiva di quella che è stata la sinistra (non solo comunista) europea. Insomma, parlare dell’America Latina oggi è – al tempo stesso e per contrasto – parlare di noi qui in Europa: dell’involuzione delle sinistre europee (e dell’attacco frontale di cui, nel nostro continente, sono oggetto i comunisti); della crisi acuta delle nostre democrazie (sempre più svuotate di controllo e partecipazione popolare e alterate da processi di carattere oligarchico). Paradossi del pensiero unico Ma siamo poi così sicuri che anche sul piano della «democrazia formale» le cose siano così chiare come ce le vorrebbero raccontare? Qualche giorno fa ho trovato in rete, trasmessa da compagni belgi, un significativa parabola. Supponiamo che il presidente di un Paese A elabori una Costituzione e la sottoponga al responso popolare. Immaginiamo altresì che il presidente di un Paese B sottoponga anch’egli al voto una Costituzione e che una parte importante dei suoi cittadini la boccino. A questo punto, il presidente del Paese B decide di varare comunque la Costituzione senza che vi sia alcun ulteriore referendum popolare. Domanda: chi è più democratico tra i due? Sostituiamo ora al presidente A Hugo Chavez e al presidente B l’Unione Europea e proviamo a rispondere. Eppure Chavez è, ci dicono, un anti-democratico, populista e totalitario, mentre l’Ue è la quintessenza della democrazia. Ovvero: il mondo capovolto. Nel mondo reale, il «caudillo» Chavez per l’ennesima volta ha inteso esporsi al vaglio del giudizio popolare, rispettandone nella sconfitta l’esito; mentre la democratica Unione Europea prova a far passare surrettiziamente, nel silenzio dei mezzi d’informazione, un Trattato «sostitutivo» che, in una forma appena mutata, presenta sostanzialmente gli stessi requisiti dell’originario già boc- ESTERI I prestiti sono erogati senza tassi d’interesse usurai. Inoltre, le decisioni di investimento sono prese sulla base della parità di voto tra i Paesi partecipanti, indipendentemente dall’apporto di capitale. Si tratta della differenza che intercorre tra un’impresa solidale volta al progresso sociale e il saccheggio di ricchezze ciato da francesi e olandesi. Filantropia… Ma passiamo dall’amara ironia alla descrizione di qualche fatto. Ha suscitato un certo scalpore un paio di mesi fa l’arrivo nel Bronx – uno dei ghetti statunitensi per poveri – di autobotti della Citgo, la società incaricata di commercializzare negli Stati Uniti il petrolio venezuelano. L’evento ha comprensibilmente suscitato in loco una specie di festa di popolo, poiché le autobotti trasportavano gasolio per riscaldamento a un prezzo ridotto del 40%. Bisogna capire: questi sono i luoghi derelitti in cui G. W. Bush recluta la carne da macello da spedire in Iraq ed Afghanistan. Figli di nessuno, di cui infatti nessuno parla quando tornati in patria si suicidano a migliaia (come ha recentemente denunciato un servizio shock della Cbs). Il governo bolivariano ha previsto analoghi aiuti anche per i poveri dell’Alaska e del Maine. Tra sconti e attività filantropiche in Usa, si tratta di 80 milioni di dollari, quanto spende complessivamente in filantropia un colosso come la Exxon Mobil. Si è detto giustamente: Chavez cura l’immagine. Ed è così, anche se poi ognuno sceglie di pubblicizzare l’immagine che più gli si addice. Il messaggio è chiaro: consideriamo nostri fratelli tutti i poveri d’America e non confondiamo quelli statunitensi con l’establishment che li governa. Certo, per quest’ultimo sono piccole punture di spillo. …e antimperialismo Ben altro rilievo e impatto politico ha l’iniziativa chavista tesa a una strutturale integrazione del continente latino-americano. Il 3 novembre scorso, ad esempio, è stato inaugurato il Banco del Sud, polmone finanziario a dimensione continentale: con la partecipazione di Venezuela, Argentina, Brasile, Bolivia, Ecuador, Uruguay e Paraguay. L’intento è di reperire e concentrare risorse economiche per il lancio di programmi contro la povertà e per opere infrastrutturali (segnatamente, per la costruzione di gasdotti finalizzati al trasporto del gas venezuelano e boliviano). C’è una differenza sostanziale tra un’impresa come questa e le attività di organismi come il Fondo Monetario Internazionale: nel primo caso, infatti, i prestiti sono erogati senza tassi d’interesse usurai. Inoltre, le decisioni di investimento sono prese sulla base della parità di voto tra i Paesi partecipanti, indipendentemente dall’apporto di capitale. Si tratta della differenza che intercorre tra un’impresa solidale volta al progresso sociale e il saccheggio di ricchezze. L’America Latina sa perfettamente cosa significa tutto ciò. Negli ultimi venti anni, il Fondo Monetario e la Banca Mondiale hanno imposto a regimi imbelli e corrotti la legge del neoliberismo: dalla metà degli anni Ottanta, dopo la crisi del debito messicana dell’82, sono piovute anche sul Latino-America le famigerate politiche di «aggiustamento strutturale». Le ricette che tali politiche hanno concretizzato sono ben note: privatizzazioni a oltranza; liberalizzazioni del mercato di capitali, beni e servizi; taglio delle spese sociali. Al fine di rastrellare moneta pregiata con cui ripagare il debito contratto con gli organismi-sanguisuga sopra detti, i responsabili economici degli stati debitori hanno fatto calare la scure sui loro sistemi sanitari e previdenziali. Come sempre, dogmi di economisti borghesi, finanzieri e banchieri sono il controllo dell’inflazione e l’alto costo del denaro. Risultato: la devastazione sociale. Secondo i dati dell’Igbe (Istituto brasiliano di geografia e statistica) in una città come San Paolo la percentuale di abitanti delle bidonville è passata dal 7,4% del totale nel 1980 all’11% nel 2000. Queste sono state le odiose condizioni che l’Fmi e la Bm hanno posto per i loro prestiti. Ora, anche grazie a iniziative come la costituzione del Banco del Sud (fermamente voluta da Chavez), la musica sta cambiando. I viaggi di Chavez Cos’è andato a fare Chavez, lo scorso agosto, in giro per l’America Latina, toccando Argentina, Uruguay, Ecuador e Bolivia? È presto detto. Ciò ha a che vedere con i prezzi sostenuti di cui può beneficiare chi incassa la bolletta petrolifera: ma tale provvidenza, nel caso del Venezuela, non va a gratificare i profitti di qualche multinazionale, bensì serve a incrementare l’integrazione economica e il progresso sociale di un intero continente. In Argentina, il presidente venezuelano ha stretto un accordo con Kirchner per l’acquisto di 500 milioni di dollari del debito argentino (più altri 500 spalmati sui prossimi mesi): una boccata d’ossigeno per un Paese che, a seguito della condi- 19 20 zione di inadempienza in cui è precipitato nel 2001, non gode più dell’accesso ai crediti internazionali. A fronte di ciò, le due delegazioni hanno concordato la costruzione di un impianto per la rigassificazione del gas liquido venezuelano, risorsa vitale per ovviare alla crisi energetica in cui si dibatte l’Argentina. In Uruguay, l’incontro con Tabarè Vazquez ha suggellato un «Trattato per la sicurezza energetica» tra la locale compagnia statale Anpac e la venezuelana Pdvsa: ciò consentirà di raddoppiare la capacità produttiva dell’unica raffineria uruguagia e di creare un’impresa mista per l’estrazione del greggio dalla Fascia dell’Orinoco, considerata una delle maggiori riserve petrolifere mondiali. Nell’Ecuador di Rafael Correa, Chavez ha sottoscritto un investimento di 5 miliardi di dollari per costruire una raffineria nella provincia di Manabi, la più grande sulla costa del Pacifico. Infine, in Bolivia – Paese che ha riaffermato il diritto di esplorare i propri giacimenti e sfruttare i propri idrocarburi – è stata inaugurata l’impresa petrolifera binazionale Petroandina, sulla base della collaborazione tra la Pdvsa e la boliviana Ypfb (Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos). Espropri proletari Questo attivismo della diplomazia chavista è evidentemente ispirato dall’intenzione di non lasciar cadere un’opportunità storica. Chavez sa che l’autonomia energetica è oggi una base decisiva ai fini della sovranità economica e politica del Latino-America, nonché delle singole realtà statuali che lo compongono. Ed è a partire da tale obiettivo che vien fatto avanzare il processo di integrazione delle politiche economiche del continente. Lo scorso Primo Maggio è stato per il Venezuela un giorno davvero speciale. Chavez ha annunciato l’uscita dagli organismi internazionali, Fmi e Bm. Si tratta di una decisione che corona un più generale processo di sganciamento dal colonialismo economico nord-americano. Parallelamente, il governo bolivariano ha infatti imposto a 10 delle 13 multinazionali che operano nel Paese la creazione di joint ventures con la compagnia di stato Pdvsa, la quale – beninteso – manterrà la quota maggioritaria del cartello e, quindi, il controllo (pubblico) del greggio. Si può ben capire che non si tratta di bazzecole. Stiamo parlando di colossi del calibro di Exxon Mobil, Total, Statoil, Chevron Texaco, British Petroleum ecc.: entità potenti che, in altri tempi, in questi Paesi decidevano uomini e politiche, rimpasti di governo e colpi di stato. Oggi, ingoiano il rospo: del resto hanno già investito in Venezuela qualcosa come 20 miliardi di dollari e le quotazioni del petrolio consentono pur sempre non disprezzabili margini di guadagno. In ogni caso, si tratta di una vera svolta: che in sintesi significa «dai profitti privati al popolo». Per attuarla, è occorso e continuerà a occorrere del coraggio politico: appunto, quello che spesso le nostre pallide sinistre non riescono a trovare. El pueblo unido Disgraziatamente, il desiderio di indipendenza anticoloniale è contagioso. Per questo Castro, Chavez, Morales sono visti come fumo agli occhi dai padroni del mondo e dai loro lacché. Così, in Ecuador, Correa fissa un secco aumento delle imposte per i guadagni extra delle compagnie petrolifere. E in Bolivia, Evo Morales decide – attraverso la rinazionalizzata Ypfb – di mantenere allo stato l’82% dei proventi del petrolio. Il restante 18% va alle multinazionali operanti nel suo Paese (sempre quelle: Exxon Mobil, Total, Bp ecc). Nel ’97, quando l’allora presidente Sanchez de Lozada aveva privatizzato tutto – dal gas all’acqua – era l’opposto: 780 milioni di dollari alle multinazionali e 140 allo stato boliviano. Ora, i 780 milioni vanno al poder popular (dopo che nel giugno 2004 un referendum aveva già portato la quota statale da 140 a 460 milioni di dollari). Non è stato un cammino semplice: esso ha comportato centinaia di morti ammazzati nel corso delle manifestazioni antimperialiste. Oggi, il «decreto supremo 28701» ha sancito la vittoria del governo popolare: ed è stato accompagnato dall’occupazione dei campi petroliferi e gasiferi da parte dell’esercito boliviano e dall’imposizione alle compagnie di un limite di 180 giorni per rinegoziare nuovi contratti. Come si vede, i percorsi di liberazione non sono – purtroppo – un «pranzo di gala». Anche Chavez, quando ha deciso di espropriare pezzi di latifondo, ha dovuto man- ESTERI dare l’esercito per contrastare la violenza delle guardie padronali armate. Rispetto a simili episodi, ho chiesto recentemente – a margine di un dibattito – a un autorevole dirigente del Prc, amico sincero del risveglio sociale latino-americano, come la metteva con la questione della nonviolenza. Mi ha risposto: non amo eserciti e armamenti, ma è parte del mio concetto di nonviolenza il riscatto sociale con tutti i suoi conflitti. E io: mi va bene così; l’importante è accordarsi sulle cose, non sulle parole. Socialismo Già. Ma come impiega lo stato venezuelano i cospicui introiti derivanti dalla ritrovata disponibilità delle ricchezze custodite nel suo territorio? Risposta: oltre che per promuovere politiche solidali con gli altri popoli latino-americani, per il miglioramento delle condizioni di vita della sua gente e il rafforzamento del potere popolare. Lo scorso Primo Maggio, Chavez ha infatti annunciato molte altre iniziative importanti per la sua rivoluzione sociale. Ha proclamato che, a partire dal Primo Maggio del 2010, la giornata lavorativa in Venezuela passerà da 8 a 6 ore: un vero e proprio salto epocale, con benefiche ripercussioni per i lavoratori di tutto il mondo. Il motto è: 6 ore per il lavoro, 6 ore per dormire, 6 ore per lo svago, 6 ore per la formazione e la rigenerazione dello spirito. La riforma costituzionale, in cui il provvedimento era incluso, non è passata; ma certamente il governo bolivariano provvederà comunque a procedere per via legislativa ordinaria. In ogni caso, il salario minimo è stato già portato a 614 mila bolivares (un incremento del 20%). A differenza di molte altre realtà lavorative nel mondo, il salario dei lavoratori venezuelani è cresciuto mediamente dai 30 dollari del 1999 ai 300 dollari di oggi: con l’inclusione dei buoni-pasto giornalieri, si arriva a 400 dollari. Tutto ciò, con un’inflazione completamente sotto controllo (che a marzo del 2007 risulta vicina allo zero). È stata istituita la pensione sociale (60% del salario minimo) per gli anziani (da 60 anni in poi) senza contributi: fino a oggi, non avevano alcuna fonte di reddito. Si aggiunga che in 8 anni, con il decisivo aiuto dei programmi di formazione e di centinaia di educatori cubani, lo stato bolivariano ha condotto una lotta senza quartie- 21 re (nonché vincente) nei confronti dell’analfabetismo e che, entro il 2020, intende debellare la povertà. Sembrano oggi lontani i tempi del dominio oligarchico, quando ricchezze e provvidenze andavano a una manciata di privilegiati e l’80% dei venezuelani non aveva diritto a sanità, educazione, pensione, assistenza sociale. Con Castro, Chavez e Morales Tutto risolto, dunque? Certo che no. La via del riscatto e dell’affrancamento latino-americano dalla dipendenza è ancora da percorrere per un lungo tratto. Sappiamo che altri Paesi, come il Cile, stanno scegliendo modelli diversi e molto meno avanzati; che il Brasile di Lula opta per compromessi sociali più cauti e promuove in grande stile la diffusione degli agrocombustibili (che Castro e Daniel Ortega, come tanti altri, considerano una sciagura per i poveri del pianeta). E sappiamo che non basta la diplomazia del petrolio per rispondere all’obiettivo della sovranità economica e alla connessa sfida ambientale: su questo Cuba ha peraltro indicato con lungimiranza una strada all’intero continente, conseguendo il primato dell’agricoltura ecologica e traendo il 38% della sua energia da fonti rinnovabili. Non intendiamo indulgere a toni trionfalistici. E tuttavia non ci sfugge l’enorme importanza dei passi compiuti. Quel che abbiamo descritto è davvero un buon inizio: si direbbe, un inizio decisamente socialista. Non a caso, esso continua a richiamare le attenzioni della reazione e del terrorismo locale e internazionale. Alle nostre sinistre quindi chiediamo: da che parte state? Noi comunisti stiamo con Castro, Chavez e Morales. Annapolis tra speranze e illusioni 22 A seguito del vertice di Annapolis, e dell’impegno comune sottoscritto da Abu Mazen e Olmert di avviare un dialogo politico che porti, entro il 2008, a un accordo definitivo per la nascita dello stato palestinese, si può tentare un bilancio e un´analisi del vertice statunitense, che non sia influenzato dal clima di celebrazione e di entusiasmo che ha dominato la scena in quei giorni. La maggior parte delle reazioni a caldo, soprattutto della stampa italiana, sono state comunemente improntate al più sfrenato ottimismo e le (ennesime) strette di mano fra i tre protagonisti, presentate come foriere di una rinnovata speranza, con l’auspicio che finalmente questa volta sia davvero la volta giusta, dopo i numerosi e ripetuti fallimenti del passato. Hanno prevalso le interpretazioni ottimiste e improntate a sottolineare le novità, le possibilità, che questa conferenza può portare in Medio Oriente, pur se accompagnate da doverosa e motivata prudenza. È necessario, per noi che da anni lottiamo a fianco del popolo palestinese, per una soluzione basata sul principio dei due stati per i due popoli, non sottovalutare questo sentimento di speranza, il dato di una rinnovata disponibilità al dialogo e a perseguire una soluzione politica, dopo anni in cui è prevalsa da parte israeliana la politica dell´unilateralismo, insieme alla negazione costante della controparte. È dallo scoppio della seconda intifada che il governo israeliano ha praticato una politica del fatto compiuto, dalla costruzione del muro alla moltiplicazione degli insediamenti, alla continua colonizzazione di Gerusalemme, disconoscendo sistematicamente la controparte. Prima Arafat, umiliato con l´assedio alla Mukata, poi Abu Mazen, per proseguire con il governo prima di Hamas e poi di unità nazionale. Ma allo stesso tempo la speranza, per essere coltivata, deve avere basi solide su cui reggere. Altrimenti si alimentano illusioni. La prudenza con cui va analizzata Annapolis, inoltre, è dovuta non solo agli ostacoli politici, ma alla già abbondantemente commentata debolezza degli attori protagonisti del vertice. In Maryland, c´era un George Bush a fine mandato e piuttosto malconcio per i ripetuti insuccessi di politica estera, ansioso di riuscire a portare qualcosa all’attivo dopo otto anni alla Casa Bianca, oltre al disastro irakeno e al pantano afghano. Olmert, in difficoltà permanente dalla sconfitta libanese in poi pressato costantemente dalla destra, quella d’opposizione come quella del suo governo, con in testa Lieberman, che secondo dichiarazioni riportate da Haaretz, continua a porre il tema del «trasferimento», o meglio deportazione, della popolazione israelo palestinese. Il tutto mentre si continua a procedere nell´espropriazione di terra palestinese da parte di Israele. Barak, neo ministro della difesa, ha tenuto a precisare, proprio alla vigilia del vertice, che Israele vuol mantenere la possibilità di entrare e uscire dalla Cisgiordania quando e come vuole per ragioni di sicurezza, ovvero mantenere l’occupazione sotto altre spoglie. Abu Mazen, che si ritrova stretto dagli Stati Uniti e dalla loro voglia di costringere i palestinesi ad accettare un accordo, qualun- F ABIO A MATO * L´Europa, ci duole dirlo, esce da Annapolis con un ruolo marginale. Chi si assume l´onere di accompagnare la trattativa futura, di monitorarla e sostenerla, è un solo soggetto: Gli Stati Uniti * R ESPONSABILE NAZIONALE E STERI PRC ESTERI Una pace che non sia percepita come giusta, verrebbe vissuta solo come resa, e potrebbe portare a un´ulteriore e drammatica divisione fra i palestinesi, che va evitata que esso sia, e dall’altra Hamas, che continua a governare Gaza e che non è disposta a concedere nulla. Il rischio di un fallimento, di ulteriori promesse mancate, come si capisce è quindi molto alto e le eventuali conseguenze potrebbero essere molte e negative. Considerato il clima di scetticismo diffuso che aveva preceduto la riunione, e il cui fallimento preventivo era stato da più parti annunciato, dobbiamo riconoscere che il risultato di far sedere, oltre a palestinesi e israeliani, tutti i paesi arabi interessati al conflitto, inclusa la Siria, sia stato dal punto di vista della diplomazia statunitense un successo, così come il raggiungimento in extremis della dichiarazione congiunta. Un successo relativo a una strategia portata avanti dalla Rice, di costruzione di un´alleanza regionale in grado di isolare le aspirazioni egemoniche dell´Iran. È questo cambiamento di scenario rispetto al grande Medio Oriente, che ha permesso la convocazione di un vertice dalle vaghe premesse, in fretta e senza chiari obiettivi, a cui comunque si sono associati anche Arabia Saudita e Siria. Gli americani sanno che per avere speranza di tenere insieme questi paesi, e isolare Teheran, hanno bisogno di risolvere, o quantomeno dare impressione di volerlo, il conflitto israelo-arabo-palestinese. Il testo della dichiarazione In realtà, la dichiarazione aggiunge molto poco al quadro precedente, se non il rispettivo impegno di buona volontà, e il riconoscimento che il terrorismo è una categoria che va applicata a entrambe le parti. Se tutti hanno enfatizzato il passaggio del testo riguardante una chiara delimitazione temporale delle trattative come elemento di novità, non hanno aspettato molto gli israeliani a gettare acqua sul fuoco per spegnere i facili entusiasmi, ribadendo come in realtà quella data sia semplicemente un auspicio, nulla più. Purtroppo, a essere confermata come base della trattativa rimane la disastrata road map, e a essa viene fatto ripetuto ed esplicito richiamo in più parti del testo. Ovvero la possibilità per Israele di chiamarsi fuori in qualsiasi momento, di non rispettare gli obblighi già sottoscritti, come di fatto già fa da molti anni. Inoltre, si erige ad arbitro super partes del rispetto dell’implementazione della road map non più il quartetto, (Usa-Onu-Ue-Russia), ma solamente l’amministrazione statunitense. Una cambiale in bianco davvero pericolosa, data a un arbitro, gli Stati Uniti, che non ha dato certo prova negli anni di imparzialità. Si pensi a proposito alla lettera del 2004 di Bush a Sharon, in cui si dichiarava come impossibile un ritorno ai confini del ’67. In molti hanno salutato l’impegno di Bush come un cambiamento di strategia dopo aver per anni semplicemente ignorato ciò che accadeva in Terra Santa. Crediamo che sia un´interpretazione benevola. Bush ha lasciato fare perché fino a oggi ha sostenuto la politica di Sharon prima e Olmert poi. Non è stata una distrazione o una mancanza di impegno, bensì una condivisione, nel nome della comune «guerra al terrore» che ha caratterizzato tutta la sua presidenza. L´Europa? L´Europa, ci duole dirlo, esce da Annapolis con un ruolo marginale. Chi si assume l´onere di accompagnare la trattativa futura, di monitorarla e sostenerla, è un solo soggetto: gli Stati Uniti. Entrambe le parti hanno convenuto di dare all´Amministrazione Usa questo delicato ruolo di unico arbitro a questo processo. Gli israeliani sicuramente perché non esiste al mondo paese più affidabile per loro. I palestinesi perché forse credono che proprio per questo sono solamente gli Usa a poter esercitare un potere di pressione nei confronti di Israele in grado di vincere le resistenze del governo di Tel Aviv su punti chiave senza i quali, come Gerusalemme capitale dei due stati, i confini del ’67, la partita delle risorse idriche, la questione dei profughi, nessun accordo potrà reggere di fronte all´opinione pubblica palestinese. A pesare, sulla credibilità dell´Europa, la sua oramai conclamata debolezza politica, fatta di annunci e di promesse mancate. Prima nel chiedere elezioni, definirle democratiche per poi non riconoscerne l´esito. Poi lavorando e spingendo per un accordo di unità nazionale e un nuovo governo, salvo poi accodarsi al veto israeliano-statuni- 23 risoluzioni delle Nazioni Unite. Una pace che non sia percepita come giusta, verrebbe vissuta solo come resa, e potrebbe portare a un´ulteriore e drammatica divisione fra i palestinesi, che va evitata. tense, negando un riconoscimento che ha contribuito non poco al precipitare della situazione interna e alla divisione intrapalestinese. Vedremo se nei prossimi vertici, l´Europa si limiterà a confermare il suo ruolo di maggior donatore, o se saprà bilanciare con un´iniziativa politica autonoma l´evidente ridimensionamento subito ad Annapolis. Stati Uniti e Israele Le responsabilità che si sono assunti gli Stati Uniti sono davvero grandi. Responsabilità nel senso che se è vero che l´opzione del fallimento non può essere presa in considerazione da Rice e Bush, un esito di questo tipo sarà interamente sulle loro spalle. In questo senso si gioca molto anche Olmert. Come sostenuto anche dall´ex Presidente Jimmy Carter, nel suo libro Peace not apartheid, purtroppo non tradotto in Italia, il fallimento del processo politico negoziale di Oslo è in gran parte imputabile alla mancanza da parte israeliana di una vera volontà politica in questo senso, e di una pratica che ha creato ostacoli su ostacoli a un accordo finale. In gioco c´è non solo la credibilità residua di un mandato presidenziale segnato dagli insuccessi, o la sorte politica di Olmert, ma la fine concreta della soluzione negoziale basata sui due stati per i due popoli. Un esito che non ci auguriamo, ma che peserebbe, oltre che sugli Usa, tutto sulle spalle degli occupanti. Perché, vale la pena sempre ricordarlo, non siamo di fronte a un conflitto fra pari, ma asimmetrico. Con uno Stato, Israele, che esiste, e un popolo, quello palestinese, che vive da quarant´anni sotto occupazione. E i palestinesi? Abu Mazen in realtà aveva poche possibilità e un margine di manovra molto stretto. Per lui, anche solo riprendere i negoziati ha il valore di una legittimazione internazionale che spera possa rafforzarlo all´interno. Comunque, la dichiarazione non aggiunge e non toglie nulla al quadro precedente, ma dà un orizzonte politico temporale ai negoziati, che dà fiato. Se l´opposizione di Hamas, pur in calo di consensi dopo il colpo di mano a Gaza, era scontata, è una forza che non può essere ignorata. Alla sua opposizione si aggiunge lo scetticismo delle altre forze palestinesi, quelle della sinistra. I cinque partiti, Fronte popolare, Fronte democratico, Fida, Partito del Popolo e Iniziativa democratica, avevano sottoscritto il sette novembre un documento comune che metteva in guardia sui rischi del vertice. Uno scetticismo che rimane intatto all´indomani. In questo, Abu Mazen ha compiuto l´errore di portare ad Annapolis una delegazione monocolore di Fatah, relegando l´Olp a un ruolo di spettatore. La road map, rimanendo base di fatto di qualsiasi ulteriore progresso, temiamo sarà la trappola nella quale, ancora una volta, rischiano di rimanere incastrati i palestinesi. Anche perché il popolo palestinese, sicuramente stremato dall´inasprimento dell´occupazione, dalle punizioni collettive, dagli embarghi, non crediamo sia solo per questo disposto ad accettare un qualsiasi accordo che non riconosca le rivendicazioni storiche contenute nelle Il nostro compito Un dato politico interessante e poco commentato, è il percorso unitario che è stato avviato dalle forze della sinistra palestinese. Abbiamo avuto modo di incontrarle anche a Praga, al congresso della Sinistra europea, dove ci siamo impegnati a continuare un dialogo comune e la costruzione di un´agenda condivisa. La ricostruzione di una forza di sinistra anche in Palestina, capace di intervenire nel duopolio Hamas-Fatah, sulla base di un rinnovato progetto che riprenda il tema dell´indipendenza nazionale e che sappia coniugarlo con una lotta per la giustizia sociale, può rappresentare un segnale per tutte le forze di sinistra dei paesi arabi, in crisi da anni e strette fra il disegno del Grande Medio Oriente americano da un lato e le forze islamiche dall´altro. E rappresentare uno stimolo anche per la sinistra israeliana, voce sempre più debole e isolata, purtroppo. Ma il nostro compito, oltre a questo, è quello di continuare a denunciare le violazioni dei diritti umani, lo strangolamento di Gaza, la costruzione del muro e di nuovi insediamenti, che sono di fatto gli ostacoli più grandi alla pace. Non dobbiamo commettere l´errore di far cadere l´oblio su quanto succede in Palestina. Forse, dopo Oslo, l´errore del movimento di solidarietà con il popolo palestinese è stato proprio quello di pensare che il traguardo della pace era vicino, limitandosi a un ruolo di spettatore. Dopo Annapolis, a maggior ragione, è un lusso che non possiamo permetterci. 24 ESTERI Ungheria revanscismo di destra e persecuzione anticomunista M ASSIMO C ONGIU * * RICERCATORE E GIORNALISTA C ome in altri paesi dell’Europa centro-orientale anche in Ungheria i movimenti nazionalisti si organizzano ed esprimono orientamenti condivisi da quanti versano nel malcontento e non riescono a trovare la loro collocazione nella società attuale. La più recente iniziativa del radicalismo magiaro di destra riguarda la creazione della «Guardia ungherese» (Magyar Gárda), voluta dal partito Jobbik, una delle due formazioni di estrema destra del panorama politico nazionale. La nascita ufficiale della Guardia ungherese, un corpo paramilitare, ha avuto luogo lo scorso mese di agosto con una cerimonia solenne che si è svolta a Buda, nel quartiere del Castello, alla presenza di un migliaio di persone. Tra esse Maria Wittner, una delle protagoniste dei fatti del ’56, attualmente deputata del Fidesz di Viktor Orbán, principale partito d’opposizione al governo di centro-sinistra. La manifestazione, che è stata aperta proprio dalla Wittner, ha visto la partecipazione di tre sacerdoti delle chiese cattolica, riformata ed evangelica, che hanno benedetto i vessilli e i simboli nazionali fatti sventolare dai primi 56 aderenti all’organizzazione, consacrati, questi ultimi, religiosamente. Tra gli altri, i membri della comunità ebraica d’Ungheria sono intervenuti a denunciare l’accaduto e hanno fatto notare quanto divise, berretti e stendardi somigliassero sinistramente alle croci frecciate che, sotto l’occupazione nazista, mandarono nei campi di concentramento circa 400.000 persone. Secondo quanto affermano i suoi ideatori, la Guardia ungherese è nata per porre rimedio all’attuale decadenza dello stato danubiano sul piano spirituale e dei valori nazionali. Gábor Vona, presidente di Jobbik, aggiunge che questo corpo è stato creato allo scopo di abbattere il regime «comunista» che, a suo dire, tuttora affligge l’Ungheria. Il paese, per Vona, ha bisogno di essere difeso da pericoli interni ed esterni che possano sottrarre a Budapest sovranità territoriale. Per questo la Guardia si dice pronta a uno scenario di guerra e Vona vorrebbe che i suoi membri cominciassero a seguire regolari esercitazioni militari con armi in mano (per quanto la cosa sia illegale). La nascita del corpo ha fatto temere che si verificassero tumulti in occasione del cinquantunesimo anniversario dei fatti del ’56. Le paure erano alimentate da quanto accaduto un anno prima nelle vie centrali di Budapest: in effetti, anche stavolta hanno avuto luogo disordini, seppure meno gravi di quelli di fine ottobre 2006. Quest’anno, due giorni prima dell’anniversario, la Guardia ungherese ha dato vita a un’altra manifestazione nella centrale e simbolica piazza degli Eroi, che ha accolto altri 600 membri convinti della necessità di instaurare un magistero morale col quale rinsaldare la coscienza nazionale della popolazione. Stando alle dichiarazioni rilasciate dai dirigenti di Jobbik, le richieste di adesione al partito sarebbero state numerose (a oggi, complessivamente, 4.000). E le attività della Magyar Garda sembrano interessare anche alcune personalità politiche che hanno partecipato al «rito» a titolo individuale per conferire al momento quanta più solennità possibile. 25 26 La più recente iniziativa del radicalismo magiaro di destra riguarda la creazione della «Guardia ungherese» (Magyar Gárda), voluta dal partito Jobbik, una delle due formazioni di estrema destra del panorama politico nazionale L’esistenza di questa organizzazione è diventata in poco tempo un caso politico che ha visto il governo criticare l’opposizione, anche i partiti della destra moderata, per il loro atteggiamento timido nei confronti della Guardia e del suo confuso programma di difesa. Nella circostanza è stata notata la fin troppo tiepida reazione di László Sólyom, Presidente della Repubblica, impegnato in un rapporto teso con il Primo Ministro, tanto più se si pensa che la prima delle manifestazioni ufficiali della Guardia ha avuto luogo nelle immediate vicinanze del palazzo presidenziale. Da notare che, a quanti denunciano la pericolosità dell’iniziativa, Vona risponde che quella appena nata è un’organizzazione «tradizionalista e culturale» non violenta. Se è interpellato sui simboli della Guardia, in particolare quelli arpadiani adottati negli anni Quaranta dalle croci frecciate di Ferenc Szálasi, il presidente di Jobbik respinge ogni accostamento con le SS e con i corpi paranazisti ungheresi. Sta di fatto, però, che ricorrenti sono i suoi attacchi alla Federazione delle comunità ebraiche in Ungheria, considerata come un gruppo degenerato che fa un uso commerciale del suo passato storico. Così che oggi torna a suonare un sinistro campanello d’allarme: «la storia si ripete, c’è il peri- colo di tornare indietro». L’esistenza di una simile organizzazione e di forze politiche che la esprimono e ne determinano l’indirizzo mostra che in Ungheria sono sempre attivi ambienti che guidano la reazione, mimetizzandone i connotati con «ciò che è nuovo» e rispondendo pericolosamente all’oggettivo stato di disagio in cui versano vasti strati della società magiara. In un periodo di crisi materiale e di difficoltà a leggere le dinamiche di questa fase della storia europea, i settori più retrivi della politica si impegnano nella ricerca dei capri espiatori. Così la destra radicale ungherese (ma anche quelle dei paesi vicini) punta di nuovo il dito e fomenta ostilità in generale contro le presenze straniere nel Paese, accusate di minare le fondamenta della nazione. Come detto, a esprimere ora questi orientamenti sono due partiti: il già citato Jobbik, nato nell’ottobre del 2003, e il Miép, Partito Ungherese della Giustizia e della Vita, attivo dal 1993: un nome, quest’ultimo, che richiama alla mente quello di un partito filonazista della Seconda guerra mondiale. Il suo leader è da sempre István Csurka, ex scrittore, capelli tagliati a spazzola e predilezione per la giacca nera con alamari, retaggio della tradizione magiara. Alle elezioni del 2006, questi due soggetti poli- ESTERI è significativo che le anzi dette proteste siano state presentate dai dimostranti come un nuovo ’56 tici hanno dato vita a un’alleanza elettorale chiamata Harmadik út, cioè Terza via, che però non ha ottenuto il 5% dei voti, quanto cioè è necessario per l’ingresso nell’assemblea nazionale (da cui perciò tale raggruppamento è rimasto fuori). Miép e Jobbik sono nati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro e la composizione del secondo è anagraficamente più giovane, ma lo scarto generazionale non impedisce che vi sia una sostanziale convergenza di vedute. Entrambi nutrono avversione nei confronti degli immigrati, si distinguono per antisemitismo, xenofobia e omofobia: in questo quadro, raccolgono anche i malumori e l’ostilità nei confronti dell’Unione Europea, dichiarano apertamente il loro antiliberismo e insistono sulla necessità di ristabilire i valori cristiani in Ungheria. Ogni anno, ai primi di dicembre, gli attivisti di Jobbik piazzano nelle vie centrali della capitale, delle vistose croci di legno per ricordare che il Natale è una festa religiosa e non consumista. Le due suddette forze politiche si battono per l’ordine – che a loro avviso va tutelato con il ripristino della pena di morte – e in difesa dell’amor patrio, che deve essere soddisfatto con il recupero dei territori perduti dall’Ungheria dopo la Prima guerra mondiale con il Trattato del Trianon: firmata nel 1920, l’intesa ridusse di due terzi e tre quinti, rispettivamente, la superficie e la popolazione dell’Ungheria. Il Miép e Jobbik accusano il Fidesz di tradimento per aver votato, con il Governo, l’adesione della Romania all’Unione Europea senza preoccuparsi troppo della minoranza magiara presente in quel paese, allorché la destra radicale chiedeva come requisito d’ingresso l’autonomia degli ungheresi di Transilvania. Come si vede, le destre cercano abilmente di mescolare i temi dell’attualità politica e sociale con un armamentario più tradizionale e reazionario. Esse, nella loro espressione moderata come in quella estrema, hanno ispirato le proteste scatenatesi l’anno scorso contro il Governo. Le dimostrazioni sono iniziate in un contesto di malcontento generale per la stretta economica annunciata dalla maggioranza e tale da pesare soprattutto sui settori più svantaggiati della popolazione, costituiti da famiglie a basso reddito e pensionati. Le misure di austerità sono state come al solito adottate in nome dell’equilibrio dei conti e in funzione dell’euro (per la cui adozione sono comunque previsti ancora degli anni). Ben presto le dimostrazioni sono diventate violente, con l’attacco alla televisione di stato, la notte del 19 settembre, seguita da altre notti di scontri con la polizia e dal presidio permanente dei manifestanti di destra sul piazzale antistante il palazzo del parlamento. L’occupazione è durata circa un mese ed è stata caratterizzata da espressioni di magiarità, dall’esibizione di vessilli e indumenti facenti parte della tradizione nazionale e da discorsi pieni di livore e patetismo patriottico pronunciati di fronte a una platea composta anche da povera gente. Al malcontento economico si intrecciavano (e si intrecciano tuttora) motivi nazionalistici: la sera, i manifestanti recitavano in coro il Padre nostro in espressioni di fede cristiana mista a elementi pagani, derivanti dal mito degli antenati e della conquista da parte di questi ultimi del territorio su cui sorge l’attuale Ungheria. Ieri come oggi, i nazionalisti chiedono che la costituzione nazionale venga riscritta nel segno della Sacra corona, quella del primo monarca e santo ungherese. È significativo che le anzi dette proteste siano state presentate dai dimostranti come un nuovo ’56. Appare evidente che quello degli ungheresi con la loro storia più o meno recente sia un rapporto controverso. Ma il punto di fondo, politicamente essenziale, sta nel fatto che quanti non si ritrovano nelle logiche liberiste che governano l’Ungheria di oggi sottolineano che soprattutto il centro-sinistra ha, dalla metà degli anni Novanta, favorito un capitalismo selvaggio e assecondato la volontà delle istituzioni internazionali, l’Ue e la Nato, delle quali il paese fa parte. Ad esempio, l’Mszosz, il principale sindacato magiaro, non cessa di denunciare i problemi sociali e la mancanza di solidarietà in cui il Paese è precipitato. Così l’esecutivo formato da socialisti e liberaldemocratici è oggi in grave difficoltà ed è quotidianamente bersaglio degli attacchi dell’opposizione che lo accusa di aver impoverito il paese. È in tale contesto di crisi politica, sociale ed economica, che si inserisce 27 28 l’offensiva giudiziaria nei confronti del Munkaspárt (Partito operaio), il quale è stato di recente accusato di «diffamazione pubblica». Questo grave episodio, pericolosamente lesivo della tenuta democratica del Paese e che vede sotto attacco i dirigenti comunisti, è stato originato da una dichiarazione del gruppo dirigente del partito nel corso di una conferenza stampa. Il commento si riferiva alla decisione del Tribunale di Budapest di invalidare la risoluzione del Munkaspárt di espellere alcuni membri del partito e stigmatizzava la stessa come una sentenza politica più che giuridica. Ciò ha provocato una denuncia ai danni del presidente Gyula Thürmer e di altri sei membri della presidenza del Munkaspárt, per i quali si è subito profilata la prospettiva di essere condannati a due anni di reclusione. Lo scorso sei novembre il tribunale di Székesfehervár, in primo grado, ha di fatto riconosciuto colpevoli di diffamazione pubblica la presidenza del partito e il leader Thürmer. Nel corso del processo gli accusati hanno basato la loro difesa (alla quale hanno contribuito anche alcuni membri di un’organizzazione per i diritti civili) sulla rivendicazione della libertà di parola e d’opinione, garantita dall’articolo 61 della Costituzione ungherese: di fatto, essi non hanno fatto altro che esprimere un parere su di un provvedimento della corte. Il verdetto è stato pronunciato con rito di sospensione. Ciò vuol dire che se nell’arco dei prossimi due anni gli imputati dovessero ripetere le critiche all’operato del tribunale, la sentenza avrebbe effetto immediato. L’iter processuale non è comunque finito qui, dal momento che il presidium del Munkaspárt si è ovviamente rivolto alla corte d’appello. Il giorno del verdetto gruppi di militanti comunisti hanno dato luogo a dimostrazioni di protesta davanti al tribunale. E, in generale, il processo ha avuto un’eco internazionale: che, tra l’altro, ha portato a una raccolta di firme da parte di parlamentari italiani. Purtroppo, l’episodio non è unico nell’area: come è noto, nella vicina Repubblica Ceca è stata messa fuori legge l’Unione della gioventù comunista (Ksm) e ne è stato chiuso anche il sito (il quale però è ancora funzionante). A Praga la destra intende presentare in parlamento un disegno di legge per rendere illegali tutti i simboli del comunismo. In generale, un siffatto clima è ben presente nell’area: ciò è ad esempio dimostrato, a Budapest, dal recente caso di profanazione della tomba dell’ultimo leader comunista magiaro János Kádár. Come si vede, revanscismo di destra e persecuzione anticomunista sono le due facce di una stessa inquietante medaglia. Guai ad abbassare la guardia. ESTERI Saharawi I l Fronte Polisario (Frente Popular para la Liberacion de Saguia El Hamra y Rio de Oro) è l’organizzazione politica che rappresenta le popolazioni del Sahara occidentale e da decenni si batte per la loro sovranità statuale. Significativo è il sostegno internazionale promosso al fine di superare una situazione di stallo divenuta intollerabile per le 200 mila persone che da quasi una trentina d’anni risiedono in questo martoriato territorio, di fatto in condizione di esiliati. Era infatti la fine del 1975 quando il Marocco decideva di rompere lo status quo lanciando un’offensiva militare con l’obiettivo di ridurre alle ragioni del più forte il popolo saharawi e acquisire il controllo dell’intera zona. Sono seguiti sedici anni di conflitto armato, che hanno sospinto una parte della popolazione oltre i confini marocchini in territorio algerino e che tuttavia non sono bastati a spezzare una strenua resistenza, organizzatasi appunto nel Fronte Polisario. Nel settembre del ’91 si è arrivati a un precario «cessate il fuoco». Da allora, i saharawi vivono doppiamente divisi: una grande parte, circa un milione di persone, è residente in Marocco (forzosamente «assimilata», essi tengono a ricordare, più che felicemente integrata); e altri 200 mila nella vasta regione propriamente detta Saharawi, a loro volta divisi tra quanti vivono nei cosiddetti «territori liberati» – quelli acquisiti manu militari alla giurisdizione del Fronte – e coloro che sono rimasti nei «territori occupati», la porzione del Sahara occidentale che si estende sino alle coste oceaniche ancora controllata dal Marocco. Queste ultime due fasce territoriali sono tra l’altro separate da un muro, un bastione militarizzato eretto dai marocchini circa venti anni or sono, che ha frantumato nuclei familiari e sottratto gente alla propria casa d’origine: evidentemente questo genere di costruzioni è un’espressione costante dell’arroganza coloniale. Così centinaia di migliaia di persone sono costrette a vivere grazie agli aiuti umanitari, alla cordiale ospitalità e alla solidarietà degli algerini, al generoso sostegno di Cuba (costantemente impegnata nell’assistenza sanitaria e nell’accoglienza offerta gratuitamente a un gran numero di giovani studenti saharawi). Ma è evidente che una simile situazione non può durare in eterno. In effetti, come per i palestinesi, alle ragioni di una popolazione che chiede di ritrovare le basi materiali e istituzionali della propria identità si contrappongono gli interessi di chi impedisce tale esito attraverso l’occupazione territoriale e la repressione militare. Si tratta di un episodio esemplare di decolonizzazione incompiuta: e come avviene spesso in questi casi, dietro la bruta volontà di dominio spuntano prosaiche motivazioni di bottega. Dati che risalgono al 1974 e pubblicati dalla Banca Mondiale fanno del Sahara occidentale il territorio più ricco del Magreb e uno dei più ricchi dell’intera Africa. Non siamo dunque semplicemente in presenza di una terra desertica, abitata da popolazioni nomadi dedite all’allevamento di cammelli e ovini e alla cura di alcune delimitate colture agricole. Vastissime fette di terreno sono veri e propri giacimenti di fosfati a cielo aperto. L’oceano antistante 29 documentazione di diritto internazionale sulla questione del Sahara Occidentale R 30 questo tratto di costa africana – che, come detto, cade oggi sotto la giurisdizione marocchina – è tra i più pescosi del mondo e contribuisce ad alimentare in termini consistenti l’export della regione. Ma, soprattutto, il terreno sottomarino custodisce ricchi giacimenti di idrocarburi: e anche qui, purtroppo, la storia si ripete. Il 29 gennaio del 2001 il segretariato generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto illegali gli accordi tra il Marocco e le multinazionali Ker Megeer (Usa) e Total (Francia). Simili contenziosi la dicono lunga sulla natura del conflitto in corso. La Francia in particolare sta dimostrando che, quando sono in gioco i suoi interessi «vitali», non si attarda in remore pacifiste e sostiene con decisione il ruolo stabilizzatore (o, se si preferisce, di gendarme) che il Marocco svolge in questa regione. Un problema non da poco per un’Europa che intendesse volgersi al Mediterraneo e operare in quest’area all’insegna della solidarietà e di una pace equa. Nel luglio del 2003, al termine di una serrata discussione, l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato la risoluzione n°1495, la quale in sostanza accoglie il «Piano di pace per l’autodeterminazione del Sahara Occidentale» già proposto dall’inviato speciale del Segretario Onu, James Baker. Il piano prevede la concessione di una larga autonomia alla regione Saharawi e la conferma dello svolgimento di un referendum popolare che legittimi il passaggio istituzionale in questione (o viceversa sancisca la definitiva annessione al Marocco) e che coinvolga tutti i residenti saharawi. La suddetta risoluzione Onu ha costretto le parti in causa a prendere ufficialmente una posizione inequivoca: il Marocco è uscito allo scoperto respingendo la risoluzione. Il Fronte Polisario, seppure con riserva, l’ha accettata: l’autonomia non è certo equivalente a una sovranità completa, all’esistenza di un’indipendente Repubblica Araba Democratica del Saharawi, ma è tuttavia il primo riconoscimento di una peculiarità storica, politica, istituzionale. Non è una strada facile: il referendum deve essere ancora svolto. Ma il popolo saharawi, che da decenni vive da esule nelle tendopoli, ha dimostrato di saper resistere anche nelle condizioni più difficili. Come recita un loro antico detto: prima di ogni oasi c’è un deserto da affrontare. ISOLUZIONE DELL’A G O NU N . 1514 DEL DICEMBRE 1960 SULLA DECOLONIZZAZIONE : sancisce il diritto dei popoli all’auto-determinazione, la de-colonizzazione dei Paesi sottoposti a dominazione straniera, l’indipendenza delle misure per lo sviluppo economico, sociale e culturale, l’attivazione di misure politiche immediate per garantire l’accesso delle popolazioni all’indipendenza, la non-conformità ai princìpi e ai valori dell’Onu di qualunque violazione della sovranità, dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale. RISOLUZIONE DELL’AG ONU N. 1541 DEL DICEMBRE 1960 SULLE MODALITÀ DI ATTUAZIONE DEL DIRITTO DI AUTO-DETERMINAZIONE: il processo di decolonizzazione deve avere come esito la auto-determinazione, la quale può non coincidere con l’indipendenza ma può corrispondere a forme di autonomia con riconoscimento della piena sovranità sui territori amministrati e contemplare forme di associazione con uno Stato indipendente; il processo di auto-determinazione deve accompagnarsi all’emancipazione popolare. IV COMMISSIONE ONU SULLA DECOLOSAHARA OCCIDENTALE (1963): riconoscimento del principio di auto-determinazione del Sahara Occidentale in linea con la Risoluzione 1514. DOCUMENTO DELLA NIZZAZIONE DEL RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 2229 DEL 20 DICEMBRE 1966 SULL’INDIZIONE DEL REFERENDUM DI AUTO-DETERMINAZIONE: richiesta alla Spagna in qualità di potenza amministratrice di organizzare un referendum sotto egida ONU per consentire alla popolazione Saharawi di esercitare il diritto di auto-determinazione. RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 2883 SULLA LOTTA PER L’INDIPENDENZA DEL SAHARA OCCIDENTALE: richiama il principio di auto-determinazione e conferma l’appoggio alla lotta per l’indipendenza del popolo Saharawi, sollecitando gli Stati ad accordare a questa il proprio sostegno. RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 3292 DEL 13 DICEMBRE 1974 SUL RINVIO DELLA CONTROVERSIA SUL SAHARA OCCIDENTALE ALLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA: richiesta di un parere giuridico in ordine alla questione della «terra nullius» all’atto della colonizzazione spagnola e alla questione dei vincoli giuridici del Sahara Occi- ESTERI dentale con il Marocco e la Mauritania, a norma dell’art. 96 Carta Onu e dell’art. 65 Statuto Cig. (Fronte per la liberazione del Sahara Occidentale e del Rio de Oro). AVVISO CONSULTIVO DELLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA: emesso in data 16 ottobre 1975 contenente i pareri proposti in ordine alla risoluzione delle controversie sottoposte all’attenzione della Cig. RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 3222 DEL 1976 relativa all’investimento di una organizzazione regionale della questione Saharawi, con la quale affida a un’organizzazione regionale competente (Oua) l’approccio alla questione e le proposte di avvicinamento delle parti interessate. RAPPORTO FINALE della missione nel Sahara Occidentale e nei Paesi interessati su mandato della Commissione Decolonizzazione Onu con decisione presa il 27 marzo 1975 per il periodo 8/5 – 14/6 1975. RISOLUZIONE DEL CS DELL’ONU N. 377 DEL 22 OTTOBRE 1975 sulla consultazione delle parti in ordine alla «Marcia Verde» nel Sahara Occidentale: richiesta al Segretario Generale Onu di avviare consultazioni immediate con le parti interessate per garantire che accordino ritegno e moderazione all’iniziativa intrapresa. RISOLUZIONE DEL CS DELL’ONU N. 379 DEL 2 NOVEMBRE 1975, inerente la sollecitazione di una condotta di moderazione sulla questione in oggetto da parte di tutti i soggetti interessati. APPELLO DEL CS DELL’ONU DEL 4 NOVEMBRE 1975 relativo al contenimento della Marcia Verde con mandato conferito al presidente del Cs (Malik, Urss) di chiedere ad Hassan II la fine della Marcia Verde. ATTO DI RICONOSCIMENTO da parte delle Nazioni Unite dello status di soggetto internazionale in capo al Polisario RISOLUZIONE DEL CS DELL’ONU N. 658 DEL 27 GIUGNO 1990 di accoglimento del Piano di Regolamento delle Nazioni Unite per la soluzione del conflitto nel Sahara Occidentale. RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 690 DEL 29 APRILE 1991 relativo all’istituzione della Minurso: accoglimento del Rapporto del Segretario Generale Onu in ordine alla mediazione per la risoluzione della questione del Sahara Occidentale e istituzione della Minurso (Missione di Interposizione delle Nazioni Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale) per garantire il rispetto del cessate il fuoco. RISOLUZIONE DELL’AG DELL’ONU N. 1495 DEL 31 LUGLIO 2003 di accoglimento della proposta del Rappresentante Speciale del Segretario Generale Onu (James Baker III) denominata «Piano per l’auto-determinazione del popolo Saharawi» in ordine al processo di pace e per il referendum popolare. 31 Mohamad Abdelaziz intervista a (Presidente della Repubblica Araba Democratica Saharawi) 32 L a questione del Sahara Occidentale è recentemente tornata all’attenzione del dibattito politico. Lo scorso 2 aprile, presso la direzione di Rifondazione Comunista, si è tenuto un incontro tra il segretario Franco Giordano e una delegazione del Fronte Polisario, movimento di liberazione del popolo Saharawi, guidata da Omar Mih, rappresentante in Italia. La riunione ha accompagnato un’audizione parlamentare di Aminatou Haidar, esponente della lotta di auto-determinazione Saharawi, recentemente insignita della cittadinanza onoraria della città di Napoli. L’incontro ha costituito un utile aggiornamento sulla situazione dei diritti umani nel Sahara Occidentale e l’occasione per ribadire il «sostegno del Partito alla lotta del popolo Saharawi per l’autodeterminazione». Da più di trent’anni, il Sahara è occupato dall’esercito del Marocco che, per interessi strategici ed economici, legati allo sfruttamento delle risorse (fosfati e pesca), continua a controllarlo militarmente, in violazione del mandato dell’Onu, che ne ha ricordato in più occasioni il diritto di auto-determinazione, in particolare con le risoluzioni 658 (1990), 690 (1991) e, più recentemente, 1495 (2003). In occasione di una recente (24-25 ottobre) visita in Italia, di ritorno dalla IV Commissione Onu sulla decolonizzazione, abbiamo incontrato il Presidente della Rasd (la Repubblica Araba Democratica Saharawi) Mohamad Abdelaziz, cui abbiamo rivolto alcune domande. G IANMARCO P ISA * IL 9 E 10 OTTOBRE SCORSO SI È RIUNITA A NEW YORK LA IV COMMISSIONE DELLE NAZIONI UNITE SULLA DECOLONIZZAZIONE. IL TEMA SALIENTE È STATO QUELLO DEL SAHARA OCCIDENTALE. PER L’ITALIA SONO INTERVENUTI: NICOLA QUATRANO, DELL’OSSERVATORIO INTERNAZIONALE, CARMEN MOTTA, PARLAMENTARE, SANDRO FUCITO, DELEGATO DAL SINDACO DI NAPOLI, FABIO MARCELLI, GIURISTA E CINZIA TERZI, COORDINATRICE DELLE ASSOCIAZIONI A SOSTEGNO DEL POPOLO SAHARAWI DELL’EMILIA ROMAGNA. QUALI SONO STATI I CONTENUTI DELLA COMMISSIONE E QUALI RISULTATI HA PRODOTTO? La IV Commissione delle Nazioni Unite per la decolonizzazione, riunitasi lo scorso ottobre, ha discusso, in primo luogo, la questione del Sahara Occidentale. È opportuno sottolineare questo aspetto: la comunità internazionale discute ancora oggi della questione del popolo Saharawi come di un problema di decolonizzazione. Non è la prima volta, del resto, che le Nazioni Unite affrontano la questione: dal 1964 il tema dell’auto-determinazione Saharawi è nell’agenda dei lavori della Commissione due volte all’anno, e, in virtù delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, è destinato a rimanervi, finché la questione del Sahara Occidentale non sarà risolta con un referendum popolare sull’auto-determinazione, che dia al popolo Saharawi la possibilità di decidere liberamente il proprio futuro. Quest’anno la discussione in Commissione è stata particolarmente partecipata e molti Paesi sono intervenuti per chiedere l’applicazione del diritto di auto-determinazione per i Saharawi. Un altro aspetto importante è stato rappresentato dalla presenza di oltre 37 personalità, del mondo della politica, della scienza e della cultura (tra di essi anche parla- * P RESIDENTE ASSOCIAZIONE «O PERATORI DI P ACE – C AMPANIA » ONLUS ESTERI La IV Commissione delle Nazioni Unite per la decolonizzazione, riunitasi lo scorso ottobre, ha discusso, in primo luogo, la questione del Sahara Occidentale. è opportuno sottolineare questo aspetto: la comunità internazionale discute ancora oggi della questione del popolo Saharawi come di un problema di decolonizzazione mentari, intellettuali, giuristi etc.) a sostegno della causa Saharawi. Infine, è stata molto significativa per noi la presenza di una rappresentanza del Comune di Napoli, che ha attivamente preso parte alla discussione. I lavori della Commissione si sono conclusi con l’approvazione di un documento che conferma gli sforzi della comunità internazionale per l’applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e sancisce il diritto all’auto-determinazione, ricordando anche la necessità di indire un referendum nei territori Saharawi per decidere del futuro della regione. IL TEMA DELLA DECOLONIZZAZIONE SEMBRA ESSERE SCOMPARSO DALL’AGENDA INTERNAZIONALE E SI FATICA ANCORA A RICONOSCERE NELLA QUESTIONE SAHA- RAWI NON SOLO UN PROCESSO DI EMANCIPAZIONE E DI RIVENDICAZIONE DEI PROPRI DIRITTI MA ANCHE, E PER CERTI VERSI SOPRATTUTTO, UNA LOTTA DI AUTO-DETERMINAZIONE. QUAL È LA POSIZIONE DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE IN ME- RITO E, IN PARTICOLARE, QUELLA DELL’UNIONE EUROPEA E DELL’UNIONE AFRICANA? Come dicevo prima, la questione del Sahara è questione di decolonizzazione, dal momento che il governo del Marocco continua, da più di quaranta anni, a occupare il Sahara Occidentale, a rifiutarsi di contribuire attivamente al processo negoziale e a violare i diritti umani e i diritti di libertà del popolo Saharawi. La comunità internazionale riconosce tale questione come una questione di decolonizzazione, ma finora non sono stati fatti molti passi in avanti sulla strada dell’auto-determinazione, anche perché il governo del Marocco ha sempre ostacolato questo processo, capitalizzando il sostegno dei propri alleati. Tuttavia, in Europa si sta sviluppando una sensibilità molto forte intorno al valore della nostra lotta, che è una lotta pacifica di rivendicazione dei nostri diritti, non è una lotta violenta né tanto meno una lotta che intende sopraffare o violare i diritti del popolo marocchino. Pertanto, l’Unione Africana ha riconosciuto lo status internazionale del Fronte Polisario, che rappresenta il popolo Saharawi, e diversi Stati africani hanno riconosciuto la Rasd, cioè la Repubblica Araba Democratica Saharawi, che rappresenta l’istituzione politica del Sahara Occidentale. Per quanto riguarda l’avanzamento del negoziato, siamo entrati di recente in una nuova fase: a giugno è iniziato un ulteriore round negoziale tra il Fronte Polisario e il Marocco sotto l’egida delle Nazioni Unite, la prima sessione si è tenuta nello stesso mese di giugno, la seconda sessione ad agosto e la terza sessione è attesa per quest’autunno, in Svizzera, in una data che deve essere ancora confermata. In questo nuovo round negoziale, il Fronte Polisario ha presentato una proposta costruttiva, finalizzata all’organizzazione di un referendum popolare affinché il popolo Saharawi liberamente possa scegliere tra tre alternative: l’indipendenza, l’integrazione nello Stato marocchino, oppure l’autonomia sotto la sovranità del Marocco. Faccio notare che, nella sua deliberazione, il Fronte Polisario ha incluso anche la proposta fatta propria inizialmente dal Marocco, vale a dire quella dell’autonomia nell’ambito della sovranità marocchina, e vi ha compreso anche l’ipotesi della piena integrazione nell’ambito del Marocco; inoltre, il Polisario ha già dichiarato ufficialmente che, nel caso la scelta cadesse sull’indipendenza, la sovranità sul Sahara Occidentale sarebbe negoziata in modo aperto con il Marocco, tenendo in considerazione le preoccupazioni del governo marocchino, specie per quanto riguarda le questioni economiche e della sicurezza. IL 3 AGOSTO SCORSO SI È REGISTRATA UNA VERA E PROPRIA PROVOCAZIONE DELLA POLIZIA MAROCCHINA CONTRO QUATRANO, OSSERVASENZA ALCUNA COMANDANTE KHAR- IL MAGISTRATO TORE INTERNAZIONALE. RAGIONE, IL BOUCH DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA DI LAYOUNE NE HA SEQUESTRATO LA VET- TURA TRATTENENDOLA CON VARIE SCUSE PER QUASI 24 ORE, E TRATTE- NENDO POI LO STESSO QUESTO QUATRANO. DÀ LA MISURA DEL CLIMA MAROCCO SULLA SAHARAWI. CI PUOI DARE UN QUADRO DELLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI CONTRO I SAHARAWI DA PARTE DEL GOVERNO DEL MAROCCO E CHE SI RESPIRA IN QUESTIONE DELLA REPRESSIONE INTERNA CONTRO I SOSTENITORI MAROCCHINI DEL POPOLO SAHARAWI? Conosco quanto è successo la scorsa estate e, purtroppo, non si tratta dell’unico caso. Siamo profondamente 33 34 preoccupati per la situazione assai pericolosa in cui versa il popolo Saharawi, soprattutto per quello che riguarda i profughi che vivono nell’Algeria meridionale. La situazione dei profughi nei campi che si trovano nella regione di Tindouf è gravissima, specialmente per quello che riguarda le condizioni igienico-sanitarie e la situazione umanitaria in generale. Non bisogna dimenticare che questi profughi vivono in quelle regioni e in quelle condizioni ormai da 32 anni. La nostra preoccupazione riguarda in primo luogo la sistematica violazione dei diritti umani, ma anche la violenta repressione contro la popolazione dei territori occupati del Sahara Occidentale. Siamo convinti che il referendum potrebbe rappresentare una soluzione negoziale a questo stato di cose ma siamo anche preoccupati, considerando il prossimo round negoziale e la chiusura da parte del governo del Marocco, che questa opportunità vada persa. Per noi, la tutela dei diritti umani del nostro popolo e la lotta per la auto-determinazione, attraverso il referendum popolare, devono andare avanti insieme. Le principali preoccupazioni che abbiamo sono queste: la questione dei diritti umani e, in generale, della protezione della popolazione civile; la situazione umanitaria delle popolazioni rifugiate nell’Algeria meridionale, con particolare riferimento alla situazione alimentare e igienico-sanitaria; la questione politica, che ci spinge a ritenere che oggi sia necessario un nuovo piano per risolvere la questione del Sahara Occidentale, perché siamo rimasti l’unica colonia in territorio africano e dobbiamo moltiplicare i nostri sforzi per superare l’intransigenza del governo marocchino. Chiediamo una soluzione diplomatica, giusta e democratica, basata sul diritto internazionale e sulla tutela dei diritti umani e per questa soluzione il popolo Saharawi sta lottando da 32 anni. L’ANNO NAPOLI, IERVOLINO HA CONAMINATOU HAIDAR, L’AUTODETERMINAZIONE. DA QUI SCORSO IL SINDACO DI FERITO LA CITTADINANZA ONORARIA AD LEADER DELLA LOTTA PER SI SONO SVILUPPATE VARIE INIZIATIVE SUL TERRENO DELLA SOCIETÀ CIVILE IN ITALIA A SOSTEGNO DELLA CAUSA RAWI. CI SAHA- PUOI ILLUSTRARE CHE TIPO DI IMPEGNO LA SOCIE- TÀ CIVILE (PARTITI, SINDACATI, ASSOCIAZIONI) HA POTUTO METTERE IN CAMPO E CHE TIPO DI SOSTEGNO O PROGETTI IL POPOLO SAHARAWI RITIENE PIÙ EFFICACI PER LA PROPRIA CAUSA? Questa occasione rappresenta una circostanza particolarmente importante per noi. Colgo l’occasione per salutare le autorità della città di Napoli e il movimento di solidarietà con il popolo Saharawi che è attivo e presente a Napoli. Il fatto che il sindaco abbia concesso la cittadinanza onoraria ad Aminatou Haidar, che da anni si batte per i diritti del popolo Saharawi e che ha ripetutamente subito vessazioni, discriminazioni e torture da parte delle autorità del Marocco, è un fatto di grande importanza che salutiamo con riconoscenza. Inoltre, non va dimenticato, come si diceva prima, che Napoli è stata presente anche ai lavori della recente Commissione sulla decolonizzazione delle Nazioni Unite e anche questo è uno sforzo che testimonia della partecipazione alla lotta, legittima e pacifica, del popolo Saharawi per i propri diritti. Ovviamente, quanto vale per la città di Napoli vale anche per tutte quelle altre realtà, in Italia e nel mondo, che esprimono vicinanza e sostegno al Sahara Occidentale. L’appello che noi muoviamo alle istituzioni politiche e alla società civile è che si mobilitino per il Sahara Occidentale, perché la stabilità, la giustizia e la pace possano vivere nella regione. Sono numerose le forme di intervento che la società civile, le associazioni e i comitati hanno realizzato negli ultimi anni a sostegno del popolo Saharawi: ci sono progetti di educazione nelle scuole, ci sono iniziative di acco- ESTERI glienza di giovani e bambini Saharawi nelle scuole italiane, ci sono diverse altre manifestazioni di solidarietà come quelle dei comitati cittadini a sostegno del nostro popolo e della nostra lotta. Noi invitiamo tutti a venire nel Sahara, a visitare i nostri campi, a conoscere la nostra realtà. Solo così, del resto, è possibile capire la situazione nella quale viviamo. IL 12 CAMERA DEI DEPUTATI SI È SAHARAWI. LA MOZIONE DI SOSTEGNO AL FRONTE POLISARIO (PRIMO FIRMATARIO CARLO LEONI, CO-PRESIDENTE DELL’INTERGRUPPO PARLAMENTARE ITALIA-SAHARAWI), È STATA APPROVATA CON UNA MAGGIORANZA SIGNIFICATIVA. CIÒ LASCIA BEN SPERARE ANCHE PER IL FUTURO. NON È UN CASO CHE, ANCORA PIÙ DI RECENTE (19-21 OTTOBRE), NELL’OCCASIONE DELLA 33A CONFERENZA DELL’EUCOCO (IL COORDINAMENTO EUROPEO DEI COMITATI DI SOSTEGNO), IL MINISTRO DEGLI ESTERI, D’ALEMA VI ABBIA ACCOLTO NELLA SALA DELLA VITTORIA ALLA FARNESINA CON UN AUSPICIO: «IL NOME DI QUESTA SALA VI SIA DI BUON AUGURIO». CHE PROSPETTIVE VEDI PER LA LOTTA DI INDIPENDENZA DEL POPOLO SAHARAWI? LUGLIO SCORSO ANCHE LA PRONUNCIATA A FAVORE DEL POPOLO L’incontro recente con il ministro D’Alema è stata una circostanza preziosa, che testimonia della vicinanza del popolo italiano e della sensibilità da parte delle autorità italiane verso la questione del Sahara Occidentale e, in particolare, il tema dei diritti del popolo Saharawi. Anche l’ultima conferenza dell’Eucoco ha rappresentato un momento significativo, perché ha permesso di mettere in contatto diverse realtà che si stanno impegnando da anni sulla questione dell’auto-determinazione Saharawi e anche perché ha consentito un aggiornamento sugli sforzi diplomatici che sono in vigore, a livello internazionale, ad esempio per il riconoscimento dello status di soggetto di diritto internazionale al Fronte Polisario. Il Fronte Polisario è l’organizzazione politica che rappresenta la storia della lotta per l’auto-determinazione del popolo Saharawi. La mozione del Parlamento italiano riconosce il Fronte Polisario ed è un primo passo: il nostro obiettivo è quello di un riconoscimento pieno, da parte di tutta la comunità internazionale, del Fronte Polisario quale espressione della volontà politica del popolo Saharawi per la propria auto-determinazione. Pertanto, è necessario dare seguito a questa mozione parlamentare, ad esempio sostenendo il lavoro dell’Osservatorio Internazionale sui Diritti Umani nel Sahara Occidentale, che ha già svolto diverse missioni presso il nostro popolo e che sta sviluppando un lavoro di informazione molto utile e importante. La città di Napoli, tra le altre, può sostenere il lavoro dell’Osservatorio, perché è oggi più che mai necessario difendere i diritti del popolo Saharawi, proteggere i diritti umani nel territorio del Sahara e lavorare insieme perché i negoziati possano concretizzarsi. Le prospettive per la lotta pacifica del nostro popolo potranno essere positive se si darà modo al popolo Saharawi di decidere liberamente del proprio futuro, in linea con le risoluzioni dell’Onu e la giustizia internazionale. 35 solidarietà con il popolo saharawi Intervento tenuto il 10 ottobre 2007 presso la IV Commissione Onu-New York A LESSANDRO F UCITO * 36 Signor Presidente, signori della IV Commissione, H o l’alto onore di intervenire in questa sede prestigiosa perché delegato dal Sindaco di Napoli, onorevole Rosa Russo Iervolino, nella qualità di consigliere comunale e presidente della commissione relazioni internazionali del Comune di Napoli. Napoli: terza città d’Italia, da secoli punto di riferimento per l’intera regione del Mediterraneo, crocevia di popoli del Nord-Africa, esperienza di coabitazione pacifica dei suoi cittadini con immigrati, etnie e religioni diverse. Sede nei prossimi giorni del Forum delle religioni. In questo spirito negli ultimi anni il Comune di Napoli ha promosso l’accoglienza dei bambini saharawi e conosciuto la loro realtà. La testimonianza di Aminattou Haidar, leader del popolo saharawi, imprigionata e torturata a lungo nelle carceri marocchine, perseguitata per le sue idee, ha indotto il Comune di Napoli a conferirle la cittadinanza onoraria perché diversa fosse la considerazione nei suoi confronti del governo marocchino. Solo per salvare dalla pena di morte Safya Hussaini Tudu, condannata in Nigeria perché nubile e incinta, si è negli ultimi anni riconosciuta tale onorificenza nella nostra città. Abbiamo appreso, attraverso l’accoglienza dei bambini che promuoviamo da diversi anni insieme ad altre città italiane, della condizione di vita dei bambini saharawi. Essi vivono spesso in campi profughi, non accolti nelle scuole del Marocco, in una condizione di privazione e difficoltà sanitaria e alimentare. Tali privazioni dipendono non dall’assenza di risorse, ma dalla mancanza di un sistema istituzionale di regole e funzioni, possibile solo in presenza di uno stato riconosciuto. Conosciamo le deliberazioni delle Nazioni Unite in merito al riconoscimento e all’autodeterminazione del popolo saharawi e chiediamo che esse si traducano in atti concreti che rendano possibile l’indizione di un referendum in tempi immediati. Restiamo fermamente convinti che solo il diritto internazionale e il pieno riconoscimento dei suoi organismi possa consentire ai popoli di convivere pacificamente e non da occupati e occupanti e guardiamo con grande rispetto a una lotta condotta nel nome della pace e della assoluta non violenza. Disattendere le aspettative di chi chiede, attraverso il diritto internazionale, * CONSIGLIERE NAPOLI COMUNALE AL COMUNE DI ESTERI autodeterminazione significherebbe, purtroppo, riconoscere le ragioni di chi sceglie il conflitto e la violenza; ciò per noi rappresenterebbe una sconfitta. Anche noi abbiamo chiesto al Governo italiano di intervenire per il rispetto di tali principi e di rappresentare ciò in sede Onu. Apprendiamo con soddisfazione quanto deliberato dal Parlamento Italiano nello scorso mese di luglio. Vi chiediamo di procedere sulla strada dell’indizione di un referendum sull’autodeterminazione del popolo saharawi, ma anche di raccogliere le preoccupazioni alimentate dai rapporti del Segretario Generale dell’Onu circa le violazioni dei diritti umani che permangono nei territori occupati. Per far ciò è necessario che il mandato della missione «Minurso» (Missione di Interposizione delle Nazioni Unite per il referendum nel Sahara Occidentale) sia esteso alla vigilanza sul rispetto dei diritti umani, diritti questi fondamentali per ciascun individuo, e indispensabili per la reale possibilità di esprimere forme effettive di democrazia, ivi compreso il referendum. Ringrazio la commissione, il Presidente e tutti i presenti per l’attenzione prestata e l’opportunità offerta. 37 «massa critica» annotazioni teorico-politiche I 38 I n primo luogo vorrei discutere la tesi, non da pochi avanzata, che l’unificazione delle sinistre ha come preminente compito la ricostruzione della rappresentanza politica del lavoro. Questa posizione presuppone un convincimento, a mio giudizio, sbagliato: l’idea che all’egemonia capitalistica generalizzata degli ultimi 25 anni corrisponda un drastico abbattimento della rappresentanza politico-istituzionale del lavoro. Secondo me, è esattamente il contrario. Alla complessiva caduta dell’autonomia politica del lavoro si è accompagnata un’espansione sistemica della logica e della realtà della rappresentanza. Che cos’è la concertazione come sistema e come metodo se non una forma organica di rappresentanza politica socializzata e quindi di egemonia? Non è forse ciò la causa del fatto che nei principali paesi europei il sindacato maggioritario ha assunto, da molto tempo, una connotazione accentuatamente statale, mantenuta fin dentro la globalizzazione? Forse che la concertazione riguarda solo la contrattazione sindacale e non anche la legislazione e il governo della spesa pubblica? In realtà il nesso tra rappresentanza e concertazione è un nesso intrinseco, non estrinseco o meramente ideologico. Per questo non è certo casuale che fenomeni sociali pur così estesi come la disoccupazione di massa o il precariato occupazionale non trovino soggettività concertative organicamente rappresentative, essendo dimensioni negative del lavoro. La logica della rappresentanza esige, infatti, la formazione di soggetti sociali corporati, cioè definiti dalle relazioni e dalle compatibilità di sistema e non riconoscibili al di fuori di esse. L’esigenza di dividere l’unità del lavoro sociale in soggettività contrattuali, come già vide e postulò Hegel, è l’a-priori politico di Stato e società civile, congiuntamente. II Il concetto stesso di soggetto è inseparabile da quest’uso politico-statuale della modernità capitalistica, che lo costituisce e lo articola. La tramatura dei soggetti della società civile, in realtà, è in contraddizione con la figura materiale, unificata e cooperativa, della prassi produttivo-riproduttiva; con ciò che Marx nei Grundrisse nomina «general intellect», qualificandolo come sapere produttivo generale e individuo sociale, mai come soggetto. Qui sta la sola matrice materiale dell’autonomia politica di classe, di una democrazia emancipativa che infrange il compatibilismo del sistema curando l’indipendenza riproduttiva dei salariati e dei proletari e, su questa base, si mostra in grado anche di iniziativa riformatrice nel governo dello sviluppo e dell’innovazione. Il lavoro vivo esiste solo come potenza etico-politica diretta, invocarne la soggettività è strutturalmente contraddittorio perché il lavoro vivo è realmente capitale, suo valore d’uso, come mise in rilievo Claudio Napoleoni. F RANCESCO N APPO * Solo le forze non arrese alla concertazione e alle guerre della globalizzazione potranno dar vita a formazioni unitarie durevoli (…) Per far questo, è bene ribadirlo, la lotta deve essere portata contro tutti i compatibilismi, compresi quelli generati dai partiti, dalle coalizioni, dagli stessi movimenti * COMITATO P OLITICO NAZIONALE – P RC POLITICA INTERNA quella metafora di «massa critica» introdotta dal compagno Bertinotti e nel dibattito spesso ridotta al significato di adeguato peso elettorale. Quella metafora, a mio giudizio, trova la sua giusta dimensione etico-politica ma anche la sua piena efficacia, se collocata all’interno della differenza concettuale e pratica che decide della natura e dell’avvenire della politica: quella tra potenza e potere (Agamben) tra la vita che si dà forma solo nel presentarsi e l’esistenza assoggettata che riceve la sua forma solo dall’essere collocata nell’orizzonte trascendentale del sistema. La sua soggettività non è altro che la relazione corporata del capitale con se stesso, che si maschera da responsabilità produttiva del lavoro. Ben oltre il mero conflitto che la concertazione non esclude né in linea di principio né di fatto, la potenza politica del movimento operaio nell’esercizio della sua autonomia non è rappresentabile. L’autonomia politica del lavoro vivo, infatti, non ha altro presupposto che l’unità materiale della socialità produttiva in lotta contro le «astrazioni reali» del sistema. Per questo l’insorgenza politica di classe, mentre disocculta la fonte vera della valorizzazione, il lavoro vivo, svela e disegna l’unità di produzione e riproduzione nei linguaggi della cooperazione sociale, al di fuori di ogni prospettiva produttivistica e statalistica e della sua logica di potere. III I movimenti politici di classe e di massa non possono rappresentare che il loro possibile frantumarsi corporativo e la loro sconfitta. Felice la loro vita quando riescono, a lungo e a fondo, a presentare, non a rappresentare, al complesso dei poteri ostili la forza e la fecondità della loro indipendenza liberatrice. Tale differenza tra rappresentanza statale e presentazione della comunità di classe, tatticamente componibile ma tendenzialmente divaricante, non è che la differenza tra principio di soggettività e realtà dei corpi collettivi, differenza interna al linguaggio stesso che Wittgenstein indicò con i termini di «stato di cose» e «forme di vita». In questo contesto strutturale appare chiara la distinzione fra le trazioni di massa di valenza generale e le coalizioni politiche cui esse si rapportano. Queste ultime, comunque esse si configurino (alleanze programmatiche, confederazioni, federazioni, nuovi partiti unificati, ecc.), quale specifico ruolo sono chiamate a svolgere per la crescita dell’autonomia di classe e della democrazia emancipativa? Quale ruolo, se non devono e non possono rappresentare pratiche politiche di massa e forme di vita che nascono proprio affrancandosi da quei processi istituzionali di soggettivazione (Foucault) che della rappresentanza sono il presupposto? Il quesito riguarda allo stesso modo, sostanzialmente, singoli partiti, gruppi di partiti affini, tessuti associativi politicizzati, perché discrimine di qualunque soluzione è IV Esperienza della libertà di massa ed emancipazione oltre le compatibilità vengono allora a coincidere nella pratica comunista della democrazia. «Massa critica», allora, non deriva né dall’alleanza, né dalla federazione, né dall’unificazione delle sinistre, in quanto tali, ma dall’ancoraggio di qualsiasi soluzione credibile alla composizione politica di classe in quanto eccedenza della cooperazione produttiva e dell’innovazione sociale rispetto alle regole dello sfruttamento e agli istituti dell’oppressione. Solo le forze non arrese alla concertazione e alle guerre della globalizzazione potranno dar vita a formazioni unitarie durevoli. In tal caso la loro essenziale funzione, nel generale moto democratico di liberazione della prassi, sarà dato dalla loro attitudine a incrementare l’autonomia riproduttiva di classe, fonte ultima della loro legittimazione e loro alimento strategico. Per far questo, è bene ribadirlo, la lotta deve essere portata contro tutti i compatibilismi, compresi quelli generati dai partiti, dalle coalizioni, dagli stessi movimenti, non declamando il proprio sdegno intellettuale ma colpendo quei compatibilismi appena possibile. La virtù di abitare la composizione politica di classe non ha alcuna cauzione ideologica, non è garantita né da pretese identitarie né dalla loro dissoluzione «contaminativa», del resto opposta e complementare a quelle pretese. Si tratta di una funzione materiale fallibile e risorgente. Essa, per quanto discontinua e circostanziale, richiede un sapere politico effettuale di forte impianto critico, non deboli «narrazioni» impressionistiche. Se questo è nel suo essenziale significato il concetto politico di «massa critica», esso diventa fondamento e discrimine di qualunque approdo unitario responsabile e realistico. Ciò che lo può distinguere da velleitarie e malaccorte operazioni elettoralistiche, non meno fragili se gestite sotto l’insegna di un nuovo partito. Ciò che, ancora, lo può distinguere da resistenze ideologistiche rivestite di dubbia ortodossia, in realtà al servizio di interessi frazionali di ceto politico. Tutto dipende dalla qualità dei processi e degli attori in gioco, dalla natura sociale delle tendenze politiche che muovono l’unificazione delle sinistre, dalla capacità dei comunisti di comprenderle e anticiparle in un senso o nell’altro. 39 guerra alla povertà? no, guerra ai poveri 40 N on esiste un’origine da cui partire. Segnali inquietanti hanno attraversato l’intera società italiana per decenni. Fenomeni carsici che, in particolari momenti congiunturali, hanno portato alla definizione di politiche securitarie di diverso segno. Era securitarismo quello che colpiva le occupazioni delle terre negli anni Cinquanta, e che trasformava gli agricoltori in malfattori. Era securitarismo quello che colpiva i meridionali urbanizzati, additati – in quanto poveri – come universo di devianza e di pericolosità sociale, lo era quello che criminalizzava gli studenti e i lavoratori in lotta, che stigmatizzava i movimenti femministi, insomma chiunque e da qualsiasi punto risultava turbativo per un determinato ordine sociale fondato sul rapporto gerarchico fra dominanti e subalterni. Il sistema mediatico, allora infinitamente meno pervasivo, era la punta dell’iceberg di un insieme di strumenti atti al controllo sociale che non hanno mai smesso di agire. Mutavano i contesti e gli attori, mutavano i ruoli e le dinamiche ma l’elemento costantemente trasmesso, di generazione in generazione, manteneva intatte quelle richieste di ordine e disciplina che bloccavano ogni forma di mobilità sociale. Anni e anni di conflitti hanno spostato la barra, hanno portato all’emancipazione di soggetti subalterni, hanno costretto a estendere un sistema di diritti e garanzie, in una perenne tensione. Ogni diritto acquisito, lungi dal sembrare acclarato, veniva rimesso in discussione a ogni cedimento, a ogni mutare di fase. Le pulsioni autoritarie, che hanno investito una parte consistente delle forze politiche – si pensi alla fase del Compromesso Storico – si sono potute realizzare anche grazie a questo sentire diffuso, che ha portato ad accettare leggi speciali privative di libertà, forme di democrazia limitata, momenti ad alto livello repressivo. Chi pensava che con la «caduta del muro» simili dinamiche sarebbero divenute residuali, compiva un errore clamoroso di analisi. Gli anni del nuovo disordine mondiale e di quella che con una certa approssimazione chiamiamo globalizzazione neoliberista, esigevano nuove forme di controllo sociale destinate a nuovi attori. Quello che nel resto d’Europa è accaduto negli anni Settanta in Italia è avvenuto 20 anni dopo. Si è creato un nuovo esercito di forza lavoro, proveniente prima dai paesi del Maghreb, poi dal resto del continente africano e dall’Asia meridionale, e a seguire – con la dissoluzione dei regimi comunisti – dai paesi dell’Est europeo e dai Balcani, che ha aperto nuove contraddizioni. Nonostante la trasformazione dell’Italia da paese di migranti a paese di immigrati abbia assunto una sua rilevanza numerica già a partire dalla fine degli anni Ottanta, per venti anni, tanto il sistema legislativo quanto la società intera hanno trattato tale modifica strutturale ancora come elemento emergenziale e transitorio. Le leggi sono servite a definire i vincoli attraverso cui introdurre braccia da lavoro e contemporaneamente a creare condizioni di diritto speciale. Le leggi valide per gli autoctoni valgono un po’ meno per chi arriva da altri paesi. Il securitarismo è stato in tal senso un formidabile collante ideologico utilizzato tanto dalla destra estrema xenofoba, quanto dalle forze liberaldemocratiche o che dichiarano di conservare elementi di socialismo. S TEFANO G ALIENI * Gli anni del nuovo disordine mondiale e di quella che con una certa approssimazione chiamiamo globalizzazione neoliberista, esigevano nuove forme di controllo sociale destinate a nuovi attori * R ESPONSABILE NAZIONALE I MMIGRAZIONE – P RC SOCIETÀ A crisi economiche che, in fasi alterne hanno messo a serio rischio la stabilità del paese, si è risposto rideclinando la logica del capro espiatorio. Basti pensare alla campagna elettorale del 2001: fior fior di volantini e di depliant dell’allora Ulivo, tessevano l’elogio di candidati resisi protagonisti di battaglie per contenere il degrado derivante dall’immigrazione. Il terreno era fertile: alcune nicchie economiche rimaste sguarnite, soprattutto nelle metropoli, venivano coperte anche da cittadini stranieri. Nicchie economiche di vera e propria devianza come lo spaccio di stupefacenti, le azioni di microcriminalità, nicchie giudicate riprovevoli in pubblico, meno in privato, come la prostituzione o il lavoro al nero. Il contesto era favorevole: cresceva a dismisura una deregulation in ogni ambito della vita economica e sociale, lo slogan imperante era «meno stato e più mercato», il lavoro atipico diveniva sempre più la normalità, le garanzie sociali venivano erose in funzione delle esigenze di bilancio. La «fabbrica della paura» lavorava già alacremente, ma un’impennata produttiva l’ha avuta a seguito degli attentati dell’11 settembre. La paura interna si è connessa al timore di restare coinvolti nel caos internazionale, un segnale fra i tanti lo lanciò, in un editoriale mai sufficientemente considerato, l’editorialista di Repubblica Francesco Merlo, quando scrisse che bisognava accettare l’idea secondo cui, per avere maggior sicurezza si doveva rinunciare a spazi di libertà. Agghiacciante forse, ma in perfetta sintonia con l’ideologia imperante, si insegnò anche ai bambini a guardarsi dai cittadini che potevano avere origini arabe e, in quanto tali essere potenziali terroristi. Ma una ulteriore mutazione era in atto e afferiva all’idea stessa di sistema democratico. Lentamente ma inesorabilmente mutavano le relazioni sociali nelle città, grandi o piccole che fossero, crescevano solitudini e squilibri, si allargava la forbice interna fra garantiti e non, fra privilegiati e non. Un sistema gerarchico si è costruito attraverso la compresenza di diverse categorie identitarie: reddito, provenienza geografica, età, genere. Una configurazione dei rapporti sociali di questo tipo abbisognava di nuove e più autoritarie forme di governo dei territori: Comuni e Regioni vedono così aumentare i propri poteri e le proprie competenze, nascono i «sindaci sceriffi» che con diverse modalità accentrano in maniera personalistica ogni elemento decisionale. Prende corpo negli anni l’idea di sicurezza come diritto a difendere la proprietà a ogni costo. Nelle città si investe in circuiti di video sorveglianza (siamo uno dei paesi col rapporto fra numero di videocamere installate e popolazione, più alto nel mondo), cresce la vendita di armi per difesa personale, crescono le spese individuali o condominiali per apparecchiature antifurto, per recintare i confini della propria abitazione, per rendere invulnerabili le tane in cui ci si nasconde, in particolari momenti, sedicenti comitati spontanei si organizzano in «ronde» che percorrono, rimandando a sinistri passati, le «zone a rischio». In maniera altrettanto spasmodica, crescono paure e allarmi rapsodici, isterie collettive, parimenti si dissolvono le reti sociali aperte: si vive soli, in famiglie mononucleari, in piccole comunità chiuse, in cui ogni soggetto è identificato, in cui ogni intrusione di sconosciuti è percepita come pericolo incombente. Solitudini, paure, impossibilità per molte e molti a costruirsi una progettualità di vita, precariato esistenziale e non solo lavorativo, sono riusciti finora a impedire che si elaborassero risposte collettive e inclusive a gravi questioni sociali. Si combattono i poveri e non la povertà, chi vive nel degrado e non il degrado stesso. Si torna a immaginare «città fortezze» da cui espellere gli indesiderabili e in cui ricostruire gerarchie di stampo medievale. Isole sicure, in cui profitto e consumo sono le uniche coordinate di riferimento, all’interno di un continente come quello europeo che si vuole ridotto a sommatoria di tali microfortezze. Paradossale, in un’epoca in cui le transazioni finanziarie avvengono con la velocità della telematica, si pretende di ingessare corpi e vite, ruoli e funzioni, di affidare al potere imperscrutabile di chi è comandato a reprimere, la divisione fra esclusi e inclusi. E più questa mutazione antropologica, oltre che politica, delle relazioni umane si compie, più la percezione di insicurezza si espande. Prevale l’approccio emotivo agli eventi, le stesse agende politiche vengono dettate dai fatti di cronaca nera. 41 Prende corpo negli anni l’idea di sicurezza come diritto a difendere la proprietà a ogni costo. Nelle città si investe in circuiti di video sorveglianza (siamo uno dei paesi col rapporto fra numero di videocamere installate e popolazione, più alto nel mondo), cresce la vendita di armi per difesa personale, crescono le spese individuali o condominiali per apparecchiature antifurto, per recintare i confini della propria abitazione 42 La realtà ne esce capovolta, deformata. Basti pensare che la stessa parola «sicurezza» un tempo patrimonio di chi voleva estendere diritti sanciti anche dalla Carta Costituzionale, ha subìto una involuzione nel suo uso comune, portando all’affermazione priva di significato ma non di senso, secondo cui la sicurezza non è né di sinistra né di destra. E a sinistra, anche in ambienti a noi vicini, si intende per sicurezza la difesa di uno spazio privilegiato. Si connette immediatamente il termine alla presenza migrante, dimenticando aspetti fondamentali. Dimenticando che dei 3 milioni e 700 mila migranti presenti in Italia, sono una percentuale minima quelli dediti ad attività delittuose. Che molti di costoro sono vittime e ostaggi di uno Stato che li considera cittadini di serie B, di un mercato del lavoro che ne fa stralci restando impunito, di violenze quotidiane subite tanto da gruppuscoli fascisti quanto dalle autorità. Che coloro – per fortuna sempre più numerosi – che rifiutano di subire e hanno da tempo iniziato percorsi di auto organizzazione o di faticoso inserimento nella realtà politica e sociale italiana (sindacati, partiti, associazioni e reti di movimento) subiscono ancora il ricatto razzista di un permesso di soggiorno vincolato alla volontà di un padrone (pardon, datore di lavoro). Che vivere in Italia significa non poter partecipare in maniera paritaria al godimento dei diritti sociali, civili e politici, essere soggetti a un doppio rapporto di subordinazione con chi dà lavoro e con il Ministero degli Interni. Che la presenza irregolare nel bel paese è punita con un sistema di detenzione amministrativa dentro quelli che sono i famigerati centri di permanenza temporanea. Che entrare legalmente in Italia è oggi praticamente impossibile, condannati alla logica ipocrita e da contagocce del decreto flussi, tanto è che almeno il 65% dei migranti regolarmente soggiornanti in Italia è passato attraverso un periodo più o meno lungo di irregolarità. Un sistema di questo tipo, del resto adottato, anche se in forme diverse in tutti i paesi della Comunità Europea, non può che costruire sacche di marginalità diffuse, sparse nelle periferie, fianco a fianco con condizioni mai affrontate di disagio autoctono. A un cittadino o a un nucleo familiare proveniente da altro paese, risulta sempre difficile trovare casa – gli affitti crescono anche in base alla nazionalità – ci vogliono anni prima di poter trovare una sistemazione dignitosa, facilmente si finisce con il vivere compressi in stanze stracolme, pagando canoni esosi e al nero per un posto letto. E da ultimo il lavoro. Come in ogni ambito della vita quotidiana, sono gli uomini e le donne straniere le persone più soggette a rischio di infortuni. Nell’anno di grazia 2006, mentre finalmente calava il numero complessivo dei morti sul lavoro, cresceva per i lavoratori stranieri. I dati denunciati – e che quindi non coprono il ben più vasto bacino del lavoro nero – parlano di 30 cittadini rumeni morti (la prima comunità per vittime) e di oltre 11.500 infortunati. Una strage silenziosa verso cui non si invocano tutela e sicurezza. Sono straniere le persone più soggette al rischio di aggressioni e violenze, da parte di altri stranieri o, più spesso di italiani. Il paradosso è che la sicurezza «dagli» stranieri risulta più importante di quella «degli» stranieri. Lo stesso accentrare le problematiche attorno alla clandestinità risulta fuorviante. Già il termine clandestino è di per sè criminalizzante, mutuato come è dal linguaggio degli «anni di piombo». Basterebbe ricordare come la condizione di clandestinità sia molto spesso una costrizione e non una scelta. Vagare invisibili in un paese, raccogliendo le briciole di occasioni per il sostentamento – non suoni giustificatorio – può portare a ritrovare come unica opportunità l’ingresso nelle nicchie economiche a cui si è già fatto riferimento. Da ultimo, la condizione speciale in cui vivono in Italia le popolazioni rom e sinti. Una situazione che non ha eguali in Europa: a persone costrette da generazioni in condizioni invivibili, in campi sosta privi di servizi fondamentali, viene chiesto di integrarsi o di andarsene. Padri, madri e figli sono nati in Italia, molti sono arrivati con il disfacimento dell’ex Jugoslavia prima e con la crisi economica e politica in Romania ulti- SOCIETÀ mamente. Un universo complesso che spazia dalle tante e i tanti che sono oramai cittadini italiani a coloro che cercano in ogni modo di sopravvivere, quando va bene, in containers allineati in campi «attrezzati» e quando va male lungo gli argini dei fiumi. Si muore nei campi: di freddo o di malattia, a volte arsi vivi per una bombola che esplode, per una stufetta che va in corto circuito, si muore soprattutto da bambini, si muore in silenzio. Quello che invece trova risalto è il fastidio che provoca la loro presenza, il loro odore, le immondizie da cui sono circondati, i loro modi di guadagnarsi da vivere, il fatto che esistano. Razzismo disgustoso ma popolare, segno orrendo di una guerra fra poveri che si alimenta di quotidianità, che è divenuto sentire collettivo a cui è necessario porre un argine politico e culturale, per cui è urgente trovare un antidoto. Appropriandosi di un’altra parola sacra «legalità», attirando consenso, gli amministratori di gran parte delle città italiane invocano la tolleranza zero nei confronti di ogni ultimo. Qualche atto di beneficenza sì, quello non si rifiuta, la carità pelosa del ricco verso il diseredato, ma politiche sociali inclusive, impiego di risorse pubbliche per affrontare tali problematiche per quello che sono, questioni sociali, guai a parlarne. Si rischia di vedersi affibbiata la nomea di buonista, di anima bella, di estremista che non vive le contraddizioni in seno al popolo, in pratica di essere imbecille. Eppure, mai come oggi, una sinistra degna di questo nome, dovrebbe mantenere come forte carattere identitario alcuni elementi, peraltro mutuati anche da logiche affatto rivoluzionarie, ma eticamente e politicamente ineccepibili. Il carattere individuale della responsabilità di ogni atto criminoso: accettare la logica che vede oggi i «rumeni», come tanti anni fa i «meridionali», poi i «marocchini», poi gli «albanesi», come gruppo socialmente responsabile di ogni delitto significa liberare la logica nazista del capro espiatorio da eliminare. Individuare e comunicare quanto si debbano affrontare questioni non connesse all’ordine pubblico – da risolvere con gli apparati repressivi di cui si dispone – ma sociali, che investono la violenza dei sistemi di relazione, non solo fra stranieri e autoctoni ma anche trasversali e flui- di. Questioni di classe, verrebbe da dire, come questione di classe è oggi il vero razzismo, quello basato sulla condizione materiale delle persone e sui sistemi gerarchici su cui si basa l’ordine costituito. La «tolleranza zero» che si invoca, ripresa in maniera spudorata dalle esperienze statunitensi, è oggi contro bersagli facili, come gli ultimi degli ultimi, ma si estende per concatenazione ideologica a chiunque risulti come corpo estraneo. Possono essere gli studenti fuori sede, quelli che cercano spazi di vita sociale al di fuori del mercato del tempo libero, chi fa uso di sostanze stupefacenti, chi non è inserito nella catena stabile dei consumi, chi si ribella per le condizioni di eterno precariato. Si tratta, per una sinistra senza aggettivi, di riconsiderare queste e altre soggettività come corpo sociale da ricomporre, in cui inserirsi, da cui imparare una nuova e più reale grammatica dei conflitti. Si parla di un corpo che può anche trovare sponda in alcune istanze fatte proprie dalla politica – vanno considerate in tal senso le parti migliori del disegno di legge sull’immigrazione proposto dai ministri Amato e Ferrero – ma che deve partire dall’assunto di come questo sia necessario ma non sufficiente. Un nuovo codice e nuove relazioni sociali capaci di ripudiare le patetiche e pericolose risposte di intolleranza, vanno ricostruiti nei territori, bisogna sporcarsi le mani nei luoghi in cui è più facile che si inneschi la guerra fra poveri, nei luoghi in cui i problemi di convivenza esistono e sarebbe miope non riconoscerlo. Ma bisogna farlo partendo da un assioma comune: è solo innalzando o recuperando la soglia dei diritti e delle garanzie per tutte e per tutti che si costruiscono realmente città sicure, città aperte. 43 alcune note sulla «tolleranza zero» per un approfondimento Una via italiana alla «tolleranza zero»? A LYOSHA M ATELLA * 44 Ragazzi, sapete già tutti perché siamo qui. A parte le esagerazioni sul massacro, si tratta di un reato odioso e feroce, che esige provvedimenti rapidi ed energici. Sono la stampa e l’opinione pubblica a volerli e noi glieli forniremo. James Ellroy, L.A. Confidential1 N el nostro Paese, a partire dalle misure estive adottate dai sindaci-sceriffi del neonato Partito Democratico contro nomadi, migranti e lavavetri per giungere alla cronaca delle ultime settimane (in relazione all’omicidio di Giovanna Reggiani e alle discussioni sorte in merito al pacchetto sicurezza del Ministro Amato), la presunta «emergenza sicurezza» si è conquistata uno spazio di massimo rilievo sia nel «sentire comune» di larghe parti dell’opinione pubblica sia nel dibattito politico e intellettuale nazionale. Non è né una novità né un’anomalia italiana: ormai da decenni, con il dilagare dell’insicurezza provocata dallo smantellamento del Welfare e dalla precarizzazione della condizione salariale, le società occidentali sono periodicamente investite da ondate di panico morale dirette, grazie al prevalere di discorsi pubblici reazionari o apertamente xenofobi, contro una criminalità di sussistenza ascritta alle nuove classi pericolose (ovvero le categorie sociali più colpite dallo tsunami neoliberista) e, pertanto, meritevoli di essere condannate «a cinquemila anni più le spese». È ormai egemone nella nostra società l’immagine, sapientemente diffusa dai media, di un Paese esposto al rischio di un «colpo di stato dal basso» (per utilizzare le parole di Victor Hugo) sferrato contro l’ordine sociale legittimo da un nuovo mondo criminale abitato da immigrati clandestini, cittadini comunitari «non graditi», lavavetri, rom e nuovi poveri. Ampi settori della classe politica italiana hanno assunto questo schema interpretativo e cercato le possibili soluzioni per uscire da una simile situazione volgendo lo sguardo oltre Oceano, con particolare attenzione alle misure adottate nel corso della sua amministrazione dall’ex sindaco repubblicano di New York Rudolph Giuliani. Se tale interesse non risulta essere stupefacente né recente per gli esponenti politici della Casa delle Libertà e benché non sia questa la prima volta che i settori moderati del centrosinistra assumono (su questo come su altri temi) parole d’ordine e ragionamenti propri della destra, è sorprendente lo zelo e la passione con cui dirigenti di primo piano del Pd hanno esternato la loro ammirazione per l’uomo forte della Grande Mela. La ragione di tale ammirazione – ci ha spiegato il Ministro Amato in un’intervista rilasciata a «Repubblica» il 5 Settembre 2007 – risiederebbe nella volontà di adottare uno sguardo nuovo, pragmatico e «non ideologico» sulla nostra società e sui suoi problemi, riconoscendo gli «indubbi risultati» con- * S OCIOLOGO SOCIETÀ è ormai egemone nella nostra società l’immagine, sapientemente diffusa dai media, di un Paese esposto al rischio di un «colpo di stato dal basso» (per utilizzare le parole di Victor Hugo) sferrato contro l’ordine sociale legittimo da un nuovo mondo criminale abitato da immigrati clandestini, cittadini comunitari «non graditi», lavavetri, rom e nuovi poveri seguiti dalla linea della tolleranza zero adottata dall’ex-sindaco e dal Dipartimento di Polizia di New York a partire dal 1993. Nelle prossime pagine si cercherà di approfondire proprio il tema della lotta alla criminalità condotta dall’amministrazione Giuliani, enucleandone e analizzandone origini, caratteristiche ed effetti reali. Nella stesura di questo articolo si faranno numerosi riferimenti, tra gli altri, agli studi e alle ricerche condotte sull’argomento dal sociologo franco-statunitense Loic Wacquant verso il quale chi scrive ha contratto un debito di gratitudine. Le origini e gli sviluppi della «tolleranza zero» I neri nati negli Stati Uniti e così fortunati da vivere oltre l’età dei 18 anni, sono condizionati ad accettare l’inevitabilità del carcere. George Jackson, I fratelli di Soledad2 Le parole di George Jackson (detenuto afroamericano divenuto in prigione militante comunista e dirigente del Black Panther Party) se, nel giugno del 1970, epoca in cui furono scritte, potevano apparire una forzatura, assumono un carattere quasi profetico alla luce delle trasformazioni introdotte dall’intellettualità legata alle formazioni politiche e agli istituti culturali della destra repubblicana tanto nel dibattito criminologico quanto nella pratica di governo della società, con la conseguente crescita esponenziale della popolazione carceraria. Una volta sconfitti i movimenti di emancipazione e liberazione degli anni Sessanta e avviato un processo di profonda trasformazione dell’organizzazione sociale del lavoro, in un clima di rabbiosa revanche razziale e classista, si è infatti assistito, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, a uno spropositato aumento dei tassi di carcerazione che ha invertito la tendenza alla decrescita del periodo anteriore. Si calcola che, se nei decenni precedenti alla prima metà degli anni Settanta la popolazione carceraria andava progressivamente diminuendo, si è assistito nel periodo successivo a una crescita esponenziale del numero dei detenuti (la maggior parte dei quali per pene relative alla vendita e al consumo di stupefacenti). Una crescita che, nel 2004, arriverà a toccare la cifra record di 2.130.000 detenuti e che determinerà un tasso di carcerazione di 726 individui ogni 100.000 abitanti. Ma il dato forse più eloquente e più sintomatico del carattere selettivo di queste trasformazioni è quello relativo alla composizione etnica della popolazione carceraria: il 49% di essa è infatti costituita da persone appartenenti alla comunità afroamericana, nonostante essa rappresenti soltanto il 1213% della popolazione statunitense3. Ciò significa concretamente che «ogni giorno 1 su 3 degli afroamericani maschi di età compresa fra i 20 e i 29 anni (il 32,3%) è in carcere o sottoposto ai regimi di parole o probation»4. Per comprendere tali fenomeni non si può non tornare sui successi conseguiti dall’intenso lavorio intellettuale condotto dai think tanks neoconservatori all’epoca in guerra contro il debole sistema di protezioni sociali statunitensi, contrapponendogli il principio (non particolarmente 5 nuovo ) della distinzione tra poveri meritevoli e immeritevoli: gli uni, secondo i princìpi del workfare (o welfare dei miserabili), destinatari di aiuti condizionati dalla sottomissione ai valori e alle esigenze delle élites dominanti (tra cui non ultimo il dovere all’accettazione di qualunque mansione lavorativa), gli altri bersagli della nuova gestione repressiva della miseria di massa (figlia della rivoluzione neoliberista) delineata dai maître à penser neoconservatori. Tra questi think tanks merita particolare attenzione il Manhattan Institute fondato da Anthony Fisher e William Casey (successivamente direttore della C.I.A.) con l’obiettivo di applicare i principi dell’economia di mercato alla risoluzione delle questioni sociali. È questo «serbatoio di cervelli» neoliberale a lanciare infatti, nei primi anni Ottanta, una vigorosa crociata a favore della gestione punitiva dei comportamenti devianti e microcriminali i cui autori sarebbero appartenuti alle classi sociali e alle comunità etniche più povere delle metropoli statunitensi. 45 Al di là delle parole d’ordine sulla inflessibilità contro qualunque reato, è più che evidente infatti come gli esiti e gli obiettivi della tolleranza zero (indipendentemente dai risultati sbandierati) siano stati la persecuzione e la stigmatizzazione di una popolazione composta da lavoratori impoveriti dalla rivoluzione neoliberale e che la «linea del colore», che negli U.s.a. innerva l’intero corpo delle relazioni sociali, condanna alla precarietà, alla miseria e al carcere 46 Uno dei primi e più importanti passaggi di questa vera e propria battaglia culturale è stata la vasta campagna pubblicitaria per la diffusione di «Losing Ground. American Social Policy 1950-1980» di Charles Murray (consigliere dell’Amministrazione Reagan in materia di welfare). L’autore del saggio, considerato una sorta di pietra miliare della rivoluzione neoliberista, si sforza di dimostrare come la degenerazione morale, la «anarchia familiare» e le condotte devianti della popolazione dei ghetti e dei quartieri (sotto)proletari non siano altro che la conseguenza diretta del «senso di dipendenza» prodotto presso questi settori sociali dalle politiche di welfare, frutto a loro volta della «perversione dell’ideale egualitario apparso con la Rivoluzione Francese». Perversioni che, oltre che «inumane» e tiranniche, risultano essere elementi di aggravamento delle problematiche che si propongono di risolvere, in quanto (come affermerà successivamente Murray in «The Belle Curve: Intelligence and Class Structures in American Life») le disparità e le ineguaglianze etniche e di classe tanto nell’accesso alla ricchezza e al potere quanto nella propensione a commettere determinate tipologie di reati sono ascrivibili a mere differenze intellettive e di conseguenza alle carenze cognitive e morali della popolazione (in particolare di quella giovanile) delle inner cities, i quartieri in cui, secondo Murray, «in larga parte risiedono le persone a bassa capacità cognitiva». Da ciò, il «consiglio» di Murray – che, è bene ricordarlo, non è il capobastone di un’organizzazione white supremacy (supremazia bianca) della provincia profonda, ma un intellettuale prestigioso e autorevole della destra statunitense – è di eliminare e respingere qualunque pretesa statale di interferire nella sfera sociale ed economica, evidenziando tra l’altro come il lassismo assistenziale abbia di fatto creato una popolazione di «poveri immeritevoli», promiscui, depravati e, soprattutto, protagonisti di quella criminalità di strada e di sussistenza che insidia la sicurezza e l’incolumità dell’America Wasp. In definitiva quindi, secondo l’intellettualità neoconservatrice, la nuova ed esplosiva questione sociale va spiegata, al di là e contro qualunque giustificazionismo sociologico (sul quale si allunga l’ombra della «perversione egualitaria» giacobina e leninista), in termini di incapacità morali e cognitive e lo Stato assistenziale non ha prodotto altro effetto che una nuova classe pericolosa di piccoli predatori di strada, individui oziosi e refrattari alla disciplina del lavoro precario, dissolute ragazze madri e giovani devianti e antisociali. Ne consegue che la società legittima ha il dovere e il diritto di difendersi dai nuovi e minacciosi barbari. Anche in questo caso, il Manhattan Institute contribuisce a definire le linee ispiratrici di quella che sarà la strategia politica di uno dei suoi più assidui ed entusiasti frequentatori, il repubblicano Rudolph Giuliani. È in- fatti il Centro studi newyorkese a dare ampio risalto agli studi di James Q. Wilson e George Kelling sulla questione criminale, con particolare riferimento alla «teoria del vetro rotto», la cui formulazione risale al marzo 1982, con la pubblicazione di un breve saggio dei due autori sul periodico «Atlantic Monthly». In questo articolo, Wilson e Kelling (ovvero il vate della criminologia reazionaria statunitense e l’ex-capo della polizia di Kansas City) affermavano l’esistenza di un filo rosso capace di legare il verificarsi di effrazioni di varia natura – consumo di bevande alcoliche in pubblico, atti di vandalismo giovanile, incuria dello spazio urbano – e il dilagare di comportamenti apertamente criminali e predatori, spiegando i secondi attraverso i primi. Da qui, secondo i due autori, l’inflessibilità penale nei confronti di qualunque comportamento deviante e il conseguente ampliamento dei margini di discrezionalità concessi alle forze dell’ordine nello svolgimento delle loro funzioni risulterebbero gli unici strumenti efficaci per combattere la delinquenza, la violenza e lo spaccio di droga nelle metropoli americane. Tale pseudoteoria, benché ripetutamente invalidata da numerose ricerche di maggiore spessore analitico ed empirico, ha svolto un ruolo fondamentale nel fornire una giustificazione e una legittimità «scientifiche» alla messa in opera, a partire dal 1993, della politica di tolleranza zero di Giuliani e del capo della Poli- SOCIETÀ zia newyorkese William Bratton. Fu proprio quest’ultimo a dichiarare prioritaria la lotta all’ultimo quartiere contro la criminalità di strada e a individuare i principali nemici dell’ordine cittadino nei lavavetri e nei graffitisti (ironia dei ricorsi storici), nei piccoli delinquenti di strada e nei giovani dei ghetti, nelle prostitute e nei senzatetto: in breve, negli abitanti delle zone maggiormente degradate dello spazio sociale e urbano, contro i quali avviare una vera e propria operazione sistematica di molestia e di persecuzione. Per condurre questa guerra di conquista dei quartieri poveri Giuliani e Bratton si serviranno di una pluralità di strumenti. Innanzitutto l’intensificazione del pattugliamento e del controllo delle aree urbane abitate da minoranze etniche e dai settori più vulnerabili della working class. In questo quadro, vengono ampliati i margini di operatività e discrezionalità degli agenti e delle pattuglie in relazione alla attività di repressione di tutta una serie di comportamenti (dai reati contro la proprietà e la persona agli schiamazzi e all’occupazione di spazi pubblici) imputati a intere categorie sociali sottoposte a un doppio processo di stigmatizzazione e criminalizzazione. A tal fine viene impiegato il Compstat, un nuovo sistema informatico centralizzato attraverso il quale le forze dell’ordine definiscono e razionalizzano le proprie attività in funzione di una informazione sistematicamente aggiornata e geograficamente focalizzata relativamente a effrazioni, denunce e disordini. Per rendere più efficace il lavoro di polizia Bratton promuove inoltre una riorganizzazione dell’intero Dipartimento secondo i principi propri delle teorie sul management imprenditoriale privato. I commissariati («ringiovaniti» attraverso l’allontanamento di massa di ufficiali e di commissari) vengono sottoposti a rigidi criteri di profitto e redditività delineati e pianificati attraverso la formulazione di obiettivi di riduzione delle statistiche criminali. Questa corsa a tutta velocità per il perseguimento delle mete predefinite dal Capo Bretton ha avuto come risultato, tra gli altri, un’incredibile crescita del numero di arresti e fermi che ha determinato un vero e proprio intasamento dei tribunali e delle carceri. Ma questa grande trasformazione non sarebbe stata possibile senza l’impiego di ingenti somme economiche. L’amministrazione Giuliani versa una cifra astronomica per supportare l’impresa di Bratton: in soli cinque anni il budget cittadino destinato alla Polizia ha toccato i 2,6 miliardi di dollari, grazie ai quali il Dipartimento ha assunto nel 1999 la configurazione di un piccolo esercito di quasi 40.000 agenti in uniforme. Per allargare la prospettiva di analisi e comprendere il significato politico di questa trasformazione, è sufficiente sottolineare che la cifra destinata dalla città per la Polizia corrisponde al quadruplo di quella spesa per gli ospedali pubblici e che, nello stesso periodo, i servizi sociali hanno dovuto subire un drastico ridimensionamento dei propri finanziamenti (circa un terzo) con la conseguente scomparsa di 8.000 posti. È in questi elementi, qui brevemente accennati, che si può individuare la filosofia di fondo della tolleranza zero ed è a partire da essi che si possono analizzare le conseguenze concrete della teoria di Giuliani e Bratton. L’ordine regna a New York? Risultati presunti ed effetti reali del nuovo rigore penale Da noi tutto diventa sempre dottrina, filosofia. Basta dire facciamo come ha fatto il sindaco di New York che lottò contro la microcriminalità e la sconfisse, per sentirsi dire: abbraccia la dottrina Giuliani. Lasciamo la dottrina e la filosofia a Kant, ai filosofi, e misuriamo le politiche sulla loro efficacia. Giuliano Amato, «la Repubblica», 5 settembre 2007 I risultati conseguiti dall’Amministrazione Giuliani nella lotta alla criminalità sono, secondo i neofiti del verbo securitario e xenofobo d’Oltremanica, la ragione forte che dovrebbe indurci a adottare anche nel nostro Paese principi e strumenti propri della zero tolerance. Ma è proprio sulla natura e la portata di tali esiti e sul loro rapporto causale con la guerra ai poveri scatenata a New York durante gli anni Novanta che è necessario fare qualche precisazione, al di là e contro la cortina fumogena prodotta ad arte dagli apparati intellettuali e mediatici della destra americana. 47 48 Innanzitutto limitiamoci a New York: la diminuzione della criminalità e della violenza è una tendenza che si è manifestata precedentemente all’elezione di Giuliani. Se infatti si è assistito a un calo significativo della violenza già nel corso degli ultimi tre anni di Amministrazione Dinkins, le statistiche criminali ci dicono, dal 1988 al 2002, di una progressiva e ininterrotta riduzione dei reati contro la proprietà nel loro insieme. Se è vero quindi che la criminalità è diminuita nella Grande Mela, tale processo ha preso le mosse ben prima dell’applicazione della dottrina Giuliani. A ciò, va aggiunto un secondo elemento: già nel corso degli anni Ottanta il Dipartimento cittadino di Polizia definì una strategia di intervento fondata sulla repressione e il rigore penale, che ebbe però effetti disastrosi, dato che proprio in quel periodo (dal 1984 al 1987) il numero di omicidi (in particolare di quelli connessi al livello di espansione raggiunto dal mercato di strada degli stupefacenti) aveva conosciuto un netto aumento. Se provassimo a confrontare la situazione di New York con le tendenze relative alle attività delinquenziali di altre città in cui sono state applicate strategie di ordine pubblico alternative dalla tolleranza zero (quali San Diego, Boston e San Francisco), scopriremmo che i tassi di diminuzione della criminalità di queste realtà è simile (se non maggiore) a quello della Grande Mela. Anche in questo caso, un’analisi più approfondita dei fatti ci permette di sfatare alcuni luoghi comuni sapientemente elaborati e diffusi dai think tanks neoconservatori e, più in generale, di comprendere come la strategia vessatoria nei confronti dei poveri attuata da Giuliani non sia e non possa essere addotta come causa del riflusso della criminalità. Le ragioni di tale calo vanno infatti cercate in una pluralità di variabili, quali per esempio quelle relative all’andamento demografico, al susseguirsi di cicli economici con conseguenze diverse sul mercato del lavoro e alle trasformazioni interne al mercato della droga, segnato nel periodo preso in considerazione dal declino del consumo di massa di crack (e, quindi, dei reati a esso annessi) e al modificarsi delle relazioni tra le gangs giovanili dei ghetti. Alla prova dei fatti, si rivela dunque inconsistente e prettamente ideologica la tesi propagandata dai neocons e dai loro sostenitori relativa a una guerra tra l’ordine legittimo e i mondi criminali (coincidenti tout court con la popolazione più fragile dei quartieri proletari) vinta dal primo grazie all’adozione di una politica aggressiva e inflessibile. Vanno invece evidenziati gli effetti concreti di questa guerra, spesso consapevolmente messi in ombra al fine di evitare temi di discussione che potrebbero apparire quantomeno imbarazzanti. Fortunatamente esistono alcuni significativi rapporti che ci aiutano a gettare luce su di essi, consentendoci di cogliere il significato che l’insieme delle politiche di tolleranza zero ha assunto per quote importanti della cittadinanza newyorkese. Secondo il rapporto pubblicato nel 1998 dal Task Force on Police-Community Relations si calcola che a New York ci sia stato, tra il 1993 e il 1994, un aumento del 35% dei civili uccisi nel corso di operazioni di polizia e un incremento del 53% dei decessi «sospetti» durante il periodo di custodia di polizia. Più in generale, tra il 1994 e il 1997 i casi di denuncia contro le forze dell’ordine per danni causati da perquisizioni violente e per abusi di potere hanno registrato un incremento rispettivamente del 50% e del 41%. Restano da definire con precisione i bersagli e i capri espiatori di tale zelo poliziesco. Nel suo rapporto «Police brutality and excessive force in New York City» del 1996, Amnesty International afferma che il 75,9 % di coloro che denunciano comportamenti violenti e abusi di potere da parte delle forze dell’ordine è costituito da persone appartenenti alle comunità afroamericana e latina. Inoltre, va tenuto in considerazione che la maggior parte delle vittime di tali condotte degli agenti del N.y.p.d. è di età compresa tra i 14 e i 17 anni e che questi avvenimenti si sono nella maggioranza dei casi verificati in contesti che non giustificano un tale uso della forza da parte dei poliziotti6. Credo bastino questi pochi e sintetici dati per rendersi conto di quali conseguenze la «lotta alla criminalità» teorizzata nei luminosi ed eleganti uffici degli istituti neocons abbia avuto nelle strade e nei quartieri flagellati dalla povertà, dalla disoccupazione e dalla precarietà lavorativa ed esistenziale. È per l’appunto in quei territori urbani e sociali, costretti a farsi materialmente carico delle devastazioni neoliberiste, che le retoriche securitarie si sono aperte la via sfondando porte e sparando ad altezza d’uomo. Al di là delle parole d’ordine sulla inflessibilità contro qualunque reato, è più che evidente infatti come gli esiti e gli obiettivi della tolleranza zero (indipendentemente dai risultati sbandierati) siano stati la persecuzione e la stigmatizza- SOCIETÀ zione di una popolazione composta da lavoratori impoveriti dalla rivoluzione neoliberale e che la «linea del colore», che negli U.s.a. innerva l’intero corpo delle relazioni sociali, condanna alla precarietà, alla miseria e al carcere. Come tutto ciò possa essere fatto proprio da una sinistra «moderna» e pragmatica è ancora misterioso, e le dichiarazioni perentorie e categoriche del Ministro Amato più che convincenti risultano essere inquietanti. Conclusioni Eravamo in pochi a dire «prima di tutto la sicurezza». Oggi siamo la maggioranza. Manifesto di Alleanza Nazionale affisso nelle strade di numerose città, Italia, 2007 È necessario a questo punto cercare di trarre qualche conclusione dalle riflessioni qui accennate. Come si è visto, il tentativo di spiegare i fenomeni legati alla riduzione della delinquenza come risultato dello zelo dell’amministrazione e della polizia newyorkesi altro non è che il rilancio (portato alle sue estreme conseguenze) dell’ossessione ottocentesca per il delitto e di una rappresentazione della società quale campo di battaglia tra le forze dell’ordine e quelle del crimine, impegnate in una guerra che, con buona pace delle anime belle, deve essere combattuta con gli strumenti propri delle contese belliche. Si è cercato in queste pagine di svelarne l’inconsistenza empirica e teorica rispetto agli obiettivi declamati e a individuarne quelli reali, evidenziandone i legami profondi con i processi di desocializzazione del lavoro eterodiretto e con il ritorno di una visione della società segnato da un crudele e aggressivo egoismo proprietario. La forza e il successo della tolleranza zero sta infatti nella capacità di tradurre l’insicurezza di massa che ha investito le classi subalterne occidentali nella paura e nell’odio nei confronti dei nuovi barbari giovani stranieri e poveri, vale a dire le vittime preferenziali dell’erosione della condizione salariale e dei diritti sociali. Il prevalere di queste retoriche e la loro assunzione, nel nostro Paese, da parte del gruppo dirigente del Pd lascia- no ragionevolmente immaginare scenari assolutamente allarmanti e minacciosi, segnati da un precipitare delle condizioni esistenziali e lavorative di masse cospicue di uomini e di donne e dal loro sprofondamento in una guerra intestina alle classi subalterne che apre la strada (anzi, la sta già aprendo) a una pericolosa involuzione del quadro politico, sociale e istituzionale. Su questo fronte le comuniste e i comunisti devono ingaggiare una battaglia di lunga lena che sappia respingere l’isteria securitaria provocata ad arte dagli apologeti di un libero mercato difeso dal pugno di ferro di uno Stato penale e repressivo, connettendo la difesa delle garanzie individuali e delle libertà civili con la lotta per la tutela e l’estensione del diritto alla sicurezza sociale. Battaglia decisiva, perché se, per parafrasare Robert Castel, la criminalizzazione dei settori maggiormente vulnerabili delle classi popolari altro non è che la strada più breve tra l’impossibilità di tollerare una situazione e l’incapacità di modificarla radicalmente, la critica e la trasformazione dell’esistente divengono quanto mai necessari per evitare e respingere la barbarie. 1. Ellroy J. (1998), L.A. Confidential, Mondadori, Milano, p. 124. 2. Jackson G. (1970), I fratelli di Soledad. Lettere dal carcere di George Jackson, Einaudi, Torino, p. 9. 3. Per i dati qui riportati, vedere Re L. (2006), Discriminazione strutturale e Color Blindness nei sistemi penitenziari degli Stati Uniti e d’Europa, in Casadei T.- Re L. (a cura di), Legge, «razza» e diritti. A partire dalla Critical Race Theory, «Jura Gentium-Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale» (http://www.juragentium.unifi.it/it/forum/race/re.htm). 4. Re L. (2006), Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Roma-Bari, Laterza, pp. 38-39. 5. Per un’articolata trattazione delle modalità di gestione della povertà, nell’ambito delle quali la distinzione qui accennata ha svolto un ruolo di primo piano nella storia europea fino all’avvento del Welfare State, si veda Castel R. (1999), Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Gallimard, Parigi. 6. Dati reperibili in Amnesty International (1996), Police brutality and excessive force in New York City, e De Giorgi A. (2000), Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, DeriveApprodi, Roma, pp. 114-117. 49 essere comunisti, perché? 50 NOTA REDAZIONALE In questa sezione prosegue la discussione suscitata dalla lettera a «Essere comunisti» di Piero Di Siena, pubblicata nel numero 3 della rivista assieme a una prima replica del direttore Bruno Steri. Nel presente numero proponiamo altre due risposte alla sollecitazione di Di Siena: la prima di Maria Luisa Boccia e la seconda di Giovanni Mazzetti e Luigi Cavallaro. M ARIA L UISA B OCCIA * « Cosa sono per noi, Marx, Lenin, le esperienze del passato?». La domanda sul senso e la possibilità stessa di «essere comunisti», di porsi cioè in consapevole rapporto con la teoria e la storia che quel nome designa, è formulata da Mario Tronti nel 1966 in Operai e capitale. Già allora Tronti avverte l’urgenza di «scrollarsi di dosso» la sconfitta. Del movimento operaio in Occidente, non solo nell’Urss. Sconfitta racchiusa in una formula: lo sviluppo capitalistico ha subordinato a sé le lotte operaie. Ovvero ha impresso il suo segno sia alla pratica che alla teoria del movimento operaio. Gli anni Sessanta sono da rivisitare, perché da quell’urgenza è scaturita, in Italia e in Europa, una stagione feconda di revisionismo da sinistra della tradizione comunista. Mi sembra che anche allora la questione fosse quella indicata da Piero Di Siena: il nome «comunismo» può fornirci ancora un’efficace convergenza tra l’«indagine sui fondamenti di un’anatomia della società civile» e una «teoria della trasformazione sociale che affronti le contraddizioni della nostra epoca»? Con questa formulazione Di Siena pone in primo piano l’esigenza di superare la dissociazione tra teoria e pratica. Con quali paradigmi teorici leggiamo il presente? Sono ancora quelli della scienza marxiana del Capitale a poter orientare la politica verso una trasformazione dell’ordine esistente? Oppure il rapporto con il comunismo è sostanzialmente un problema di radici storiche, di elaborazione del patrimonio di esperienze e idee? Anch’esso compito imprescindibile se non si vuole restare prigionieri del doppio vizio della rimozione o dell’attaccamento acritico. Entrambi, concordo con Di Siena, hanno fin qui pesantemente condizionato le vicende della sinistra, post ‘89, con un’assenza di «grande politica» e un «sostanziale riduttivismo sul tema dell’identità». Ma non è questo il piano di riflessione proposto da Piero Di Siena e Bruno Steri. Entrambi vanno al nocciolo della questione. Comunismo è il nome che diamo alla teoria e pratica della trasformazione, oppure quel nome è ormai fuori da questo orizzonte? Naturalmente, se la risposta è positiva, si apre intero il campo di quale revisione critica comporti accogliere questa eredità. Torno brevemente a Tronti, per una preziosa indicazione di metodo. «Non esistono modelli. La storia delle esperienze passate ci serve per liberarcene» (Operai e capitale, p. 93). Riprendendo la bella immagine di Lukàcs si tratta, piuttosto, di creare altre forme per l’anima antica del comunismo. Non c’è un modello storico da ripetere, né un modello teorico da realizzare. Quello che conta, per Tronti, non è l’idea di società a venire, ma l’essere comunisti * S ENATRICE P RC -S E OPINIONI A CONFRONTO L’idea forte della differenza sessuale è quella di un ordine sociale e simbolico sessuato, pensato e vissuto da uomo e donna, non più da un soggetto universale, o sessualmente «neutro» come la classe. Cruciale, per questa prospettiva, è spezzare la consonanza tra i nomi e le cose, stabilito dagli uomini, protagonisti della storia e del pensiero che la incarna. Nel Novecento questo soggetto ha ridisegnato tutte le idee e tutte le pratiche della politica, compiendo uno scarto rispetto al proprio tempo. Accoglierne il significato vuol dire innanzitutto compiere a nostra volta un salto, adeguandola al presente. Per me innanzitutto questo significa porsi la domanda se il nome comunismo può avere senso per una femminista. Per una donna cioé che abbia scelto di guardare al mondo e alla sua trasformazione, a partire dal senso libero della differenza sessuale. Come è noto nella tradizione i rapporti tra i sessi sono stati ridotti a «questione femminile», un capitolo aggiuntivo del progetto politico di liberazione della classe operaia. Per molte donne la domanda che ho sopra formulato si pose al momento dello scioglimento del Pci determinando una frattura non solo dentro il partito, ma nel femminismo. La scelta di confermare quel nome fu vista da alcune come fedeltà a un’identità e a una concezione politica, pregiudiziale rispetto a quella femminista. Come se non vi fosse modo di dare significato al comunismo a partire dall’essere donna o uomo. Viceversa per me e altre fare «atto di incredulità» rispetto alla tradizione comunista non significava decretare l’esaurirsi del suo senso. Al contrario, comportava di dare a quel nome un significato appropriato al nostro essere donne. «Incredulità» è una delle parole chiave del lessico di Carla Lonzi, autorevole esponente del femminismo italiano, autrice di testi che sono per me una fonte inesauribile di pensiero libero. L’origine stessa del femminismo consiste in una rottura epistemologica e pratica con tutte le tradizioni. A partire da una scelta esistenziale. Ovvero la presa di coscienza che essere nata donna, un fatto contingente, diviene fondamento di senso, di sé e della realtà. Da qui il taglio con l’esperienza, il comportamento, l’accumulazione culturale precedente. E l’assunzione dell’incredulità come abito mentale e pratico verso tutte le concezioni e tutti i progetti ricevuti dall’ordine maschile. Il conflitto di sesso non è infatti tra «le donne» e il patriarcato come sistema, ma, come scrive Carla Lonzi, tra «ogni donna – priva di potere, di storia, di cultura e di ruolo – e ogni uomo – il suo potere, la sua storia, la sua cultura, il suo ruolo assoluto». Perché è un conflitto la cui prima radice è la sessualità. Punto tuttora trascurato e frainteso, quando lo si traduce nella congiunzione tra sfera dei diritti civili e sfera dei diritti sociali. Viceversa l’idea forte della differenza sessuale è quella di un ordine sociale e simbolico sessuato, pensato e vissuto da uomo e donna, non più da un soggetto universale, o sessualmente «neutro» come la classe. Cruciale, per questa prospettiva, è spezzare la consonanza tra i nomi e le cose, stabilito dagli uomini, protagonisti della storia e del pensiero. Tra gli uomini e il (loro) mondo, quale che sia il punto di vista che li identifica. Anche, ovviamente, quello comunista. Prendendo coscienza dell’estraneità femminile a questa rispondenza. E però anche della necessità di avere il mondo come meta, di produrre una propria rispondenza tra i nomi e le cose. Questo non vuol dire necessariamente abbandonare i nomi ricevuti. Sarebbe una scorciatoia illusoria. L’«atto di incredulità» consiste piuttosto nel riattraversare parole ed esperienze che costituiscono la trama di senso dell’esistenza quotidiana di ognuna/o, come della vicenda umana. Ed è grazie a questa pratica che diviene possibile l’autonomia femminile nel pensiero e nella vita. E dunque nella politica. Rispetto al comunismo ha voluto dire prendere atto che «ha espresso una teoria rivoluzionaria dalla matrice di una cultura patriarcale». Per questo non si tratta di aggiungere, correggere, innovare l’analisi e il progetto politico, ma è l’oggetto teorico e pratico del comunismo che deve essere rivoluzionato. Per intendersi è un rivoluzionamento non meno rilevante di quello che operò Marx rispetto alle idee e ai movimenti politici del suo tempo. Sempre da Lonzi traggo due importanti indicazioni. La prima è che «il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale». La seconda è che le donne hanno coscienza del legame che esiste tra i loro bisogni e aspirazioni e quelli degli oppressi e sfruttati, ma «non credono che sia possibile per loro essere una conseguenza della rivoluzione» (corsivo mio). Negare che la libertà femminile possa scaturire dalla trasformazione dei rapporti sociali, pensata e agita dai comunisti, non vuol dire in alcun modo negare 51 Chiediamoci, allora, non dove e come nella politica si esprime fedeltà a Marx, alla sua teoria della rivoluzione e del comunismo. Ma se e come si è data dopo Marx una radicalità di pensiero differente, con analoga potenza trasformatrice della realtà. La questione non è dove ci porta Marx, ma dove noi siamo in grado di condurlo. Su questo aspetto decisivo la mia risposta è: è stato il femminismo a raccogliere l’eredità di Marx 52 le ragioni del conflitto tra le classi. È vero invece che «la rivoluzione femminile non può, non deve sostituire la rivoluzione operaia». (Mario Tronti, La politica al tramonto, p. 42). E soprattutto non se lo propone. Più semplicemente – ma quanto è arduo farlo comprendere! – la rivoluzione femminile si pone su un altro piano, in un rapporto asimmetrico. Ovviamente, poiché unico è il mondo in cui viviamo, vi è un interesse comune ad affrontare le questioni che questo mondo ci pone, le grandi ingiustizie e i molti orrori che lo segnano. Per questo può esservi convergenza, ma non può esservi sovrapposizione. E la convergenza non potrà mai risolvere la divergenza. Lo ha detto con chiarezza Virginia Woolf nel 1938. Uomini e donne hanno il comune interesse di fare il possibile per «distruggere il male» – innanzitutto la guerra, ora come allora. Ma il modo migliore per farlo, non è che le donne si affianchino agli uomini, ripetendone parole e gesti. Poiché siamo differenti, per storia e condizione, saranno differenti modi e parole. Anche noi donne possiamo ricominciare da Marx. Ma di quale Marx ci assumiamo l’eredità? Di Marx scienziato del capitalismo? La scientificità è stata un requisito essenziale – ma possiamo considerarla tuttora tale? – perché al pensiero di Marx fosse riconosciuta l’autorità di dire il vero. Innanzitutto da parte degli operai sfruttati, deprivati di parola e conoscenza. In quanto «uomo di scienza», studioso della realtà oggettiva del capitalismo, Marx è stato il tramite necessario per la soggettività operaia, per la presa di coscienza di sé. Questo nonostante Marx abbia sovvertito in radice l’oggettività e neutralità del pensiero. Lo si vede bene se si legge Il capitale, assieme al Manifesto del partito comunista. «Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne». E ancora: «le idee dominanti di un’epoca sempre e soltanto le idee delle classi dominanti». A cominciare dalle idee di libertà di coscienza e di religione. Ma anche dall’idea di giustizia e di uguaglianza. O di libertà del lavoro. Anche le idee di Marx sono, marxianamente, storiche e di parte. Non eterne. E non possiamo assumerle, senza stravolgerle, come acquisizioni certe della teoria. Propongo allora di prendere distanza dall’uomo di scienza, adottando nei suoi confronti, la sua stessa attitudine di rottura epistemologica. Con un rilancio della critica dell’economia politica, nella quale metodo e contenuto sono inscindibili. Se ne individuiamo correttamente l’oggetto che non è la teoria economica, ma l’economia politica stessa. Voglio dire che la critica di Marx mostra come l’economia si costituisca quale luogo di verità (la definizione è di Michel Foucault). Su questa verità si fonda la forma moderna di naturalismo della società e dell’essere umano. Verità dunque alla quale la politica deve corrispondere, adottando una conoscenza costante, chiara e distinta dei meccanismi economici e impegnan- dosi a rispettarli, a favorirne funzionamento e progresso. È questa intima e complessa connessione tra politica ed economia, basata su un determinato regime di verità che chiamiamo «economia politica». Ma né la connessione, né la verità stanno nella testa degli economisti, nelle loro formulazioni teoriche. È il mercato il luogo dell’evidenza dei meccanisimi economici, della loro rispondenza a un intrinseca antropologia umana, egoistica e sociale allo stesso tempo. In fondo il liberalismo – del quale il liberismo è una variante, per quanto significativa – non è altro che la teoria e l’arte del governo di questa economia naturalistica, o natura economica della società e dell’individuo. Se va smarrito questo nocciolo «antropologico» della critica di Marx, io credo che perdiamo la bussola per valutare cosa consideriamo tuttora valido. Distinguerei materialismo con analisi della società in termini di rapporti economici. Ad esempio Di Siena pone la questione di ridefinire le classi, a partire dalla posizione nel mercato come produttori e consumatori. Altro esempio sono le analisi femministe sui rapporti di produzione e riproduzione. Sono integrazioni indispensabili, per ripensare i fondamenti teorici della politica. Ma altra cosa è rendere attuale la critica dell’economia politica, da un punto di vista materialista. Secondo Simone Weil, poiché «gli uomini fanno la propria storia ma in condizioni determinate (…) è neces- OPINIONI A CONFRONTO sario conoscere le condizioni materiali che ne determinano le possibilità di azione». È questa «l’unica idea veramente preziosa che si trova nell’opera di Marx è anche l’unica che sia stata completamente trascurata» (Weil, 1983). Ed è convinta che l’abbandono del materialismo sia un fattore decisivo di fallimento per il movimento operaio e comunista. Conoscere le condizioni materiali non è infatti lo stesso che conoscere i rapporti economici. Nonostante infatti il ricorrere di termini quali contraddizione, sistema, rapporti o mezzi di produzione, scambio, consumo, da parte comunista l’attenzione non è rivolta alle condizioni di vita, alle esistenze concrete. Analisi oggettiva e astratta per un verso, progetto, anch’esso generale e di sistema per l’altro, sono le coordinate con cui si pone la prospettiva di trasformazione della società. Oggi e non solo ieri. A Weil, come sappiamo, non è bastata la conoscenza dello sfruttamento capitalistico. Ha voluto conoscere la condizione operaia, il modo di vivere e lavorare di uomini e donne che quella condizione la incarnano. Provo a spiegarmi con un riferimento all’attualità. Ha analoghi risultati per l’agire politico, descrivere la precarietà come sistema di organizzazione del lavoro e raccontare vite precarie? Rivolgendo l’attenzione non tanto al rapporto economico-sociale in astratto, ma a chi quella forma di vita la pratica quotidianamente, nei comportamenti, nel corpo e nell’immaginario, nei bisogni e nei desideri? Vi è da tempo carenza di inchieste sociali, di narrazioni che mettano in parola la materialità, di conseguenza pensiero e linguaggio mancano di corposità. Ma senza questo scambio virtuoso da dove muove il discorso sulla precarietà? Da quali contesti e da quali protagonisti? Dove si radica e cosa anima una politica in grado di perseguire una trasformazione e non soltanto di ridurre il danno e i soprusi? Bruno Steri ricorda l’esperienza del Consiglione di Mirafiori, per spiegare quando e come matura la sconfitta, a partire da quale modificazione del sin- dacato e della coscienza di sé dei lavoratori. Ha ragione Steri, il passaggio da sindacato di classe a sindacato dei diritti e delle persone ha comportato un impoverimento, non un arricchimento. Si è tolto significato alla materialità delle vite e del concreto modo d’essere di uomini e donne. Questo ha reso i singoli e le singole meno protagonisti/e delle lotte e della politica, invece di allargare l’ambito dei contenuti e l’area sociale interessata. E però c’è un salto da questa illuminante ricostruzione alla conclusione che Steri ne trae. Quella che vada rimesso al centro della «totalità sociale» il conflitto tra Capitale e Lavoro, dal quale dipende la possibilità di instaurare una società diversa. Le maiuscole sono opportunamente adottate da Steri, per indicare che si tratta di un conflitto tra entità oggettive, sistemiche vorrei dire. Senza di questo, per Steri, non vi è modo di determinare la scelta di campo, di ricomporre un unico quadro teorico e pratico. Su questo vi è una divergenza netta, da parte mia. Penso che la tesi del conflitto fondamentale non sia più sostenibile, concettualmente e politicamente. Che non vi sia modo di ristabilire i fondamenti oggettivi, dei quali si fa garante una teoria scientifica della società, e a partire dai quali la politica ritrova un orientamento, su basi appunto oggettive. So bene che questa semplificazione è già in Marx, va però abbandonata. Non perché sia stata smentita la previsione che l’intera società si sareb- 53 54 be divisa nei due grandi campi delle due classi, borghesia e proletariato. Ma perché Marx riduce in questo modo la complessa trama delle «condizioni materiali», delle esistenze, delle relazioni, delle esperienze. E questo non ci aiuta a capire neppure la forma della «totalità» e quanto sia più ricca, articolata e profonda della mera contrapposizione di campo, la costruzione delle identità e dei rapporti tra le classi. Come ho detto non è problema di aggiungere, completare, sostituire. Ad esempio l’intrecciarsi dei rapporti tra i sessi a quelli tra le classi. O dei dispositivi sessuali ai modi di produzione. Vi è sì l’esigenza di avere una rappresentazione di insieme della realtà, senza accontentarsi di raccogliere in un unico album le fotografie dei diversi pezzi. Ma questo non potrà più tradursi in una immagine unitaria e sintetica, attorno a un centro. In questo senso io sono convinta che sia avvenuta una frattura di epoche, un passaggio, per dirlo con Foucault, da un ordine del discorso a un altro. Che non attiene alla validità o meno del pensiero di Marx, ma a quella forma di scienza, nella quale, come ho detto, resta inscritto. E dalla quale va liberato con una lettura che scompone e ricompone il testo. Senza per questo perdere l’intima e intrinseca coerenza dei suoi enunciati essenziali. Anzi per ritrovare il significato complessivo, il senso ultimo del pensiero di Marx. Pensiero simbolico, perché ha generato una straordinaria trasformazione di realtà. È questo che ci induce a leggerlo, per trovarvi risposte, ma soprattutto un’apertura di senso sulla realtà. Chiediamoci, allora, non dove e come nella politica si esprime fedeltà a Marx, alla sua teoria della rivoluzione e del comunismo. Ma se e come si è data dopo Marx una radicalità di pensiero differente, con analoga potenza trasformatrice della realtà. La questione non è dove ci porta Marx, ma dove noi siamo in grado di condurlo. Su questo aspetto decisivo la mia risposta è: è stato il femminismo a raccogliere l’eredità di Marx. In modo esplici- to, perché ha ripreso, con un salto teorico e pratico, la critica del paradigma di verità dominante, ovvero di una società e di una antropologia umana, fondate sull’economia. Lo ha fatto rispetto ai rapporti e all’organizzazione dell’attività umana. Rispetto alla forma dominante di sapere e alla scienza come metodo conoscitivo garante di oggettività e neutralità. E, soprattutto, rispetto al materialismo, andando a scavare nelle vite e nei corpi per produrre soggettività e sapere. Penso che questo differente modo di produrre pensiero e pratica politica sia rimasto largamente incompreso, alla lettera ignorato, da parte della sinistra. Mentre a mio avviso sarebbe essenziale verificarne la fecondità, proprio sulle questioni cruciali che sono state, e restano, il fulcro del comunismo. Come affrontare la naturalizzazione dell’economia politica? E con essa l’interiorizzazione della mercificazione dell’essere umano? Nel sesso come nel lavoro? È però preliminare lo scambio sul diverso modo di intendere sia la teoria che la politica. Altrimenti si crede di intendersi sui contenuti, ma restano del tutto incomunicanti proprio i differenti approcci alla realtà, perfino i linguaggi e l’uso dei concetti. OPINIONI A CONFRONTO che cosa vuol dire «essere comunisti» L UIGI C AVALLARO G IOVANNI M AZZETTI Alzi la mano chi sa rispondere alla domanda «Insomma che società volete?» se non in termini negativi (una società non fondata sul profitto, una società che non discrimini, che non predetermini l’ineguaglianza tra esseri umani, che non sia ingiusta come questa ecc.). Noi sappiamo dire «una società che non», ma non sappiamo più dire «una società che sì» P erché essere comunisti oggi? La domanda che ha posto Piero Di Siena, sul n. 3 di questa rivista, circola ormai insistente e chiama al redde rationem quanti, all’indomani della svolta della Bolognina, non si rassegnarono a consegnare agli archivi un’identità politica e culturale che centinaia di milioni di persone, nel corso del Ventesimo secolo, avevano assunto su di sé. In effetti, bisogna dar atto a Di Siena che la strada sin qui percorsa sul piano teorico e politico dal movimento (e poi partito) originatosi nel 1991, in alternativa al neonato Partito democratico della sinistra, appare tutt’altro che soddisfacente. Nessuna novità Sembrano al riguardo pertinenti le considerazioni che Marco d’Eramo, in un articolo sul «il manifesto» del sette dicembre scorso, ha svolto a proposito dell’opportunità di mantenere la testatina «quotidiano comunista» su quel giornale: «nessuno di noi sa dire con esattezza in che cosa consista il comunismo. A ragione denunciamo i misfatti del capitalismo, gli orrori generati dal fondamentalismo liberista di mercato, gli eccidi dell’imperialismo umanitario. Ma alzi la mano chi sa rispondere alla domanda «Insomma che società volete?» se non in termini negativi (una società non fondata sul profitto, una società che non discrimini, che non predetermini l’ineguaglianza tra esseri umani, che non sia ingiusta come questa ecc.). Noi sappiamo dire «una società che non», ma non sappiamo più dire «una società che sì». Le considerazioni di d’Eramo, del resto, non sono nuove. Cose analoghe aveva scritto ben diciassette anni fa Rossana Rossanda, osservando che «il manifesto» si dice tutto «comunista», ma preferisce non definire la parola». E poiché questa afasia sui contenuti, come dicevamo, è testimoniata all’evidenza anche dalla breve storia del Partito della Rifondazione comunista, Di Siena sembrerebbe proprio aver ragione: se in quasi vent’anni i comunisti non sono riusciti a definire ciò che «vogliono», non sarà perché non sono in grado di volere nulla di concreto? In quest’ottica, il processo federativo che si sta avviando con i Verdi, la Sinistra democratica e il Pdci può avere addirittura un impatto deflagrante. Ci sembra infatti evidente che, dietro lo slogan della «sinistra plurale», si cela il tentativo di tenere insieme istanze diversissime e non di rado contraddittorie: diritti sociali e pratiche di autogestione, eguaglianza di opportunità e differenze identitarie, lotta alla povertà ed ecologismo «radicale», programmazione economica e libertarismo. Ma bisogni ed esigenze così differenti non possono convivere senza un’adeguata sintesi capace di ordinarli: c’è il rischio della babele. E se così dovesse essere, è facile prevedere che su «La Sinistra, l’arcobaleno» calerebbe ben presto una pietra tombale, sulla quale – citando Marx – si potrebbe scrivere: «c’era la volontà, ma mancava la capacità». Un esito che relegherebbe la sinistra a un ruolo meramente testimo- 55 Da anni, ormai, sosteniamo che il fumoso concetto di «globalizzazione» svolge la funzione di convincere la società del sopravvenire di una rottura radicale, che avrebbe posto il mondo dei rapporti sociali su una base completamente nuova. Ma la tesi della radicale discontinuità fra passato e presente è precisamente quella che consente al capitale di disarmare i suoi avversari, millantando un’assoluta novità che impedirebbe di battersi anche avvalendosi delle esperienze passate 56 niale e di cui anche i comunisti sarebbero indubbiamente responsabili. Per affrontare adeguatamente l’interrogativo posto da Di Siena, ci sembra dunque opportuno distinguere i due problemi che si celano dietro la sua domanda. C’è infatti un primo problema che attiene al «senso» politico e culturale dell’«essere comunisti», ed è quello cui allude (almeno letteralmente) Di Siena; c’è poi un altro problema, che investe un partito che reca inscritto nella propria ragione sociale l’obiettivo della «rifondazione del comunismo», e che brutalmente può esser enunciato così: bisogna sciogliere Rifondazione comunista? Si potrebbe obiettare che i due problemi sono in realtà connessi. Ma la riflessione può procedere più chiaramente se, in un primo momento, essi vengono separati. Un partito, certamente, vive di appartenenza e identità, ma un’identità meramente negativa, che cioè non comprenda il carattere necessariamente determinato della negazione dialettica, si risolve nel nulla astratto, cioè in un mero contenitore di tutto ciò che è «anti». E non ci vuol molto a comprendere che l’indeterminatezza culturale e programmatica porta con sé i germi del personalismo: solo l’identificazione plebiscitaria con un capo carismatico può orientare scelte collettive non mediate da un preventivo ordinamento gerarchico di conoscenze, bisogni e interessi, che lo si voglia o no. Il nome e la cosa Veniamo dunque alla questione di senso, sulla quale sola qui ci soffermeremo: si può «essere comunisti» oggi? Sostiene Di Siena che la realtà è cambiata: «Se nell’Ottocento e nel Novecento il problema della liberazione del lavoro dalla sua condizione di sfruttamento era un processo di emancipazione collettiva da una condizione altrettanto collettiva di subordinazione, e aveva nella realizzazione del principio di uguaglianza il suo compimento, ora tale processo non può che prendere le mosse dall’individuo che lavora, e trova il suo riscatto nella realizzazione della sua libertà». Se questo è il problema, «che cosa c’entra con tutto ciò la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, una certa condizione del rapporto tra partito e masse, una certa idea della funzione e del ruolo dello Stato nella società e nell’economia, in una parola il comunismo, cioè quel movimento che per forza di cose è figlio della società di massa del Novecento e che ha vissuto la sua esperienza ambiguamente a cavallo tra totalitarismo e democrazia, che di quella società rappresentano i modelli politici prevalenti non a caso ambedue in crisi?». La tesi è chiara: poiché «comunismo» è il nome di una «cosa» – le esperienze del movimento operaio del Novecento – e questa cosa si è sostanzialmente dissolta in una realtà che non la contiene più, non ha senso continuare a usare quel nome per rapportarsi alla nuova situazione sociale. Nel termine «comunismo», dice insomma Di Siena, si poteva intravedere la forza e la progettualità di un particolare movimento, quello operaio del Novecento; ora che quel movimento non c’è più, quella parola ha perso la sua forza. Perché aggrapparcisi ancora? Una simile argomentazione risulterebbe condivisibile se nome e cosa fossero immediatamente uno, sì che – scomparsa la cosa – risultasse insensato continuare a usarne il nome per definire ciò che è altro. Ma questa confusione tra parole e cose è decisamente fuorviante. Sebbene la nomenclatura non sia un processo arbitrario e gli esseri umani abbiano sempre cercato di procedere sulla base di un legame di senso tra il nome e la cosa, la parola non è la cosa: vi si riferisce soltanto. Il problema ci sembra piuttosto questo: può il termine «comunista» essere ancora sensatamente riferito alle lotte per «la trasformazione dell’ordine sociale esistente all’altezza delle contraddizioni dell’oggi»? Sappiamo che negli ultimi vent’anni questo interrogativo ha ricevuto risposte negative e positive. Molti comunisti hanno rinunciato alla loro identità, perché si sono convinti che quel nome non riusciva più a racchiudere i loro bisogni e le loro aspettative. Altri comunisti, come ricorda lo stesso Di Siena, hanno invece assunto un approccio vagamente kantiano, declinando il comunismo «come un orizzonte o come un’idea regolativa, una sorta di guida per l’azione», perché ai loro occhi il nome, pur non essendo la cosa, ser- OPINIONI A CONFRONTO viva piuttosto come «strumento per la promozione di uno scopo che come mezzo per simboleggiare un riferimento già esistente». E qui, aggiungiamo noi, la strada si è biforcata: da un lato sono andati coloro che individuavano solo una continuità tra la dinamica propria del Novecento e quella odierna e ritenevano che la differenza andasse ricercata nel momentaneo prevalere di una delle due parti in conflitto, a causa dell’abdicazione (tradimento?) dei «compagni»; per costoro, bastava (e basta) continuare ad autodefinirsi comunisti per esserlo. Nell’altra direzione, invece, si sono inoltrati coloro che, pur considerando lo stato presente come «prodotto» della dinamica passata, hanno avvertito il bisogno di una rielaborazione delle precedenti categorie interpretative, perché i soggetti stessi non erano più immediatamente quelli della fase precedente. Accanto alla continuità, infatti, costoro riconoscevano il sopravvenire di un mutamento profondo e dunque il bisogno di una «rifondazione comunista». Purtroppo, questa rifondazione è mancata. Il nome è rimasto a aleggiare nel vuoto e per questo Di Siena può coerentemente sostenere che l’essere comunisti, oggi, gli appare anacronistico. Ma la rifondazione è ancora possibile? La risposta a questa domanda presuppone una coerente individuazione del grado di novità del mondo in cui ci muoviamo. Da anni, ormai, sosteniamo che il fumoso concetto di «globalizzazione» svolge la funzione di convincere la società del sopravvenire di una rottura radicale, che avrebbe posto il mondo dei rapporti sociali su una base completamente nuova e obbligherebbe – Di Siena lo sostiene con enfasi – a riorganizzare il conflitto senza potersi riferire alle pratiche sociali passate. L’esperienza si struttura così in un’opposizione che non contempla altro che una discontinuità e per questo si può giungere a sbarazzarsi del proprio nome ed affannarsi a trovare una collocazione che non è già data. Ma la tesi della radicale discontinuità fra passato e presente è precisamente quella che consente al capitale di disarmare i suoi avversari, millantando un’assoluta novità che impedirebbe di battersi anche avvalendosi delle esperienze passate. Chi non si fa abbindolare si accorge 57 invece facilmente che anche in passato lo scopo della valorizzazione veniva perseguito con la speculazione finanziaria, col mancato impiego di una parte rilevante della forza lavoro, con la riduzione dei salari, col prolungamento dell’orario di lavoro e con la riduzione al minimo delle misure di sicurezza, oltre che con una valanga di messaggi pubblicitari volti a creare consenso. D’altra parte, nonostante questa continuità, si deve pur riconoscere che negli ultimi decenni ci sono stati cambiamenti profondi nel tessuto sociale. Sfortunatamente, però, la sinistra e i comunisti continuano a rappresentarseli come se fossero interamente ascrivibili a una «reazione» del capitale, che – destrutturando il tradizionale terreno di lotta del proletariato organizzato (la famosa «grande fabbrica fordista») – avrebbe irrimediabilmente compromesso la sua capacità di continuare ad agire «come classe», lasciando al suo posto «individui» corvéable à merci e facili prede dell’immaginario seducente del consumo e dell’arricchimento. Questo modo di ragionare, che considera quell’individuo che ha fatto un’embrionale comparsa sulla scena sociale negli ultimi trent’anni come se il movimento comunista del Novecento non avesse nulla a vedere con la sua genesi, è in realtà sbagliato. Può anche darsi che nessuno o quasi di coloro che si batterono per il comunismo intendesse «far nascere» l’individuo. Ma uno degli insegnamenti fondamentali del materialismo storico è appunto che gli effetti delle azioni sociali non sono necessariamente contenuti nelle intenzioni degli agenti, perfino quando costituiscono una conseguenza indefettibile delle loro azioni. Per dirla chiaramente, a noi pare che quell’individuo che, confuso e impotente, calca oggi la scena della società, sia un prodotto stesso della lotta per l’emancipazione dalla subordinazione di classe. Nel perseguimento non solo idealistico dell’eguaglianza, che è stato reso possibile in grazia della (parziale) collettivizzazione dei mezzi di produzione, dell’affermazione del diritto al lavoro e dell’or- 58 ganizzazione in partiti delle masse, si sono infatti create le condizioni concrete per un insieme di relazioni nelle quali la posizione di classe è progressivamente receduta, scaraventando sulla scena sociale (solo) l’individuo. Bisognerebbe in effetti ricordare che Marx rimarcò sempre che il ruolo storico del proletariato non era quello di conquistare migliori condizioni di riproduzione di se stesso, ma di togliere se stesso come lavoro salariato. E cos’è stata la politica del pieno impiego conquistata nei trent’anni di welfare state se non il superamento di un rapporto casuale delle masse con le condizioni della propria riproduzione? E ciò non ha forse comportato anche il superamento embrionale della condizione di merce propria della forza lavoro che si presenta come classe? A cos’altro si alludeva, negli anni Ottanta, quando si parlava di «società dei due terzi», se non a una condizione nella quale ormai solo una minoranza della popolazione era condizionata dal bisogno immediato? Insomma, proprio facendo i conti con «lo stato di cose presente», come suggerisce Di Siena prendendo a prestito le parole dell’Ideologia tedesca, non si può non riconoscere che il movimento comunista ha contribuito alla profonda trasformazione della società, al punto di creare quell’embrione di superamento del rapporto di classe che si esprime nella comparsa degli individui. Il problema, piuttosto, è sorto dal fatto che questi «individui», sebbene prodotti dalla dinamica che aveva preso corpo nel Novecento, non venivano alla luce in un mondo fatto per loro: al contrario, per poter disporre coerentemente del general knowledge, cioè delle potenti forze produttive che pure avevano mediato il loro stesso sviluppo, avevano bisogno di rimodellare (diciamo pure di rivoluzionare) le forme del comunismo allora esistenti: quelle statuali. Che questo bisogno implicasse la necessità di intraprendere un percorso di liberazione dalla gabbia della «società disciplinare», ovunque impostasi fino alla metà degli anni Sessanta, è fuori discussione e l’anticomunismo «viscerale» del ’68 ne fu la migliore conferma. Ma era ed è sbagliato, a nostro parere, contrapporre l’obiettivo dell’«eguaglianza» a quello della «libertà», come invece fa Di Siena seguendo l’uso corrente. La «liberalizzazione» degli assetti neocorporativi che avevano strutturato le so- cietà a Est e a Ovest della cortina di ferro non richiedeva affatto l’affermazione di una «libertà» meramente negativa, come invece si credette offrendo al capitale un’insperata occasione per riproporre un’antistorica egemonia, ma postulava al contrario una libertà positiva: una riduzione degli elementi coercitivi e autoritari dello «statalismo», che – per dirla con Gramsci – facilitasse il «passaggio dallo Statogoverno allo Stato-società regolata», e – parallelamente – un cambiamento del modo in cui i soggetti si rapportavano all’insieme delle loro relazioni, che ristrutturasse realmente (e non solo idealisticamente) i limiti immanenti alla loro inevitabile «particolarità». «Quali fossero questi nuovi valori, né l’esistenza né l’ideologia potevano dirlo: l’esistenza è muta e cieca, l’ideologia dice sempre altro – è cioè pretestuale. Quei valori dunque c’erano, ma non si definivano. Solo il momento successivo della razionalizzazione avrebbe potuto nominarli», scrisse Pasolini di quel nuovo «assalto al cielo». Sono passati quarant’anni, ma nominare e definire quei valori resta ancora la condizione sine qua non per poter essere coerentemente comunisti. IDEE questione meridionale e questione sarda i temi dell’autonomia e l’elaborazione dei comunisti seconda parte (prima parte pubblicata sul numero 3 – ottobre 2007) G IANNI F RESU * 4. Renzo Laconi e la svolta autonomista Il II Congresso regionale del PCI, tenutosi a Cagliari nel maggio del ‘45, non era stato in grado di realizzare sino in fondo la svolta da tutti attesa; a pagarne le spese fu il Segretario regionale Antonio Dore sostituito da Velio Spano, il più autorevole ed esperto tra i comunisti sardi. Il tutto avvenne nella conferenza regionale del Partito tenutasi nell’aprile 1947 a Cagliari e presieduta da Palmiro Togliatti, che aveva sferzato duramente i ritardi del Partito sardo rispetto al resto d’Italia e polemizzato contro le resistenze alla linea nazionalmente definita. Le contraddizioni in cui si dibattevano i comunisti sardi erano per Togliatti dovute al loro modo di ricondurre le questioni dell’autonomia direttamente alle contraddizioni di classe, senza comprenderne la valenza democratica. Afferrare il significato democratico e non di classe della questione autonomistica significava renderla battaglia unitaria di tutte le forze democratiche, bandiera dell’intero popolo sardo. Per Togliatti recintare settariamente la battaglia autonomistica alle sole classi subalterne ne avrebbe depotenziato la spinta, senza peraltro agevolare il compito di conquista egemonica dell’articolazione sociale da parte dei lavoratori. Le classi subalterne dovevano divenire classe dirigente nell’allargamento progressivo degli spazi di democrazia sociale, economica, politica, e anche le lotte per l’autonomia costituivano un banco di prova, una verifica della maturità dei comunisti. L’obiettivo posto da Togliatti era costruire il grande partito delle masse sarde. Dunque, nonostante la dialettica della Costituente avesse spinto il Pci su posizioni piuttosto rigide, fu proprio Togliatti a sollecitare una svolta autonomistica tra i comunisti sardi. Di questa svolta diviene protagonista assoluto un giovane dirigente, Renzo Laconi, destinato a essere l’interprete più originale della concezione togliattiana sul «Partito nuovo» in Sardegna. Renzo Laconi, oltre a essere stato uno dei più autorevoli dirigenti comunisti del partito in Sardegna, è stato stretto collaboratore di Togliatti. A soli trenta anni è eletto nell’Assemblea costituente e, nonostante la sua giovane età, diviene membro della Commissione dei settantacinque, incaricata di redigere il disegno costituzionale; partecipa alla Commissione ristretta dei diciotto, quando Togliatti è impossibilitato a prendervi parte; è il relatore del gruppo comunista sul disegno costituzionale e in tale vece apre gli interventi dei comunisti nella discussione generale dell’Assemblea. Laconi pose costantemente la questione autonomistica al centro della sua azione di costituente. In tal senso intervenne all’Assemblea Costituente, richiamando con urgenza il licenziamento dello Statuto autonomistico della Sardegna, già approvato il 29 aprile del 1947 dalla Consulta regionale e quindi presentato dall’Alto Commissario al Governo De Gasperi. La situazione L’obiettivo posto da Togliatti era costruire il grande partito delle masse sarde. Dunque, nonostante la dialettica della Costituente avesse spinto il Pci su posizioni piuttosto rigide, fu proprio Togliatti a sollecitare una svolta autonomistica tra i comunisti sardi * PRC-COMITATO POLITICO NAZIONALE 59 60 economica e sociale della Sardegna richiedeva infatti un intervento rapido, perché se era vero che le condizioni di arretratezza dell’Isola avevano radici secolari, lo era altrettanto che il ventennio fascista e la guerra ne avevano aggravato la patologia. In quest’importante intervento Laconi rivendicava al Pci l’eredità di un processo di emancipazione che affondava le sue radici nelle lotte antifeudali e più in generale nelle aspirazioni storiche del popolo sardo. Le ragioni dell’autonomismo sardo non venivano per Laconi solo da motivi storici o geografici ma dal modo stesso attraverso cui si è sviluppato il rapporto della Sardegna con il Piemonte prima e l’Italia poi. L’annessione della Sardegna era infatti il frutto di un atto diplomatico militare e non del processo di rinnovamento sociale e unificazione economica che ha contraddistinto il Risorgimento. In tal senso Laconi si richiamava alle secolari lotte di contadini e pastori contro la signoria feudale per gli usi civici della terra, riaffiorati con la legge delle chiudende del 1820 e l’editto istitutivo della proprietà perfetta, che aboliva il feudalesimo nell’Isola, del 1836. Anche quelle riforme, nate con l’intento di giungere alla modernizzazione economica dell’isola, non mutarono la natura dello sfruttamento coloniale delle risorse sarde da parte prima del capitalismo mercantile e poi di quello industriale. Da ciò le contraddizioni mai sanate tra le esigenze di progresso e una realtà fatta di isolamento e miseria, dove l’unico rifugio possibile era nella tradizione dei modi di vita, lavoro e relazione sociale. E da questa contraddizione scaturisce, ancora, sulle labbra del pastore e del contadino isolano il grido che guidava i padri nelle lotte contro il Piemonte: torrare a su connottu; sos muros a terra, grido che non risponde certo a una chiara prospettiva politica, che non indica, forse, esattamente la strada di rinnovamento dell’economia isolana, ma esprime la ribellione dell’uomo semplice contro uno stato di cose ingiusto e il rimpian1 to dei tempi passati, migliori forse del presente . Per queste ragioni qualsiasi movimento culturale e politico degno di questo nome, sorto in Sardegna, non poteva che assumere carattere regionale e autonomistico. Ciò trovava puntuale riscontro nella letteratura sarda, nelle lotte, nella propaganda, nella politica isolana. Riassunta venticinque anni fa in un programma politico della corrente che faceva capo al Partito sardo d’azione, condivisa dalle componenti più avanzate del movimento socialista, la rivendicazione autonomistica è oggi patrimonio di tutti i partiti dell’Isola e costitui2 sce la comune rivendicazione di tutti i sardi . Era dal riconoscimento di questa storia che il diritto di cittadinanza dei sardi, nello Stato italiano rinnovato, andava ricostruito su basi politiche nuove. In Sardegna la consapevolezza sul valore democratico della battaglia autonomista era anche il risultato delle esperienze di lotta popolare (dai contadini di Bonorva, ai pastori, ai minatori del Sulcis, ai pescatori degli stagni). Questo perché le condizioni di arretratezza e miseria della Sardegna avevano sicuramente un’origine riconducibile ai rapporti sociali di produzione esistenti, ma chiamavano fortemente in causa la struttura centralizzata di una amministrazione burocratica, sempre più sclerotica e inefficiente, l’inadeguatezza della struttura giuridica e politica del paese. Per vincere i mali della Sardegna bisognava farla uscire dalla condizione di passività a cui era stata condannata nei secoli dai diversi dominatori, farla divenire soggetto attivo del suo sviluppo e della sua emancipazione. Ciò inevitabilmente doveva passare da un profondo rinnovamento democratico della struttura amministrativa e la creazione di una specifica legislazione adatta alle esigenze della Sardegna, vale a dire dall’attuazione dell’autonomia regionale. Autonomia, programmazione economica. La stagione delle lotte per la Rinascita Proprio sul tema dell’autonomia regionale in quegli anni si era venuta a determinare una inversione di posizioni tra Dc e Pci: la prima sostiene inizialmente un’ipotesi riformatrice di forte decentramento regionale e poi però ritarda enormemente la creazione delle regioni ordinarie; il Pci invece, assume in un primo momento un atteggiamento ostile verso ogni ipotesi di ridimensionamento IDEE delle prerogative dello Stato centrale, per poi fare propria la rivendicazione regionale come riforma imprescindibile. Nonostante questa convergenza a livello regionale l’approvazione dello Statuto e del Piano Pinna, trovarono un ostacolo insormontabile nelle scelte del governo nazionale, che nell’estate del 1947 respinse il Piano per mancanza di copertura finanziaria. Tutto questo aveva portato il Pci a organizzare la mobilitazione per l’autonomia, con una grande manifestazione popolare, alla quale aveva aderito anche la Dc, e il convegno regionale dei partiti autonomisti del settembre del 1947, nel quale era stata lanciata la parola d’ordine della lotta unitaria dei partiti sardi per l’autonomia. Come è noto lo Statuto venne approvato, seppur ampiamente modificato e profondamente ridimensionato, rispetto a quello approvato dalla Consulta, solo il 31 gennaio del 1948, cioè allo scadere del mandato dell’Assemblea Costituente. La delusione suscitata da questo esito fece scaturire un inasprimento della dialettica politica tra Dc e Pci. Ne è un esempio l’articolo al vetriolo scritto da Velio Spano per «Il 3 Lavoratore» intitolato Regionalismo democristiano . In esso Spano riportava l’ultima discussione in seno alla Costituente e accusava la Dc di aver sacrificato le ragioni autonomistiche della Sardegna sull’altare dei suoi piccoli interessi. Gli ostacoli frapposti e il risultato conseguito chiarivano per Spano che il partito di De Gasperi considerava «La Sardegna come una riserva possibile della reazione» ed era mosso dalla volontà di «isolarla da ogni influenza democratica». Al contrario si sarebbero dovuti riconoscere «i torti secolari che sono stati fatti alla Sardegna» risarcendo il popolo sardo e mostrando fiducia nei suoi confronti. A questo articolo ne seguiva un altro, pubblicato il 7 febbraio su «Il Lavoratore», nel quale Spano parlava di «cretinismo paternalistico savoiardo» riemergente e polemizzava duramente con la tesi secondo cui lo Statuto approvato era persino troppo avanzato per i sardi. [Tale tesi, scrive Spano] mette a nudo le vere intenzioni di quei parrucconi di costituzionalisti continentali e di politicanti sardi che avevano cercato di nascondere la loro pelle di anti-autonomisti sotto le vesti del regionalismo. Ecco il punto! Che cos’era dunque il regionalismo di lorsignori? Noi concepivamo e concepiamo lo Statuto come un mezzo che aiuti il popolo sardo a camminare, a camminare svelto. Quei signori concepiscono lo Statuto come un osso gettato a un cane per evitare che ringhi. Noi siamo autonomisti, siamo sardisti, quei signori sono regionalisti. E il loro regionalismo mostra oggi apertamente la sua doppia faccia sociale e politica: la faccia sociale conservatrice della vecchia e fallita classe dominante la quale, stabilendo una eguaglianza giuridica formale tra le regioni italiane, vuole in realtà sancirne la disuguaglianza profonda e perpetuarne lo sfruttamento coloniale del capitalismo settentrionale 4 sulle masse rurali del Mezzogiorno e delle Isole . È a partire da questa grande delusione che prende le mosse la stagione delle lotte autonomistiche per il Piano di Rinascita. Nel 1949 Velio Spano, segretario e massimo dirigente sardo del Pci, chiese e ottenne l’autorizzazione ad assentarsi dalla Sardegna per partecipare, insieme alla delegazione del Comitato Centrale, alle celebrazioni per la proclamazione della Repubblica popolare cinese che iniziarono il primo ottobre 1949. Nel periodo di assenza di Spano la segreteria regionale, della quale facevano parte Laconi e Lay, fu allargata con l’ingresso di Luigi Pirastu (allora Capogruppo in Consiglio Regionale) e la sua direzione venne affidata temporaneamente al partigiano emiliano Luigi Orlandi, mandato da Roma per aiutare nella costruzione del partito e per contribuire a riassorbire le tensioni accumulatesi. Proprio in questa fase Laconi propose di incentrare l’iniziativa del Pci attorno alla rivendicazione del «Piano del Lavoro». L’idea avanzata da Laconi era che si facesse leva sull’articolo 13 dello Statuto autonomistico e sulle previsioni del piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna finanziato dallo Stato. Attorno a questa rivendicazione bisognava costruire un movimento di lotta di massa, unitario di tutte le forze democratiche, capace di coinvolgere contadini, pastori e tutti i lavoratori della Sardegna. Nell’intento di Laconi infatti il Piano per il Lavoro avrebbe dovuto essere il terreno concreto per la realizzazione dell’alleanza operai-contadini attraverso una profonda e radicale riforma agraria e un intervento infrastrutturale per l’uso razionale delle risorse idriche dell’isola. A tal fine venne convocato un primo congresso regionale promosso dalle Camere del lavoro che si concluse con l’invito ai lavoratori, alle forze politiche e quelle culturali per l’organizzazione di un «Congresso del Popolo Sardo». Quattro mesi dopo il Convegno organizzato dalle Camere del Lavoro di Cagliari, Sassari e Nuoro si teneva al Teatro Massimo di Cagliari il Congresso del popolo sardo, nel quale il tema di un Piano organico per la rinascita economica e sociale della Sardegna era affrontato come prima battaglia attuativa della Costituzione e dello Statuto. L’obiettivo era fare del Piano la bandiera autonomistica di tutto il popolo sardo, senza distinzioni ideologiche o di partito. Laconi era il relatore introduttivo. Sul piano storico l’assenza di capitali da investire nella 61 La risposta del Governo a guida democristiana si concentrò invece nella stagione, per molti versi effimera e dannosa, dell’industrializzazione forzata, attraverso la quale la gran parte delle risorse pubbliche vennero dirottate per favorire famiglie potenti come i Moratti e i Rovelli e rinsaldare ulteriormente il blocco sociale tra classe politica e capitalismo parassitario del Nord Italia 62 modernizzazione sociale ed economica era riconducibile al mancato formarsi in Sardegna di una classe borghese degna di questo nome. Le classi possidenti sarde, come quelle meridionali, avevano vissuto di rendita parassitaria spendendo quella rendita senza alcuna ricaduta produttiva e senza alimentare quote significative di risparmio. Da ciò l’evidente contrasto tra l’opulenza della nobiltà inurbata e la decadenza sia delle campagne che delle città. Una condizione che anche Gramsci aveva fotografato, seppur con differenze significative, nelle note di Americanismo e fordismo in rapporto alla struttura economico-sociale del napoletano5. Neanche i tentativi tesi a stimolare l’iniziativa economica, attraverso la formazione di un capitale originario, come era avvenuto con la Legge delle chiudende o con la Legge Cocco Ortu, riuscirono a trasformare la natura della borghesia della Sardegna e con essa la sua società. L’unificazione totale del 1848 – che sopprimeva gli antichi istituti autonomistici del Regno di Sardegna uniformando l’Isola al resto dei domini piemontesi – veniva dopo una serie di provvedimenti legislativi tesi a integrare anche economicamente la Sardegna agli Stati continentali. In tal senso la legge delle chiudende del ’20 e quella sulla proprietà perfetta del ’36 erano finalizzate a distruggere il sistema feudale suscitando il formarsi una borghesia imprenditoriale di tipo europeo. Allo stesso scopo tendevano la liquidazione dei beni e dei diritti della Corona sulle risorse industriali e la creazione a opera di Cavour di una Banca locale per mettere a frutto il risparmio. Da questo punto di vista l’unificazione totale e l’abolizione dell’autonomia rispondevano al tentativo di aprire la Sardegna ai capitali stranieri e inserire l’Isola nei flussi commerciali del tempo. Tuttavia questo tentativo era fallito perché la borghesia sarda non era riuscita a reggere il confronto con le profonde trasformazioni in atto. In una simile situazione non c’è stata alcuna modernizzazione ma solo l’accaparramento delle risorse da parte della borghesia forestiera che ha iniziato a commerciare i prodotti della Sardegna portando fuori da essa i profitti. Da questa debolezza delle sue classi dirigenti si originavano molti dei guasti che angustiavano la Sardegna sul piano sociale ed economico. Ne da conto lo stesso Antonio Gramsci in un articolo del 1919, falcidiato dalla censura, intitolato I dolori della Sardegna. Perché deve essere proibito all’«Avanti!» ricordare che a Torino hanno la sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? (…) Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevan6 dovi un tributo imperiale? Anche nel secondo dopoguerra, poi, la riforma agraria Segni non aveva mutato la sostanza dei rapporti sociali nelle campagne e l’opera di bonifica procedeva con una lentezza e disorganicità che impedivano qualsiasi modernizzazione e resa produttiva dell’agricoltura sarda. La soluzione della questione agraria era la strada per far fronte al problema dello scarso popolamento della Sardegna. In tal senso il Piano sarebbe dovuto intervenire per porre fine alla concentrazione della proprietà fondiaria e alla contemporanea polverizzazione nella sua distribuzione. Bisognava costruire aziende agrarie moderne su superfici estese e con strutture sociali progredite avendo come prospettiva la riorganizzazione economica delle comunità. A questa trasformazione doveva concorrere l’opera di popolamento delle campagne attraverso la creazione di reti stradali, borgate rurali e case coloniche dando nuove possibilità di lavoro. Questo, insieme all’opera di bonifica che uno specifico ente regionale avrebbe dovuto assumere come attività sua propria, per far fronte a una situazione non riscontrabile in nessuna altra regione d’Italia. IDEE Senza entrare nel dettaglio della proposta avanzata basti qui richiamare le articolazioni di intervento che si prospettavano per il piano: dalla riorganizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento a un nuovo piano di raccolta e distribuzione delle risorse idriche, da un piano energetico regionale alla riorganizzazione del credito regionale, dalla modernizzazione della trasformazione industriale al rilancio della struttura commerciale. La proposta di Piano doveva seguire una filosofia il più possibile integrata tra i settori d’investimento pubblico, avrebbe dovuto svolgere, verso l’economia e la società, quella funzione centralizzante delle risorse per un comune obiettivo di sviluppo che era mancata in passato. La battaglia per il Piano di rinascita durò tredici anni e andò costituendo in suo favore un grande movimento popolare che diede un contenuto nuovo e avanzato alla vecchia rivendicazione autonomistica, evitando al contempo l’idea tradizionale del meridionalismo che concepiva lo sviluppo come un’opera unilaterale dello Stato centrale, attuata in via amministrativa dalle burocrazie regionali. L’idea del Piano di Rinascita si basava sull’esigenza di sfruttare a pieno le risorse della Regione, intesa non più come organo passivo di politiche elaborate a Roma, ma ente propositivo e protagonista capace di avanzare e realizzare politiche di programmazione economica e sviluppo. Una programmazione dal basso, capace di coinvolgere i cittadini e gli stessi Enti Locali. In Sardegna la lotta autonomista per la programmazione democratica conferisce un contenuto nuovo alla vecchia ideologia autonomistica, rimasta concettualmente e politicamente separatista e sostanzialmente autarchica. L’idea di programmazione democratica legata al Piano di rinascita si basava sul rifiuto delle vecchie concezioni autonomiste secondo cui il Sud e le Isole lasciate libere di svilupparsi per conto proprio, senza i condizionamenti nazionali, avrebbero risolto da sole i propri problemi. Questa impostazione era ideologicamente liberista e si basava sulla rivendicazione per i punti franchi e contro i protezionismi doganali. Ma la lotta per la rinascita rifiutava anche l’impostazione centralistica, burocratica e assistenziale del vecchio meridionalismo, secondo la quale lo sviluppo del Mezzogiorno poteva realizzarsi attraverso leggi speciali decise e finanzia- te da Roma e tese a interventi infrastrutturali. Dunque finanziamenti a pioggia – secondo il modello della Cassa straordinaria del Mezzogiorno – che oltre a perdersi nei mille rivoli del clientelismo politico e spesso delle reti malavitose, svuotavano di qualsiasi soggettività la Regione. Fin dal 1950 la proposta del Piano di rinascita postulava invece un forte mutamento di politica economica che ovviamente per potersi realizzare necessitava di armonizzarsi con quella nazionale. Così si prospettavano riforme di struttura come la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la riforma agraria. Intorno a queste linee si sviluppò un movimento popolare che dopo tredici anni era riuscito a strappare un importante corpo di leggi articolato sul piano regionale e nazionale. Attraverso esse la regione non era relegata al ruolo passivo di destinataria di fondi (la cui entità e finalità è stabilita dallo Stato centrale), ma le viene riconosciuto il potere di partecipare alla contrattazione sugli investimenti pubblici in tutti i suoi aspetti preliminari e attuativi. Ma l’aspetto più avanzato, progressivo, del piano era che esso non si configurava come un intervento burocratico formulato da organi meramente tecnici. L’idea del piano era che esso avrebbe dovuto strutturarsi secondo un forte coinvolgimento democratico della Regione, degli Enti Locali, delle comunità. Queste erano le premesse, la concreta realtà politica; e l’involuzione del quadro nazionale aveva impedito al piano di essere attuato secondo i suoi principi ispiratori. Al di là dei limiti nell’attuazione, gli effetti positivi del piano erano tutti nel movimento che intorno a esso si era costituito e nel risveglio democratico che esso aveva suscitato presso municipi e comunità. In concreto la stagione delle lotte per la Rinascita portò la Sardegna a compiere un indubbio balzo in avanti, anche se va detto per esteso che quel che si realizzò solo in minima parte corrispondeva alle proposizioni del Congresso del popolo sardo. Nelle intenzioni dei comunisti il piano di Rinascita doveva condurre a una programmazione economica integrata capace di mutare i rapporti sociali di produzione, anzitutto nelle campagne, e sbloccare i meccanismi di accumulazione e distribuzione delle ricchezze. La risposta del Governo a guida democristiana si concentrò invece nella stagione, per molti versi effimera e dannosa, dell’industrializzazione forzata, attraverso la quale 63 la gran parte delle risorse pubbliche vennero dirottate per favorire famiglie potenti come i Moratti e i Rovelli e rinsaldare ulteriormente il blocco sociale tra classe politica e capitalismo parassitario del Nord Italia. Dunque una nuova stagione di colonizzazione che se da un lato ha fornito preziosi posti di lavoro, dall’altra ha portato fuori dall’Isola i profitti realizzati lasciando in loco solo il peso ingombrante e inquinante delle produzioni. 64 A tanti anni di distanza, di quelle lotte resta anzitutto un’eredità che riaffiora carsicamente in diverse battaglie dei giorni nostri, (quella per la restituzione alla Sardegna di ciò che le spetta in termini di entrate fiscali; per la smilitarizzazione; per l’autogoverno del territorio in materia di tutela ambientale e modello si sviluppo; per trattenere e ridistribuire le ricchezze suscitate dal turismo di lusso che lasciano all’Isola solo le briciole dei lavoretti stagionali ecc., ecc.). Dopo la modifica del Titolo V e l’attribuzione alle Regioni ordinarie di potestà legislative analoghe a quelle delle Regioni a Statuto speciale, la realtà e le esigenze concrete impongono un lavoro di adeguamento e rilancio del nostro scheletro costituzionale. C’è un intero quadro di interventi, analisi, elaborazione e lotte che va riempito. Ancora una volta sull’autonomia si può trovare il terreno per ricondurre a unità la trama frammentata della società sarda. Gli ostacoli a tale ricomposizione non vengono, oggi come in passato, solo da un dominio politico ed economico «forestiero», ma trovano linfa e strumenti di contrasto proprio in parte significativa delle classi dirigenti sarde, in una borghesia abituata a vivere di rendite parassitarie e di un prestigio sociale che non merita. 1. Renzo Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, scritti e discorsi, (19451967), EDES, Cagliari 1988, p. 225. 2. Ibid. 3. V. Spano, Per l’unità del popolo sardo, Edizioni della Torre, Cagliari 1978, p. 79. 4. V. Spano, Contro il cretinismo paternalistico, p. 82. 5. Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit. p. 2143 6. Antonio Gramsci, I dolori della Sardegna, ed. piemontese dell’«Avanti!», 16 aprile 1919, in Scritti 1915-1925, Moizzi Editore, Milano 1976, p. 177. IDEE falce e martello R OBERTO G RAMICCIA * Quella che segue è l’anticipazione del testo in catalogo della mostra di arte contemporanea, dal titolo «Falce e martello», che si terrà a breve a Roma e che raccoglierà decine e decine di opere eseguite sul tema da una selezione di artisti di grande valore. Croce e Falce e martello sono i due simboli che più di ogni altro hanno segnato la storia di una parte cospicua dell’umanità. Così come, del resto, hanno fatto i Vangeli e il Manifesto del Partito comunista di Marx (Rorthy). Ma, oltre a questo, Falce e martello, per chi è nato in Italia non molto tempo dopo la fine della guerra e ha vissuto in ambienti raggiunti dall’influenza del Pci, ha rappresentato qualche cosa di più intimo e familiare: la speranza e la fede in un futuro migliore per tutti, vissuta e agita giorno dopo giorno. Intendiamoci bene, non si può dire che chi portava nel cuore questo simbolo (più spesso la «vocazione» ti sorprendeva durante l’adolescenza oppure cresceva dentro di te lentamente sin dall’infanzia) lo facesse avendo necessariamente rinnegato la fede cattolica. In parrocchia, dove si andava a giocare a biliardino e a pallone, dopo la messa o il catechismo, c’erano croci dappertutto. Anche a scuola, in ogni classe ce n’era una attaccata al muro, dietro la cattedra. In molte case al tramonto nella Roma delle borgate le vecchiette snocciolavano il rosario. E nessuno si sognava di mettere in discussione queste cose. Tanto meno i comunisti. Ricordo che, nel frattempo comunista ero diventato anch’io, non mi sorpresi più di tanto quando in assemblea qualcuno raccontò che due partigiani comunisti, prima di sposarsi e mentre infuriava la guerra antifascista, dormissero in clandestinità nello stesso letto ma con il crocifisso in mezzo, eretto come baluardo insuperabile di castità. Che è come dire che il giorno dopo, forse, avrebbero sparato sui fascisti e i tedeschi per liberare l’Italia, ma la croce non solo non la rinnegavano ma la utilizzavano – sia detto con rispetto – come un catenaccio per difendere la grazia. Che dio tremendo e vendicativo sarebbe stato quello che avesse condannato all’inferno due fidanzatini impauriti che, alla vigilia di una possibile e prematura fine, si fossero concessi il ristoro di qualche più intensa effusione… Questa cosa la pensai allora e la penso ancora. Ma, ugualmente, non mi sentii e non mi sento di censurare quei due coraggiosi. Alla fine, si poteva, comunque, essere comunisti combattenti e credere in dio e temerlo e uniformarsi alle sue regole, o meglio alle regole che la chiesa imponeva in suo nome. Del resto nel PCI questa cosa è sempre stata ritenuta normale. Concetto Marchesi, grande latinista comunista aveva un gran rispetto della religiosità solidale e compassionevole dei primi cristiani, la portava ad esempio. Dell’incontro con le masse cattoliche nel Pci si è fatto sempre un gran parlare Falce e martello, per chi è nato in Italia non molto tempo dopo la fine della guerra e ha vissuto in ambienti raggiunti dall’influenza del Pci, ha rappresentato qualche cosa di più intimo e familiare: la speranza e la fede in un futuro migliore per tutti, vissuta e agita giorno dopo giorno * SCRITTORE E CRITICO D’ARTE 65 66 dalla Resistenza, alla svolta di Salerno di Togliatti fino al Compromesso storico di Berlinguer. A distanza di decenni, della croce e del cattolicesimo, quello che mi è rimasto è il rispetto per coloro i quali, da cattolici, si sono battuti per la difesa della dignità degli ultimi. Don Ciotti, recentemente, ha affermato che la fede e la bontà non bastano. Ci vuole la giustizia. Se no i conti non tornano. A questi preti la falce e martello non fa paura. Non fa paura perché la giustizia si ottiene solo liberando gli oppressi dallo sfruttamento e dal bisogno, che è esattamente ciò che i comunisti hanno sempre cercato di fare, al netto di errori e orrori. Del resto nessuno si sognerebbe di mettere in discussione la croce perché la Chiesa condannò a morte Giordano Bruno o bruciò sul rogo decine di migliaia di presunte streghe, o perché benedisse, tre secoli dopo, le armi dei franchisti o i gagliardetti dei fascisti prima di andare in battaglia. O perché scomunicò i comunisti (ci volle Giovanni XXIII per togliere quell’anatema). Sulla croce Gesù Cristo morì veramente. Si era azzardato a cacciare a scudisciate i mercanti dal tempio e a predicare l’uguaglianza. E questo nessun cardinale Bellarmino lo poteva cancellare, nemmeno con la più atroce delle nefandezze. E guardate che quella di Giordano Bruno fu atroce per davvero: far bruciare sul rogo una delle più sconfinate intelligenze che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto, con la mordazza serrata sulla bocca sanguinante come un lucchetto… Succedeva agli albori di un secolo, il Seicento, decisivo per la storia dell’Umanità, il secolo di Caravaggio e della rivoluzione scientifica. In una delle piazze più belle di Roma, l’unica su cui non si affacci una chiesa, per gli smemorati la statua di Giordano Bruno lo ricorda ancora. Eppure nessuno si azzarda a contestare la croce e, anzi, la Chiesa oggi più che mai riafferma con determinazione rinnovata i suoi principi e i suoi simboli, travalicando abbondantemente i confini del suo magistero per invadere i territori in cui la laicità dello Stato dovrebbe essere garantita. Il papa serra le fila di cardinali e vescovi e pontifica su delicatissime materie sociali e bioetiche («dico», fecondazione assistita e altro ancora) che riguardano folle di uomini e di donne non necessariamente credenti e tanto meno praticanti. Ma nessuno, nonostante tutto ciò, ripeto nessuno si permetterebbe mai di mettere in discussione il simbolo di Cristo. Perché mai allora da tempo ormai si mette in discussione il simbolo dei comunisti? Lo hanno fatto non molto tempo fa, con violenza inusitata, due eurodeputati dell’Est in sede ufficialissima, chiedendone addirittura la messa fuori legge, sostenuti nientemeno che da Franco Frattini, commissario europeo alla giustizia, libertà e sicurezza e con il sostegno aggiuntivo di esponenti Ds, come il vicepresidente della Commissione esteri della camera, Umberto Ranieri, il quale si è addirittura lamentato del ritardo con cui questo simbolo è stato del tutto rimosso dal suo partito (postcomunista). Né le difese di ufficio di qualche esponente storico della dirigenza dell’ex Pci sono apparse con- vincenti. E mostrano di essere pronti a liquidarlo, il fatidico simbolo, tutti coloro che vorrebbero scapicollarsi a fondare un nuovo partito unico della Sinistra buttando alle ortiche la loro storia, con tanto di araldica e di identità. Capisco che l’esempio dei Ds possa essere contagioso. Ma un conto è liberarsi della Quercia per fondare il Partito democratico, un conto è buttare alle ortiche un simbolo per il quale milioni e milioni di uomini nel mondo hanno sacrificato la vita. La falce e martello, come simbolo dell’unità fra operai e contadini, aveva fatto la sua comparsa in Italia sin dal 1919 sulla bandiera del partito socialista e dal 1924 compariva su quella dell’Unione Sovietica. Una lunga strada di sofferenze e di errori, di sangue e patimenti ma anche di straordinari e insuperati successi. Ora si dirà che, dopo la caduta del muro di Berlino e il fallimento dell’esperienza storica del Socialismo Reale, dopo la sconfitta del Comunismo, insomma, tutto questo era inevitabile nel mondo e anche in Italia. Questa verità, che oggi appare incontestabile ai più, non regge a un minimo di verifica critica. Non è questa la sede per fare lunghe disamine ma una cosa almeno si può dire: è proprio la caduta del muro ad aver dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, il vero volto e la vera natura di un capitalismo trionfante che, privo di freni e contrappesi, straripa imponendo al mondo la sua egemonia senza egemonia. La sua indubbia e oggi incontrastata influenza, infatti, configura i lineamenti di un dominio globalizzato materiale e immateriale che, tuttavia, è incapace di governare i destini dell’umanità, salvaguardandone almeno gli interessi generali minimi. Ritagliamo una pagina del magnifico libro di Raul Mordenti «Gramsci e la rivoluzione necessaria» e riflettiamoci su. Scrive Mordenti. «Il dominio capitalistico sul mondo è oggi senza dubbio egemonico, perché si è proclamato (senza che nessuno, o quasi, abbia osato contraddirlo) come l’unico modello di mondo possibile, e anzi l’unico immaginabile; a tal punto che esso riesce a presentare il proprio assetto di potere come naturale, e detta anche ai suoi pallidi avversari interni non solo l’agenda dei temi, ma perfino i modi, i tempi e le forme della competizione. Costringe il dominato a sforzarsi di diventare identico al dominante, anche quando vuole combatterlo, cosa c’è di più egemonico di questo? Eppure, al tempo stesso l’attuale dominio capitalistico sul mondo non è egemonico (nel senso proprio del concetto di egemonia) né può esserlo giacché, nel momento della sua schiacciante vittoria, esso si rivela del tutto incapace di risolvere i problemi dell’umanità associata, il capitalismo non si può estendere organicamente (se non nella forma dello sfruttamento e della deprivazione, fino alla morte per fame) alla totalità dei popoli del mondo, e insomma provoca (al tempo stesso!) crisi di sovrapproduzione e crisi di sottoconsumo, il capitalismo non può risolvere in alcun modo il problema cruciale del rapporto fra l’uomo e il pianeta che lo ospita, che tende dunque verso il disastro ecologico irreversibile; tanto meno il capitalismo può risolvere il problema della pace fra gli uomini e anzi secerne di continuo e in IDEE Brecht diceva «il comunismo è una cosa semplice difficile da realizzare». Ebbene liberare i popoli del mondo dal bisogno (…) Ma che simbolo ci volete mettere sopra questo immane e rivoluzionario processo? Un papavero, una margherita, un crisantemo? Non scherziamo modo crescente, dalle sue stesse viscere, guerra e terrorismo, guerre terroristiche e guerre di sterminio. In questo senso il capitalismo ci domina, pur senza governarci». In Russia è successo in poco più di quindici anni quello che nessuno avrebbe ritenuto possibile sino a trenta anni fa. Un capitalismo selvaggio e criminale si è sostituito a un Socialismo di Stato che faceva acqua da tutte le parti. Ebbene che cosa è accaduto: dopo le evoluzioni alcoliche di Eltsin, è arrivato il dispotismo di Putin, la ricchezza per pochi, la miseria per gli altri, la speranza di vita accorciata di dieci anni per quasi tutti e la mortalità infantile schizzata alle stelle (cioè alle stalle). A proposito di Sanità pubblica, sapete in che posizione l’Oms colloca gli Stati Uniti in quanto a efficacia-efficienza del suo Sistema Sanitario: al trentasettesimo posto; il Regno Unito, tanto per citare i due paesi iperliberisti più lodati dal senso comune occidentale corrente, non se la passa molto meglio, è infatti al diciottesimo posto. In Italia siamo al secondo, dopo la Francia. Con tutte le pecche della nostra Sanità pubblica quel po’ di Stato Sociale strappato nel corso dei decenni dalle masse, organizzate – guarda caso – sotto la falce martello e le bandiere del Sindacato, – e che ancora sopravvive – nonostante l’attacco forsennato dei liberisti filoamericani che evidentemente non leggono le Statistiche dell’Oms – garantisce degli standard assistenziali sconosciuti negli States e in Inghilterra (chi avesse dei dubbi vada a vedere Sicko, il film di Michael Moore). Ma se qualche giustificazione può avere la violenta campagna revisionistica contro un Comunismo internazionale considerato morto e defunto e sul cui cadavere, non si sa perché, tutti si accaniscono, fino a proporre osceni e rivoltanti parallelismi con il nazismo e la croce uncinata, giustificazioni che in verità prendono origine da una lettura a senso unico della storia che persino Papa Wojtyla ha rifiutato definendo il Comunismo storico come un «male necessario», e cioè una cosa che fa pensare alla violenza salvifica e risanatrice del chirurgo (che cosa è stata Stalingrado se non un concentrato di violenza spirituale e fisica per schiacciare sotto il tacco lo scorpione velenoso del nazismo?) – ebbene queste giustificazioni non esistono proprio, non esistono affatto a sostegno della condanna trasversale e bipartisan di quello che ha rappresentato la parabola del nostro comunismo nazionale e dei suoi dirigenti storici. Non è che agli occhi del mondo ci dobbiamo scusare se Antonio Gramsci è stato il massimo pensatore italiano del secolo scorso, Palmiro Togliatti uno dei massimi statisti e Umberto Terracini il Presidente della Commissione che ha prodotto una delle più avanzate Costituzioni del mondo. Con le purghe e i gulag essi non ebbero niente a che fare. Se questi personaggi non ci fossero stati (i «se» contano e come) la nostra storia nazionale sarebbe stata diversa e non certo migliore. Ebbene questi tre uomini con la Falce e martello avevano molto a che fare e, pur di non rinnegarla, hanno affrontato le prove più dure e crudeli. E, badate bene, di violenza ne subirono tanta (anni di carcere, morte in galera, pistolettate) ma non ne espressero alcuna, tranne quella sacrosanta contro i fascisti e i tedeschi invasori. Nonostante questo, lo sport nazionale è diventato quello di rimuoverne la memoria (nel settantesimo anniversario della morte di Gramsci chi parla di lui e dove e come?) o di trattarli come volgari soldatini di Stalin. Ma torniamo a Mordenti e a una sua citazione illuminante tratta dal libro già menzionato. «Ci sono nella storia della cultura politica numerosi precedenti di processi di demonizzazione spinta fino alla contumelia e al dileggio, cioè tentativi di distruzione intenzionale e sistematica di una tradizione politico-culturale; quello che costituisce un unicum assoluto è il fatto che nel caso della tradizione gramsciana e comunista tale operazione distruttiva venga compiuta in prima persona da coloro che potrebbero definirsi come gli eredi diretti di quella tradizione. Insomma non è certo Andreotti a portare fino in fondo la critica alle malefatte della Dc, e non è Intini a dire tutto il male possibile di Bettino Craxi, e meno che mai è Fini a fare rivelazioni scioccanti sui crimini di Salò o sul golpismo fascista degli anni sessantasettanta; sono invece spesso degli ex-comunisti a spingere l’autocritica verso il passato del Pci fino alla falsificazione storica e alla calunnia. Costoro somigliano così al personaggio di una storiella di Totò il quale si ostinava a ridere mentre uno sconosciuto lo picchiava selvaggiamente insultandolo e chiamandolo «Pasquale», alla domanda perché ridesse tanto nonostante le botte che riceveva, la 67 68 risposta era: «Tanto io mica so’ Pasquale!». E ancora: «…c’è qualcosa di veramente paradossale nella singolare (s)fortuna storiografica di Palmiro Togliatti. Non saprei come definire altrimenti il fatto che il massimo costruttore di egemonia (nell’Italia del suo tempo) sia stato abbandonato dopo la morte senza difesa a spregiudicate operazioni propagandistiche dei suoi avversari, e che tali operazioni vedano anzi per protagonisti anche studiosi che (…) dovrebbero essere annoverati fra i difensori naturali di Togliatti». Sarebbe troppo facile considerare gli ex comunisti che in Italia e nel mondo denigrano il Comunismo come dei semplici rinnegati (anche se la tentazione è forte). È per questo che penso ci debba essere una spiegazione più profonda. In Italia e fuori. Ma soprattutto in Italia dove, dalla fondazione del Pcd’I a Berlinguer, è veramente difficile trovare colpe imperdonabili (errori sì e numerosi ma sempre per difetto di determinazione e di «cattiveria», direi, più che per eccesso). La spiegazione che si può azzardare è quella che si racchiude nel contraccolpo psicologico che subisce chi si trova, in poco tempo, sballottato dalle vicende epiche di un’impresa prometeica – la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento e la sua emancipazione dal bisogno materiale e dalla soggezione spirituale – alla melma di una congiuntura politico-amministrativa da retrobottega (la gestione del postcomunismo). Insomma dalle stelle alle stalle. In queste condizioni non rimaneva che rinnegare Prometeo, dire che il sogno era un sogno appunto, un brutto sogno. Rimuoverlo. Cancellarlo. Venirne a capo. Fare finta di niente, dando libero sfogo alle piccole ambizioni personali che in passato venivano, se non represse, sicuramente subordinate alle necessità più alte e collettive dettate da una nobile causa. Uccidere i padri diventava indispensabile così come falsificarne la storia. Mai più testimoni! Siamo proprio sicuri che sul Reichstagh quel Primo maggio del ’45 un soldato dell’armata rossa issasse la bandiera rossa con la falce e martello? C’è chi dice che si tratta di un falso. E sarà vero che l’Armata Rossa è entrata per prima a Berlino? Come può essere accaduto, se il capo assoluto di quell’armata era un uomo cattivo e sanguinario come Giuseppe Stalin? Tirare giù dal Reichstag la bandiera rossa con la Falce e martello diventa indispensabile perché quel momentaneo trionfo segnava, pur costruito su fiumi di lacrime e di sangue, la tappa più commovente ed esaltante di un viaggio che era partito dalla presa del Palazzo d’inverno, aveva scosso il mondo dalle fondamenta e poi lo aveva salvato, in concorso con altre forze certamente, dal peggiore dei pericoli planetari che la storia abbia mai conosciuto: la follia di Hitler, forte del sostegno criminale di un intero popolo fattosi soggiogare. Il fatto che, con tutti i suoi limiti e le sue nefandezze, la scalata al cielo azzardata dall’Urss avesse terrorizzato le borghesie di tutti i paesi capitalistici e che questo terrore avesse migliorato le condizioni di lotta delle classi lavoratrici in questi paesi è una cosa che va al di là della guerra, e che ogni persona onesta dovrebbe riconoscere. Per paura che «succedesse come in Russia», i padroni si acconciarono a concedere quello che non avrebbero mai concesso senza la Rivoluzione di Ottobre. Questo con buona pace dei liquidatori in toto dell’esperienza sovietica e anche per capire la ragione per la quale persino il papa polacco arrivò a definire il comunismo «un male necessario». Ma tant’è, così vanno le cose nel mondo e si potrebbe pure iniziare un processo di elaborazione del lutto, difficile per carità perché quella comunista è una specie di religione laica alla quale è arduo abiurare, ma il punto è che non si può. Se uno ha gli occhi non dico aperti ma socchiusi e non è completamente rimbecillito dall’areosol narcotizzante del pensiero unico, non può non vedere che oggi più che mai l’avvertimento di Rosa Luxemburg è attuale. «Socialisme ou barbarie» soleva ricordare questa grandissima rivoluzionaria (di cui prudentemente si parla molto meno che di Stalin). Oggi si potrebbe aggiungere alla barbarie, semplicemente e tragicamente, l’ipotesi di una prospettiva di distruzione ambientale totale propedeutica alla fine del mondo. Le forme di questo Socialismo dovranno essere nuove e diverse. E questo non è certo il luogo per declinarne i principi, anche se siamo convinti che, alla fine, due siano gli elementi fondamentali. Brecht diceva «il comunismo è una cosa semplice difficile da realizzare». Ebbene liberare i popoli del mondo dal bisogno (renderli cioè realmente liberi) e governare i beni comuni nell’interesse generale, orientando democraticamente le enormi energie che si libererebbero – di nuovo – verso l’interesse generale significa non solo conquistare la giustizia, di cui parla Don Ciotti, ma anche salvare il pianeta. E far pace con Prometeo, naturalmente. Ma che simbolo ci volete mettere sopra questo immane e rivoluzionario processo? Un papavero, una margherita, un crisantemo? Non scherziamo. La mostra che ci è venuto in mente di fare non è di antiquariato. Non è nemmeno una operazione nostalgica o propagandistica. I tanti artisti coinvolti non hanno nessun comune denominatore ideologico. Una cosa però, oltre al talento, ce l’hanno tutti: la curiosità umana e almeno, dico almeno, un sospetto: che Falce e martello non siano ferri vecchi. 69 ALBERTO BURGIO* DINO GRECO** TRA CRISI E NUOVE SFIDE UNA RIFLESSIONE A PIÙ VOCI SUL SINDACATO DOSSIER SINDA CATO Sono molte le questioni aperte che fanno del movimento sindacale oggi un protagonista della fase politica e, contestualmente, uno snodo cruciale della crisi. Ne citiamo tre – tra loro strettamente connesse – che ci pare diano il senso della rilevanza di un plesso di problemi che, se approfonditi nelle loro molteplici implicazioni, fornirebbero un suggestivo quadro dell’attuale situazione politica e storica. Il tema dell’indipendenza delle organizzazioni sindacali (cui si lega l’alternativa tra sindacato generale e di classe e sindacato neo-corporativo); il tema della democrazia, che investe la scottante questione della rappresentatività; il tema, infine, della natura e della funzione del sindacato, tra deriva compatibilista e mercatista ed esercizio autonomo della soggettività, quale vettore critico di un progetto di trasformazione e di un altro progetto di società. Queste considerazioni ci hanno suggerito di dedicare un’ampia sezione monografica della rivista al sindacato. Abbiamo chiesto a sei dirigenti sindacali di assumere questi temi – e le sfide che essi evocano – come riferimenti di sfondo per una riflessione sulle vicende più recenti e sui passaggi imminenti che scandiranno l’agenda nei prossimi mesi. Inevitabilmente la partizione per argomenti da noi pensata e proposta ai nostri interlocutori è stata in buona misura rielaborata secondo le attitudini, le convinzioni, le intenzioni politiche di quanti hanno * Deputato Prc – Se, membro della commissione Lavoro pubblico e privato ** Cgil – direttivo nazionale 70 accettato di collaborare alla realizzazione di questo inserto. Ne è sortita una riflessione a più voci tale – ci pare – da rappresentare un utile materiale di analisi e di confronto su una questione di fondamentale importanza per le chances democratiche di questo Paese: il futuro del sindacato, posto di fronte a un bivio cruciale e complesso fra indipendenza e neo-collateralismo politico; fra deriva adattiva, mercatista, e riaffermazione di una nuova soggettività del lavoro; fra implosione corporativa e ricomposizione solidale della rappresentanza; fra pratica radicale della democrazia e regressione oligarchica; fra conflitto di classe e metamorfosi parastatale. Si tratta di antitesi secche, difficilmente riconducibili a sintesi perché appartenenti a paradigmi inconciliabili. Una cosa è acclarata, al di là dei diversi accenti dei contributi di seguito proposti: il sindacato italiano è attraversato – non diversamente da quanto avviene negli altri Paesi europei – da una crisi profonda, non mimetizzabile attraverso l’esibizione propagandistica dei dati di un tesseramento sempre più veicolato dai «servizi» e sempre meno espressione di un’estensione della rappresentanza e della contrattazione collettiva. E la crisi attraversa in particolare la Cgil che più di ogni altro sindacato, all’opposto di altri più tradizionali modelli, aveva con maggiore consapevolezza investito sulla propria natura di sindacato generale, attrezzato di un programma fondamentale in parte invecchiato e in parte dimenticato. In queste pagine, Cesare Melloni ci ricorda quanto l’impoverimento progressivo della contrattazione collettiva, a partire dai luoghi di lavoro, abbia isterilito e non di rado del tutto neutralizzato la capacità del movimento sindacale di porsi al livello dell’impresa, della sua organizzazione, in definitiva, del suo potere. E rischi di costringere le organizzazioni sindacali in una dimensione prevalentemente difensiva, indotta da un processo generale di riorganizzazione del capitale nel tempo della globalizzazione, al quale non si è stati in grado di contrapporre una strategia di ricomposizione del lavoro nelle sue mutate e spesso disarticolate espressioni. Alla ristrutturazione dell’impresa transnazionale e deterritorializzata, alla profonda alterazione dei rapporti di forza che essa ha prodotto, è conseguito anche un processo reale, pervasivo, di egemonia del capitale che insieme al sistema di fabbrica ha scompaginato anche le idee della propria controparte, reclutando al proprio apparato ideologico adepti e catecumeni nelle stesse file della sinistra politica e sociale. Si è così prodotto un effetto destabilizzante nella teoria e nelle idee, prima ancora che nelle pratiche del sindacato, vittima di un continuo effetto di spiazzamento: flessibilità sempre più spinta del mercato del lavoro e della pre- stazione e subordinazione a ogni sollecitazione dell’impresa hanno via via eroso, nelle parti e nell’insieme, l’intera impalcatura dei diritti. Al punto che quella stessa trincea eretta intorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella straordinaria battaglia difensiva del 2002 è stata aggirata, come una maginot sindacale, dall’offensiva condotta con metodo contro la costruzione giuslavoristica di impronta costituzionale, erosa dall’interno sino a divenire irriconoscibile. Non è casuale, su un altro versante, che mentre è in pieno dispiegamento l’attacco frontale al fondamentale strumento solidaristico – il contratto nazionale di lavoro – e mentre milioni di lavoratori ne attendono inutilmente il rinnovo, il sindacato – unitariamente – sposti l’accento sul fisco (certamente in debito con il lavoro dipendente) chiedendo (certo, doverosamente) allo Stato quello che tuttavia non si chiede più, o si fatica a chiedere nella proporzione dovuta, al padrone. È come se il valore del lavoro, il corrispettivo della prestazione, al pari di tutto ciò che entra immediatamente in conflitto con il profitto, ingenerasse una reticenza, una prudenza reverenziale, il sospetto di lavorare contro le ragioni della competitività dell’impresa, poste al di sopra di tutto e, dunque, contro l’interesse generale. Quasi che aumenti cospicui delle retribuzioni rappresentassero soltanto la premessa per l’indifferibile soddisfazione di bisogni primari, e non anche un evidente sostegno della domanda (oltre che, non ultimo, un incentivo all’innovazione dell’impresa, dei processi produttivi dal lato delle tecnologie, dei prodotti, dei sistemi organizzativi). Ecco allora che l’accelerazione di questi mesi non viene dal nulla. Il pomo della discordia, il recente accordo sul welfare, segna una netta linea di demarcazione, imprime una svolta che era da tempo in incubazione e che ora assume una plastica evidenza. Come nota Tiziano Rinaldini, non si tratta tanto dei limiti quantitativi di quell’intesa (pur rilevanti in una situazione sociale che sconta un pesantissimo deficit redistributivo), quanto piuttosto degli elementi di qualità che tracciano una precisa traiettoria: dalla conferma di un regime pensionistico che sacrifica le nuove generazioni (senza scalfire la modestissima attrezzatura degli ammortizzatori sociali) alla legittimazione negoziale, sul terreno decisivo dei contratti a termine, del più imponente processo di precarizzazione e manomissione del diritto del lavoro della storia repubblicana; dalla decontribuzione della parte variabile del salario aziendale (che depotenzia il contratto nazionale e, contemporaneamente, incentiva la pratica della contrattazione decentrata nelle sue forme più ambigue e subalterne) a quello strabiliante regalo alle imprese che è la detassazione delle prestazioni straordinarie, foriera di DOSSIER SINDACATO orari di lavoro più lunghi e infortuni fatalmente più frequenti. La stessa conduzione del confronto – difficilmente assimilabile a una vera vertenza in quanto privo di una piattaforma approvata dai lavoratori e dai pensionati – si è svolta dentro due vincoli dichiaratamente insuperabili: l’unità con la Cisl, vero dominus della situazione, e l’imperativo categorico di non disturbare con la mobilitazione e la lotta i delicati equilibri in seno alla maggioranza di governo o, per meglio dire, alla sua parte più moderata. Si è così drammaticamente posto il tema dell’autonomia e dell’indipendenza del sindacato, di cui variamente trattano in queste pagine Mirto Bassoli e Nicola Nicolosi. Di tale «camicia di Nesso» gli attori politici del negoziato si sono dimostrati ben consapevoli. E hanno avuto buon gioco a stringere il nodo scorsoio al collo del sindacato, che ha fatto, letteralmente, buon viso a cattivo gioco. Una volta confezionato il pacco – un pacco che ha portato con sé gravissime violazioni della stessa regola costituzionale nel processo di formazione della decisione legislativa – non è rimasto che difenderlo a ogni costo e con ogni mezzo. Se la Cisl lo ha fatto volentieri riconoscendo nell’intesa la conferma di un proprio antico asse strategico, la Cgil si è divisa, più in profondità di quanto non dicano la cronaca ufficiale e i dissensi dichiarati. Alla crisi del rapporto con i lavoratori (non certo sanato da un referendum gestito con regole a dir poco lasche e con una grottesca inibizione delle manifestazioni di dissenso) si è unita una crisi tutt’altro che transeunte nei rapporti interni che si vorrebbero compressi nel vetusto schema del centralismo democratico, invocato per affermare un oscuro primato della confederalità, intesa come marchio registrato di proprietà della struttura orizzontale a cui ogni altro livello dell’organizzazione dovrebbe obbedienza. Chi scrive ritiene, come è evidente, che il sindacato debba molto cambiare per arginare la deriva in corso e per provare a scrivere un’altra storia. Occorre, innanzitutto, sottrarsi all’ossessione monetarista dominante e dire che non vi è niente di avventuristico nel destinare, hic et nunc, quote aggiuntive di prodotto interno lordo alla spesa pubblica sociale, perché sussistenza, sanità, lavoro, previdenza, istruzione sono – oltre che diritti costituzionalmente protetti – leve formidabili per uno sviluppo qualitativamente nuovo. E, per esempio, battersi perché si prenda l’onerosa ma indispensabile decisione politica di sanare il vuoto contributivo che rischia di annientare il futuro di quella generazione che da oltre dieci anni ha impattato con il passaggio al regime pensionistico contributivo e, contemporaneamente, con il dilagante processo di precarizzazione del lavoro. Poi, è necessario ricordarsi della migliore tradizione giuslavoristica di questo Paese e predisporre una piattaforma sociale perché si riconoscano due e due sole fattispecie di lavoro: quello autonomo e quello economicamente dipendente che dev’essere dotato di un corredo omogeneo di diritti inalienabili, non derogabili, neppure dagli interessati. E ancora: è urgente ridefinire un modello contrattuale fondato su nuove grandi aggregazioni (industria, terziario, servizi) incentrato sul contratto nazionale e su una nuova contrattazione di filiera e di sito, orientata a unificare solidalmente ciò che è stato spezzettato e disperso e, per questa via, riconnettere la contrattazione aziendale a quei bisogni sociali e a quei movimenti che trovano nel territorio il loro centro di annodamento: generando tutte le sinergie e tutti i possibili rapporti di rete per tessere tenacemente l’ordito di una contrattazione su base europea, tale da ridurre la devastante asimmetria decisionale fra capitale e lavoro che genera dumping sociale e competizione fra lavoratori per la sopravvivenza. Nello stesso tempo occorre liberarsi della colpevole, prudente, sospetta intermittenza con cui anche il sindacato rivendica l’abolizione del diritto duale che la legge Bossi-Fini ha imposto in Italia, segregando milioni di lavoratori immigrati in una condizione servile di lavoro e di vita e rammentarsi, una volta ogni tanto, che ogni affermazione dei diritti è destinata a essere frustrata e a rovesciarsi nel suo contrario se non è per tutti. Infine, è indispensabile rifondare le regole che presiedono alla vita del sindacato incardinandole su uno statuto di democrazia integrale, che preveda la piena espressione della dialettica interna, che superi ogni inibizione dell’esercizio dei pluralismi e che riconosca la sovranità formale e sostanziale dei lavoratori in ogni ambito e atto negoziale. Su queste coordinate – sottese agli interventi di Francesca Re David e Paolo Sabatini – sembra possibile ridefinire il profilo di un sindacato capace di praticare, piuttosto che velleitariamente predicare, la propria ambizione di soggetto politico, ri-proponendosi come forza del cambiamento e non improvvisandosi, di volta in volta, come un semplice ammortizzatore dei danni sociali provocati dalle politiche liberiste. 71 72 MIRTO BASSOLI* PER UNA CGIL «LIBERA, VOLONTARIA, AUTONOMA E INDIPENDENTE» Nel libro scritto a due mani, in occasione dei cento anni della Cgil, da Vittorio Foa e Guglielmo Epifani, si afferma a un certo punto che se si dovesse fare un bilancio della storia di questi cento anni e si dovesse mettere un punto d’arrivo, questo andrebbe messo sul tema dell’autonomia. L’autonomia come valore alto, identitario, fondativo della Cgil. Tema che, in effetti, è stato presente fin dalla fase delle origini della Confederazione, all’inizio dello scorso secolo. Tema rilanciato con forza da Di Vittorio, il quale usava dire: «il movimento sindacale deve essere assolutamente indipendente da tutti i partiti politici, dal governo e dallo Stato stesso». Tema che ha subìto diverse interpretazioni e declinazioni, anche negli ultimi decenni, fino alle evidenti contraddizioni dei giorni nostri. Perché di contraddizioni è giusto parlare. L’esperienza ultima del percorso che ha portato a sottoscrivere il Protocollo sul welfare ha lasciato molti segni, anche evidenti, delle difficoltà da parte della Cgil di interpretare il rapporto con un «Governo amico» o, se vogliamo, non più nemico. Una vertenza che non è mai stata tale. Una complessiva caduta dell’autonomia rivendicativa del sindacato, l’affidamento, più o meno esplicito, alle dinamiche interne al quadro politico, perdendo di vista, da parte del movimento sindacale, un’interpretazione del proprio ruolo coerente con la propria natura. Avevo sostenuto, in epoca non sospetta, che un sindacato debole sul piano dell’autonomia rivendicativa non * Segretario Generale Cgil di Reggio Emilia avrebbe fatto un «favore» a questo Governo, ma, paradossalmente, ne avrebbe enfatizzato quelle che rappresentano a sua volta debolezze: l’assenza di coesione interna alla maggioranza; un programma mai compiutamente metabolizzato. La crisi di febbraio del 2007 ha esplicitato questa condizione, definitivamente sancita dopo la nascita del Partito Democratico. Il tentativo da parte dei Governi di turno di agire come un cuneo dentro il movimento sindacale, mettendone in discussione l’autonomia, non è nuovo. Basti ricordare l’accordo di S.Valentino del 1984, con il conseguente rischio di scissione nella Cgil. Oppure la fase del 1992, cioè l’accordo con il Governo Amato, con le conseguenti dimissioni di Trentin. Molti, dentro e fuori il sindacato, hanno trovato analogie tra quanto è avvenuto quest’anno e quei drammatici momenti per la storia del movimento sindacale. Il ruolo che ha giocato la Cgil, pur con contraddizioni in- DOSSIER SINDACATO negabili, ha sempre impedito la chiusura di un patto «neocorporativo». Quanto avvenne con il «Patto per l’Italia» sottoscritto nel 2004 da Cisl e Uil rappresenta una conferma di questo. La scelta, operata questa volta, del Referendum ha evitato che un disegno politico teso a costringere il movimento sindacale dentro un ruolo innaturale si completasse. Se l’idea, fatta propria da alcune Confederazioni nel nostro Paese e da una parte significativa dei soggetti della rappresentanza politica, è quella di sancire appunto un patto neocorporativo, questo presuppone la rottura del principio di rappresentanza generale del mondo del lavoro, a partire dall’istanza avanzata dalla Cisl di tutela solo dei propri iscritti e non della generalità dei lavoratori. L’identità e la natura del sindacalismo confederale sono strettamente connesse alla pratica, o meno, delle regole di democrazia. In gioco oggi c’è principalmente questo, perché il più grande antidoto contro una sorta di mutazione genetica del movimento sindacale sta proprio nell’avere la capacità di consegnare la decisione finale sugli atti negoziali all’insieme dei lavoratori, che si tratti di contratti collettivi di lavoro o di atti di concertazione generale. Ma naturalmente non c’è solo questa, pur importante, questione. Ci sono anche le politiche che il sindacato mette in campo, gli obiettivi che si propone di raggiungere attraverso la propria azione, a partire dal nodo fondamentale rappresentato dalla contrattazione. Si discute, in questa fase, del rischio della trasformazione progressiva verso un modello di «sindacato di mercato». Ci sono ampie e convergenti elaborazioni in tal senso: la Confindustria, la Cisl, alcuni illustri giuslavoristi. L’idea di fondo è che possa prendere piede un sindacato che interpreta in senso adattativo il proprio ruolo, assumendo le esigenze competitive delle imprese come vincolo nella propria azione, abbandonando la tutela dei diritti come asse portante e fondamentale, rinunciando alla funzione solidale rappresentata dal contratto nazionale. Alcuni analisti, che si ritengono esperti di questioni sindacali, si spingono fino a individuare nel modello del «sindacato dei diritti» di Bruno Trentin l’origine dei mali attuali della Cgil e del sindacalismo confederale. Si tratta di analisi inaccettabili ed evidentemente strumentali. È immaginabile un sindacato generale e confederale che non costruisca la propria identità su principi quali l’allargamento dei diritti, lo sviluppo della solidarietà tra i lavoratori e che non fondi la propria azione, appunto, sull’autonomia e sulla democrazia? Forse si, è immaginabile, ma non c’entrerebbe nulla con l’esperienza del sindacato che abbiamo conosciuto per oltre un secolo. Un’esperienza che si è nel tempo forte- mente evoluta, ma che non ha mai rinunciato a questi principi di fondo, almeno per quanto riguarda la principale confederazione italiana, la Cgil. Ribadire dunque il principio dell’autonomia e di come questa si deve esercitare nei processi di contrattazione e nelle fasi concertative con i soggetti istituzionali, non significa precludere lo spazio d’azione sui temi sociali e del lavoro da parte dei partiti, né tantomeno mettere in discussione la sovranità del Parlamento. In accordi come quello sottoscritto a luglio, c’è un tempo per la negoziazione e c’è un tempo per decisioni che competono ai soggetti istituzionali e della rappresentanza politica. Se il Governo sottoscrive un’intesa, buona o meno buona che sia, tantopiù dopo il voto di conferma sancito dal referendum, è chiamato a difenderlo in Parlamento attraverso la sua maggioranza. Non è impedito agire per migliorarlo, posto naturalmente che ci siano gli spazi sul piano politico, negli equilibri parlamentari, per agire in tal senso. E non mancano certo le questioni sulle quali quel Protocollo potrebbe o dovrebbe essere migliorato, a partire dal grande vuoto sul tema della precarietà. Non ho mai considerato negativamente ipotesi d’impegno dei partiti della sinistra in Parlamento per determinare un miglioramento di quell’intesa, né tantomeno una sorta di invasione nel campo del sindacato. Tuttavia, anche se auspicabile, temo che difficilmente ci siano le condizioni perché questo possa concretamente avvenire. Aggiungo: credo che abbiano fatto bene i partiti della sinistra che, pur nell’impossibilità di produrre miglioramenti al Protocollo, non hanno fatto venir meno il proprio voto in Parlamento. Altra cosa è immaginare un percorso che guardi a una prospettiva di medio periodo, nella quale immaginare un’iniziativa sui temi del lavoro, sulla sua legislazione, che provi a produrre un avanzamento del quadro normativo. La legge 30 è ancora legge dello Stato. È stata solo marginalmente scalfita dal Protocollo sul welfare. Serve una prospettiva che guardi a una nuova legislazione, per dare qualità e stabilità al lavoro, per ridurre i processi di frammentazione dentro le imprese, per ridare la funzione che gli compete alla contrattazione collettiva. Questo, insieme al tema dei futuri assetti della contrattazione; la funzione che s’intende assegnare al contratto nazionale e, più in generale, alla contrattazione collettiva, può fare emergere la prospettiva per il movimento sindacale. Anche per questa via confermare quell’idea di sindacato che Di Vittorio definiva attraverso quattro parole fondamentali: «libero, volontario, autonomo e indipendente». 73 74 CESARE MELLONI* RITORNARE A RAPPRESENTARE IL LAVORO, IN AZIENDA E NEL TERRITORIO Premessa Si pone oggi, con la forza dirompente dei fatti, la necessità di una nuova strategia rivendicativa per il sindacato confederale, a partire da una presa d’atto della «crisi di efficacia della contrattazione collettiva». Le stesse funzioni della rappresentanza, così come si sono fin qui configurate, sono entrate in una fase di crescente difficoltà. Le considerazioni che seguono si soffermano, in particolare, su alcuni elementi analitici riguardanti la crisi della contrattazione collettiva. L’ipotesi di lavoro di queste note scommette sulla possibilità di un nuovo compromesso fra le ragioni del capitale e le ragioni del lavoro. Nuovo, perché lascia alle proprie spalle il compromesso dell’epoca fordista, e, però, non rinuncia a rappresentare il lavoro come soggetto autonomo oltre le differenze di condizione, di professionalità, di cultura, di nazionalità. Delocalizzazione delle imprese = deterritorializzazione delle funzioni di comando F. Garibaldo, citando Harrison, a sua volta specifica una descrizione del «paradigma emergente della produzione» come un «processo di verticalizzazione e parallelizzazione. Intendo dire che le imprese per un verso si verticalizzano per un altro verso si paralellelizzano, si decentrano. Si verticalizzano perché c’è una verticalizzazione di tutte le funzioni strategiche, che emigrano il più alto possibile nella * Segretario generale Cgil di Bologna struttura della rete, dall’altra parte si ha la parallelizzazione delle funzioni di tipo manifatturiero». Questa citazione descrive efficacemente la profondità dei cambiamenti in atto che vengono amplificati e accelerati dal processo di finanziarizzazione dell’economia che agisce sempre di più, a livello di impresa, con l’«obiettivo principale del management [che] consiste nel fare salire la quotazione di borsa di un determinato titolo azionario» (Gallino). Detto in altri termini cambia il rapporto fra attività caratteristica di una determinata impresa, generatrice di profitti e le aspettative di rendimento finanziario di un titolo azionario nel gioco di borsa. Le seconde non sono più una derivata lineare dei primi, ma tendono ad autonomizzarsi fino al punto di retroagire – a volte – pesantemente sull’attività caratteristica d’impresa. Basti ricordare i casi Parmalat, Cirio, Enron e un altro lungo elenco di imprese collassate dalle logiche proprie della finanziarizzazione che arriva a rendere endemico il conflitto di interessi di controllati e controllandi nella governance di imprese e nel sistema finanziario-borsistico. DOSSIER SINDACATO Dunque siamo di fronte a un mutamento radicale del paradigma di funzionamento delle imprese, dove la frammentazione dei cicli produttivi, attraverso i processi combinati di delocalizzazione di stabilimenti e di esternalizzazione di funzioni aziendali, è esattamente l’altra faccia dei processi di concentrazione del potere economico delle imprese. La delocalizzazione diviene perciò sinonimo di deterritorializzazione, cioè di rescissione dei legami storici costruiti dalla impresa con il luogo in cui essa si è formata e sviluppata. Si allontanano i centri di decisione e dunque si indebolisce il gioco politico che, nei passaggi di crisi, dava forza all’alleanza fra sindacati e poteri locali per interloquire con le scelte di imprese. Lo spiazzamento dei sistemi nazionali di regolazione sociale La linea guida che attraversa e unifica nella stessa logica i sistemi nazionali di regolazione sociale si potrebbe riassumere nella affermazione della centralità dell’impresa, nelle politiche economiche degli Stati nazionali, a cui corrisponde l’imperativo della competizione globale come strategia a cui uniformare l’insieme degli strumenti giuridici, economici e sociali disponibili. Il bersaglio principale, preso di mira in tutti i Paesi europei dalle imprese globali, con il sostegno delle associazioni d’impresa, è però il contratto nazionale di lavoro, come forma di definizione pattizia del sistema di relazioni industriali. Nella logica della impresa globale il contratto nazionale di lavoro rappresenta una rigidità, un limite, al pieno dispiegarsi di una logica di competizione d’impresa che, senza quello strumento, può arrivare a mettere in concorrenza fra loro lavoratori di aree territoriali differenti e poi differenti sistemi-aree, disposti a quel punto a tutte le facilitazioni pur di attuare nuovi insediamenti di impresa. L’indebolimento del contratto nazionale di lavoro è avvenuto in tutti i Paesi europei che disponevano di quello strumento, attraverso un uso spregiudicato proprio delle forme della delocalizzazione d’impresa. In alcuni casi la delocalizzazione è stata giocata come secca sostituzione di attività svolte in un determinato territorio; in altri casi come scelta di investimento per lo sviluppo fatto altrove. Il ruolo del contratto nazionale viene poi messo in discussione dalla revisione delle legislazioni nazionali in materia di diritto del lavoro, nonché dai ripetuti interventi di direttive europee (ad esempio sui contratti a termine e sugli orari di lavoro) su materie lavoristiche. Nel nostro Paese il tentativo più organico e coerente in questo senso ha preso corpo nella Legge 30/2003 sul mercato del lavoro. È la forma stessa del contratto collettivo che viene messa in discussione, a partire da quello che viene considerato il punto d’arrivo del processo di deregolamentazione contrattuale: l’individualizzazione del rapporto di lavoro. Le «nuove» relazioni industriali A livello di impresa il ruolo sindacale viene messo al margine delle funzioni regolative del rapporto di lavoro (formazione, inquadramento professionale, orari di lavoro, permessi, salario ecc.), che passano alla gestione diretta azienda-singolo lavoratore. L’organizzazione del lavoro interna all’impresa si fonda sempre più su schemi basati sul rapporto individuale (la cui forma, come abbiamo visto, è incentivata dallo sviluppo in chiave liberista del diritto del lavoro), magari mediati dalla logica di gruppo di lavoro (nelle diverse funzioni aziendali), che funziona come presa in carico e gestione di problemi di funzionamento di un determinato reparto e di problemi individuali del lavoratore. In realtà il vincolo competitivo viene fatto valere anche all’interno dell’organizzazione aziendale poiché si richiede, in primo luogo, l’adesione ai valori dell’azienda, al suo «marchio», anche a costo di allentare il rapporto di solidarietà fra lavoratori della stessa azienda, oltre che di aziende diverse (e magari concorrenti). Le forme attraverso le quali questo processo di «individualizzazione» viene attuato prevedono l’adozione di una ampia strumentazione, che può variare seguendo la gerarchia top-down della scala parametrale. Così nelle funzioni tecnico-gestionali-dirigenziali si possono prevedere, per alcuni ambiti, lavori di gruppo e condivisione di obiettivi-responsabilità (con i relativi risvolti remunerativi e/o di status inclusi determinati servizi: mutua, asili, circoli aziendali ecc.); mentre, scendendo di livello, nelle linee più operative-esecutive può esserci una parcellizzazione delle mansioni di tipo taylorista. Ma i moduli di riorganizzazione delle imprese possono giungere fino alla segmentazione del ciclo che può essere affidato per alcune sue parti a imprese giuridicamente diverse, che utilizzeranno, per mansioni prima inserite pienamente nelle funzioni aziendali, lavoratori alle proprie dipendenze (cui verranno applicati condizioni e trattamenti differenti rispetto a quelli adottati nella azienda). È ciò che si chiama outsourcing interno, che va quindi ad aggiungersi al più noto e praticato outsourcing (o terziarizzazione-esternalizzazlone di funzioni aziendali). 75 76 Ipotesi per un sindacalismo all’altezza del nuovo scenario: per un nuovo compromesso fra capitale e lavoro È cambiato il contesto geopolitico in cui si svolgevano le relazioni sindacali, con la crisi della dimensione degli Stati nazionali come spazio determinato entro cui giocavano gli attori sociali. È cambiato il paradigma produttivo e finanziario con la deterritorializzazione delle logiche di funzionamento delle imprese globali. Questi due fatti hanno determinato la crisi definitiva della forma «big businnes – big union» che aveva caratterizzato il compromesso «fordista» del capitalismo occidentale. I rapporti di forza fra capitale e lavoro si sono spostati a favore del primo con l’avvento della logica della «deregulation» come linea guida del neo-liberismo. Come si è visto la «deregulation» ha riguardato con la stessa forza sia l’arretramento delle protezioni sociali dei sistemi di welfare, come le forme di contrattazione collettiva a livello dei singoli Stati. Per tornare al ruolo fin qui svolto dai contratti nazionali di lavoro, oggetto in questi anni di ripetuti tentativi di ridimensionamento, è evidente che il rilancio del loro significato e della loro efficacia regolativa è affidato alla loro evoluzione verso il contratto europeo. In questa prospettiva si pone al sindacato il problema di procedere a un accorpamento fra grandi aggregati di categoria (es.: industria, terziario, servizi pubblici, ecc.) capaci di dare luogo a una semplificazione contrattuale cui fare corrispondere una struttura di categoria capace di ricomprendere le nuove filiere produttive internazionalizzate in una forma organizzativa tendenzialmente unitaria. Si potrebbe, così, sia pur nel medio periodo, superare una situazione, come l’attuale, nella quale le differenti regolazioni vengono giocate dalle imprese in una logica di dumping contrattuale che segmenta e divide – contrapponendoli fra loro – i lavoratori dei diversi Paesi. Gli stessi C.a.e. (Comitati Aziendali Europei) presenti nelle imprese europee (cioè con stabilimenti collocati in diversi Paesi dell’Unione), da organismo puramente consultivo, quale sono oggi, potrebbero evolvere – dentro un nuovo quadro regolativo e organizzativo –, a un ruolo di tipo contrattuale. Al tempo stesso per il Sindacato si pone di nuovo il problema di ricostruire un legame sociale fra lavoratori, superando la frammentazione delle situazioni lavorative (impresa a rete e la lunga «sequenza» delle filiere produttive e di servizio) con una qualità nuova della contrattazione di tipo aziendale, capace di ricomporre nelle piattaforme rivendicative i processi produttivi al di là delle forme giuridiche e organizzative assunte dalla nuova impresa globale. In sostanza non c’è alternativa, almeno per chi scrive, al collegamento fra un rinnovato ruolo sindacale e una presa reale sui processi di lavoro dove essi si svolgono, cioè il luogo di lavoro. Nello stesso tempo occorre cogliere anche la dimensione sociale che ha assunto la condizione lavorativa. Su di questa, infatti, insistono temi come la formazione professionale, la situazione alloggiativa, la dotazione di welfare che appartengono all’ambiente sociale di un determinato territorio. Da questo punto di vista stabilire un rapporto fra la contrattazione sul luogo di lavoro e la iniziativa sindacale nel territorio su questi temi, può allargare la capacità di rappresentanza sociale e aumentare la presa del ruolo sindacale sulle determinanti sistemiche dello sviluppo a livello di territorio. In estrema sintesi, a fronte del progressivo esaurirsi del ruolo economico, sociale e istituzionale degli Stati nazionali a favore di nuovi spazi o macro-aree (Europa – Medio Oriente – Estremo Oriente – America Latina, Nord America…), occorre disporre l’agire sindacale in questa nuova dimensione sollecitando il passaggio di tali spazi da aree di scambio a nuove entità istituzionali e politiche di tipo federativo. E questo è un corno del problema che ha come oggetto la ricostruzione di relazioni industriali nel tempo della globalizzazione. L’altro corno, ovvero l’altra faccia dello stesso problema è quello di recuperare la capacità, da parte del sindacato, di rappresentare le molteplici dimensioni assunte dal lavoro (contenuti, modalità, tempi, percezione di sé e proiezioni sociali del lavoro) laddove esso realmente si svolge: azienda e territorio. In mezzo c’è una transizione da percorrere combinando in modo «intelligente» difesa e innovazione delle politiche e degli strumenti di azione sindacale. DOSSIER SINDACATO 77 NICOLA NICOLOSI* DOVE VA LA CGIL? In uno scritto di Aris Accornero del novembre del 1971 sulla fondazione del rapporto sindacato-partito, l’autore tratta i diversi approcci adottati dal movimento operaio di tradizione socialista sulla questione. Ne emergevano tre modelli di riferimento: 1) della socialdemocrazia tedesca, imperniato sulla «alleanza» fra sindacato e partito operaio; 2) dell’anarco-sindacalismo francese, incentrato sulla separazione tra sindacato e partiti; 3) dell’esperienza del comunismo sovietico, dove la dipendenza del sindacato dal partito unico ha lasciato tracce marcate. Il primo dei tre modelli continua ancora, seppur con gli aggiustamenti storici; gli altri due sono stati cancellati dalla storia e dalla competizione tra il sistema capitalista e le esperienze del socialismo reale. Va precisato che altri modelli si sono articolati nello scenario europeo: quello britannico e quello italiano. La variante britannica vede il sindacato stesso che si fa partito, con la creazione e il finanziamento di una formazione politica di orientamento lavorista. La legge elettorale britannica maggioritaria e uninominale spinse il sindacato a sostenere propri candidati nei diversi collegi elettorali. Oggi, seppur con forme diverse e meno strutturate, questo rapporto si mantiene vivo e non esclude conflittualità tra rappresentanza politica e sociale. Il caso italiano ha una propria particolarità e ha rappresentato una vera novità nel panorama delle esperienze sindacali in Europa. L’Italia, ieri come oggi, è il Paese del plura- * Coordinatore nazionale «Lavoro e Società» lismo sindacale. Questo ha permesso di uscire dagli schemi rigidi dell’esperienza socialdemocratica e sovietica. Lo stesso movimento operaio nazionale si è via via allontanato dagli schemi descritti dalla fine degli anni Cinquanta e non ha più considerato quella direzione politica e sindacale confacente al caso italiano. Lo storico Adolfo Pepe, in merito al rapporto partito – sindacato, sostiene che il caso italiano «ha avuto una evoluzione caratterizzata dalla particolare situazione politica e organizzativa della classe operaia, nel quadro di uno sviluppo industriale intensivo e selettivo che approfondì tutte le caratteristiche sociali dello Stato unitario». Ovviamente questo pensiero era legato al processo crescente dell’organizzazione industriale del lavoro che ha accompagnato l’Italia fino alla metà degli anni Settanta come paradigma dello sviluppo e della redistribuzione sostenuta dalle lotte sindacali su salario, orario di lavoro, politiche sociali e welfare. Azione sindacale e politica che 78 ha garantito la maggiore redistribuzione a favore della classe lavoratrice. Questo è successo nel secolo scorso e prima del processo di globalizzazione neoliberista. Nella fase attuale siamo a ridefinire la nostra missione come movimento sindacale e come rappresentanza di interesse. La Cgil è la più importante organizzazione sindacale italiana, non solo per numero di iscritti, ma per storia, radicamento nel Paese e nella società, per la forza simbolica che rappresenta, per il sentimento di giustizia sociale che persegue e per le conquiste fatte dal mondo del lavoro nei suoi cento anni di storia. La Cgil ha risolto il problema della relazione sindacato – partito con la fine delle componenti di partito (congresso 1991) almeno formalmente. Tuttavia la questione ha attraversato tutto il secolo scorso e con forme e intensità diverse si ripropone anche in questi primi anni del nuovo millennio. Vale ricordare che, dopo il ventennio fascista, il sindacato venne rifondato direttamente dai tre partiti di massa (comunista, socialista, democristiano) e le designazioni alle cariche direttive avvenivano su loro mandato. Si potrebbe sostenere, a ragione, che l’unità sindacale era la sintesi dell’unità dei tre partiti. Argomento che si ripeterà negli anni Settanta nella fase della politica di «Unità nazionale». Quella stagione politica si caratterizza con la proposta del Pci del compromesso storico, dopo una fase di lotta che aveva visto un grande protagonismo sociale e politico ai vari livelli. Studenti, figli di operai, impiegati, cittadini impegnati nei quartieri, nelle scuole, nell’associazionismo vario, nel movimento delle donne. Fase storica segnata negativamente dall’emergere del terrorismo, sconfitto anche dall’azione compiuta dalle Istituzioni delle Repubblica e dal movimento operaio. Oggi si ripropone, con natura diversa, la questione. Non ci sono più i partiti di massa che hanno garantito nelle due fasi analizzate la lotta al fascismo e al terrorismo e non c’è più il quadro di riferimento internazionale caratterizzato dal bipolarismo tra le due potenze nucleari, Usa e Urss. Inoltre, a parere di alcuni dirigenti della Cgil, la fase di evoluzione che ha portato alla nascita del Partito Democratico fa venire meno quegli aspetti di divisione che hanno determinato la scissione del ’48 con Cisl e Uil. Da più parti viene posta la domanda: «dove va la Cgil?» La risposta non può che essere articolata, e provo a esprimere il mio punto di vista. La Cgil, con le politiche espresse in questi ultimi decenni, mantiene un profilo politico che la distingue dalle altre confederazioni, a partire dal suo essere Confederazione Generale. In questo richiamo c’è l’im- pegno a rappresentare socialmente e politicamente il mondo del lavoro e a elevarlo a protagonista della politica. C’è tutto il sentimento unitario, classista e plurale, dove il principio di libertà sindacale si accompagna alla necessità del mandato di rappresentanza che viene conferito dalle lavoratrici e dei lavoratori. Inoltre agli iscritti è garantito il diritto di critica con la parola, lo scritto, e ogni altro mezzo di diffusione. Sono alcuni aspetti che differenziano la Cgil da altre esperienze confederali. Il cammino intrapreso dal nostro sindacato con gli ultimi congressi, e in particolare con quello di Rimini del 2006, avviene nel mezzo di profonde inquietudini e trasformazioni della società italiana. Dalla politica all’economia, alla globalizzazione, le mutazioni – repentine ed esponenziali – impongono nuove vie da percorrere e nuovi compiti da assumere. Con la convinta riaffermazione dei valori sociali, di equità e di giustizia propri del movimento sindacale. L’autonomia della Cgil, valore più che mai attuale, va accompagnata con una capacità progettuale che ne rafforzi la democrazia interna, il pluralismo, la capacità di ascolto, il far contare sempre più i lavoratori anche nelle scelte dei gruppi dirigenti. A questo si riferisce la ormai decennale presenza della nostra area programmatica Lavoro Società perché parte della storia della Cgil e articolazione radicata del confronto democratico nella Confederazione Generale del Lavoro. DOSSIER SINDACATO FRANCESCA RE DAVID* DALLA FIOM UN CONTRIBUTO IN TEMA DI DEMOCRAZIA E MODELLO SINDACALE Il dibattito che si è aperto in Cgil dopo la consultazione delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati sul Protocollo sul welfare firmato da Cgil, Cisl e Uil, dalla Confindustria e dal Governo, non è estraneo alla riflessione sul modello sindacale e di rappresentanza sociale, la cui necessità di innovazione è posta al centro della Conferenza di organizzazione per una rinnovata confederalità che la Cgil ha in programma nei primi mesi del 2008. Le trasformazioni in atto nelle relazioni sociali stanno producendo effetti importanti riguardo all’iniziativa sindacale e politica che investe il nostro Paese: l’avvio del confronto sulla riforma della struttura contrattuale; le difficili trattative in corso per il rinnovo di importanti contratti nazionali, in particolare quello dei metalmeccanici; il rapporto fra rappresentanza sociale e rappresentanza politica la cui delicatezza è resa evidente dai processi di scomposizione-ricomposizione che investono i partiti; la relazione fra concertazione e sovranità del Parlamento, che proprio la trasformazione in legge del Protocollo sul welfare ha prepotentemente posto all’ordine del giorno. È utile soffermarsi sul primo punto per riflettere non tanto sul merito di quell’accordo, quanto sulle questioni relative alla democrazia sindacale, che interferiscono chiaramente rispetto al modo in cui la Cgil intende stare dentro una fase così delicata dando peso all’autonomia della rappresentanza sociale. Il direttivo della Cgil del 21 e 22 ottobre ha infatti deciso di avviare una fase di discussione che coinvolge tutte le catego* Responsabile organizzazione Fiom – Cgil rie e tutte le strutture confederali, a partire dall’esperienza della consultazione sul Protocollo. La Fiom non ha condiviso che al centro della riflessione fosse posto il voto di non approvazione dell’accordo confederale espresso dal Comitato centrale, riconoscendo però la necessità di ragionare collettivamente su di un sistema di regole che garantisca trasparenza e partecipazione alle decisioni dei lavoratori, dei pensionati e dei gruppi dirigenti, reso più urgente dal salto di qualità nei rapporti unitari fra Cgil, Cisl e Uil. La Fiom ha fatto da anni della democrazia di rappresentanza, e quindi del vincolo al voto delle lavoratrici e dei lavoratori sulle piattaforme e sugli accordi tramite il referendum, il cuore della propria iniziativa: è un aspetto di rilevanza assoluta per un sindacato che vuole esprimere l’autonomia del punto di vista del lavoro, soprattutto in un’era in cui il conflitto capitale-lavoro si inscrive dentro i processi innescati dalla globalizzazione liberista, per cui il dominio della finanza e la concorrenza fra imprese nel mercato mondiale stanno producendo una subordinazione degli Stati all’idea che solo la crescita del profitto garantisce il bene comune. Questo provoca disuguaglianza nella considerazione delle ragioni delle lavoratrici e dei lavatori rispetto a quelle dell’impresa. È quindi naturale per la Fiom considerare fondamentale lo strumento del referendum, che è anche garanzia di unità sindacale in quanto al di là delle valutazioni dei gruppi dirigenti, vincola le organizzazioni al rispetto del voto delle persone cui quegli accordi si applicano. La definizione di un sistema di regole sul referendum di andata e di uscita ha consentito infatti a Fim, Fiom e Uilm di riprendere il percorso unitario dopo la difficilissima fase degli accordi separati per il contratto nazionale dei metalmeccanici che ha segnato i primi anni del 2000. La prima stranezza nella discussione in Cgil deriva perciò dal fatto che questa si sia aperta dopo il voto, che ha consegnato un larghissimo consenso ai sì all’accordo; i metalmeccanici lo hanno respinto con una percentuale di no superiore al 52%; ma essendo un referendum confederale, come è ovvio il risultato generale è vincolante per tutti. La seconda stranezza deriva dal fatto che gran parte della discussione abbia ruotato intorno alla legittimità o meno del voto del Comitato centrale della Fiom, che ha ovviamente preceduto tutta la campagna referendaria, e che fra l’altro ha vincolato esplicitamente la Fiom a rappresentare nelle assemblee il punto di vista confederale, senza fare una campagna di informazione o appelli al voto per il no all’accordo. Come si fa infatti a sostenere che non è legittimo un voto negativo da parte di una struttura sindacale, mentre invece è legittimo un voto positivo, come avvenuto in altre sedi o in altre occasioni? La questione che andava 79 80 posta in premessa alla consultazione semmai poteva essere relativa alla legittimità o meno per tutti gli organismi dirigenti di esprimersi formalmente rispetto a un accordo già approvato dal massimo organismo, il comitato direttivo della Cgil. Ma anche questo tema richiama la necessità di impostare un sistema complessivo di regole per dare ancora più valore al referendum nel caso di consultazione confederale unitaria, non sciupando questo strumento di democrazia fondamentale riducendo il suo esito ogni volta a uno pseudo congresso. Sistema di regole che esiste nello statuto della Cgil per la consultazione promossa dalla sola Cgil verso i suoi iscritti, che esiste fra i metalmeccanici per accordo Fim, Fiom, Uilm, ma che non esiste per gli accordi unitari confederali. E allora le questioni da affrontare sono: come garantire a chi vota la massima informazione condivisa da tutti sui contenuti dell’accordo; come permettere a chi dissente di far conoscere il proprio punto di vista senza che questo sia vissuto come uno strappo; come definire la platea di chi partecipa al voto per dare maggiore autorevolezza al risultato: nei metalmeccanici, ad esempio, votano sul contratto tutte le aziende in cui si fanno le assemblee per presentare la piattaforma, cioè tutte le aziende in cui è presente almeno un sindacato, e quella platea serve da riferimento per calcolare il quorum del referendum di approvazione dell’accordo. È urgente porsi il problema di dare regole condivise nel rapporto fra i gruppi dirigenti del sindacato, con lavoratrici, lavoratori, pensionate, pensionati. Infatti la soluzione alle questioni connesse alla democrazia di rappresentanza chiama il tema della natura del sindacato, su cui in tutta Europa ci si interroga, scontando una crisi di rappresentanza evidente soprattutto nell’industria. Infatti è proprio nei luoghi dove le merci si producono che si fa più acuto lo scontro fra capitale e lavoro, che passa attraverso un oscuramento del lavoro manifatturiero di cui sono spia evidente i bassi salari, l’inaridimento dello Stato sociale, insieme all’affermazione del tutto infondata della sua residualità. Se non ci si vincola in modo chiaro e sempre più forte alle lavoratrici e ai lavoratori, trasformando in forza collettiva le loro ragioni attraverso il sindacato, e quindi la contrattazione e il conflitto sociale, si lascia spazio al punto di vista delle imprese che affermano come nella concorrenza globale l’unico modello possibile sia quello corporativo. Ciò significa che il destino del singolo è legato all’andamento dell’impresa in cui lavora, rompendo ogni solidarietà fra lavoratrici e lavoratori, subordinati all’andamento del profitto della propria azienda. Questo intende Montezemolo quando chiama i lavoratori «i miei collaboratori»; questo sottintendono tutti coloro che pensano a una nuova struttura contrattuale in cui il contratto nazionale si fa sempre più leggero e l’eventuale crescita del salario viene legata alla redditività di impresa, con effetti più devastanti nell’arco del tempo delle stesse gabbie salariali. Dentro questo schema, gli effetti sulle condizioni di lavoro, sugli orari, sulla precarietà sarebbero segnati. Darsi regole di democrazia in grado di contenere le differenze, di ascoltare, di dare valore a chi vogliamo rappresentare, è l’antidoto fondamentale per affrontare una fase così complessa: non si può cedere alla tentazione di semplificare, perché la situazione è complessa e l’attacco al lavoro è andato molto avanti, come dimostrano la durezza dei rinnovi contrattuali anche quando le imprese sono in una fase di grande espansione del profitto; è necessario riaffermare un modello di convivenza che rovesci la centralità, dalle compatibilità finanziarie alle compatibilità sociali, In Italia, il sindacato confederale ha saputo più che in altri Paesi mantenere la rappresentanza proprio per il suo essere sindacato generale, orizzontale e di categoria, con la pretesa di intervenire dentro i luoghi di lavoro e per ciò stesso essere portatore di un progetto di società fondato sulla ricerca della giustizia sociale. La sinistra, in Italia e in Europa, non è stata in grado fino a oggi di dare una adeguata rappresentanza politica al lavoro nello scontro di poteri in atto; per provarci, anch’essa, ha bisogno di un sindacato autonomo, indipendente dai padroni e dai governi, come la Fiom sostiene fin dal 1996. Preservare questo punto di vista è di vitale importanza per negare spazio a una visione corporativa delle relazioni sociali, dove non si distinguono più le differenze di campo, e quindi non c’è più spazio alla mediazione di interessi diversi; dove i ruoli si confondono sovrapponendo il valore dello strumento della concertazione fra le parti sociali e il governo e le prerogative del Parlamento, tema su cui la Cgil ha sempre posto la massima attenzione. Il confronto che si sta aprendo sulla riforma della struttura contrattuale sarà per tutti un banco di prova fondamentale, perché segnerà il modello di relazioni sociali per i prossimi anni. Le regole per l’esercizio della democrazia nell’assunzione delle decisioni, il referendum delle lavoratrici e dei lavoratori sulla piattaforma e sull’accordo sono perciò assolutamente centrali. La grande partecipazione al voto sul Protocollo sul welfare è un fatto importante; la scelta della Fiom su come stare dentro quella consultazione ha avuto il grande merito di porre all’ordine del giorno la questione della natura del sindacato, a partire dalla democrazia; l’errore più grave sarebbe infatti compiere scelte fondamentali senza soffermarsi fino in fondo a discuterne il significato. Questo è il compito che impegna tutte e tutti. E questo è il confronto che serve alla Cgil. DOSSIER SINDACATO 81 TIZIANO RINALDINI* A PROPOSITO DI AUTONOMIA E INDIPENDENZA DEL SINDACATO Senza il tentativo di affermare il principio della solidarietà tra lavoratori come interesse comune distinto dall’interesse di chi li utilizza e li vorrebbe in concorrenza (in guerra) fra di loro, il sindacato non sarebbe mai nato. Gli stessi sindacati di mestiere, pur nei loro limiti corporativi, nacquero per affermare questo principio. Il tema si ripropose con il sindacato industriale e la tensione tra i suoi sviluppi in alternativa verso il sindacato generale oppure verso il sindacato di mercato aziendalistico o al massimo settorialistico. In genere oggi si dimentica tutto ciò, come ad esempio testimonia la significativa confusione che spesso si fa tra sindacato di settore e sindacato di categoria. La questione non si pone solo sul piano della forma dell’organizzazione e delle sue delimitazioni interne, ma innanzitutto sul piano della concezione del sindacato. Come dimostra l’attuale situazione, strutture di categoria possono essere portatrici di una concezione di sindacato generale, mentre l’opposto può avvenire da strutture confederali. Comunque la tensione tra questi due opposti sviluppi del fare sindacato ha per lungo tempo accompagnato le vicende storiche del movimento sindacale. In Europa in particolare, e nel nostro Paese, grande forza e importanza ha avuto la concezione del sindacato come sindacato generale. Ora, è proprio su questo punto che la situazione pare chiudersi con l’affermazione di una quadro che costringe * Sindacalista Cgil Emilia Romagna 82 il fare sindacato nella dimensione della subalternità al mercato così com’è. È mia convinzione che qui si situi il nodo decisivo per la riflessione sull’autonomia e l’indipendenza del sindacato (che coinvolge anche il futuro della sinistra). Spesso si è fatto scandalo in questi anni per il termine indipendenza, con cui la Fiom in particolare ha voluto rappresentare il problema. Faccio notare che il termine fu abbondantemente usato nell’immediato secondo dopoguerra da Di Vittorio (senza suscitare particolari scandalizzate reazioni) a ulteriore dimostrazione dello straordinario spessore di dirigente sindacale di un compagno che non a caso aveva le sue radici all’interno delle esperienze plurali del nascente sindacalismo italiano della prima parte del secolo. In realtà però le reazioni oggi sono comprensibili alla luce del fatto che il termine indipendenza assume un significato inequivocabile rispetto al quadro della situazione con cui ci confrontiamo; rinvia alla condivisione o meno di un’analisi della situazione attuale e a scelte davvero e radicalmente innovative, anche rispetto a importanti aspetti della storia passata. Nel porre la questione il riferimento è ad alcune considerazioni sullo stato delle cose che ovviamente possono non essere condivise; in questo caso però si spera che lo si voglia e sappia argomentare con analisi verificabili. La prima considerazione si riferisce alle caratteristiche strutturali (non solo politiche e culturali) del modello produttivo economico e finanziario che si è imposto con il capitalismo degli ultimi decenni; un modello la cui struttura non ammette un vincolo sociale, e che in particolare non considera il lavoro come potenziale portatore di un diverso punto di vista rispetto al capitale, lo riduce a pura merce, dal diritto del lavoro al diritto commerciale, fattore di produzione, risorsa umana, non più lavoratori ma collaboratori. Il tentativo dei lavoratori di aprirsi uno spazio autonomo attraverso il fare sindacato entra immediatamente in contrasto con questo modello; quando va bene porta a forme di resistenza, quando va male soccombe. La seconda considerazione è che a fronte di questa radicalità alternativa, per il fare sindacato non è possibile rinviare a una dipendenza da una idea alternativa di società, di modello sociale, politico ed economico di cui altri dall’esterno del sindacato siano portatori. L’esperienza storica che abbiamo alle spalle ha, credo irreversibilmente, consumato le ipotesi su ciò costruite. È su queste considerazioni che si fonda il riscontro della gabbia in cui oggi si trova il sindacato rispetto alla sua decisiva necessità di essere promotore di contrattazione collettiva sulla condizione di lavoro (non certo propaganda o semplice subalternità adattiva) e nel contempo quindi di poterla configurare come affermazione, seppur parziale, di un punto di vista autonomo rispetto al capitale. Discende da questo la ineludibilità del problema della indipendenza come unica possibilità rispetto alla deriva verso il sindacato di mercato (cioè di questo mercato); da questo derivano i connotati fondamentali a cui oggi il termine indipendenza rinvia. Innanzitutto misurarsi su questo terreno richiede una scelta di radicalità democratica rispetto al rapporto tra lavoratori e lavoratrici e organizzazioni sindacali: il riconoscimento di fatto (e quindi anche di forma) ai lavoratori e alle lavoratrici della titolarità sulle richieste che si presentano alle controparti e degli accordi che li riguardano. I lavoratori e le lavoratrici non sono oggetti da consultare, ma soggetti che vanno messi nelle condizioni di decidere secondo forme adeguate e vincolanti per le organizzazioni. Nel contempo si pone per il sindacato il problema di costruire ed essere portatore di una idea propria (indipendente) di società, di modello sociale ed economico, alternativa a quella che si è affermata, e quindi un’idea che oggi in primo luogo si proponga di riaprire spazio al soggetto sociale a nome del quale esiste il sindacato stesso, renda cioè non incompatibile con l’esistente il conflitto sociale, la possibilità di affermare un punto di vista altro rispetto a quello del capitale, la dialettica e la democrazia, la possibilità di non considerare l’attuale realtà come l’unico orizzonte e di perseguire l’obiettivo fondamentale della giustizia sociale. È questa la sponda che rende credibile la volontà di rafforzare la necessaria contemporanea capacità di promuovere e sostenere lotte, iniziative, rivendicazioni che rifiutino ai vari livelli la segmentazione, frantumazione e divisione su cui oggi il modello che si è imposto tenta di schiacciare una soggettività solidale dei lavoratori. Qualsiasi seria riflessione sul futuro del sindacato e tanto più sulla riapertura di processi di unificazione sindacale DOSSIER SINDACATO partono da questi problemi, diversamente sono destinati a costruire sulla polvere, anzi sulle ceneri, sempre più appiattiti su un piano di adeguamento a una realtà che nega il lavoro e quindi le classi; considera il lavoro puro strumento di valorizzazione del capitale, al massimo da prendere in esame fuori dal lavoro come mercato del lavoro. Per quanto poi riguarda la Cgil in particolare sarebbe la fine della sua storia, di sindacato generale e di classe (tra i due termini, come è noto, per la storia della Cgil il legame è inestricabile e indissolubile). Uno sguardo più ravvicinato alla realtà con le ultime vicende ci può aiutare a chiarire e a verificare questa traccia di riflessione più generale. A fronte di un governo che per la prima volta nel nostro Paese (a parte la particolare esperienza dell’immediato secondo dopoguerra), vede presenti tutte le forze di sinistra, la caduta di autonomia del sindacato, non più al coperto di una autorità politica esterna e superiore, assume una evidenza clamorosa, così come l’evidente carattere arbitrario a cui si trova esposto l’utilizzo di procedure democratiche modulate a seconda delle contingenti convenienze dei gruppi dirigenti per tutelarsi rispetto a chi al proprio interno dissente. Gli effetti, non a caso, sono particolarmente gravi per la Cgil. Vorrei qui ricordare che sino a poco tempo prima della notte del Protocollo sul welfare la Cgil sosteneva che per aprire una trattativa era indispensabile una proposta del Governo condivisa dal Governo nel suo insieme; solo successivamente il sindacato avrebbe precisato le sue posizioni, che comunque sarebbero passate attraverso una verifica democratica prima della stretta finale. Dopo aver lasciato trascorrere molti mesi senza alcuna mobilitazione generale, tranne quelle di alcune sue parti come la Fiom, con una rapidissima svolta la Cgil ha chiesto una proposta del solo Presidente del Consiglio (e di due ben precisi Ministri), l’ha accettata ( a maggioranza) nonostante la non condivisione della parte di sinistra del governo e nonostante che non venisse neppure accolta la richiesta della Cgil stessa di piccole modifiche, ritenen- dosi ingannata sulla proposta finale. Dopodiché, insieme a Cisl e Uil, realizzata una consultazione dei lavoratori sulla base di una unica voce («o è così o è peggio» e ancora «o è così o cade il Governo»), ha assunto una posizione a sostegno di fatto della immodificabilità del Protocollo da parte del parlamento. Insieme a Confindustria. Ne è derivato l’oggettivo ricatto nei confronti di quella parte di sinistra del governo che non era stata chiamata a condividere la proposta, e ancor di più uno stravolgimento dello stesso strumento della concertazione che ne introduce una concezione lesiva delle reciproche autonomie di sindacato, forze politiche e istituzioni. Siamo ben oltre le vicende del 1992 e 1993. Sono situazioni che possono ripetersi in forme e conseguenze sempre più gravi, su questioni di ancora maggiore rilievo. È il caso della ridefinizione della struttura della contrattazione a fronte del dichiarato intento non di renderla più conforme alla possibilità di un confronto paritario tra interessi del lavoro e interessi del capitale, ma adattarla a uno schiacciamento dell’identità lavorativa sulla fortuna dell’impresa in cui lavora (a sua volta schiacciata sul modello competitivo che si è affermato nel mondo). I lavoratori «premiati» dovrebbero essere quelli che più si conformano e identificano con le aziende quando queste hanno risultati di alta redditività; per chi resta tagliato fuori c’è la prospettiva dei minimi di povertà; quindi, ben che vada, un passo in avanti verso la perdita di valore del contratto nazionale, e, quando a lorsignori converrà, la sostituzione con la legificazione sui minimi. Si capiscono chiaramente le posizioni al proposito della Cisl e Uil, non si capisce con chiarezza la posizione della Cgil, e comunque, pur essendo ormai nel vivo della vicenda, non appare data alcuna possibilità ai lavoratori di intervenire e decidere prima che il quadro sia compromesso. Nel frattempo molte cose lasciano pensare che tutto venga affidato alla leva fiscale del governo, sorvolando sulle differenze concettuali di fondo (il contratto nazionale, ad esempio, deve permettere redistribuzione al di là dell’inflazione o no?), dopo che è stata sottoscritta la scelta del governo di privilegiare con il recente Protocollo il salario nelle aziende purché variabile. Non solo, ma la questione del risparmio fiscale appare esplicitamente e totalmente concepita in una logica finalizzata ad allontanare il conflitto sociale nei confronti del capitale, ignorando le conseguenze di questa impostazione rispetto alle conseguenze sui problemi dello Stato sociale. D’altra parte sono gli stessi contenuti del Protocollo a testimoniare il piano inclinato in cui il sindacato si trova. Il limite di quel Protocollo non è tanto rispetto ai risulta- 83 84 ti quantitativi (che pure non sono soddisfacenti), ma rispetto all’assenza di misure di contrasto e contraddizione con la natura dei processi prima descritti di annichilimento degli spazi per una contrattazione collettiva autonoma e solidale. Per alcuni aspetti questa realtà viene persino rafforzata (incentivazione degli straordinari e privilegio del salario variabile, ad esempio). Si arriva al paradosso del caso Vodafone, dove gli stessi dirigenti sindacali che con fondati motivi spiegano che non si poteva fare di più con l’accordo realizzato a causa di quanto la legge 30 ha reso possibile per la «cessione del ramo di attività di impresa», hanno difeso poche settimane prima il Protocollo che ha lasciato pressoché intoccato questo importantissimo punto di quella legge. A conclusione di questa nota vorrei che il lettore tornasse alla breve analisi di partenza. È lì, infatti, che ritengo vi sia il decisivo punto di partenza e la consapevolezza da assumere se si vuole fare i conti e opporsi credibilmente al quadro con cui ci confrontiamo e aprire una strada a un futuro per il sindacato. Pare evidente che il problema è tema di interesse politico e democratico generale, vitale per la sinistra; nel contempo la sua dimensione non è solo nazionale, si colloca in un quadro internazionale, ed europeo in particolare. Come tale va affrontato. Le caratteristiche dell’esperienza storica del movimento sindacale nel nostro Paese dovrebbero favorirne la consapevolezza e il contributo sulle risposte da costruire. Sarebbe grave e paradossale se accadesse l’opposto. PAOLO SABATINI* DEMOCRAZIA SINDACALE E MOVIMENTO OPERAIO Nella storia del movimento operaio il tema della democrazia sindacale, intendendo con essa l’insieme delle regole di democrazia interna e delle norme previste da leggi e contratti, ha seguito gli alti e bassi che hanno caratterizzato la lunga storia di questo movimento. Nel corso dello scorso secolo, caratterizzato da lunghi cicli di lotta tendenti a emancipare i lavoratori dallo sfruttamento, migliorare le condizioni lavorative ed economiche, conquistare i diritti sindacali, la questione della democrazia sindacale è stata una costante che ha accompagnato le lotte. Oggi il tema delle regole e dei diritti sindacali si ripropone come l’elemento fondamentale per arginare la deriva neo concertativa e, per molti aspetti, autoritaria, che ha caratterizzato le scelte operate dai vertici delle maggiori confederazioni sindacali nel corso degli ultimi quindici anni. L’esempio più calzante della regressione raggiunta sul tema della democrazia sindacale è ben rappresentata dall’accordo interconfederale del 23 luglio 2007 che interviene su vari aspetti della vita lavorativa e, poi, su quella dei futuri pensionati. Non mi addentro in una analisi dell’accordo essendo stato ampiamente trattato in questi mesi, ma ritengo utile soffermarmi sul metodo con cui si è arrivati alla stipula dell’accordo stesso e, poi, con cui è stato sottoposto alla votazione dei lavoratori e dei pensionati. La prima cosa che salta agli occhi è che all’accordo di luglio si è arrivati senza alcun mandato da parte dei lavoratori e delle lavoratrici. Su temi così importanti quali il welfare e le pensioni, che ri- * Vice-coordinatore nazionale SdL Intercategoriale DOSSIER SINDACATO guardano la totalità del mondo del lavoro, si è fatto un accordo, sottoscritto dai segretari generali confederali, senza alcuna consultazione preventiva tra coloro che ne subiranno gli effetti, ossia i lavoratori e le lavoratrici. La seconda riguarda le modalità con cui si è svolta la consultazione «autocertificata». Il metodo scelto, quello di far illustrare l’accordo nei luoghi di lavoro vincolando i relatori a sostenere il sì e la presenza dei seggi elettorali delle sole sigle sindacali che avevano sottoscritto l’accordo e tra queste dei soli sostenitori del sì, fa gridare allo scandalo. Se questo metodo fosse stato utilizzato dal presidente Chavez in Venezuela, per far approvare le proposte di modifica alla costituzione venezuelana, nel referendum in corso in questi giorni, gli stessi firmatari dell’accordo avrebbero gridato all’attentato alla democrazia e alla instaurazione di una dittatura nel Paese sud americano. Esempio calzante appunto, ma che segue altri accordi interconfederali che hanno radicalmente mutato la condizione del mondo del lavoro e i rapporti di classe nel nostro Paese. Parliamo degli accordi del ’92 e del ’93 con i quali si aboliva la scala mobile sulle retribuzioni e si introduceva la «politica dei redditi» e il recupero dell’inflazione determinato dai Ccnl, delle varie riforme del sistema pensionistico (Amato del ’93 e Dini del ’95), ecc. Gli effetti di tali accordi sono sotto gli occhi di tutti. Prima di tali riforme, per andare a lavorare, ci si iscriveva nelle liste del collocamento, che avviavano al lavoro seguendo graduatorie stabilite con criteri oggettivi, il lavoro era tutelato da una forte presenza dei delegati di reparto oltre che da norme garantiste, si percepiva una retribuzione in grado di garantire il potere di acquisto per mezzo dei rinnovi dei Ccnl e della contrattazione aziendale e con un sistema di indicizzazione delle retribuzioni (scala mobile) che scattava automaticamente ogni qualvolta vi era un aumento dell’inflazione. Infine si andava in pensione con 35 anni di contributi con un importo corrispondente all’80% dell’ultima retribuzione che, essendo agganciata al Ccnl, veniva adeguata automatica- mente a ogni rinnovo contrattuale. Oltre a queste forme di diritti e di retribuzioni dirette vi erano ulteriori forme di tutele esterne al luogo di lavoro quali ad esempio le case di edilizia popolare, una sanità e scuola pubblica più efficienti e meno costose, un servizio di trasporto pubblico meno costoso e più esteso ecc. Insomma le lotte degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta ci consegnarono un Paese in cui i rapporti di forza erano più favorevoli al mondo del lavoro che aveva certezze normative, di vita e salari in crescita. Oggi la situazione, come sappiamo, è totalmente mutata. Per trovare un lavoro, precario e mal retribuito, occorre la raccomandazione, le retribuzioni sono ben lontane dal salvaguardare il potere d’acquisto, gli anni lavorativi per andare in pensione sono sempre di più e le pensioni dal 2012, anno in cui entrerà in vigore la riforma Dini, saranno molto inferiori alle attuali. Si aggiunga a questo disastro il fatto che non si costruiscono più case per i lavoratori, che la sanità è sempre più costosa come i trasporti, che la scuola pubblica è stata, quasi ovunque, ridimensionata, che i servizi sociali, asili nido, assistenza ecc, sono stati in buona parte privatizzati, con costi troppo elevati per i redditi da lavoro dipendente ecc. Sarà un caso ma i mutamenti degli ultimi quindici anni corrispondono esattamente alla fine ufficiale del «sindacato dei consigli», la sua sostituzione con il «nuovo» modello di rappresentanza sindacale, le Rsu, previste nell’accordo del luglio ’93 e l’avvio della politica della «concertazione» tra governo e parti sociali. Per entrare nel merito del modello di rappresentanza sindacale è forse utile tentare una veloce ricostruzione storica del modello della rappresentanza sindacale. Dopo le lotte degli anni Cinquanta, la conquista del Ccnl, dei primi diritti sindacali e dei primi embrioni di scala mobile delle retribuzioni in alcuni comparti privati, gli anni Sessanta si aprono con lotte operaie importanti mirate a sconfiggere i licenziamenti politici e imporre non solo miglioramenti economici ma anche i primi veri di- 85 86 ritti sindacali. È del 1962 la prima legge sui diritti sindacali con l’elezione delle «commissioni interne» nei luoghi di lavoro. Fu una prima conquista importante, anche se mediata tra interessi di classe. Questa legge consentiva alle organizzazioni sindacali di presentare liste, alle elezioni della commissione interna, divise però tra impiegati e operai. Gli eletti avevano potere di contrattazione a livello aziendale. Questo sistema, seppur migliorativo della situazione precedente, produceva di fatto una divisione di classe tra i lavoratori e innescava tensioni tra operai e impiegati essendo visti i secondi come portatori degli interessi padronali. I cicli di lotte del ’66 e poi l’autunno caldo del ’69 misero in crisi questo modello, puntando a obiettivi più alti e unificanti del movimento operaio. Quelle lotte non solo portarono al miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori ma costrinsero il padronato, il governo e le organizzazioni sindacali ad affrontare il tema dei diritti individuali, collettivi e sindacali. Nel 1970 in Parlamento approvavano la L. 300/70, lo Statuto dei lavoratori, che, se da un lato introduceva importanti diritti a favore dei lavoratori (basti pensare all’art. 18 che impedisce i licenziamenti arbitrari nelle aziende con più di 15 dipendenti) dall’altro consegnava i diritti sindacali esclusivamente nelle mani delle organizzazioni sindacali. Il fulcro intorno a cui questi ruotavano era che i diritti sindacali spettavano alle organizzazioni sindacali che avevano i requisiti per eleggere la Rsa (rappresentanza sindacale aziendale), ossia li avevano le organizzazioni maggiormente rappresentative o quelle stipulanti accordi collettivi applicati nell’unità produttiva. Le Rsa non erano (e non sono) elette dai lavoratori ma nominate dalle organizzazioni sindacali. Questo impianto autoritario, che consegnava il potere decisionale nelle mani delle segreterie sindacali sottraendolo all’autodeterminazione dei lavoratori, venne fortemente contestato dal movimento operaio che, in un crescendo di iniziative politiche, riuscì a imporre un nuovo soggetto contrattuale nei luoghi di lavoro, il consiglio dei delegati, eletti su scheda bianca e sottratti al controllo delle burocrazie sindacali. I delegati erano eletti liberamente dai lavoratori e a questi rispondevano direttamente, spingendosi sino a forme molto avanzate di autorganizzazione operaia. Fu quella che passò alla storia come la stagione dei consigli, prosecuzione di un ciclo iniziato nei primi anni Sessanta. Molto della legislatura attuale e dello Stato sociale, seppur fortemente ridimensionato, risale a quegli anni. Dal punto unico di contingenza, per arrivare al sistema pensionistico a ripartizione o ancora la soppressione delle mutue, sostituite del servizio sanitario nazionale, furono conquiste a fianco delle quali avanzava di pari passo la democrazia sindacale. Una breve stagione che ha segnato fortemente la storia del movimento operaio. Poi la progressiva offensiva delle centrali sindacali tese a mettere sotto controllo un sistema che sfuggiva al rigido controllo degli apparati. L’occasione fu la sconfitta degli operai della Fiat dell’80, i consigli di fabbrica vennero piegati e ricondotti sotto il controllo delle organizzazioni sindacali fino ad arrivare all’accordo del luglio ’93 che introduceva le Rsu quale agente contrattuale nei luoghi di lavoro. Quell’accordo sancì un tuffo nel passato, seppellendo un sistema basato sulla democrazia diretta per reintrodurre una forte e diretta fonte di controllo sulle Rsu aziendali. In effetti le Rsu, regolamentate inizialmente mediante accordi interconfederali nel comparto privato, altro non sono che la fusione delle due precedenti leggi ossia quella del ’62, che prevedeva l’elezione della commissione interna su liste presentate dalle organizzazioni sindacali, e la L. 300/70, che prevedeva la nomina delle Rsa da parte delle stesse organizzazioni sindacali. Il nuovo sistema di fatto intendeva inibire la candidatura ed elezione di lavoratori non controllati dai sindacati e garantire il controllo politico delle Rsu mediante la nomina, senza alcun vincolo, di un terzo della stessa, mentre i rimanenti due terzi venivano eletti su liste presentate dalle organizzazioni sindacali e separate tra operai, impiegati e quadri. Una normalizzazione in gran parte riuscita visti i risultati. Un ulteriore colpo fu inferto dai referendum del ’95 che abrogarono parti importanti della L. 300/70, ossia il diritto alla trattenuta sindacale e la maggiore rappresentatività, che rappresentava uno dei criteri per stabilire a quali organizzazioni spettassero importanti diritti sindacali (dal diritto di assemblea messo in continuazione in discussione dal padronato, fino ai permessi retribuiti per i dirigenti sindacali). Oggi la situazione è paradossale, non essendo sopraggiunta nessuna norma a sanare il vuoto lasciato dai referendum, poiché sono i padroni a decidere chi può avere i DOSSIER SINDACATO diritti sindacali. Dopo i referendum molti diritti sindacali spettano infatti solamente alle organizzazioni «stipulanti accordi collettivi applicati nell’unità produttiva» (ex art. 19 L. 300/70), ma al contempo non vi è alcun criterio che imponga alle aziende di contrattare con le organizzazioni sindacali e, in mancanza di obblighi basati su criteri oggettivi, le aziende possono scegliere di contrattare e fare accordi con alcune di esse e di non farli con altre. Questo elemento, che costituisce una forma di discriminazione sulla base delle convenienze economiche e politiche, si aggiunge al fatto che, nel comparto privato, un terzo degli Rsu viene nominato dalle organizzazioni sindacali che stipulano il Ccnl. Il risultato è una sorta di monopolio sindacale che interagisce con il padronato e con i governi sulla base di un reciproco riconoscimento. Questi elementi nel corso degli anni hanno prodotto una torsione del sistema democratico e colludono con la libertà di organizzazione sindacale sancita nella carta costituzionale. Leggi, accordi, norme sembrano tagliate su misura di Cgil Cisl Uil ed hanno un effetto inibitore alla crescita e sviluppo di organizzazioni sindacali alternative che, viceversa, vengono private di importanti diritti (basti pensare al diritto di assemblea) o non vengono convocate dalle controparti, se non a costo di lotte significative, anche in aziende o comparti in cui sono magari maggioritarie. Insomma la democrazia sindacale e l’espansione dei diritti dei lavoratori sono stati una costante, come dicevamo, del movimento operaio, crescendo con le lotte prodotte dallo stesso e favorendone a loro volta l’espansione e la radicalità degli obiettivi. Di contro la compressione dei diritti e la limitazione della democrazia favoriscono lo spostamento dei rapporti di forza verso il padronato e concorrono al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati. Oggi tutti gli indicatori economici, sociali e politici ci dicono che le condizioni dei lavoratori hanno subito un netto arretramento che può essere arrestato soltanto ridando loro la possibilità di tornare a organizzarsi partendo dai loro bisogni e per far questo occorrono sicuramente una nuova legge sulla rappresentanza dei lavoratori e l’abrogazione di tutte quelle norme che consentono la precarietà, a cominciare dalla legge 30 e dalla possibilità di reiterare all’infinito i contratti a termine. Una svolta reale che consenta una ripresa del movimento operaio non può che passare dalla eliminazione del lavoro precario e da una nuova legge sulla rappresentanza sindacale e dei diritti dei lavoratori. È a tutti evidente che la precarietà di milioni di lavoratori e lavoratrici, che indebolisce la capacità di lotta e rende difficoltoso avviare una fase rivendicativa di carattere offensivo, così come la mancanza di una reale democrazia sindacale e di un quadro normativo che estenda e tuteli i diritti sindacali, sono due facce di una stessa medaglia. Su questi due fondamentali argomenti, precarietà e diritti sindacali, sono stati depositati dei quesiti referendari, mediante i quali i promotori intendono abrogare la legge 30, parte del D.L. 368 sui contratti a termine e parte dell’art. 19 L. 300/70, per restituire a tutti i diritti sindacali. La nostra organizzazione sindacale li sosterrà con convinzione, auspicando che saremo in tanti e tante a mobilitarci per raccogliere le oltre 600.000 firme necessarie e poi a fare la battaglia referendaria, una battaglia che si può vincere visto che la questione della precarietà del lavoro è un tema che riguarda ormai l’intera popolazione del nostro Paese. 87 Comitato editoriale 88 Maurizio Acerbo Gianni Alasia Marco Amagliani Pierfranco Arrigoni Antonio Assogna Jone Bagnoli Giorgio Baratta Imma Barbarossa Katia Bellillo Riccardo Bellofiore Piergiorgio Bergonzi Maria Luisa Boccia Manuele Bonaccorsi Vittorio Bonanni Bianca Bracci Torsi Nori Brambilla Pesce Emiliano Brancaccio Giordano Bruschi Tonino Bucci Alberto Burgio Maria Rosa Calderoni Maria Campese Luigi Cancrini Luciano Canfora Guido Cappelloni Gennaro Carotenuto Bruno Casati Luciana Castellina Giulietto Chiesa Francesco Cirigliano Fausto Co' Cristina Corradi Aurelio Crippa Roberto Croce Marco Dal Toso Walter De Cesaris Peppe De Cristofaro Josè Luiz Del Roio Tommaso Di Francesco Giuseppe Di Lello Finuoli Piero Di Siena Rolando Dubini Gianni Ferrara Guglielmo Forges Davanzati Gianni Fresu Mercedes Frias Alberto Gabriele Haidi Gaggio Giuliani Francesco Germinario Orfeo Goracci Roberto Gramiccia Claudio Grassi Dino Greco Margherita Hack Alessandro Leoni Lucio Manisco Fabio Marcelli Giovanni Mazzetti Enrico Melchionda Maria Grazia Meriggi Enzo Modugno Sabina Morandi Raul Mordenti Franco Nappo Giorgio Nebbia Saverio Nigretti Alfredo Novarini Simone Oggionni Angelo Orlando Franco Ottaviano Gianni Pagliarini Valentino Parlato Armando Petrini Gianmarco Pisa Michele Pistillo Felice Roberto Pizzuti Giuseppe Prestipino Marilde Provera Riccardo Realfonzo Alessandra Riccio Paolo Sabatini Giuseppe Sacchi Luigi Saragnese Marco Sferini Guglielmo Simoneschi Vincenzo Siniscalchi Massimiliano Smeriglio Bruno Steri Antonella Stirati Mario Tiberi Nicola Tranfaglia Fulvio Vassallo Paleologo Mario Vegetti Massimo Villone Luigi Vinci Pasquale Voza Maurizio Zipponi Stefano Zolea Stefano Zuccherini direttore – Bruno Steri direttore editoriale – Mauro Cimaschi direttore responsabile – Bianca Bracci Torsi redazione – Mauro Belisario, Silvia Di Giacomo, Marcello Notarfonso email: [email protected] diffusione e abbonamenti email: [email protected] editore associazione culturale essere comunisti via Buonarroti 25 – 00185 Roma stampa tipografia Jacobelli – Pavona (Roma) chiuso in Tipografia il 31 dicembre 2007 grafica progetto grafico, impaginazione e service editoriale: DeriveApprodi credits immagini p.11: Nicolaj Kogut (1921); p. 18: Rolf Köple; p. 20: Daniel Beltra; p. 24: Hatem Moussa; p. 26: Mikhail Metzel; p. 28: Blalla W. Hallmann; p. 43, p. 48, p. 49: da Au pied du mur; p. 53: da «Le passant ordinaire» n. 50; p. 54: Ms/Nieva; p. 60, p. 63, p. 64: Nanni Balestrini; p. 69, p. 72, p. 74, p. 78, p. 84: Anna Maria Di Oronzo; p. 77: Qalandar Memon; p. 81: Maya Rizkallah; seconda di copertina: Nanni Balestrini www.esserecomunisti.it a notizia è che il nostro sito sta, giorno dopo giorno, crescendo. Cresce rinnovandosi: una nuova veste grafica, nuove sezioni (a partire da quella multimediale, arricchita ogni giorno con nuovi audiovisivi), un doppio aggiornamento quotidiano e già in mattinata articoli e commenti sui fatti del giorno. E ancora: più attenzione alla cultura, una rassegna stampa più completa e articolata, un maggior numero di interventi, commenti e interviste redazionali. E i risultati si vedono: l’attenzione dei nostri lettori è in costante crescita al punto che, dall’uscita del secondo numero della rivista a oggi, abbiamo guadagnato migliaia di contatti giornalieri. Insomma: ci stiamo ritagliando uno spazio. Come la rivista ha bisogno degli abbonati (e del loro sostegno, dei loro suggerimenti), il sito ha bisogno dei lettori, della loro fiducia e del loro sguardo critico. In questi anni ce l’abbiamo fatta anche e, forse, in primo luogo, grazie al fatto che la fiducia e la critica non sono mai venute meno. E grazie a voi, lettori e abbonati della rivista, a cui chiediamo di moltiplicare per due il vostro già preziosissimo lavoro di suggeritori e critici: ciascuno di voi coinvolga una nuova compagna o un nuovo compagno, diffondendo la rivista e facendo conoscere il sito (consultabile all’indirizzo: www.esserecomunisti.it). Scommettiamo che non rimarranno delusi? L registrazione Tribunale di Roma n. 170/2007 del 08/05/2007 anno I, numero 4, dicembre 2007 bimestrale Poste Italiane s.p.a. – spedizione in A.P. 70% Roma n. 96/2007 Per la realizzazione di questo numero non è stato richiesto alcun compenso. Si ringraziano tutti gli autori e collaboratori.