GIACOBBE LOTTÒ CON DIO

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GIACOBBE LOTTÒ CON DIO
“…IN PRINCIPIO DIO DISSE…”
Il libro della Genesi
-secondo incontro cap 12-50
GIACOBBE LOTTÒ CON DIO
Relazione di Padre Alberto Neglia
Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto
Fratelli si diventa
Nella Bibbia, il libro della Genesi è, in buona parte, storia di fratelli che
hanno difficoltà a vivere insieme e in pace, è come se venisse gettata
luce sulla storia dell’umanità e la conflittualità che l’accompagna. Tra le
storie di fratelli c’è quella di due fratelli che occupano parecchi capitoli
della Genesi (25-35). Sono fratelli gemelli e iniziano a litigare già prima
di nascere, nel grembo di Rebecca: «Isacco supplicò il Signore per sua
moglie, perché ella era sterile e il Signore lo esaudì, così che sua moglie
Rebecca divenne incinta. 22Ora i figli si urtavano nel suo seno ed ella
esclamò: «Se è così, che cosa mi sta accadendo?». (Gen 25,21)
Litigano per stabilire chi deve nascere per primo: «Quando poi si compì per lei il tempo di
partorire, ecco, due gemelli erano nel suo grembo. 25Uscì il primo, rossiccio e tutto come un
mantello di pelo, e fu chiamato Esaù. 26Subito dopo, uscì il fratello e teneva in mano il calcagno
di Esaù; fu chiamato Giacobbe. Isacco aveva sessant’anni quando essi nacquero» (Gen 25,2426).
Per questo è chiamato Giacobbe: ‘aqeb è il calcagno, ja‘aqob è colui che tiene il calcagno. Il
gesto è visto come segno premonitore dell’atteggiamento di Giacobbe che, appunto, vuol
soppiantare, imbrogliare il fratello. Come se si chiamasse imbroglione. In effetti farà di tutto per
“soppiantare” (‘aqab) il fratello Esaù. I bambini crescono e divenuti giovani hanno attitudini
diverse e si manifestano per quello che sono:«I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella
caccia, un uomo della steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le
tende. 28Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto, mentre Rebecca
prediligeva Giacobbe» (Gen 25,27-28).
Un piatto di lenticchie
Giacobbe, è un astuto calcolatore, è un uomo che si fa strada da solo, prediletto e aiutato dalla
madre, Rebecca. È un truffatore che invade la vita del fratello. Il fratello dovrebbe dar da
mangiare all’affamato e accogliere con cortesia il fratello affaticato, invece, Giacobbe fa i suoi
conti, calcola scaltramente e prepara un tranello, un’insidia ad Esaù. Da imbroglione, coglie
l’occasione e, per un piatto di lenticchie, ruba la primogenitura ad Esaù (Gen 25,29-34). Poi, in
un’altra occasione, con astuzia, e con la collaborazione della madre Rebecca, gli ruba la
benedizione del padre Isacco (27,1-29).
La benedizione è atto testamentario, decisivo, irrevocabile. È il bene tranquillamente sperato da
Esaù e astutamente insidiato da Giacobbe. Coinvolge nel suo imbroglio Dio, che lui
precedentemente mai ha invocato (è anche un bestemmiatore). Infatti, al padre che sorpreso
per la sollecitudine con cui ha preparato il piatto di selvaggina, gli dice: «Come hai fatto presto
a trovarla, figlio mio!». Risponde: «Il Signore tuo Dio me l’ha fatta capitare davanti». (Gen
27,20).
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«Ucciderò mio fratello Giacobbe»
Appena Esaù apprende che il fratello l’ha ancora una volta imbrogliato carpendo la benedizione
del padre Isacco e privandolo del diritto di primogenitura, grida la sua amarezza ed evidenzia la
malvagità del fratello: «Quando Esaù sentì le parole di suo padre, scoppiò in alte, amarissime
grida. Disse a suo padre: «Benedici anche me, padre mio!». 35Rispose: «È venuto tuo fratello
con inganno e ha carpito la benedizione che spettava a te». 36Riprese: «Forse perché si chiama
Giacobbe mi ha soppiantato già due volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora ha
carpito la mia benedizione!» (Gen 27,34-36).
Se la benedizione paterna dona prosperità, la frode del figlio apre la porta al dolore e a progetti
di morte. Infatti, Esaù va su tutte le furie e giura che alla morte del padre Isacco, ucciderà il
fratello Giacobbe: «Esaù perseguitò Giacobbe per la benedizione che suo padre gli aveva dato.
Pensò Esaù: «Si avvicinano i giorni del lutto per mio padre; allora ucciderò mio fratello
Giacobbe» (Gen 27,41).
Attendere per uccidere, fino alla morte del padre, che non si prevede lontana, è un’idea
macabra. Allo stesso tempo tradisce un rispetto profondo: la presenza pura, cieca, del padre
anziano basta a reprimere l’ira e a trattenere dall’omicidio. Si apre così una tappa di durata
imprecisa e il cui sbocco rimane sospeso: la vendetta fraterna. Rebecca approfitta del tempo
che ha a disposizione. Di nuovo prende l’iniziativa per consigliare il figlio prediletto: la distanza
geografica impedirà l’esecuzione, il tempo curerà la collera. Gli consiglia di andare lontano, da
sua fratello Labano a Carran. (Cf. Gen 27,42-45)
Giacobbe uomo in fuga
Stando così le cose, Giacobbe si rende conto che non può stare più vicino al fratello nella casa
del padre, deve fuggire e su suggerimento della madre si mette in cammino verso la casa di
Labano, fratello di Rebecca. Come spesso accade nella Genesi, invece della morte, l’esilio. Il
peccato produce sempre conseguenze. Da questo momento Giacobbe è un uomo in fuga,
solo, in estrema debolezza. Colui che viveva tranquillo sotto le tende, va ora attraverso i campi:
non ha parenti che lo accolgono né stranieri che gli offrono ospitalità. È povero e solo, e mentre
è in viaggio sogna (nella debolezza si sogna) che qualcuno l’accompagna e si prende cura di
lui.
Nel sogno vive un’intensa esperienza interiore che resterà per sempre operante nella sua vita,
anche se sembra essere accantonata in qualche angolo della sua coscienza. Ricorderà sempre
che in un momento, ha visto il cielo aprirsi su di lui e il Signore gli dice: «Io sono con te e ti
proteggerò, … ti farò ritornare…, non ti abbandonerò senza aver fatto quello che ho detto»
(Gen 28,15). È Dio che percorre insieme al suo “benedetto eletto” il cammino causato dal
peccato. Egli cammina con Giacobbe, il quale – sia pure attraverso l’inganno e la colpa – ora è
il portatore della promessa.
A Betel, quindi, (Gen 28,10-22) Dio fedele conferma, anche a questo imbroglione, rottame di
umanità, le promesse fatte ad Abramo, Giacobbe risponde sempre a modo suo, da calcolatore:
«Se Dio sarà con me…, se ritornerò…, il Signore sarà il mio Dio» (28,20). È una preghiera un
po’ strana, pare che sia Dio che deve convertirsi a Giacobbe e non il contrario. Giacobbe
manifesta ancora quello che è: un astuto calcolatore.
“Ti servirò sette anni per Rachele”
Giacobbe, dopo il sogno di Betel, si rimette in cammino e arriva nel territorio degli orientali (Gen
29-12). Qui incontra un paesaggio accogliente, familiare: un pozzo al centro, con greggi di
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pecore e pastori, (lui era un pastore) per cui chiama i pastori fratelli. Ma anche qui si manifesta
ancora intraprendente e arrogante sollevando da solo la pietra della solidarietà posta sul pozzo.
Il pozzo è bene comune, l’acqua viene divisa equamente, la pietra, che vi sta sopra e protegge
l’acqua, è segno e strumento di solidarietà, la sua funzione principale è di controllo: occorre
che si riuniscano vari pastori per toglierla e rimetterla. Giacobbe quando incontra Rachele, figlia
di Labano e sua cugina, di cui si innamora, con arroganza rotola la pietra della solidarietà per
far bere le pecore di Rachele. Poi incontra lo zio Labano che gli dice: «Davvero tu sei mio osso
e mia carne!» (Gen 29,14).
Ed è vero non solo perché hanno vincoli di sangue, ma, soprattutto. perché anche lui è un
astuto calcolatore: a Giacobbe che, innamorato di Rachele, lo serve per sette anni, pur di avere
Rachele come sposa, nell’oscurità della notte gli consegna l’altra figlia Lia come sposa (lui
davanti al padre Isacco cieco, quindi nell’oscurità, si era travestito da Esaù, ingannando il
padre).
Labano motiva così il suo inganno: «Non si usa da noi dar la minore prima della primogenita»
(Gen 29,27). È come se gli atteggiamenti precedenti di Giacobbe, adesso, gli piombassero
addosso: La frode di Giacobbe era stata quella di impadronirsi della primogenitura, pur essendo
il minore. E ora si prenderà la primogenita. Così sono i costumi del paese. Giacobbe era giunto
a Carran risoluto, e aveva iniziato passando sopra agli usi del paese: la pietra del pozzo, la
figlia minore. Labano lo frena con una beffa di poche parole.
La beffa non termina in tragedia perché Labano trova una soluzione accettabile. I costumi del
luogo impongono un ordine nel dare in spose le figlie, ma non proibiscono di darne l’una dopo
l’altra allo stesso marito. E generosamente gli anticipa che potrà sposare presto anche
Rachele, ma dovrà servirlo per altri sette anni.
Il racconto biblico, poi, evidenzia che Giacobbe si troverà accanto Lia, donna feconda ma non
amata, e Rachele donna amata, ma sterile. Inoltre evidenzia che l’ambiente gli diventa ostile e
Giacobbe vede a rischio la sopravvivenza sua, di Rachele, di Lia e dei figli e avverte che è il
momento di ritornare nella sua casa. Gli risuona nelle orecchie e nel cuore l’invito di Dio:
«Torna alla terra dei tuoi padri, nella tua famiglia e io sarò con te» (Gen 31,3)
Gen 31,3 è il punto luminoso della notte che torna a risplendere e Giacobbe pensa di tornare
indietro, è il cammino della conversione (la teshuva). Ma per tornare, Giacobbe sa che dovrà
passare dal territorio del fratello (è sempre così). La chiamata di Dio obbliga Giacobbe a
confrontarsi con il suo passato, prima di affrontare il futuro. Il passato non è solo il rancore di
suo fratello, è anche la propria condotta fatta di trappole e di inganni. La vittoria sul passato
dovrà manifestarsi nella riconciliazione con il fratello. E lui ha paura!
Per questo manda avanti degli uomini per vedere che aria tira nel campo del fratello. Questi
ritornano e gli dicono: «Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro e
ha con sé quattrocento uomini» (Gen 32,7). Giacobbe ha paura e cerca di rimediare al
problema, come ha sempre fatto, giocando d’astuzia. Divide in due l’accampamento in modo
che quando Esaù piomberà sui suoi potrà distruggere solo mezzo accampamento e gli resterà
a disposizione l’altra metà.
“Salvami dalla mano di mio fratello”
Di fronte a questa situazione sente il bisogno di pregare veramente. Quindi, in Gen 32,10-13,
finalmente prega in modo umile e sincero e non da calcolatore. Questa preghiera, sulle labbra
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di Giacobbe, è diversa da quella precedente: “Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre
Isacco “ Lo invoca come Dio dei suoi padri, lui non lo conosce ancora personalmente. Il ladro,
inoltre, qui si ritiene indegno, finalmente è sincero.
È la preghiera di un uomo impreparato, però è una preghiera pura, limpidissima, è la preghiera
di chi dice Tu a Dio e riconosce che Dio ha l’iniziativa nella sua vita. Ora, la sua preghiera è
quella dell’uomo che dice: Salvami! Dopo aver pregato cerca di prevenire l’ira del fratello
mandandogli doni, in modo che l’ira del fratello si vada smorzando nell’attesa, fa andare tutti
avanti e, nella notte lui rimane solo al guado dello Jabbok.
“Rimase solo e un uomo lottò con lui”
Giacobbe ha preparato tutto, pronto ad affrontare il fratello Esaù, solo che invece di affrontare il
fratello si trova ad affrontare uno sconosciuto che lo coglie di sorpresa, impreparato. Giacobbe
si preoccupa di presentarsi al volto del fratello e si ritrova invece preso alle spalle da uno
sconosciuto. E qui avviene un incontro decisivo che gli cambia la vita, lo rende uomo nuovo,
capace di vedere l’altro non come qualcuno da imbrogliare, ma come fratello. Leggiamo il testo.
«Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e
passò il guado dello Iabbok. 24Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i
suoi averi. 25Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora.
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Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del
femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. 27(Quello) disse: «Lasciami
andare, perché è spuntata l’aurora». (Giacobbe) rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai
benedetto!». 28Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe».
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Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli
uomini e hai vinto!». 30Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché
mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. 31Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero
– disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». 32Spuntava il sole,
quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca. 33Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non
mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva
colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico» (Gen 32,23-33).
Come in altre occasioni della storia e dei racconti di fantasia, la decisione di andare verso la
patria viene espressa e messa in atto passando una frontiera, per es. un fiume. Tuttora diciamo
nella nostra lingua: “Passare il Rubicone” , nel senso di fare un passo decisivo. Nell’A.T. si
evidenzia il passaggio del Mar Rosso e del Giordano. Passando lo Iabbok, un affluente del
Giordano, Giacobbe si addentra rischiosamente nel territorio controllato dal fratello. Ma ripeto,
prima di confrontarsi col fratello si deve confrontare con uno sconosciuto!
In Gen 32,25 si dice: “Qualcuno lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora...”. Qui viene usato il
termine ish (uomo). È una parola generica che, quando è usata senza articolo determinativo,
finisce molto spesso per indicare un pronome indefinito: “un” “uno”. Qui Giacobbe lotta con
qualcuno, non si capisce chi è uno ish ... ed è un qualcuno che si nomina solo qui: poi si
procede invece solo usando dei verbi in terza persona singolare maschile: Egli. Quindi
aggressione misteriosa con la quale Giacobbe, questa volta, si deve misurare frontalmente e
da solo.
Questo qualcuno lotta con Giacobbe. Si dice che lotta usando il termine ebraico avaq. Avaq (=
lottare, polvere, imbrattarsi di polvere) è un verbo di origine incerta, è qualche cosa che deriva
da “polvere”, ma anche da abbraccio (kavaq = abbracciare). Allora: ish misterioso fa la lotta
(ripeto si usa un verbo che non si sa bene cosa voglia dire: polvere, abbraccio). E si abbraccia
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con Giacobbe e lottando si fa polvere, si solleva polvere. Questi due corpi combattono
abbracciandosi. C’è un gioco di termini dove il nome è importante perché Giacobbe diventa
Israele.
Mentre i due stanno lottando, il testo è descritto in modo che è difficile l’identificazione dei due
uomini. Sparisce il termine ish viene usato solo il verbo in terza persona maschile singolare
“Egli”. La stessa cosa avviene per Giacobbe, si dice Egli, il nome Giacobbe compare poche
volte sempre un po’ in ritardo, tanto è vero che la Bibbia della CEI traducendo ha messo un
Giacobbe in più per rendere comprensibile tutta la vicenda... Egli... (non si sa chi sta vincendo e
chi sta perdendo...), dice il testo: vedendo che non riusciva a vincerlo... chi?
lo colpì all’articolazione del femore... allora chi colpisce all’articolazione del femore è quello che
vince, è chiaro; però quello che riesce a colpire è quello che vedeva che non riusciva a vincerlo,
allora quello che non sta vincendo è quello che colpisce l’articolazione. Bene, si sono cambiate
le cose, lui ha colpito all’articolazione del femore Giacobbe, Giacobbe ha perso e l’altro ha
vinto... Ma questo altro che ha vinto, dice a un certo punto: “lasciami andare perché è spuntata
l’aurora” e quello che avrebbe perso dice: “No, non ti lascerò se non mi avrai benedetto...”.
Se l’altro sta sottomettendo Giacobbe, perché dice: lasciami andare? e se Giacobbe ha ormai
perso, come può dire: “Non ti lascio andare”? Allora, non è vero che è Giacobbe che sta
perdendo. Giacobbe sta vincendo, ormai tiene in pugno l’altro e si può permettere di dire: “Io
non ti lascio andare”. E allora, noi avevamo capito che Giacobbe aveva perso e adesso
scopriamo che Giacobbe ha vinto. E poi, invece non è vero, perché a questo punto l’altro gli
dice: “Dimmi il tuo nome” e Giacobbe dice: Giacobbe.
Dire il nome, dire il proprio nome all’avversario vuol dire alzare le mani e arrendersi perché il
nome secondo gli Ebrei contiene, racchiude, si identifica con il segreto dell’uomo che lo porta.
Quindi consegnare il proprio nome ad un altro con cui stai lottando, vuol dire che ti stai
consegnando a lui in tutta la tua verità, ti stai mettendo nelle sue mani.
Giacobbe perde se stesso e difatti ha vinto perché si consegna, ha vinto perché ha avuto il
coraggio, la fiducia di aggrapparsi alla mano di chi lo colpiva. È la vittoria del ladro sulla croce,
dice il proprio nome e riceve da Dio il nome nuovo Israele (srh = lottare, el = Signore) che egli
riceve: “perché hai combattuto con gli uomini e con Dio e hai vinto.”. Giacobbe vince e da
vittorioso chiede il nome, e perde perché Dio non risponde, però lo benedice. Giacobbe esce
vittorioso... Però spunta il sole, sorge l’aurora di una nuova era di salvezza, nasce una nuova
creatura dalle ceneri dell’uomo vecchio; e lui zoppica perché in realtà è stato ferito e ha perso,
ma anche vinto perché liberato dall’arroganza di prima. (cf. Sap 10,12).
«Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl» (32,32): sorge il sole di una nuova era, si
apre un nuovo giorno di salvezza, nasce un uomo nuovo. Per Giacobbe le acque dello Iabbok
diventano una sorte di fonte battesimale dal quale emerge la nuova creatura, come direbbe
Paolo (2Cor 5,17), appare dalle ceneri dell’uomo vecchio, si apre una nuova storia della
salvezza, colui che ora ottiene la benedizione rappresenta Israele il popolo benedetto ed eletto.
Racconto parabola
Questo è vero per ogni uomo: l’unico modo di vincere con Dio è di perdere ed è perdendo con
Dio che si vince, anzi è proprio il nostro perdere la nostra vittoria (cf. Mc 8,35), e perdendo si
porta frutto (cf. Gv 12,24). Dio è l’inafferrabile. L’uomo lotta per capire Dio e ci si accorge che
per capirlo è accettare di non poterlo mai capire, che l’unico modo per toccarlo è di non poterlo
mai raggiungere. L’unico modo per afferrarlo è di aprire le mani e rimanere a mani vuote. E il
modo di conoscere Dio è di lasciare che Dio ci consenta di conoscere noi stessi dandoci il
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nome nuovo.
“Ho visto il tuo volto benevolo ed era come vedere il volto di Dio”
Da questo evento esce convertito, rinnovato Giacobbe, ma l’atteggiamento di Giacobbe dà una
svolta anche all’atteggiamento di Esaù, Gen 33,4 ricorda Lc 15,20, la parabola del figliol
prodigo, la parabola dei due figli: un figlio che va e ritorna, un figlio che rimane a casa. Esaù
corre. I due fratelli si riconoscono, si ritrovano vicendevolmente e risuscitano insieme. Il ritorno
di Giacobbe alla sua terra è il ritorno del peccatore convertito. È uno che ha visto in faccia il
Signore che gli ha cambiato non solo il nome ma anche il cuore.
Adesso Giacobbe può dire ad Esaù: «Fammi il favore di accettare questi regali. Perché ho visto
il tuo volto benevolo ed era come vedere il volto di Dio» (Gen 33,10). Colui che ha visto il volto
di Dio, è ora in grado di presentarsi al volto del fratello e di continuare a vedere nel volto del
fratello il volto di Dio. Il volto di un fratello offeso e riconciliato riflette il volto di Dio. Poi, in Gen
35,27-29 si racconta la morte del padre Isacco e i fratelli stanno accanto a lui, in pace. A
conclusione della sua vita, Giacobbe riconoscerà: «Dio è stato il mio pastore da quando esisto
fino ad oggi» (Gen 48,15).
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