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Memorie
della
Accademia delle Scienze di Torino
Classe di Scienze
Morali, Storiche e Filologiche
Serie V, Volume 38, fasc. 1
ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO
2014
Pubblicazione realizzata con il contributo
dell’Università degli Studi di Milano
2014 ACCADEMIA DELLE SCIENZE DI TORINO
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ISSN: 1120-1622
ISBN: 978-88-908669-4-4
Acc. Sc. Torino
Memorie Sc. Mor. 38, 1 (2014), 3-44
STORIA CONTEMPORANEA
La dispersione dell’autorità religiosa
nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web
Memoria di ELISA GIUNCHI*
presentata dal Socio corrispondente MARIO G. LOSANO
nell’adunanza del 10 giugno 2014
e approvata nell’adunanza del 18 novembre 2014
Riassunto. La costruzione di Stati moderni e l’influenza europea provocarono nei paesi musulmani, a partire dall’Ottocento, la progressiva
emarginazione degli esperti religiosi (‘ulamˉa’), che avevano tradizionalmente trasmesso e custodito la dottrina: essi persero così il monopolio del
sapere sacro e vennero affiancati da nuove élites laiche, emerse da scuole
di matrice occidentale, che si arrogarono l’interpretazione della dottrina
islamica in qualità di legislatori e giudici, facilitate dall’assenza nell’Islam
di un’autorità centrale. L’avvento dei new media avrebbe accentuato questa appropriazione del sacro da parte dei laici, già evidente a partire dagli
anni ’70 e ’90 del Novecento nell’«attivismo giudiziario» di molti paesi
musulmani. Benché oggi anche le autorità tradizionali si avvalgano dei
nuovi mezzi di comunicazione, dal web emergono voci nuove e variegate,
dissonanti rispetto sia alla dottrina islamica classica sia all’Islam ufficiale.
Il web è sempre più usato, spesso da autodidatti con scarsa preparazione
religiosa, anche con la funzione di guida morale per le comunità emigrate
in Occidente, prive di reti di sostegno e controllo tradizionali. I new media
contribuiscono non solo a diffondere interpretazioni diverse dell’Islam, ma
a formare entità culturali ibride che, pur diffondendo un senso di comune
appartenenza islamica, amplificano l’eterogeneità che ha sempre caratterizzato la dottrina islamica. Queste reti hanno acquisito particolare rilevanza
per l’Occidente con le «Primavere Arabe» e, in seguito, quando si è constatato che sono usate per reclutare combattenti nelle guerre in corso in Siria
e Iraq.
PAROLE CHIAVE: Islam; autorità; internet; new media; diritto islamico;
fatwˉa; l’autorità religiosa nel Corano.
*
Professore associato, docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici, Università degli
Studi di Milano. E-mail: [email protected]
L’autrice è grata a Mario G. Losano e ai revisori anonimi per i preziosi consigli.
4 Elisa Giunchi
Abstract. Starting from the 19th century, as a consequence of the emergence of modern states and of European influence, the religious experts
(‘ulamˉa’) who had traditionally guarded and transmitted sacred knowledge were increasingly marginalised. With the institution of modern schools
and courts, and other reforms carried out by colonial and post-colonial
governments, the ‘ulamˉa’, lost their monopoly over the sacred, and were
increasingly replaced by a new lay intelligentsia, who interpreted Islamic
doctrine as legislators, instructors and judges. The appropriation of religion
by lay intellectuals became evident in the 1970s and ’80s, when in some
Muslim countries lay judges referred to uncodified sharˉı ‘a to supplement,
and even contradict, statute law, and was later on accentuated by the new
media. Although traditional ‘ulamˉa’ have themselves resorted to modern
means of communication in order to spread their vision and consolidate
their role, the web has opened up new spaces for interpretations that differ
from both the classical doctrine and official Islam.
Web sites addressed to Muslim believers have acquired particular importance for the West during the Arab Spring and, later on, when it became
evident that they were used to recruit militants for the wars in Syria and
Iraq. The web, however, is increasingly used, often by self-taught believers
with no religious training, not just to mobilise the youth for political ends,
but also to provide moral guidance to Muslims immigrants in the West by
allowing them to adapt their faith to novel circumstances. The new media,
albeit creating a sense of common belonging, contribute to spreading different interpretations of Islam and to produce new, hybrid cultural products
which amplify the diversity which has always characterised Islam.
KEYWORDS: Islam, authority, internet, new media; Islamic law; fatwā.
1. Premessa
Negli ambienti wahhabiti e salafiti prevale la rappresentazione dell’Islam
come di una religione «semplice» (al-dˉın al-samˉıh),
∙ espressione con la quale,
alterando il senso che a questo termine era dato dalla tradizione classica,
si intende un credo facilmente comprensibile, che non richiede particolari
competenze e conoscenze e al quale, quindi, può avere accesso chiunque1.
La dottrina islamica, in realtà, è estremamente complessa: nata dalla sovrapposizione, durata alcuni secoli, di materiali di varia natura, riflette esigenze
1
Nella tradizione classica questa espressione, che si ritrova in vari hadˉ
. ıth, aveva il significato di tollerante e non vessatorio: Khaled M. Abou El Fadl, And God Knows the Soldiers. The
authoritative and authoritarian in Islamic discourse, University Press of America, LanhamNew York-Oxford, 2001, p. 26, nota 7. Si veda del resto, in relazione alle regole del digiuno,
che può essere sospeso e «recuperato», il versetto II:191: «Allah vuole per voi l’agio, non il
disagio».
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 5
e consuetudini diverse, che sono state convogliate in scuole interpretative
dialoganti ma parallele (i madhhab).
Il Corano stesso, che è la fonte principale dell’Islam, è un testo eterogeneo:
in esso si rinvengono diversi registri comunicativi e coesistono stili e contenuti diversi, la cui interpretazione è resa difficile dalla conoscenza incompleta
che abbiamo del contesto storico della rivelazione e della lingua araba del
tempo; le prescrizioni legali, per lo più originate dalla rivelazione medinese,
coesistono con i versetti immaginifici, ricchi di poesia della fase meccana. Il
testo stesso riconosce la coesistenza di parti «chiare» e parti allegoriche:
Egli è colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi,
che sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici (III:7).
Sulla questione se ci si debba limitare ad applicare il senso palese, oppure
tentare di accedere all’esoterico, vi sono stati ampli dibattiti nei primi secoli
dell’Islam, sfociati intorno al X secolo nella predominanza, tra i sunniti, di
un’esegesi letterale incentrata sui versetti prescrittivi della fase medinese. Il
testo è, così, vincolato alla sua espressione storica iniziale e affiancato ai comportamenti del Profeta (espressi nella sua Sunna) e all’autorità comunitaria
(ijmˉa‘) accumulata nei secoli formativi della dottrina classica. Il significato
dei versetti allegorici sarà spiegato, secondo questa esegesi, alla fine dei tempi, poiché tentare di comprenderli può indurre a travisare il volere divino:
come si legge nella seconda parte del citato III:7,
la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio [. Invece] gli
uomini di solida scienza diranno: Crediamo in questo Libro; esso viene
tutto dal Signore nostro! Ma su questo non meditano che gli uomini di
sano intelletto.
La traduzione di Bausani qui usata2 riflette l’interpretazione sunnita maggioritaria, che sarebbe stata motivata, secondo gli sciiti, dall’ostilità contro le
pretese alidi (dei seguaci, cioè, di ‘Ali, cugino e cognato di Muhammad) da
parte di ‘Uthman, che fece mettere per iscritto il testo sacro. Ma, non essendoci originariamente punteggiatura, il versetto potrebbe essere letto anche
in maniera diversa, a indicare che:
La vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio e gli uomini
di solida scienza. Essi diranno: Crediamo in questo Libro; esso viene tutto
dal Signore nostro!
2
Il Corano, Introduzione, trad. e commento di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1988.
6 Elisa Giunchi
Per la corrente imamita o duodecimana, quella maggioritaria tra gli sciiti,
il significato dei passaggi coranici esoterici, che racchiudono il senso profondo del messaggio divino, è quindi percepibile dagli «uomini di solida
scienza», che sarebbero gli imˉam e, dopo la scomparsa del dodicesimo imˉaˉ m,
i mujtahid. Per i sufi, l’esoterico è comprensibile per chi ha completato il
percorso mistico. In entrambi i casi, la comunicazione tra Dio e gli uomini
non si è interrotta con la morte di Muhammad.
La questione dell’interpretazione dei passaggi oscuri del Corano è strettamente legata a quella dell’autorità religiosa: se occorre limitarsi al senso
palese, si riconosce l’autorità esclusiva di chi lo custodisce e trasmette; ma
se l’esoterico può, o deve, essere interpretato, si apre (anche) uno spazio
alle figure che accedono al Vero attraverso modalità di conoscenza interiore
(misticismo) o spirituale (sciiti).
Ma, al di là delle funzioni che gli uomini «di solida scienza» (lett. gli uomini
radicati nella scienza -‘ilm) dovrebbero esercitare, non è chiaro chi debbano
essere queste figure. Il termine ‘ilm, nel Corano così come nella letteratura
classica, non ha una valenza esclusivamente religiosa. Così come non ha una
valenza religiosa il termine amr che si ritrova nel versetto secondo il quale
bisogna ubbidire non solo a Dio, ma anche «al suo messaggero e a quelli di
voi (minkum) che detengono l’autorità» (IV:59). Non è possibile determinare se si tratta, nell’intenzione di Allah, di sovrani, governanti o comandanti
militari, come è stato inteso dai molti giuristi classici, o da persone autorevoli, religiose e non, come hanno sostenuto molti riformisti, da Muhammad
Abduh (m. 1905) e Muhammad Rashid Rida (m. 1935) in poi. In ogni caso
il termine amr e quello amˉır («capo»), che si ritrova negli hadˉıth, neppure
secondo la dottrina classica si riferivano esclusivamente a figure religiose.
Più in generale, il testo non prevede in maniera inequivocabile specifiche
figure che custodiscano e trasmettano il suo significato palese o che siano
in grado di conoscere il senso nascosto. Nel Corano è per lo più Dio che si
rivolge gli uomini; talora è il suo Profeta Muhammad a parlare per conto di
Dio. Non vi è, né è prevista, altra forma di mediazione tra Dio e l’uomo. Il
testo sottolinea anzi in più punti che il rapporto tra Dio e l’uomo è diretto:
«In verità Noi creammo l’uomo, e sappiamo quel che gli sussurra l’anima
dentro, e siamo a lui più vicini che la vena grande del collo» (L:16).
Vi sono poi dei versetti, come LXXIV:31, che accennano all’impossibilità
di sapere chi sono i custodi del Vero:
e a custodi del fuoco abbiam costituito angeli solo, e del numero loro
facemmo tentazione per coloro che negan la fede, perché acquistin certezza quelli cui fu dato il Libro e aumenti al fede di coloro che credono,
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 7
e non dubitino quei che hanno ricevuto la Scrittura e i credenti perché
dicano quelli che hanno un morbo nel cuore e i negatori: «Che cosa mai
ha voluto dire Iddio con questa similitudine?». Così travia Iddio chi vuole
e guida chi vuole, e il numero degli eserciti del Signore non lo conosce che
Lui, e questo non è che monito per gli uomini.
Anche se si può tentare di diventare un soldato di Dio, non si saprà mai
con certezza di far parte di questa categoria, né si potrà con certezza attribuire ad altre persone questo ruolo. Un’interpretazione, questa, che si
accorda con l’accettazione delle divergenze in seno alla dottrina classica,
accettazione che implica l’impossibilità, come vedremo più avanti, di conoscere il significato ultimo del testo e quindi di imporre la propria visione
come l’unica legittima.
La natura del Corano, considerato nell’opinione maggioritaria sunnita,
sotto influenza asharita, parola di Dio (kalˉam Allˉah) e corrispondente a un
archetipo celeste, coeterno a Dio (la Umm al-kitˉab, la Madre del Libro, del
versetto III:7), contribuisce a limitare l’autorità terrena delle figure religiose
alla mera custodia di un testo intangibile, fuori da ogni interpretazione esoterica o storicista. Portando alle estreme conseguenze queste premesse, nella
storia dell’Islam diversi movimenti, dai Kharigiti al Takfir wal-Hijra, sono
arrivati a rifiutare qualsiasi autorità umana a favore dell’aderenza letterale
al testo sacro. Per i Mu’taziliti, una corrente teologica che ebbe un seguito
significativo solo per un breve periodo, tra il IX e il XII secolo, il Corano era
invece un atto divino e quindi un fenomeno di natura storica che in quanto
tale si adatta al linguaggio e alle metafore dei tempi e dei luoghi in cui viene
rivelato (e, secondo interpretazioni più recenti, in cui viene letto: il rapporto
tra testo e lettore rimane dialogico)3.
Le implicazioni sono naturalmente diversissime. Molti esponenti del
movimento riformista dall’Ottocento in poi avrebbero ripreso le teorie
mu’tazilite e per questa via promosso la riforma esegetica della dottrina
classica, ma sarebbero rimasti una minoranza. Va qui però sottolineato che
l’esegesi letteralista, per quanto predominante tra i sunniti, non rappresenta che una delle possibilità interpretative: non vi è, nell’Islam, un’autorità
apicale – individuale o istituzionale – che possa imporre la propria interpretazione. La maggioranza è il criterio dell’ortodossia. Anche nell’Islam sciita,
che ha sviluppato dopo il XVI secolo una gerarchia religiosa, al vertice ci
possono essere più marja‘ al-taqlˉıd (fonti di emulazione) e la figura di un
3
Si veda Nasr Abˉu Zayd, Islˉam e storia. Critica del discorso religioso, Bollati Boringhieri,
Torino 2002 [Critique du discours religieux, Actes sud, Arles 1999].
8 Elisa Giunchi
unico rahbar (guida) nell’architettura politica post-khomeinista costituisce
un adattamento pragmatico a esigenze politiche che non ha il consenso, soprattutto fuori all’Iran, di tutti i dotti sciiti.
2. Nascita delle figure religiose
Con la morte di Muhammad (632)4 e la conseguente, impetuosa espansione dell’Islam fuori dalla penisola araba, sorse la necessità di preservare
il testo coranico e controllarne il significato adattandolo a mutati contesti
e rispondendo quindi a nuove esigenze. Gli ‘ulamˉa’ (pl. di ‘ˉalim, sapiente,
da ‘ilm) – nel senso di ‘ulamˉa’ al-dˉın (dotti religiosi) – emersero come classe
«professionale», nelle vesti di qˉadˉ
∙ ı, muftˉı, imˉam, khatˉ
∙ ıb, faqˉıh, nel IX secolo.
Sebbene, soprattutto in ambito sunnita, non si siano mai strutturati in
una vera e propria chiesa e abbiano mantenuto un’organizzazione interna fluida e decentralizzata, il ruolo di quelli che da qui in poi chiameremo
semplicemente, adeguandoci all’uso corrente della parola, ‘ulamˉa’, è stato
centrale: per secoli sono stati gli unici ad avere accesso ai testi sacri e quindi
a essere legittimati a parlare in maniera autorevole di religione. La trasformazione del testo in una dottrina compiuta, soprattutto sul piano giuridico,
richiedeva l’elaborazione di tecniche interpretative e il ricorso a elementi
esterni. Perciò gli ‘ulamˉa’, nel mondo sunnita come in quello sciita, elaborarono tra il IX e l’XI secolo – attraverso l’ijtihˉad (letteralmente ‘sforzo’), ossia
l’interpretazione individuale delle fonti primarie –, una dottrina giuridica
sofisticata e, sfidando l’assolutismo politico-religioso inizialmente rivendicato dai califfi, divennero i custodi dell’ortodossia (nel senso, come si è detto,
di dottrina maggioritaria). Prima di occuparci del rapporto tra ‘ulamˉa’ e califfi occorre chiarire quest'ultimo termine.
Il termine khalˉıfa è usato con diverse accezioni nel testo coranico. In
II:30, khalˉıfa è riferito agli esseri umani
il tuo Signore disse agli angeli: «Ecco, io vi porrò sulla terra un mio vicario»:
l’uomo è qui rappresentato come superiore agli angeli, che sono contrari alla
sua creazione nella consapevolezza che «porterà la corruzione e spargerà il
sangue» sulla terra, mentre Iblˉıs (tradotto solitamene come Satana) si rifiu4
Nel saggio i nomi di persona e di istituti non sono traslitterati secondo le norme che sono
seguite, invece, per termini arabi attinenti alla sfera religiosa.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 9
terà addirittura di prostarsi davanti ad Adamo assurgendo a paradigma del
Male (Corano, II:34). In un altro versetto il termine khalˉıfa è riferito a una
sorta di governatore che gestisce il potere politico o, secondo molti esegeti
di epoca classica, alla più alta autorità politica, quella califfale. Rivolgendosi
a David, invitato a governare «bene», si dice:
O David! Noi ti abbiamo costituito vicario sulla terra: giudica dunque tra
gli uomini secondo verità e non seguire la passione che ti travierebbe dalla
Via di Dio… (XXXVIII: 26).
Una teorizzazione sistematica del potere, incentrata sulle prerogative del
khalˉıfa, avverrà nel mondo sunnita abbastanza tardi, nell’XI secolo, e prenderà atto della crisi del mondo islamico, attraversato da profonde tensioni
interne. Nella dottrina politica sunnita elaborata da al-Mawardi (m. 1058)
e al-Ghazali (m. 1111), il khalˉıfa, che è tale per designazione da parte di un
gruppo ristretto e persino di un solo «elettore», ha la funzione di proteggere
la comunità da attacchi esterni e assicurare l’ordine e la sicurezza, mentre
agli ‘ulamˉa’ si demanda l’applicazione e trasmissione del canone religioso.
Solo in questo senso limitato il ruolo del khalˉıfa è religioso, sebbene debba
essere dotato di ‘ilm in modo da poter esercitare l’ijtihˉad. Egli non è, a differenza dell’imˉam sciita, qualificato a esercitare alcuna esegesi dell’esoterico,
né conta la sua adesione intima alla fede5.
I califfi «ben guidati» (rˉashidˉun), che governarono tra la morte del
Profeta e l’VIII secolo, esercitarono in realtà una funzione prettamente religiosa, emettendo decreti che sarebbero entrati nella giurisprudenza islamica
(fiqh), in alcuni casi addirittura in contrasto con il dettato coranico6. Anche
il califfato dinastico non sarebbe stato inizialmente una carica puramente
politica: i califfi omayyadi (661-750) e i primi califfi abbasidi rivendicavano un’autorità anche religiosa in quanto «deputati di Dio» (khulafˉa’ Allˉah)
e non semplicemente khulafˉa’ al-rasˉul Allˉah (deputati dell’inviato di Dio)7.
L’esperienza del primo Islam califfale non è quindi del tutto dissimile dall’in5
H. Mikhail, Politics and Revelation. Mawardi and after, Edinburgh University Press,
Edinburgh, 1995.
6
Si pensi a questo proposito alle decisioni di ‘Umar sulla pena da comminare per il consumo di bevande alcooliche: il Corano lo vieta nei versetti cronologicamente posteriori, ma non
menziona alcuna pena. Sarà ‘Umar a imporre una punizione di ottanta frustate.
7
Patricia Crone e Martin Hinds, God’s Caliph. Religious authority in the first centuries of
Islam, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1986; Louise Marlow, Kings, prophets
and the ‘ulamˉa’ in Medieval Islamic advice literature, in «Studia Islamica», 81, 1995, pp. 101-120.
10 Elisa Giunchi
terpretazione imamita: la massima autorità era, per lo meno sotto i «ben
guidati», sia politica che religiosa, ed era religiosa non solo in senso esecutivo – far rispettare il dettato coranico e la Sunna attraverso gli ‘ulamˉa’
– ma anche in senso legislativo8. Si sarebbe trattato tuttavia di una breve fase
storica: già nella prima fase abbaside gli ‘ulamˉa’ sunniti avrebbero arginato
le pretese califfali, concentrando nelle proprie mani il ruolo di custodi della
sharˉı‘a che si era andata cristallizzando nei secoli precedenti. A ciò contribuì
l’enfasi da parte degli stessi califfi sulla Sunna profetica, con il fine di limitare i movimenti dissidenti che invocavano la tradizione (al-sunan) in senso
ampio, quale insieme di principi di giustizia radicati e seguiti da tempi immemori. Parallelamente la dottrina sciita acquisì alcune peculiarità, relative
in particolare alla legittimità religiosa, che portarono a una divaricazione
crescente tra sciismo e sunnismo9.
Dopo la prima fase abbaside, il rapporto tra gli ‘ulamˉa’ e le autorità politiche, il cui ruolo religioso era ormai diventato simbolico ed esecutivo, divenne
nel mondo sunnita un rapporto simbiotico. Mentre predicavano acquiescenza al califfo, chiamato a difendere i confini così come a proteggere lo status
quo interno da ogni fitna (dissidenza), anche religiosa, gli ‘ulamˉa’ esercitavano determinate funzioni religiose in sostanziale autonomia: controllavano
la trasmissione del sapere attraverso l’insegnamento nelle madrasa, i rituali
attraverso la moschea, e l’amministrazione della giustizia attraverso il qˉadˉ
∙ ı,
giudice monocratico nominato dal califfo che però era tenuto ad applicare
la sharˉı‘a e teoricamente rispondeva del proprio operato a Dio10. Emettendo
fatwˉa, gli ‘ulamˉa’ a ciò preposti – i muftˉı – svolgevano inoltre un’attività che
spesso era di natura legislativa, poiché innovavano il corpus giuridico alla
luce delle situazioni sulle quali erano chiamati ad esprimersi. Mentre alcuni trasmettevano opinioni pre-esistenti, traendole dai trattati di fiqh e dalle
raccolte di fatwˉa, altri infatti lavoravano sui testi sacri, dando vita a opinioni
nuove, che contribuivano a una dottrina in fieri. La responsabilità dei muftˉı,
che operavano sia in veste ufficiale sia privatamente, era in un certo senso
8
Si veda, tra i tanti testi a disposizione sull’argomento, Abdulaziz Sachedina, The Just
Ruler in Shi’te Islam. The comprehensive authority of the jurist in Imamite jurisprudence,
Oxford University Press, Oxford-New York 1988. Più in generale, sulla dottrina politica
sunnita e sciita pre-moderna, cfr. Ann K. Lambton, State and Government in Medieval Islam,
Oxford University Press, New York 1981.
9
Si veda a questo proposito Asma Afsaruddin, Excellence and Precedence. Medieval
Islamic discourse on legittimate leadership, Brill, Leiden 2002.
10
Si veda Muhammad Khalid Masud, David S. Powers e Rudolph Peters (a cura di),
Dispensing Justice in Islam: Qadis and their judgments, Brill, Leiden 2005.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 11
maggiore rispetto a quella dei giudici: le fatwˉa potevano regolare casi analoghi ed erano per questo raccolte e citate, anche nei trattati di fiqh, mentre le
sentenze, che nell’Islam non hanno valore vincolante per i giudizi successivi,
sarebbero state raccolte in maniera sistematica solo dal XVI secolo e raramente inglobate nei trattati dottrinali. Inoltre il muftˉı, che era interpellato da un
giudice, un’istituzione o un privato, si esprimeva anche su questioni escatologiche e rituali, coprendo quindi un ambito più ampio rispetto a quello del
giudice.
La fonte di legittimità dell’autorità religiosa non era solo la conoscenza
delle fonti religiose, ma anche la conoscenza interiore del Vero, ottenuta tramite il percorso mistico ed esplicitata verso l’esterno tramite miracoli e altre
espressioni di «santità»11. Lo ‘ˉalim era affiancato dallo shaykh sufi e spesso
le due figure coincidevano: non vi era una distinzione netta tra diversi tipi di
autorità religiosa. Il percorso mistico e l’osservanza della sharˉı‘a non costituivano peraltro, per lo meno secondo il sufismo più «ortodosso», cammini
alternativi, ma complementari.
Neppure la distinzione di ruoli tra autorità religiosa nel suo insieme e
potere politico era rigida: i sovrani, fossero essi califfi o sultani, pur formalmente aderendo alla legge sacra così come era definita dagli ‘ulamˉa’,
emanavano decreti e li applicavano tramite tribunali non religiosi, su aspetti
non regolati dal diritto islamico, inerenti per lo più alla sfera del commercio,
ma anche su questioni che erano oggetto di elaborate regole sciaraitiche, ad
esempio in ambito penale. I qˉadˉ
. ı, che operavano all’interno di un sistema che
non prevedeva il grado di appello, potevano essere contraddetti dai tribunali mazˉ
.alim o siyˉasa, nei quali il califfo o i suoi deputati decidevano senza
violare la sharˉı‘a ma per lo più in base all’etica prevalente e alle consuetudini. Ad assumere funzioni giudiziarie vi era anche la shurta,
. una sorta di
polizia istituita sotto gli Omayyadi, e il muhtasib,
nominato
dal
califfo o dal
.
sultano a partire dal primo periodo abbaside. Il muhtasib
era
responsabile
.
soprattutto del controllo del mercato e dei prezzi e della moralità pubblica, in sovrapposizione talora con la shurta,
. e agiva sulla base di pratiche
consuetudinarie12.
11
Tra i tanti testi sull’autorità nel sufismo in contesti specifici si consiglia Vincent J. Cornell,
Realm of the Saint. Power and authority in Moroccan Sufism, University of Texas Press, Austin
TX 1998.
12
Sami Zubaida, Law and Power in the Islamic World, I.B. Tauris, London-New York
2003, pp. 51-60. Si veda su Aleppo del XVIII secolo lo studio di Abraham Marcus, The
Middle East on the Eve of Modernity: Aleppo in the Eighteenth century, Columbia University
Press, New York 1989, pp. 101-120.
12 Elisa Giunchi
Nella risoluzione delle controversie inerenti alla sfera privata le figure
religiose erano per lo più sostituite da assemblee di villaggio o da individui
che, in virtù di qualità particolari, di natura socio-economica o carismatica,
esercitavano attività di mediazione. Alcuni, gli ashrˉaf («nobili»), costituivano
una sorta di nobilità legata alla discendenza dal Profeta o da ‘Ali, attraverso
una costruzione spesso mitica della genealogia13. Insomma, l’ambito giuridico e quello giudiziario non erano di esclusiva competenza degli ‘ulamˉa’,
anche se il potere politico formalmente rispettava la preminenza della
sharˉı‘a e consegnava la sua definizione ai «dotti religiosi». La stessa autorità
religiosa era sfidata da predicatori e cantastorie, i cui racconti erano talora
dissonanti riespetto al canone14.
Dagli Abbasidi in poi non ci sarebbe mai stata nel mondo sunnita, se non
in circostanze e periodi limitati, un’unione di «religione e Stato» (dˉın wa
dawla)15, ma le autorità religiose e quelle politiche non sarebbero state neppure del tutto impermeabili e autonome. La religione non fu sottomessa allo
Stato, contrariamente a quanto tanti studiosi, come Nazih Ayubi16, hanno
sostenuto, e anzi i suoi esponenti fornirono spesso simboli, regole e, talora,
leadership alla mobilitazione popolare contro i governanti.
A erodere l’autonomia degli ‘ulamˉa’ contribuì in alcuni contesti, ad esempio nell’Impero Ottomano dal XVII secolo, la trasformazione dei vertici
religiosi in un’aristocrazia, in cui alcuni posti erano acquistati, o trasmessi di
padre in figlio, dalle famiglie più in vista. Le autorità politiche con il passare
del tempo cercarono inoltre di controllare lo strumento dell’iftˉa’ (l’atto di
fornire fatwˉa), designando giuristi che, all’interno di dipartimenti istituiti
appositamente, emanassero pareri legali sotto il controllo centrale. Si creò
così un iftˉa’ legato al potere politico e acquisciente alle sue scelte, che oggi
sopravvive in diversi Paesi nell’istituto del muftˉı di Stato, o Grand Muftˉı,
13
Sulle gerarchie sociali nelle società musulmane si vedano R. Mottahedeh, Loyalty and
Leadership in an Early Islamic Society, II edizione, I.B. Tauris, London 2001 (principalmente sull’Iran occidentale e meridionale nel X e XI secolo) e Louise Marlow, Hierarchy and
Egalitarianism in Islamic Thought, Cambridge University Press, Cambridge 2002.
14
Si veda a questo propostio Jonathan P. Berkey, Popular Preaching and Religious Authority
in the Medieval Islamic Near East, University of Washington Press, Seattle-London 2001.
15
Si usano qui le virgolette poiché tradurre dˉın con religione è una forzatura semantica:
come osserva Campanini, «religione» è un termine carico di valenze culturali occidentali,
che non riflette il significato ben più ampio, relativo al vivere associato e alle sue regole,
che il termine arabo aveva originariamente: Massimo Campanini, Islam e politica, Il Mulino,
Bologna 1999, p. 28. Il termine dawla, che originariamente indicava la dinastia, è oggi usato
per indicare lo Stato e, talora, il governo.
16
Cfr. ad esempio Niyaz Ayubi, Political Islam, Routledge, London-New York 1991.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 13
destinato a coesistere con un iftˉa’ indipendente, esercitato da giuristi esterni
al palazzo. Infine, la dicotomia tra potere politico e autorità religiosa sarebbe
stata ammorbidita dal ruolo politico che ‘ulamˉa’ e shaykh esercitarono, soprattutto in aree e periodi in cui il controllo centrale era debole, non di rado
trasformandosi in movimenti armati (dalla Safawiyya, all’origine dell’Impero
Safavide, alla Senusiyya, che avrebbe resistito all’occupazione italiana della
Libia) e più recentemente in partiti politici.
Un discorso a parte meriterebbe la questione dell’autorità religiosa nello
sciismo. Riassumendo una questione ben più complessa, va qui ricordato
che per la corrente imamita la guida politica della comunità, che deve appartenere al ramo husainide della famiglia di ‘Ali, ha la capacità di accedere
al senso nascosto della Rivelazione: l’imˉam ha quindi funzioni più ampie
rispetto al califfo. E, a differenza del califfo, è investito di un’aurea di sacralità, poiché, oltre a essere in comunicazione con Dio, è infallibile. La teoria
dell’occultamento del dodicesimo imam nel IX secolo smorzò le implicazioni dirompenti di questa dottrina in un mondo musulmano che era dominato
numericamente e politicamente dai sunniti. Fino al ritorno dell’imˉam nascosto il potere politico, per la dottrina classica imamita, era da considerarsi
illegittimo e ai fuqahˉa’ (giuristi) sciiti venivano demandate solo alcune delle
sue funzioni, quelle più prettamente religiose. La divaricazione tra potere
spirituale e politico si sarebbe ricomposta solo alla fine dei tempi, con il
ritorno del dodicesimo imˉam. L’ambito di azione dei fuqahˉa’ sciiti si allargò
progressivamente sotto i Safavidi e poi i Qajar, parallelamente all’elaborazione di una struttura gerarchica. Facendo leva sulle proprie prerogative
dottrinali e su una crescente indipendenza economica, essi avrebbero assunto via via un ruolo sempre più politico, che culminerà nell’elaborazione della
dottrina del wilāyat al-faq¯ıh, governo del giurista, negli anni ’60 e ’70 del
Novecento. Che si aderisca o meno a questa dottrina, secondo la quale deve
governare il giurista più autorevole, è da tutti condiviso il principio secondo
cui i fedeli sono tenuti a fare riferimento ai mujtahid più autorevoli – i marja‘
e-taqlˉıd – che siano in vita. Nella dottrina sciita si ritrovano alcuni elementi
di flessibilità che sono estranei al sunnismo: innanzitutto, l’idea che il significato esoterico del Corano possa essere conosciuto dai mujtahid tiene aperta
la comunicazione tra Dio e l’uomo, che per i sunniti, se si escludono le teorie sufi sui santi e l’intercessione, si è chiusa definitivamente con la morte
di Muhammad. In secondo luogo, l’obbligo per i fedeli sciiti di seguire le
indicazioni dei mujtahid viventi indebolisce l’autorevolezza del consenso dei
dotti (ijma‘) che costituisce una fonte importante del diritto sunnita, permettendo un più facile adeguamento a circostanze nuove.
14 Elisa Giunchi
3. La pluralità del fiqh
Le differenze dottrinali interne all’Islam non riguardavano solo la dicotomia sunnita-sciita. In parte come conseguenza della mancanza di un’autorità
apicale, lo stesso fiqh sunnita era plurale: vi erano differenze tra le varie
scuole regionali (madhhab) che si erano formate tra l’VIII e il IX secolo e
all’interno di una stessa scuola. Quella hanafita, in particolare, raccoglieva l’apporto di studiosi diversi, in primis il fondatore Abu Hanifa e i suoi
discepoli Abu Yusuf e Muhammad al-Shaybani, che dissentivano dal loro
maestro su numerosissime questioni. Tutte le opinioni erano legittime purché non violassero i principi fondamentali dell’Islam, oggetto di testi coranici
«chiari» e di ijmˉa‘, e purché fossero argomentate all’interno di una determinata cornice discorsiva, morale e metodologica che era condivisa da tutti i
madhhab. Il fiqh non forniva «la» soluzione, ma indicava i ragionamenti e
strumenti metodologici per arrivare ad una soluzione che doveva necessariamente, per essere giusta, variare a seconda delle circostanze specifiche.
Secondo un hadˉ
. ıth (tradizione canonica circa un detto o un fatto attribuito
al Profeta) «Ogni mujtahid [colui che pratica l’ijtihˉad] ha ragione» anche se
la Verità ultima non la conosce che Dio: ciò che importa è lo sforzo (jihˉaˉ d,
da cui ijtihˉaˉ d), non l’esito17.
Il qˉaˉ dˉ
. ı, immerso in un contesto che conosceva, applicava l’opinione che
riteneva più consona ad assicurare la giustizia in una determinata situazione,
tenendo presenti le specificità del caso e delle parti18. Il muftˉı, anche quando
non conosceva personalmente colui che l’interpellava, conosceva le usanze
locali e in base ad esse sceglieva tra le varie opinioni quella preferibile. Non
si trattava tuttavia di mero arbitrio, come credevano gli orientalisti europei:
il giudice e il muftˉı non erano guidati dal capriccio, ma decidevano sulla base
di principi e obiettivi condivisi e senza violare certe premesse comuni.
Lo sviluppo della dottrina classica sunnita subirà una prima battuta d’arresto con «la chiusura della porta dell’ijtihˉad», vale a dire quando si diffuse
17
Tanto che «se un interprete ha ragione riceve due compensi; se ha torto ne riceve uno»:
Muhammad Khalid Masud, Brinkley Messick, David S. Powers, Muftis, fatwa, and Islamic
legal interpretation, in Muhammad Khalid Masud, Brinkley Messick, David Powers (a cura
di), Islamic Legal Interpretation. Mufts and their fatwas, Harvard University Press, Cambridge
MA-London 1996, p. 16.
18
Promuovere la giustizia (‘adl) significava, come attestano numerosi testi di epoca classica, proteggere i più deboli senza sovvertire lo status quo e non imporre l’uguaglianza laddove
vi era diseguaglianza: si trattava di una visione non dissimile, in questo senso, dal concetto
aristotelico di giustizia.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 15
tra gli ‘ulamˉa’ sunniti la convinzione, nell’XI-XII secolo, che il processo di elaborazione dottrinale fosse giunto al termine e che si dovesse seguire quanto
era già stato deciso, praticando cioè il taqlˉıd (imitazione). Questa posizione
emerse in una situazione caratterizzata dalle invasioni di popoli centro-asiatici
e dalla crisi dell’autorità califfale, già dal X secolo posta sotto tutela di forze
militari turche e caspiche, e rifletteva probabilmente la ricerca di una identità
culturale da opporre alla realtà della frammentazione politica. Diversi autori
hanno messo in luce negli ultimi decenni che la chiusura, diversamente da
quanto sostenuto in passato da autori come Schacht19, non fu mai né condivisa
da tutti gli studiosi né reale20. Il mondo sciita e sufi rimasero estranei all’idea
della chiusura, che contraddiceva il ruolo dei «mujtahid viventi» e dei santi.
Le argomentazioni degli ‘ulamˉa’ hanafiti e malikiti secondo i quali non esistevano più mujtahid erano contestate all’interno dello stesso mondo sunnita; gli
hanbaliti, in particolare, ritenevano che l’ijtihˉad rimanesse un fard. kifˉaˉ ya (dovere religioso) dei dotti, che la dovevano praticare per conto della comunità.
L’evoluzione dottrinale in ogni caso continuò nei secoli successivi, per lo
più attraverso sentenze e fatwˉa, pur senza cancellare la legittimità del substrato
precedente. Si trattava, infatti, di un processo cumulativo: i nuovi pareri legali,
quando contraddicevano pareri precedenti, non li sostituivano, ma li affiancavano – e tutti erano, come si è detto, ugualmente legittimi. Ciò che determinava
l’opinione migliore (verosimilmente migliore, poiché la verità non la conosce
che Dio) era il contesto e le specificità del caso al quale venivano applicate. La
giustizia non era bendata; anzi, per essere giusta, doveva avere un’ottima vista.
4. Codificazione e prassi giudiziaria
A limitare la pluralità della dottrina e la sua natura incrementale e dialettica non sarà tanto la chiusura della porta dell’ijtihˉad, che come si è visto
è stata parziale, quanto la formazione di imperi moderni (con l’esigenza di
uniformare e controllare i sudditi) e la colonizzazione (con l’influenza del
diritto positivo di stampo occidentale), che costituirà una vera e propria
19
20
Joseph Schacht, An introduction to Islamic Law, Clarendon Press, Oxford 1984.
Wael Hallaq, A History of Islamic Legal Theories: An introduction to Sunni usul al-fiqh,
Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 143-61; Wael Hallaq, Was the gate of ijthad closed?, in «International Journal of Middle East Studies», 16, 1, 1984, pp. 5-26.
16 Elisa Giunchi
«rottura discorsiva»21. In particolare, la codificazione, che in materie di
statuto personale iniziò nel 1917 con la Legge Ottomana dei Diritti della
Famiglia, comportava una semplificazione della dottrina islamica: le commissioni preposte all’elaborazione di testi giuridici, composte per lo più da
laici, scelsero dal fiqh alcune opinioni, trasformandole in norme astratte e
inelastiche, ne tralasciarono altre e introdussero nuovi concetti, procedure
e vincoli, pur rispettando gli istituti più caratterizzanti della sharˉı‘a classica,
quali il ripudio e la poligamia. Nel mondo sciita, in cui in teoria i fedeli sarebbero tenuti a seguire un marjā´ e-taqlı̄d vivente, la codificazione ha avuto
il medesimo risultato, quello di «ingabbiare» una dottrina complessa e variegata in clausole rigide, frenando la reinteptretazione dei testi sacri. Ma
sebbene si limitasse, attraverso questo processo di scelta, la discrezionalità
del qˉadˉ
∙ ı, i codici prevedevano, e prevedono tutt’ora, che un determinato
madhhab costituisca il diritto residuale. Sarà attraverso questa «crepa» che
a partire dagli anni ’70 del Novecento, con il revivalismo religioso che toccherà tutto il mondo musulmano, il giudice «uscirà» dal codice: ritornerà
alla vastità della dottrina classica e praticherà l’ijtihˉad per riempire vuoti
normativi, chiarire il significato di alcuni termini o addirittura, in alcuni casi,
sostituirà il diritto vigente con norme non scritte, assumendo un ruolo semilegislativo, talora in contrapposizione all’esecutivo.
Lo studio della prassi giudiziaria nel mondo musulmano, a lungo trascurata dalla letteratura accademica, più interessata ai testi legislativi o ai
trattati di fiqh, è interessante per vari motivi: innanzitutto, i casi giudiziari
forniscono informazioni preziose sulla società, sui motivi per cui le parti
ricorrono al canale formale e sulle strategie discorsive perseguite dalle parti per massimizzare i propri interessi. Diversi studi rivelano, ad esempio,
che nei paesi musulmani le donne sanno avvantaggiarsi delle forme di tutela previste dall’ordinamento per rinegoziare il matrimonio secondo termini
maggiormente favorevoli, per ampliare i propri diritti o per tutelare la propria posizione22. Queste dinamiche si ritrovano anche presso le comunità
musulmane in Occidente. Qui il diritto vigente riconosce alle donne nuovi
diritti sulla base del principio dell’uguaglianza tra coniugi, ma le priva anche, sempre in nome dell’uguaglianza, di alcuni privilegi, come quello del
diritto al mantenimento e del mahr («dote» dovuta dal marito o dalla sua
famiglia alla moglie). Il paese di immigrazione priva inoltre gli atti giuridici
21
Brinkley Messick, The Calligraphic State: Textual domination and history in a Muslim
society, University of California Press, Berkeley 1993.
22
Si veda ad esempio Ziba Mir-Hosseini, Marriage on Trial: A study of Islamic family law.
Iran and Morocco Compared, I.B. Tauris, London 1993.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 17
– divorzi e matrimoni in primis – del riconoscimento sociale che deriverebbe dalla loro legittimità religiosa. Si comprende allora il ruolo giocato dai
consigli sciaraitici (noti con il nome inglese sharˉı‘a council), che in vari paesi
occidentali mediano tra coniugi di fede musulmana fornendo alle donne la
possibilità di ottenere dei diritti che, per quanto spesso limitati rispetto a
quelli di cui godono i loro mariti e rispetto a quelli riconosciuti dal paese
di residenza, sono accettati dalla comunità islamica e quindi psicologicamente preferibili rispetto a soluzioni fornite da uno Stato percepito come
culturalmente estraneo. Ma, più che scelta tra due sistemi normativi, si
ha un continuo passaggio dall’uno all’altro: Pascale Fournier racconta, ad
esempio, che le donne e gli uomini musulmani intervistati in Canada «flirtano con Dio» rivolgendosi ai consigli sciaraitici e al contempo a canali
ufficiali e, quindi, secolari per ottimizzare i propri interessi23: sono, come
li definisce Ballard, «skilled legal navigators»24 che passano da un sistema
normativo all’altro e danno vita a intricate combinazioni di precetti religiosi, consuetudini e sistemi giuridici dei paesi di provenienza e del paese
di residenza, con l’effetto di trasformare il proprio «meticciato culturale»
in un vantaggio.
La capacità delle donne di tutelare e in alcuni casi di estendere i propri
diritti all’interno di una cornice legale e sociale che, nella maggioranza di
paesi musulmani, così come nel contesto dei consigli sciaraitici europei, è
comunque asimmetrica, dipende dall’atteggiamento dei giudici e, rispettivamente, degli imˉam. Le trascrizioni dei casi giudiziari, oltre a darci uno
spaccato di realtà sociale, ci forniscono anche informazioni sull’orientamento dei giudici, la loro interpretazione del diritto e i riflessi di genere di
questa interpretazione. Alcuni studi rivelano, ad esempio, che i giudici che
si occupano di questioni familiari applicano un concetto di giustizia che,
in linea con una lunga tradizione, è imperniato sull’equivalenza, sui doveri
reciproci e sul rispetto per le regole del gioco25. Ciò significa che gli abusi
più evidenti sono corretti e i settori più deboli della società tutelati, ma
che non si sovverte l’ordine gerarchico della famiglia e del più vasto contesto sociale. In Pakistan, ad esempio, da una parte, la cornice discorsiva
23
Pascale Fournier, Please divorce me! Subversive agency, resistance and gendered religious
script, in Elisa Giunchi (a cura di), Muslim Family Law in Western Courts, Routledge, London
2014, pp. 32-54.
24
Roger Ballard (a cura di), Desh Pardesh: The South Asian presence in Britain, Hurst,
London 1994.
25
Lawrence Rosen, The Justice of Islam. Comparative perspectives on Islamic law and society, Oxford University Press, Oxford 2000, p. 121.
18 Elisa Giunchi
è spesso gerarchica e si penalizzano le donne che mostrano un’eccessiva
autonomia, ma dall’altra si puniscono abusi e si avanzano spesso nuovi
diritti e tutele per la donna, non previsti dalla legge, non di rado facendo
ricorso alla sharˉı ‘a stessa26.
Ciò avviene attraverso il riferimento al fiqh, spaziando da una scuola
all’altra (takhayyur) e tramite l’ijtihˉad, che permette di leggere il Corano secondo un approccio neo-tradizionalista (si ritorna al significato letterale dei
versetti medinesi) o modernista (si invocano principi di non discriminazione
e giustizia da ritrovare nei versetti meccani). I riflessi di genere saranno diversi: nel primo caso la struttura asimmetrica del matrimonio tende a essere
confermata, mentre nel secondo è superata in nome dello spirito coranico.
L’attivismo giudiziario di matrice religiosa è più pronunciato in alcuni
paesi che in altri. In Pakistan questo fenomeno è particolarmente accentuato: la sua magistratura a partire dagli anni ’80 ha non solo fatto ricorso
alla sharˉı‘a per questioni tralasciate o non trattate in modo esaustivo nei
testi di legge, ma persino disatteso alcune norme del diritto di famiglia vigente, considerate non «autentiche» e sostituite con norme tratte da fonti
non codificate. Ciò è avvenuto soprattutto in tema di nikˉah. (matrimonio) e
.talˉaq (ripudio), la cui registrazione è prevista dall’Ordinanza sul Diritto di
Famiglia Musulmano (d’ora in poi MFLO) del 1961 ma raramente osservata, soprattutto nelle aree rurali e tribali.
Già nei decenni precedenti, le corti superiori pakistane avevano rivendicato il diritto a praticare l’ijtihˉad facendo riferimento alla Risoluzione sugli
Obiettivi adottata dall’Assemblea Costituente nel 1949, in cui si dichiarava
che ai musulmani doveva essere permesso di vivere secondo i precetti del
Corano e della Sunna, e alla Repugnancy clause introdotta nella Costituzione
del ’56, secondo la quale nessuna legge poteva contravvenire alle «ingiunzioni
islamiche contenute nel sacro Corano e nella Sunna». Il compito di controllare l’islamicità delle leggi veniva demandato tuttavia non ai tribunali, ma a
un comitato consultivo che avrebbe dovuto riferire al Parlamento. I giudici,
di formazione modernista, in alcuni casi decisero di estendere ulteriormente
i diritti riconosciuti alle donne dalla MFLO facendo riferimento al Corano
stesso. Negli anni ’70, sotto l’influenza crescente del fondamentalismo, lo
spazio riconosciuto alla sharˉı‘a in sede giudiziale aumentò gradualmente,
portando addirittura, come si è detto, alla sostituzione di norme vigenti con26
Elisa Giunchi, Radicalismo islamico e condizione femminile in Pakistan, L’Harmattan
Italia, Torino 1999; Karin Çarmit Yefet, The Constitution and female-initiated divorce in
Pakistan: Western liberalism in Islamic garb, in «Harvard Hournal of Law & Gender», 35, 1,
2012, pp. 553-615.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 19
siderate non del tutto islamiche. Questa tendenza si sarebbe accentuata nel
decennio successivo, soprattutto in seguito all’adozione nel 1985 dell’Ottavo emendamento, che rendeva la Risoluzione sugli Obiettivi parte integrante
della Costituzione.
Secondo un’interpretazione che divenne prevalente nelle Alte Corti
nel corso degli anni successivi, ciò significava che la sharˉı‘a costituiva un
sistema normativo superiore al diritto vigente e che i tribunali potevano applicare direttamente una norma di diritto islamico in sostituzione di una
norma positiva di origine occidentale considerata non conforme all’Islam.
Gradualmente, a partire dai primi anni ’90, la tendenza a disattendere alcune norme dell’Ordinanza si sarebbe fatta strada anche nelle corti d’appello
islamiche, creando una sorta di diritto parallelo, senza però che si arrivasse
a considerare le norme scritte non valide tout court.
Mentre prima degli anni ’70 il riferimento alla sharˉı‘a aveva permesso
di confermare e ampliare i diritti riconosciuti alla donna dalla MFLO, nel
periodo successivo, che vede la progressiva entrata nella magistratura di
elementi filo-fondamentalisti, la giurisprudenza rivela un atteggiamento più
diversificato. I giudici, facendo riferimento a fonti diverse e interpretandole
in maniera diversa, sono da allora arrivati a risultati molto diversi e talora
opposti pur decidendo su casi simili, erodendo il principio dello stare decisis
che il sistema giuridico pakistano ha mutuato da quello britannico ma che è
estraneo al fiqh27.
Occorre qui fare una precisazione: si è detto che i giudici, al pari dei
legislatori, praticano il takhayyur e l’ijtihˉad. Si tratta di metodi che, pur appartenendo alla dottrina classica, sono radicalmente trasformati: ad esempio,
l’ijtihˉad dei giudici contemporanei, che in teoria dovrebbe essere praticata
solo su questioni sulle quali non vi è consenso, ignora l’ijmˉa‘ e altera, quindi, la costruzione giuridica classica pur facendo ad essa riferimento; ed è
su questo ijtihˉad «illimitato», non sull’ijtihˉad di per sé, che si concentra la
critica dei settori religiosi tradizionali28. Anche il principio di masla
. ha
. (bene
pubblico), presente, per quanto marginale, nell’Islam classico, è evocato anche quando il suo legame con i testi sacri è tenue, mentre dovrebbe essere
subordinato alle fonti principali.
Va poi sottolineato – ed è questa la questione che più qui ci interessa – che
né l’ijtihˉad né il takhayyur sono praticati da persone che, secondo la teoria
islamica classica, sarebbero qualificate a farlo. I giudici che invocano e ap27
28
Elisa Giunchi, Radicalismo islamico e condizione femminile in Pakistan, cit..
Muhammad Qasim Zaman, Religious discourse and the public sphere in contemporary
Pakistan, in «Revue des mondes musulans et de la Méditerranée», 123, juillet 2008, par 10.
20 Elisa Giunchi
plicano la sharˉı ‘a non codificata sono per lo più giudici laici, che escono da
facoltà di giurisprudenza con un curriculum di matrice occidentale e sono
privi delle caratteristiche dei mujtahid, tra le quali va annoverata la conoscenza approfondita della dottrina (Corano, Sunna, biografia del Profeta e
dei trasmettitori, fiqh, lingua araba) e del contesto: oggi il giudice-mujtahid
è un «uomo di conoscenza» sì, ma non religiosa, un ‘alˉım e non un ‘alˉım
al-dˉın.
Il tipo di preparazione dei giudici laici spiega come mai si appellino soprattutto all’ijtihˉad: quest’ultima, che è ormai scollegata dall’ijmˉa ‘ classica,
non risponde solo alla tendenza, manifestatasi dalla fine dell’Ottocento in poi,
a cercare le radici «autentiche» della religione, la sua essenza, travalicando la
tradizione che si è accumulata nei secoli, ma permette di usare una «cassetta
degli attrezzi» relativamente semplice, a portata di tutti – il Corano e le raccolte canoniche della Sunna – tralasciando il fiqh, la cui vastità non è facilmente
abbordabile da chi non ha una preparazione religiosa approfondita.
Cosa succede invece in quei paesi – come le monarchie del Golfo, il
Libano, l’Iran –, in cui i giudici, per lo meno in materie di statuto personale,
sono figure religiose? Le scarse ricerche sulla prassi giudiziaria indicano che
i qˉaˉ dˉ
. ı – chiamati in alcuni contesti shaykh o hˉ
∙ aˉ kim – tendono ad applicare la
legge codificata, salvo in alcuni casi far riferimento al proprio madhhab. In
ambito sciita l’enfasi sull’«ijtihˉaˉ d dei viventi» si contrappone alla reverenza
sunnita per l’ijmˉa‘ delle generazioni precedenti, ma raramente questa peculiarità è usata per innovare. Nella prassi, poi, questa distinzione è sfumata: in
Iran e nei tribunali sciaraitici sciiti del Libano i giudici fanno sì riferimento,
nei casi in cui devono colmare lacune legislative o chiarire alcune norme o
termini, alle opinioni di un mujtahid vivente della propria scuola ma, pur
non essendo teoricamente vincolati all’ijtihˉaˉ d dei predecessori, ricorrono
spesso a opere di mujtahid del passato29.
5. L’emarginazione degli ‘ulamˉa’
L’appropriazione del sacro da parte di giudici privi di formazione religiosa
costituisce l’apice di un processo di progressiva emarginazione degli ‘ulamˉa’
e di dispersione della loro autorità religiosa che è iniziato nella seconda metà
29
Sul Libano si veda Morgan Clarke, Shari‘a courts and Muslim family law in Lebanon, in
Elisa Giunchi (a cura di), Adjudicating Family Law in Muslim Courts, Routledge, Abingdon
2013, pp. 32-47.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 21
dell’Ottocento, con l’istituzione di tribunali e scuole moderne che esautorarono i dotti religiosi dalle loro tradizionali funzioni; a ciò ha contribuito
il riformismo, che nelle sue varie accezioni invitava i credenti a prendere in
mano le fonti primarie senza l’intermediazione degli ‘ulamˉa’ e criticava il
quietismo delle figure religiose tradizionali, accusate di avere favorito la decadenza del mondo musulmano. Un’accusa, questa, che ha preso piede nel
contesto dello sviluppo, da Jamal al-Din al-Afghani (m. 1897) in poi, di una
concezione attivistica della religione. Più che le credenziali legate al sapere
religioso conta l’impegno30: il buon musulmano non si limita ad osservare
nel privato le prescrizioni tramandate dagli ‘ulamˉa’, ma «si dà da fare» per
trasformare la società secondo l’ideale rappresentato dalle prescrizioni religiose. Chiunque può conoscerle e tentare di applicarle: la scolarizzazione di
massa, la stampa e la traduzione di testi religiosi arabi in lingue nazionali,
fanno sì circolare le idee degli ‘ulamˉa’, ma rendono accessibile e intellegibile
il sapere religioso anche a un pubblico più vasto e contribuiscono così alla
nascita di nuove élites laiche che parlano di religione, di «nuovi intellettuali religiosi»31 la cui terminologia e bagaglio concettuale sono radicati nella
loro tradizione, formata essa stessa da «molteplici temporalità»32, ma anche
nell’Occidente. Questi intellettuali appartengono per lo più all’ambito urbano e a classi medie urbane istruite, mentre gli ‘ulamˉa’ rappresentano in molti
contesti i ceti mercantili e i commercianti, e gli shaykh le comunità rurali.
Non si contrappongono quindi solo riferimenti religiosi diversi, ma interessi
divergenti, sebbene alcuni processi, in primis l’oggettivizzazione della religione, abbiano investito tutti questi ambiti.
La scolarizzazione in scuole di Stato, fuori dalle madrasa, ha un effetto
dirompente e ancora poco studiato: alla relazione diretta tra insegnante e
alunno, basata sull’oralità ed espressione di un isnˉad (serie, in linea ascensionale, dei trasmettitori di una tradizione) analogo a quello che ha dato vita
alle raccolte di hadˉ
. ıtˉıh, si sostituisce la relazione impersonale tra il testo e il
lettore, erodendo quello spazio di mediazione che, inesistente nel Corano,
si era tuttavia creato attraverso i secoli. L’Islam nelle scuole statali diventa
una materia tra le tante e ciò contribuisce a definirla come un oggetto a sé
stante, segnando la trasformazione della religione da un vissuto a un sistema
oggettivo, che in quanto tale deve essere semplificato. Si completa così il
30
Francis Robinson, Islam and the impact of print, in «Modern Asian Studies», 27, 1993, p. 245.
31
Dale F. Eickelman e James P. Piscatori, Muslim Politics, Princeton University Press,
Princeton NJ 1996, p. 13.
32
Cfr. a questo proposito Talal Asad, Formations of the Secular. Christianity, Islam, modernity, Stanford University Press, Stanford CA 2003, pp. 221-223.
22 Elisa Giunchi
processo iniziato con la codificazione: per insegnare in poche ore una religione, così come per racchiuderla in un codice, bisogna sfrondarla di ciò
che appare superfluo o irrilevante, scegliere cosa la definisce e soprattutto
renderla sistematica e coerente, facendole perdere quell’eterogeneità che
aveva caratterizzato l’Islam classico. La semplificazione dell’Islam partecipa
a un processo di omogeneizzazione che caratterizza anche le altre religioni:
tutte sono ricostruite secondo determinate caratteristiche riconoscibili, e per
questa via rese simili, in un processo che sarà accelerato dal multiculturalismo. Sarà possibile così la coesistenza fra religioni con uguali diritti e la
partecipazione al «dialogo tra civiltà», proprio perché le diversità sono state
addomesticate e incanalate in tratti comuni.
Per effetto dei processi descritti in queste pagine gli ‘ulamˉa’ perdono il
monopolio della produzione e disseminazione del discorso religioso, mentre
lo Stato li trasforma in impiegati statali, o li relega ai rituali; parallelamente,
come si è visto, il sapere religioso viene ridefinito in testi di legge elaborati
dallo Stato e la cui applicazione è controllata dallo Stato. Dagli anni ’70 il
fenomeno fondamentalista approfondirà il processo di emarginazione degli
‘ulamˉa’: il misticismo e la tradizione giuridica sono percepiti dagli esponenti
dell’Islam politico come una corruzione del messaggio originario, sebbene
alcuni capisaldi della dottrina classica, come il rapporto tra le fonti e l’esegesi
letterale, siano assorbiti. Gli esponenti fondamentalisti, che per lo più sono
«nuovi intellettuali religiosi» senza alcuna conoscenza approfondita del fiqh,
disprezzano i custodi della dottrina classica, facendo proprie le critiche già
avanzate dal riformismo ottocentesco: troppo impegnati in elucubrazioni
astratte, gli ‘ulamˉa’ avrebbero perso di vista la vera fede; sono i «demagoghi
barbuti», come li chiamerà ‘Ali Shariati (m. 1977)33, che hanno preferito lo
studio all’impegno, e si sono compromessi con autorità politiche nominalmente musulmane ma, in realtà, empie.
Il Corano – scriverà Abu’l A’la Mawdudi, uno dei principali ideologhi
dell’Islam politico –, non è un libro di teorie astratte o di fredde dottrine
che il lettore può intendere mentre se ne sta seduto in una comoda poltrona, né è meramente un libro religioso come gli altri libri religiosi i cui
segreti vengono svelati nei seminari e negli oratori. Al contrario, Il Corano
è il programma e il testo-guida di un messaggio, un invito, che genera un
movimento34.
33
34
Ali Shariati, On the Sociology of Islam, Mizan Press, Berkeley 1979, p. 115.
Sayyid Abu’l A’la Mawdudi, Tafhimul Qur’an, vol. I, Lahore 1979, pp. 334, citato in
http://www.onislam.net/english/shariah/quran/reflections/456911-a-movement-inspiring-book.html.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 23
Oltre alla fede come impegno si rivaluta la capacità del singolo, indipendentemente dalla sua formazione religiosa, di contribuire al funzionamento
della società e di comprendere i suoi meccanismi: Hasan al-Turabi, leader dei
Fratelli Musulmani sudanesi educato alla Sorbonne, considererà anche un
chimico o un’economista alla stregua di ‘ulamˉa’. Anche la Jamaat Islamiyya
negli anni ’90 sosterrà, rivedendo la propria visione, che bisogna coniugare
la conoscenza dei testi sacri con la conoscenza della realtà. In ambito sciita,
Muhammad Khatami, presidente iraniano dal 1997 al 2005, criticherà in
questi termini i «religiosi dogmatici» che preferiscono Dio all’uomo:
La rettitudine non basta, né basta la pura e semplice conoscenza: una
persona di grande moralità che sia un’enciclopedia ambulante ma viva
fuori dal proprio tempo, per la quale i problemi più pressanti siano per
esempio il secondo o il terzo secolo dell’era islamica, non può risolvere
nemmeno il più trascurabile dei problemi di oggi35.
L’espandersi del wahabismo, incentrato su un messaggio semplice e standardizzato, opera nella stessa direzione: non c’è bisogno di specialisti del
sacro perché è sufficiente leggere il Corano e i manuali canonici della Sunna.
Le critiche agli ‘ulamˉa’ arrivano anche dagli studiosi «progressisti», eredi
dell’esegesi modernista. Il «femminismo islamico», ad esempio, decostruisce
il fiqh proponendo un’esegesi storicista e finalista che è volta a far emergere
lo spirito coranico, incapsulato nei versetti meccani, e tenendo presenti i
principi di maslaha
. e gli obiettivi della sharˉı‘a (maqˉasid al-sharˉı‘a). L’Islam
come etica sottrae il sacro ai giurisperiti. Si spalanca la porta dell’ijtihˉad, ormai in mani laiche, e per di più femminili, mentre si ridimensiona il consenso
dei giuristi classici, visto come un retaggio anacronistico del passato, e si rimette in discussione l’isnˉad che ha portato alle raccolte canoniche della Sunna36.
Il concetto di consenso, pur perdendo valenza in quanto fonte del diritto, è, unitamente al concetto di shˉurˉa (consultazione), rivalutato da fine
Ottocento in poi per legittimare forme allargate di partecipazione all’ambito
decisionale, in cui però non si prevede che siedano figure religiose o in cui il
loro numero è marginale. I partiti politici fondati e gestiti da figure religiose
sono pochi, e il loro successo alle urne è sempre stato limitato. Anche nella
35
36
Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, Laterza, Bari 1999, p. 139.
Sulla critica alla Sunna classica si veda Fatima Mernissi, Donne del Profeta. La condizione
femminile nell’Islam, ECIG, Genova 1987. Il titolo italiano è fuorviante e non riflette il titolo
originario e l’argomento del testo [Le harem politique. Le Prophète et le femmes, Éditions
Albin Michel, Paris 1987].
24 Elisa Giunchi
sfera politica gli ‘ulamˉa’ sono stati sorpassati dai «nuovi intellettuali religiosi», che hanno fondato partiti che partecipano al processo democratico e, in
alcuni casi, ottengono alle urne la maggioranza dei voti.
6. Autorità religiosa e new media
Nonostante le accuse di immobilismo che vengono frequentemente
mosse contro gli ‘ulamˉa’, questi ultimi si sono, in realtà adattati ai tempi,
servendosi della stampa e delle lingue nazionali per diffondere il proprio
messaggio già nel corso dell’Ottocento e avvalendosi in tempi più recenti
delle nuove tecnologie di comunicazione: si pensi, ad esempio, alle cassette
su cui erano registrati i discorsi di Khomeini in esilio a Parigi, alle videocassette e poi ai dvd dei predicatori sauditi, ai siti web delle principali istituzioni
tradizionali, da al-Azhar a Deoband37. Anche il loro linguaggio e approccio
esegetico sono cambiati: gli ‘ulamˉa’ sono diventati più aperti all’ijtihˉad e più
disposti a soprassedere sull’autorità del consenso, forse rendendosi conto che
sia questo il modo più efficace per contrastare l’anarchia legale: rinunciare
del tutto all’ijtihˉad potrebbe significare lasciare spazi vuoti ai «nuovi intellettuali» musulmani38 e non contrastare in maniera efficace attacchi esterni e
pregiudizi da parte dei non musulmani39. Un altro importante adattamento
dell’establishment religioso alla realtà, volto ad arginare la frammentarietà
dell’Islam e le sue interpretazioni più scomode per il potere politico, è la
costituzione negli ultimi decenni di istituti di ijtihˉad collettiva, come l’Islamic
Fiqh Academy in India, il Dˉar al-Iftˉa’ in Egitto e a Deoband, la Fiqh Academy
della Lega Musulmana Mondiale con base a Mecca, e lo European Council
for Fatwas and Research (ECFR) a Dublino. Non vi è, quindi, una cesura
netta tra ‘ulamˉa’ e «nuovi intellettuali»: entrambi usano nuove tecnologie per
allargare il proprio audience e ammodernano il proprio linguaggio e i propri
riferimenti, dando vita a un «creoline discourse»40. A metà tra i due mondi
37
http://www.deoband.net; www.alazhar.org, sostituito nel 2004 da www.alazhar.gov.eg,
maggiormente orientato verso i corsi forniti dall’università.
38
Muhammad Qasim Zaman, Modern Islamic Thought in a Radical Age. Religious authority and internal criticism, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 104-105.
39
Interviste citate in Mohammed el-Nawawy e Sahar Khamis, Islam dot com. Contemporary
Islamic discourses in cyberspace, Palgrave Macmillan, 2009, p. 68.
40
Jon Anderson, Is the internet Islam’s third wave or the end of civilization?, United States
Institute of Peace, April 1997.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 25
si trova ad esempio Yusuf Qaradawi, noto ‘ˉalim che ha studiato ad al-Azhar
ed è legato ai Fratelli Musulmani: nonostante l’istruzione ricevuta, condivide con i nuovi intellettuali religiosi la tendenza a non fare riferimento a un
madhhab specifico e si serve di nuove tecnologie per disseminare il proprio
messaggio. Il sito che ha promosso, www.islamonline.net, è uno dei più popolari nel mondo musulmano. Gli ‘ulamˉa’, secondo Qaradawi, hanno del
resto il dovere di disseminare la conoscenza religiosa per salvare la Umma
(comunità dei credenti) dagli estremisti e dalle macchinazioni dei governi41.
Ma, nonostante il loro adattamento a mezzi, termini e simboli nuovi, gli
‘ulamˉa’ hanno mantenuto riferimenti discorsivi e approcci alle fonti che ne
fanno, come osserva Zaman42, una comunità distinta, caratterizzata dall’accettazione della diversità interna (ikhtilˉaf), dall’importanza delle raccolte di
hadˉ
. ıth canoniche e da alcuni principi di base del fiqh.
Per quanto gli ‘ulamˉa’ si siano avvalsi, come si è visto, di nuove forme comunicative, è evidente che la dispersione dell’autorità religiosa sia stata accelerata prima dalla stampa, che ha permesso di immaginare l’identità nazionale
e di plasmarla43, e poi, dagli anni ’80 in poi, dai new media, che ricostruiscono l’identità in un mondo che è sempre più post-nazionale. Tramite il web
emergono voci alternative che, attraverso le forme di comunicazione orizzontale che lo contraddistinguono, sfidano l’autorità religiosa tradizionale,
basata sul rapporto di trasmissione verticale44, ma anche l’interpretazione
ufficiale dell’Islam incapsulata dai codici, l’autorità maschile nella famiglia
e il sistema di potere sul piano nazionale e internazionale: i siti dei jihadisti salafiti, ad esempio, rappresentano il jihˉad come un obbligo prioritario,
individuale e permanente, senza quel terreno di compromesso con i non
musulmani e quelle regole, tipiche del bellum iustum, che ritroviamo nella
dottrina classica45. Lo scontro con l’Occidente, per i salafiti, è inevitabile:
è – esasperando la visione dicotomica del wahabismo – un vero e proprio
41
Mohammed el-Nawawy e Sahar Khamis, Islam dot com. Contemporary Islamic discourses
in cyberspace, cit., p. 14.
42
Muhammad Qasim Zaman, Religious discourse and the public sphere, cit., p. 56.
43
Benedict Anderson, Imagined Communities. Reflections on the origins and spread of
nationalism, Verso, New York, 1991.
44
Jon V. Anderson, Internet Islam: New media of the Islamic reformation, in Donna Lee
Bowen e Evelyon A. Early (a cura di), Everyday Life in the Muslim Middle East, Indiana
University Press, Bloomington, 2002, pp. 300-305.
45
Si pensi qui al dˉar al-‘ahd (terra dell’accordo), che aveva uno statuto a metà tra dˉaˉ r alislˉam (la terra dell’Islam), dove l’Islam è maggioritario e il governo è musulmano, e dˉar al-harb
.
(la terra della guerra).
26 Elisa Giunchi
scontro tra civiltà incommensurabili. Uno scontro totale, dal valore salvifico,
contro un nemico con il quale nessuna coesistenza è possibile. Il governante
musulmano che agisce contro gli interessi dell’Islam deve essere rimosso in
nome della prescrizione coranica di «comandare il bene e vietare il male». Il
«dotto» che sostiene le posizioni governative, invece di appellarsi al «vero»
Islam, è un mero ‘ˉalim al-sulˉan: un religioso al soldo del governante di turno46. Per contro, i siti tradizionalisti, come quelli controllati e gestiti dagli
Stati del Golfo, mantengono in vita le distinzioni classiche tra nemico con cui
venire a patti e, sul proprio territorio, proteggere, e nemico contro il quale
combattere. Il ricorso alla violenza è condannato, con riferimento al dovere
dei governanti secondo la dottrina classica di proteggere i non musulmani
e, in caso di guerra, i civili47. Non solo è prevista la coesistenza con stati non
musulmani e con i non musulmani sul proprio territorio, ma occorre obbedire
alle autorità in nome della sicurezza e della pace, secondo la visione politica
classica. Prevale tuttavia la cautela e, in generale, un atteggiamento negativo
verso l’Occidente – è preferibile non provare affetto per i miscredenti e non
bisogna farsi irretire dai loro modelli culturali, ispirati a una libertà che appare
illimitata:
il mondo intero è ossessionato dall’idea Kufr di libertà sfrenata, cioè libertà di parola, di movimento etc… Questa idea di libertà, «è la mia vita, ne
faccio quello che voglio» è un tema predominante della musica di oggi. È
usata come mezzo per inculcare nei cuori e nelle menti ideologie occidentali, che sono totalmente contrarie ai valori e agli insegnamenti Islamici48.
L’interazione e la parziale accettazione dell’altro hanno talora il fine di
fare proseliti: nella fatwˉa emessa da un ‘alˉım della Darul Ifta’ a Leicester, con
sede nel Regno Unito, si osserva ad esempio che:
[Islam] allows Muslims to have a good relationship with non-Muslims but
to a certain limit. […] Some […] consider all kind of contact with nonMuslims to be sinful.[…] This approach is incorrect […] Today, we have
46
Si vedano i testi in Gilles Kepel e Jean-Pierre Milelli (a cura di), Al Qaeda in its own
Words, Harvard University Press, Cambridge MA, USA-London 2008, in parte reperibile in
rete.
47
Cfr. ad esempio la fatwˉa di Muhammad Tahir ul-Qadri, tratta da http://www.fatwaonterrorism.com.
48
Fatwˉa tratta da: http://sunnita.wordpress.com/fiqh/fatawa-varie/musica-e-canto-unafatawa-dettagliata/, che è una traduzione di riportata in http://qa.sunnipath.com/issue_view.
asp?HD=1&ID=1786&CATE=142.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 27
a great opportunity in propagating Islam amongst non-Muslims. There
has never been a better time to do Da‘wa [lett. chiamata, nel senso qui
di proselitismo] but it will be the Muslims who are either a cause of nonMuslims entering into Islam or otherwise. Muslims must ensure that their
bad manners and ill behaviour is not a cause in preventing people from
accepting Islam. […] On the other hand, some Muslims become so close
and intimate with non-Muslims to the point that there remains no difference between belief and disbelief. The Qur’an in many verses prohibited
us from loving non-Muslims in our hearts49.
Se, quindi, gli inviti alla violenza contro il nemico, interno o esterno,
sono minoritari, e per lo più limitati alla guerra difensiva, è diffuso nei siti
sunniti, ufficiali e non, un atteggiamento negativo verso modalità culturali
associate con l’Occidente50 e appare qualche ambiguità sulle circostanze in
cui la violenza può essere giustificata. L’IS (Stato Islamico, noto anche come
ISIS o ISIL) ha ampiamente usato il web per diffondere le proprie idee,
che rappresentano una fusione del credo wahhabita e del jihadismo, e fare
proselitismo; tuttavia, su vari blog e hashtag di Twitter si è contestata la
loro pretesa di rappresentare l’Islam, in nome di una religiosità fondata sul
rispetto e la tolleranza51. Gli stessi settori fondamentalisti hanno criticato l’operato dell’IS e l’idea sottostante che si debbano applicare immediatamente
le regole dell’Islam, o meglio quelle che si percepiscono come tali, fuori dalla visione più gradualista dei Fratelli Musulmani e di al-Qaida stessa. Tra
gli esponenti dell’Islam politico vi è, poi, una forte apertura verso le idee
e gli strumenti democratici, accompagnata da una chiara ambivalenza nei
confronti del concetto di diritti umani e, soprattutto, femminili52. Al-Qaeda
e i suoi affiliati regionali, così come l’IS, respingono invece in toto queste
«innovazioni». Ayman al-Zawahiri considera la democrazia una «religione
infedele» poiché, riprendendo quanto argomentava Mawdudi settant’anni
prima, contraddice l’assoluta sovranità divina53.
49
Fatwˉa tratta da http://www.central-mosque.com/fiqh/fnmuslim1.htm (20).
50
Cfr. i risultati di una ricerca riportati in Jonathan Schanzer e Steven Miller, Facebook
Fatwa. Saudi clerics, Wahhabi Islam and social media, FDD Press, Washington DC 2012.
51
Si veda ad esempio l’hashtag #NotInMyName.
52
Si leggano ad esempio i contributi in John J. Donohue e John L. Esposito (a cura di),
Islam in transition. Muslim perspectives, Oxford Unviersity Press, New York-Oxford 2007, II
edition, pp. 204-122 e 261-330.
53
A yman Zawahiri, cit. in Raymond Ibrahim (a cura di), The Al Qaeda Reader, Doubleday,
New York 2007, p. 30 e ss.
28 Elisa Giunchi
Per passare al mondo sciita, nel sito dell’ayatollah Sayyid ‘Ali Husayni
al-Sistani54 si ritrova la concezione classica sciita secondo la quale il potere
politico è sempre illegittimo sul piano teorico fino al ritorno del dodicesimo imˉam, mentre sul sito ufficiale della repubblica iraniana si ritrova il
concetto di wilˉaˉ yat al-faqˉıh che è alla base dell’intera architettura politica
dell’Iran post-khomeinista: sul web si esprimono quindi concezioni diverse del rapporto tra sacro e potere politico appigliandosi a eventi storici e
elementi dottrinali la cui importanza relativa è difficile da stabilire alla luce
dell’ikhtilˉaf tradizionale e della mancanza di un’autorità apicale. Nell’Islam
sciita la gestione della differenza è facilitata dall’invito a seguire un mujtahid
vivente. Nell’Islam sunnita, meno gerarchico, la frammentazione provoca
uno spaesamento e una responsabilità individuale ben più profondi.
Le diverse opinioni che circolano sul web prendono per lo più la forma
di fatwˉa. Le fatwˉa online provengono sia da istituzioni «ufficiali», come alAzhar, sia da organismi legati alla visione ufficiale55, sia da individui che a
titolo personale forniscono la propria visione e interpretazione dell’Islam.
Le visioni che offrono, come è diventato evidente in occasione della seconda
guerra del Golfo, sono diversissime56. I quesiti posti dagli internauti sono
tuttavia attinenti, per lo più, alla sfera sociale e riguardano questioni con
rilevanza pratica. I siti più consultati non sono quelli militanti, che predicano il jihˉad bellico, ma quelli che promuovono un rinnovamento morale
dell’individuo e cercano di adeguare i principi religiosi alle nuove circostanze dettate dall’emigrazione in Occidente o dall’esposizione a modelli
culturali di derivazione occidentale. Il web è usato con la funzione di guida
morale soprattutto nei confronti delle comunità musulmane che vivono in
occidente, prive di reti di sostegno e controllo tradizionali e alienati sia dalla
nuova cultura sia da quella dei genitori.
Sul web il muftˉı non è più l’imˉam «tradizionale», che era immerso in un
contesto di cui faceva parte anche il mustaftˉı – colui che lo interpellava –
ma può essere un organismo situato all’estero o un autodidatta: si spezza
così il legame di autorità tra chi chiede e chi spiega e si produce un’accesa
competizione tra soggetti diversi che pretendono di rappresentare l’Islam
«corretto». Chi richiede un parere commenta poi la risposta, chiede ulteriori
54
http://www.sistani.org/english/.
55
È il caso ad esempio di www.fatawa-online.com e di www.islamqa.info, entrambi legati
alla figura di al-Baaz, ex Grand Mufti saudita.
56
Cfr. ad esempio le diverse posizioni in Yvonne Yazbeck Haddad, Operation Desert Storm
and the war of fatwas, in Muhammad Khalid Masud, Brinkley Messick, David S. Powers (a
cura di), Islamic Legal Interpretation, cit., pp. 298-309.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 29
chiarimenti, con una spiccata informalità, e redarguisce chi non mostra rispetto o non usa termini «corretti», come mostra il sito di Ahl al-Sunnah wa
al-Jama‘ah – Italia nella discussione che segue la fatwˉa sulla liceità di canto e
musica57. La comunità ristretta, che produceva conformismo, è sostituita da
un controllo virtuale tra fratelli che vivono spesso lontano gli uni dagli altri.
A differenza di quanto accadeva nell’Islam tradizionale, sia il richiedente
sia il muftˉı sono spesso protetti dall’anonimità58. Non si sa nulla, quindi, delle competenze e qualifiche di chi emette un parere religioso, né è possibile
sapere se le informazioni che eventualmente forniscono su di sé corrispondono al vero. Ciò diminuisce l’aura di rispetto che circonda il muftˉı. In origine
infatti i muftˉı dovevano avere caratteristiche particolari – l’affidabilità, la
capacità di intendere e volere, e quindi l’età adulta, un buon carattere (sostanzialmente le qualifiche richieste anche per la testimonianza in tribunale),
e dovevano conoscere il Corano, la Sunna, il consenso dei giuristi precedenti
così come le differenze tra di loro, la scienza del qiyˉas, ed essere capaci di
esercitare ijtihˉad59. Raramente, oggi, è possibile accertare se il muftˉı online
ha queste caratteristiche.
In parte come conseguenza della scarsa autorevolezza di questi muftˉı,
si confonde il rapporto emittente-destinatario – chi legge le fatwˉa talora le
contesta e propone una propria interpretazione alternativa – mentre nelle
società pre-moderne vi era una chiara distinzione di ruoli tra interprete e
seguace, che rifletteva una relazione di potere ineguale, che sarebbe stata
scardinata dalla scolarizzazione e da altri processi concomitanti ai quali si è
già accennato.
Mentre nel passato, inoltre, raramente ci si rivolgeva a più religiosi per
ottenere una fatwˉa, o a più giudici per risolvere un caso, oggi ci si può rivolgere a più siti alla ricerca della risposta che maggiormente risponde ai propri
valori e interessi: per quanto non si conosca l’impatto comunicativo delle
fatwˉa, si ha l’impressione che il web, più che guidare verso l’interpretazione
e il comportamento corretti sotto il profilo religioso, legittimi situazioni e
posizioni pre-esistenti.
Le domande presentate sui siti sono estremamente brevi, e prive, a differenza delle fatwˉa tradizionali, di informazioni contestuali. Le risposte, la cui
lunghezza nell’Islam pre-contemporaneo dipendeva da chi era il richiedente
57
Si veda nota 48.
58
È il caso, ad esempio, delle fatwˉa riportate in www.islamqa.info, www.fatawaislam.com
e www.islamweb.net.
59
Muhammad Khalid Masud, Brinkley Messick e David S. Powers, Islamic Legal Interpretation, cit..
30 Elisa Giunchi
(erano più lunghe se si trattava di uno studioso o di un giudice), tendono
a essere anch’esse brevi, soprattutto quando non emanano da organismi di
‘ulamˉa’, e altrettanto prive di contesto. Le fatwˉa online contribuiscono così
alla formazione di un Islam astratto, deculturato, da conoscere e applicare
dovunque ci si trovi, in contrapposizione all’Islam classico, che si era sviluppato in risposta a determinate situazioni – basti pensare qui, per tornare
a un tema già toccato, al consumo di bevande alcooliche, permesso e in un
secondo momento, in un contesto di crescenti tensioni sociali, vietato dalla
Rivelazione.
Controllare le fatwˉa è di primaria importanza soprattutto per i governi che
si arrogano una legittimità religiosa, come dimostra la vicenda di www.islamqa.
info, un sito disponibile in numerose lingue e fondato nel 1997 in Arabia Saudita
dallo shaykh Muhammad Saalih al-Munajjidh, allievo del noto teologo saudita ‘Abd al-‘Azeez ibn ‘Abd-Allah ibn Baaz: il sito, che predica il jihˉad contro
gli ebrei, per combattere i nemici dei musulmani e chi si oppone all’Islam60,
è stato bandito nel regno saudita poiché emetteva opinioni indipendenti,
esterne cioè all’organo a ciò preposto, il Council of Senior Scholars, che dal
2010 ha diritto esclusivo di emettere fatwˉa61.
Islamqa.info e islamweb.net, come tanti altri siti analoghi, sono usati
soprattutto da laureati e donne benestanti con un livello elevato di scolarizzazione62. Questo ci porta a un punto interessante: le donne, che raramente
nell’Islam pre-contemporaneo consultavano un muftˉı, sono grandi fruitrici
di fatwˉa online, che permettono loro di evitare incontri diretti o pubblici che
limiterebbero la loro libertà espressiva, soprattutto quando si discute di temi
legati alla famiglia e alla sessualità63.
60
Si vedano i contenuti del sito su questioni politiche, oltre che Jonathan Schanzer e
Steven Miller, Facebook Fatwa. Saudi clerics, Wahhabi Islam and social media, cit., p. 23.
61
Christopher Boucek, Saudi Fatwa Restrictions and the State-Clerical Relationship,
Carnegie Endowment for International Peace, October 27, 2010, http://carnegieendowment.
org/2010/10/27/saudi-fatwa-restrictions-and-state-clerical-relationship/ffuv (30 settembre 2014).
62
Per dati dettagliati si veda http://www.alexa.com/siteinfo/islamweb.net e http://www.
alexa.com/siteinfo/islamqa.info. Il primo ha seguito soprattutto in India, Pakistan, USA,
Indonesia e Arabia Saudita. Il secondo in Arabia Saudita, Egitto, e con un certo scarto,
Algeria, Sudan e Marocco.
63
Shaheen Sardar Ali, Cyberspace as emerging Muslim discorsive space? Online fatawa on
women and gender relations and its impact on Muslim family law norms, in «International
Journal of Law, Policy and the Family», 24, 3, 2010, pp. 338-360. L’autrice analizza tre siti,
www.islamonline.com, basato a Dubai, www.islamotoday.com, senza chiara locazione fisica, e
www.islamonline.net, che ha uffici a Doha e al Cairo.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 31
Sebbene le fatwˉa online tocchino in larga misura l’ambito familiare, sono
oggetto di discussione gli argomenti più disparati, dalla legittimità di festeggiare San Valentino o di sottoporsi alla chirurgia estetica e all’inseminazione
artificiale, alla liceità di acquistare gatti64. Questi argomenti riflettono anche
l’appartenenza socio-economica e l’ambito culturale degli internauti: si tratta soprattutto di giovani istruiti, come si è accennato, delle classi medie e
medio-alte, che vivono in aree urbane e sono esposti all’Occidente65 cioè di
un gruppo che, al pari di chi ha partecipato alle prime fasi delle «primavere
arabe» e alle mobilitazioni islamiste degli anni ’70-’80, non ha un accesso
agli spazi decisionali che sia adeguato alla sua preparazione e quindi alle
sue aspettative. Il web permette a questi giovani di esprimersi e di assumere
talora un ruolo di guida morale, in un mondo in cui la libertà individuale si
limita alla libertà di consumare prodotti. Partecipare al web permette anche
di integrare bisogni diversi, appartenenti a realtà culturali e generazionali
diverse, diminuendo il senso di insicurezza e confusione che spesso caratterizza le seconde generazioni di immigrati, sebbene l’accesso alle visioni
contraddittorie presenti su web possa acuire questi sentimenti66, e la depersonalizzazione della comunicazione possa favorire la solitudine e l’estraneità,
portando alla rottura anche violenta con la «realtà» in cui ci si trova.
Il segreto del successo delle fatwˉa online è nella loro anonimità e nella loro forma semplificata, accessibile, breve. Internet, che predilige le
informazioni alla conoscenza, facilita così la diffusione di prodotti religiosi
semplici, sfrondati da ogni complessità dottrinale. Chiunque può comprenderli e contestarli: si favorisce così l’adesione, ma anche la contestazione.
La frammentazione dell’autorità religiosa si inserisce in una tendenza all’individualizzazione della religione che ritroviamo anche in altre fedi e che è
accelerata dalla natura segmentante di Internet. Il successo delle fatwˉa online
sta anche nella loro natura deculturata: esse esprimono, come si è visto, un
Islam astratto senza legami forti con un luogo specifico; il muftˉı si esprime su
situazioni e persone che non conosce direttamente e spesso l’internauta che
sceglie una determinata fatwˉa è estraneo al contesto da cui emerge il muftˉı.
64
Si veda ad esempio la fatwˉa su San Valentino, un argomento ricorrente sul web.
65
Gary R. Bunt, Virtually Islamic: Computer-Mediated Communication and Cyber Islamic
Environments, University of Wales, Cardiff 2000, p. 132.
66
Mohammed el-Nawawy e Sahar Khamis, Islam dot com. Contemporary Islamic discourses
in cyberspace, cit., pp. 75-76.
32 Elisa Giunchi
7. Nuove forme di religiosità e autoritarismo
Sia le fatwˉa online sia le disquisizioni dei jihadisti salafiti che appaiono sul
web non riflettono appieno le sfumature della dottrina classica. In particolare, gli autodidatti del web che operano fuori dai grandi centri «tradizionali»,
al pari dei giudici laici, semplificano l’ikhtilˉaf tradizionale e prediligono al
fiqh il ricorso al Corano e alla Sunna. Gli stessi scritti dei pensatori di AlQaida rivelano una certa differenza tra i proclami di chi, come Osama ben
Laden, ha una conoscenza superficiale del fiqh e i trattati chi, come Zayman
al-Zawahiri, ha avuto un’istruzione islamica «classica»67.
L’anti-intellettualismo che prevale su Internet è indubbiamente egalitario
(chiunque si può esprimere) ma è anche soggetto ad abusi. El Fadl parla a
questo proposito di «ermeneutica del dispotismo»68: mentre un tempo il giurista, il muftˉı o il giudice, adottando un’opinione piuttosto che un’altra, erano
consapevoli di rappresentare una opinione sul testo e non il testo stesso, chi
fornisce oggi la propria interpretazione lo fa spesso senza menzionare interpretazioni alternative e cercando di imporre la propria visione come l’unica
autentica. L’interprete si fonde col Corano, trasformandolo in un testo chiuso e implicitamente riconoscendosi nell’«esercito di Dio» che custodisce il
«Fuoco d’Inferno» (LXXIV:31). Il muftˉı online, inoltre, ha sempre una risposta, mentre nei secoli precedenti il muftˉı talora non rispondeva ai quesiti che
gli venivano posti e la sua reticenza era considerata segno di integrità morale.
Questa deriva autoritaria sul piano esegetico, parallela al processo di
frammentazione dell’autorità religiosa e di semplificazione della dottrina, in
cui tutti si ergono a interpreti dell’al-islˉam al- sa
. hˉ
. ıh. (l’Islam vero), conduce a
una moltiplicazione di accuse di eresia (takfˉır). I musulmani che hanno concezioni dell’Islam diverse dalle proprie diventano dei miscredenti, contro
una tradizione in cui, per lo meno all’interno di una cornice predefinita, ogni
opinione era legittima e l’ihktilˉaf dava senso all’Islam stesso. Questo processo è stato probabilmente facilitato dall’oggettivizzazione della religione
avvenuta nel corso del Novecento: chi è fuori è più facilmente riconoscibile
se il confine non è fluido.
La trasformazione dell’Islam in un oggetto, o meglio in un prodotto, è
esemplificata da una sentenza emessa in Pakistan nel 1993 nel noto caso
67
68
Cfr. i testi in Gilles Kepel e Jean-Pierre Milelli (a cura di), Al Qaeda in its own Words, cit..
Khaled M. Abou El Fadl, And God Knows the Soldiers. The authoritative and authoritarian in Islamic discourse, cit., p. 94.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 33
Zaheer ud-Din vs. the State69. Il caso, che era volto a determinare se un’ordinanza del 1984 che poneva pesanti restrizioni alla comunità ahmadiyya
violava la norma costituzionale che garantiva a tutti i cittadini di professare, praticare e propagare liberamente la propria religione, dava una
definizione di religione che era per alcuni versi sorprendente. La maggioranza dei giudici osservò infatti in quell’occasione che
[gli Ahmadi] non hanno alcun diritto ad usare gli epiteti ecc. e i Sha‘ˉa’ir
i Islˉam (costumi e riti islamici) che sono esclusivamente dei musulmani
[...], la legislazione [in materia] era, quindi, necessaria e non interferisce
in alcun modo con la libertà di religione degli Ahmadi, poiché vieta loro
solo di usare epiteti ecc. che non hanno il diritto di rivendicare come propri. [La legge] non proibisce loro di coniare nuovi termini.
Per sostenere questa posizione, i giudici argomentarono che i termini
religiosi rientrano nel dominio della proprietà intellettuale. Lo Stato, per
analogia a quanto stabilito in materia di marchi e diritti d’autore, ha il diritto
di perseguire le comunità religiose non musulmane che usano una terminologia islamica, perché in questo modo rivendicano come propria una identità
che appartiene ad altri. La religione era esplicitamente equiparata a un prodotto commerciale: la Coca Cola, si dichiarava, non avrebbe mai permesso
che altre ditte vendessero con quel marchio i loro prodotti: «Il principio è
non ingannare e non violare i diritti di proprietà altrui». Gli Ahmadi, accusati tra l’altro di costituire «un attacco serio e organizzato alle frontiere
ideologiche» del Paese, potevano quindi ricorrere a simboli e termini che
non erano già usati dai musulmani.
Il proliferare del takfˉır è favorito anche dalla deculturazione della religione: dopo tutto, se ci si può convertire all’Islam come risultato di una
decisione volontaria, indipendentemente dal proprio contesto, si può altrettanto facilmente esserne espulsi. La deculturazione dell’Islam, comune a
tutte le altre principali religioni, trasforma inoltre la differenza tra credente
e non credente in una barriera, poiché elimina quel comune spazio – fatto
di valori e pratica –, che li univa su un medesimo territorio70. Il miscredente
è ovunque: atei, agnostici, credenti di altre religioni, ma anche musulmani
«tiepidi», «ipocriti», «falsi». Il nemico interno anzi è spesso il primo nemico contro il quale scagliarsi: per Abu Musab Zarkawi in Iraq e, oggi, per
69
70
1993 SCMR 1718.
Olivier Roy, Holy Ignorance. When religion and culture part ways, Oxford University
Press, Oxford-New York 2013, p. 8
34 Elisa Giunchi
l’IS, sono gli sciiti e gli Yazidi i nemici principali. Ma anche il sito www.
fatawa-online.com, che riflette la visone degli ‘ulamˉa’ sauditi filo-governativi, presenta un lungo elenco di nemici interni: in una fatwˉa del Comitato
Permanente per la Ricerca e le fatwˉa si condannano, riflettendo la visione
wahhabita prevalente nel regno saudita, i Barelwi, l’Ahmadiyya, il Tabligh
Jamaat e i Kharigiti, accusandoli di introdurre nell’Islam innovazioni (bid‘a)
estranee all’«autenticità» islamica. Non è un fenomeno del tutto nuovo: basti pensare al rapporto Munir del 1953, emesso sotto il governo pakistano
del generale Ayub Khan, dal quale emerse che quasi ogni gruppo e movimento religioso additava gli altri come kuffˉar (pl. di kˉafir, miscredente), non
riuscendo neppure a concordare su che cosa fosse l’Islam e chi fosse il vero
musulmano. Su un unico punto vi era unanimità di vedute: chi si rendeva
colpevole di apostasia o diffondeva idee irreligiose andava punito con la
morte. Che cosa costituisse miscredenza, tuttavia, variava però da gruppo
e gruppo. I sunniti erano unanimi nel ritenere che gli sciiti fossero kuffˉar e
gli sciiti lanciavano la stessa accusa ai sunniti; l’Ahl-al Qur’ˉan, che esaltava
la validità normativa del Corano rispetto alla Sunna, era considerata kˉafir da
tutti gli altri e così via. Gli autori del rapporto concludevano sconsolati che
era impossibile tentare una definizione di musulmano basata sulle opinioni
discordanti raccolte nel corso dell’indagine e consigliavano allo Stato di non
adottare una definizione piuttosto che un’altra, evitando di essere a sua volta
accusato di miscredenza71.
Si potrebbe argomentare che questi tentativi di «ermeneutica del dispotismo», che si sono moltiplicati negli ultimi decenni, sono destinati al
fallimento, poiché il web immette sul mercato, dopo tutto, una molteplicità
di prodotti da «consumare»72: come mostra il fenomeno delle fatwˉa online,
l’internauta sceglie e rifiuta, tra le tante visioni che ritrova in rete, un’opinione, senza alcuna imposizione dall’alto. È una sorta di «Islam à la carte»73,
in cui, soprattutto tra gli immigrati in Occidente, il controllo sociale della
comunità ristretta è affievolito o del tutto assente. Le trasformazioni epocali
indotte dal web non possono tuttavia farci dimenticare che in alcuni contesti
– e in particolare nei Paesi del Golfo – la religione è imposta e non cono-
71
Report of the court of enquiry constituted under Punjab act II of 1954 to enquire into
the Punjab disturbances of 1953, Government Inprint, Lahore 1954, p. 218.
72
Sul concetto di «mercato religioso» applicato all’Islam contemporaneo si veda Patrick
Haenni, Islam de marché, l’autre révolution conservatrice, Seuil, Paris 2005.
73
Olivier Roy, Secularism and Islam: The theological predicament, in «The International
Spectator», 48, 1, 2013, p. 15.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 35
sce alternative: il «consumatore» non sempre ha totale libertà di scelta74. Le
conversioni dall’Islam ad altre religioni sono estremamente rare e, quando si
verificano, hanno spesso conseguenze drammatiche, indipendentemente dal
fatto che sia lo Stato o la comunità a controllare, ed eventualmente punire, le
scelte dell’individuo. Lo Stato stesso, peraltro, impone delle restrizioni sotto
forma di norme che regolano nei dettagli la sfera privata, rendendo difficile
una cesura netta tra un mondo «tradizionale» che limiterebbe la libertà individuale e una realtà «moderna» che la espanderebbe.
8. Frammentazione e commistioni
Ciò a cui assistiamo è solo apparentemente l’esposizione di un’eterogeneità congenita all’Islam. Si tratta in realtà della formazione di oggetti culturali
nuovi che incorporano elementi provenienti da fonti, luoghi ed epoche
diverse: i diversi frammenti, decontestualizzati, sono uniti per formare «bricolage dottrinali»75 o riassemblati76. Avviene in questo modo un processo di
convergenza concettuale e terminologica che non di rado stravolge il senso
originario dei riferimenti usati. Così l’IS, pur mirando a un «califfato» transnazionale si autoproclama dawla, termine che è stato usato dai fautori dello
Stato islamico per indicare lo stato-nazione, ma originariamente indicava
la dinastia. Muhammad Tahir ul-Qadri, il religioso pakistano che sfida il
governo di Nawaz Sharif, nella sua pagina facebook, per giustificare la sua
battaglia contro la corruzione del governo, fa riferimento a Schopenhauer
per sostenere che l’interpretazione «corretta» dell’Islam (quella, naturalmente, esposta da Qadri) è destinata a trionfare77. Gli istituti matrimoniali della
74
Roy, Holy Ignorance, cit., p. 161.
75
Olivier Roy, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo Islam, Feltrinelli, Milano,
2003, p. 14 [L’Islam mondialisé, Éditions du Seuil, 2002].
76
Il «global assemblage» di cui parla Peletz a proposito della magistratura sciaraitica malese, in cui le procedure di mediazione, nonostante il rebranding con termini islamici, appartiene alla tradizione: Micheal G. Peletz, Malaysia’s syariah judiciary as global assemblage:
Islamization, corporatization, and other transformations in context, in «Comparative Studies
in Society and History», 2013, 55, 3, pp. 606-607. Si veda anche, sul «corporate Islam» in
Malaysia, Patricia Sloane-White, Behind islamism at work. Corporate Islam in Malaysia, in
Amel Boubekeur e Olivier Roy (a cura di), Whatever Happened to the Islamists? Salafis, heavy
metal music and the lure of consumeristic Islam, Columbia University Press, New York 2012,
pp. 223-245.
77
https://www.facebook.com/Tahirulqadri (in data 28 luglio 2014).
36 Elisa Giunchi
sharˉı ‘a classica sono rivisti per ampliare i diritti della donna, mantenendo
il nome originario, che viene però svuotato di alcune componenti «tradizionali»: si pensi, ad esempio, al khul‘, che secondo la legislazione egiziana e la
prassi giudiziaria pakistana può portare al divorzio in assenza del consenso
del marito, creando una nuova variante rispetto al khul‘ classico, in cui quel
consenso era una conditio sine qua non. O alla pratica dell’ijtihˉad, oggi allargata fino a comprendere concezioni esterne all’ambito religioso: si veda a
proposito la Mudawana marocchina del 2004, che nel preambolo menziona
esplicitamente la necessità di prendere in considerazione nella legislazione
sul diritto di famiglia «i diritti umani riconosciuti internazionalmente». I
riferimenti islamici entrano nel mercato globale: il velo è indossato insieme
ai jeans attillati e persino il burqa è oggetto di cataloghi online78. Proliferano
79
i fast-food halˉ
. al, la Mecca Cola, i siti di Islamic dating e la finanza islamica,
che, in teoria contraria a ogni forma di interesse, non disdegna di giocare
sui mercati globali. Più che di ritorno alla religione, quindi, bisognerebbe
parlare di trasformazione della religione in un «magazzino sincronico» di
concetti ed eventi presi da diversi luoghi e tempi e riconfezionati80. Così Peletz
ci racconta come alcuni elementi della tradizione malese, come la mediazione,
sono ridefiniti in termini religiosi e accompagnati da procedure «moderne», e
l’adozione di norme penali islamiche procede di pari passo con la burocratizzazione, mentre altre pratiche come il matrimonio forzato, non più accettabili
nel discorso globale, sono attribuite alla sola tradizione e quindi condannate come non islamiche81. Ciò che è respinto in quanto non sufficientemente
«moderno» è rappresentato come «pagano» e condannato in termini religiosi,
come osserva anche Prakash Shah, permettendo di aderire al discorso dominante sul piano internazionale e di salvare, al contempo, la fede82.
9. Autorità femminile e sacro
Storicamente nell’Islam, come nelle altre religioni monoteistiche, gli
uomini hanno avuto il monopolio dell’interpretazione, formulazione e diffu78
Cfr. ad esempio http://www.zarinas.com/burqas.shtml e http://www.rezaburqa.com/.
79
Cfr. ad esempio http://www.muslima.com/.
80
A. Appadurai, Modernity at Large, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996, p. 30.
81
Micheal G. Peletz, Malaysia’s syariah judiciary as global assemblage: Islamization, corporatization, and other transformations in context, cit., p. 624.
82
Prakash Shah, Shari‘a in the West: colonial consciusneess in a context of normative competition, in Elisa Giunchi (a cura di), Muslim Family Law, cit., pp. 14-31.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 37
sione della conoscenza religiosa e hanno assunto ruoli di leadership, sebbene
le donne abbiano esercitato più autorità politica e religiosa di quanto si creda comunemente: nelle fonti precedenti al XVI secolo appaiono numerose
donne che, in qualità di compagne del Profeta, trasmettitrici di hadˉ
. ıth (in
primis ‘A’isha), studiose, insegnanti e patrone di fondazioni pie, hanno esercitato autorità religiosa83. Storicamente le donne sono state anche studiose
sufi e hanno ricoperto non di rado ruoli politici84. Dall’inizio del XIX secolo
le donne musulmane hanno considerevolmente allargato i propri spazi di
autorità in ambito religioso, per effetto dei cambiamenti strutturali e culturali già descritti, grazie alla struttura decentralizzata dell’autorità nell’Islam
e come conseguenza del mutato ruolo femminile nei paesi musulmani e nel
resto del mondo. Il «femminismo islamico», etichetta che nasconde in realtà
una grande varietà interna, ha messo in discussione l’esegesi tradizionale
riprendendo l’ermeneutica «modernista» e portando alla luce per questa
via i principi di non discriminazione contenuti nella parte meccana della
rivelazione e oscurati dalla Teoria dell’Abrogazione classica e in particolare dai versetti medinesi e dalle fonti secondarie85. Negli ultimi decenni le
donne hanno ricoperto un ruolo importante anche nei movimenti religiosi
revivalisti, partecipato in prima persona a movimenti di da’wa, come quelli
del Tablighi Jamaat86, e fondato numerose associazioni, come il SIS (Sisters
in Islam), per diffondere interpretazioni del Corano che proteggono e ampliano i diritti della donna e creare a questo scopo reti transnazionali. Vi è
poi, dagli anni ’70 del Novecento, una crescente accettazione delle donne
all’interno della sfera «formale» delle moschee e delle madrasa, in qualità
di predicatori, insegnanti e muftˉı87. In alcuni paesi, come il Marocco, ciò è
accaduto come effetto dei tentativi di inclusione da parte dello Stato, mentre
altrove, come in Arabia Saudita, la leadership femminile in luoghi religiosi tradizionali è nata da politiche statali di esclusione e segregazione, che
83
Muhammad Akram Nadwi, al-Muhaddithat: The women scholars in Islam, Interface
publication, Oxford 2007.
84
Fatima Mernissi, Le sultane dimenticate. Donne capi di stato nell’Islam, Marietti, Genova
1990 [Sultanes oubliées. Femmes chefs d’Etat en Islam, Éditions Albin Michel, Paris 1990].
85
Si veda, tra i tanti testi sull’argomento, Asma Barlas, ‘Believing Women’ in Islam:
Unreading patriarchal interpretations of the Qur’an, University of Texas Press, Austin 2002.
86
Barbara Metcalf, Tablîghî Jamâ‘at and women, in Muhammad Khalid Masud (a cura di),
Travellers in Faith. Studies of the Tablîghî Jamâ‘at as a Transnational Islamic Movement for
Faith Renewal, Brill, Leiden 2000.
87
Masooda Bano e Hilary Kalmbach (a cura di), Women, Leadership, and Mosques, Brill,
Leiden-Boston 2012.
38 Elisa Giunchi
hanno determinato la nascita di spazi religiosi per sole donne e per lo più
autonomi. Talora si è trattato di iniziative spontanee, su iniziativa femminile;
altre volte sono state associazioni dirette da uomini, o lo Stato stesso, a istituire associazioni o entità per sole donne: i nuovi spazi di autorità femminile
sono stati, quindi, sia «invitati» sia «inventati»88. Le donne, oltre ad essere
grandi fruitrici delle fatwˉa online, forniscono consigli esse stesse su questioni
religiose servendosi delle nuove tecnologie e senza bisogno quindi di esporsi
fisicamente allo sguardo maschile: ad esempio, la studiosa pakistana Farhat
Hashmi pubblica i suoi sermoni e commentari coranici sul sito a-Huda, allargando così la propria audience anche agli uomini89, ben oltre le possibilità
di accettazione che ha avuto Amina Wudud, la teologa afro-americana che
nel 2005 ha guidato la preghiera comune davanti a una congregazione mista in una chiesa anglicana di New York, scatenando critiche e proteste.
Significativamente il sito al-Huda ha come banner «Il Corano per tutti, in
ogni mano, in ogni cuore»: il web permette di superare resistenze di genere
che permeano gli ambiti tradizionali dei paesi musulmani, sebbene nella teoria classica il muftˉı potesse essere una donna.
È rilevante a questo proposito menzionare la crescente penetrazione delle donne nella magistratura dei paesi musulmani, poiché, come si è visto, in
diversi paesi musulmani i tribunali si esprimono anche in materia di diritto
islamico, facendo riferimento non solo ai codici di matrice occidentale ma
anche alla letteratura giuridica islamica non codificata. Le donne giudice,
esprimendosi sull’Islam, esercitano quindi anche un’autorità di natura religiosa. In Pakistan la prima nomina di un giudice donna è avvenuta nel 1974, ma
dal 2009 il loro numero è drasticamente aumentato, tanto che nel 2014 erano
donne più di un terzo dei magistrati. Questo processo non è avvenuto senza
incontrare resistenze. Due petizioni sono state presentate alla Corte Federale
Shariat, nel 1982 e nel 2010: facendo riferimento alla prassi storica del primo
Islam e al diritto islamico classico si è sostenuta l’illegittimità della presenza
femminile nella magistratura. Tutte le argomentazioni presentate a favore di
questa tesi, con una sola eccezione, sono state respinte a dimostrazione, ancora una volta, che dell’Islam esistono interpretazioni molto diverse90.
88
N.R. Micinski, Celebrating Miss Muslim pageants and opposing rock concerts: contestating
the religious authority and leaders of two Muslim women in Kazan, Masooda Bano e Hilary
Kalmbach (a cura di), Women, Leadership, and Mosques, cit., p. 237.
89
90
http://www.alhudapk.com/ (accesso in data 27 settembre 2014).
Livia Holden e Marcus Holden, Lady Judges of Pakistan: Women’s rigths and global agenda, working paper for the collected volume on Judiciary and Gender, in Countries with Muslim
Majority, a cura di Nadia Sonneveld e Monika Lindbeck, in corso di stampa.
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 39
È con qualche cautela tuttavia che occorre guardare a questi sviluppi:
una maggiore presenza femminile in ruoli di leadership nello spazio religioso
non significa necessariamente il sovvertimento di una visione patriarcale e
asimmetrica che caratterizza l’Islam maggioritario; in alcuni casi anzi sembrerebbe legittimare quella stessa struttura, paradossalmente in nome di
principi che, per quanto relativamente recenti, sono ormai ineludibili poiché
parte integrante di un discorso globale. I siti di attiviste che sostengono visioni conservatici dei rapporti di genere ne sono un esempio91. Analogamente,
il fatto che un giudice sia donna non sempre porta a un sovvertimento di
parametri e presupposti patriarcali92.
10. Conclusioni
I fenomeni che abbiamo descritto sono carichi di contraddizioni. Da
una parte, l’appropriazione del sacro da parte dei laici e la diffusione dei
new media propagano un senso di «globalità musulmana»93, creando mondi
condivisi di significati e sentimenti attraverso un dˉar al-Islˉam virtuale che
crea uno spazio di congiunzione transnazionale; d’altra parte, si amplifica l’eterogeneità di posizioni che ha sempre caratterizzato la dottrina, in
controtendenza rispetto al tentativo saudita e dell’Islam salafita di creare
un Islam semplice, standardizzato e internamente coerente che cancelli la
diversità.
Vi è poi un’altra contraddizione: l’Islam penetra in ogni aspetto della vita
quotidiana ma la modernità (una modernità legata a un determinato modello economico e politico) penetra nella religione inserendo l’etica islamica in
un processo di globalizzazione culturale. Si pensi all’introduzione di prodotti islamicamente corretti in ogni aspetto della vita quotidiana e al diffondersi
di modelli di consumo e vita nordamericani, ai quali abbiamo già accennato.
È, in sostanza, quello che Boubeker chiama «cool Islam» : un modo, meno
stigmatizzante e severo dell’Islam politico e meno noioso dell’Islam erudito degli ‘ulamˉa’, di dare dignità all’Islam e di farlo in maniera efficiente e
«moderna», rivalorizzando sul piano religioso il piacere personale che deri91
Si vedano ad esempio i casi citati in Jonathan Schanzer e Steven Miller, Facebook Fatwa.
Saudi clerics, Wahhabi Islam and social media, cit., p. 42.
92
Ciò appare nel documentario di Livia e Marcus Holden, Lady Judges of Pakistan,
INSIGHTS, 2013.
93
Peter Mandaville, Global Political Islam, Routldge, London and New York 2007, p. 23.
40 Elisa Giunchi
va dal consumo, dal successo e dalla competizione94. Il riferimento religioso
diventa quindi onnipresente nel momento stesso in cui l’Islam si trasforma
attraverso la ricezione di simboli e dinamiche del mercato globale, permettendo ai giovani musulmani, soprattutto in ambiti urbani e in Occidente, di
essere sia musulmani sia «moderni».
La religione è dappertutto, ma è sempre più desacralizzata: i sermoni
religiosi in televisione, così come le fatwˉa online che criticano la musica e il
canto e i blog che inneggiano all’Islam radicale, si inframmezzano alla musica, ai film, ai notiziari, ai messaggi pubblicitari95. Sul sito www.islamweb.
net, ad esempio, i sermoni e le fatwˉa si trovano accanto alle previsioni del
tempo e a giochi interattivi per bambini che insegnano loro a vivere in maniera islamicamente corretta. Significativamente, nella pagina di apertura di
kids.islamweb.net appare un’immagine fissa che ha al centro una casetta – la
tipica casa nordamericana per la media borghesia –, con un’antenna parabolica. Da una porta laterale escono dei pacchetti colorati, che vengono imballati
in una cassa. I colori variano, ma la cassa è sempre identica. Situati intorno
alla casa, in aiuole ben curate e verdi, vi sono vari oggetti: «Il Sacro Corano»,
con l’immagine del libro aperto, la Casa della scienza, rappresentata da alcune
ampolle, la vita e la biografia del Profeta, rappresentate rispettivamente da
una moschea e da una casa tradizionale, e la moralità – una cassa strabordante
di monete d’oro e gioielli96. Gli elementi costitutivi dell’Islam sono quindi accompagnati da immagini che evocano uno stile di vita medio-borghese che, al
pari delle norme di comportamento «corrette», produce conformità (i pacchi
uguali l’uno all’altro).
Ma anche l’Islam erudito e quello politico si rinnovano, tanto nelle tecnologie che usano quanto nel linguaggio e negli obiettivi. Così, mentre a partire
dagli anni ’30 del Novecento veniva elaborata da Mawdudi, Sayyid Qutb
(m. 1966) e altri intellettuali fondamentalisti, la teoria dello Stato islamico,
dagli anni ’90, con i Talibani e poi l’IS, la ricerca di una base territoriale non
si accompagna a una visione dello Stato, o per lo meno a una visione dello
Stato che corrisponda al modello prevalente. È un processo di adeguamento a quella crisi di sovranità che investe ovunque le istituzioni, superate da
organismi sovranazionali e dalle imprese multinazionali. Così l’IS, acronimo inglese di al-dawla al-islamiyya (stato islamico), mira non a creare uno
stato-nazione, ma un «califfato» universale, che prende a prestito alcune
94
Amel Boubekeur, Cool and competitive. Muslim culture in the West, in «Isim Review»,
16, Autumn, 2005, p. 12.
95
Sami Zubaida, Law and Power in the Islamic World, cit., p. 5.
96
Si veda http://kids.islamweb.net/
La dispersione dell’autorità religiosa nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web 41
istituzioni classiche, come quelle del muhtasib
e della shurta,
.
. ma ne rigetta
altre: il «califfo» non governa più proteggendo la religione tramandata dagli
‘ulamˉa’, lasciando a questi la sua definizione e trasmissione, ma opera senza,
e spesso contro, i dotti religiosi.
Ma, ci si potrebbe chiedere a questo punto, vince la Mecca Cola o la Coca
Cola? Si potrebbe argomentare che produrre la Mecca Cola, o difendere i
diritti umani in un’ottica islamica, significa soccombere all’Occidente, verniciando di islamicità quello che altrimenti sarebbe difficile da accettare, o da
far accettare97. Il velo, come i matrimoni ‘urfi che si stanno diffondendo in
Egitto, sarebbero semplicemente una «icona legittimante»98. È quello che sostiene anche Prakash Shah in relazione alla tendenza da parte dei musulmani
contemporanei di condannare i matrimoni forzati come una consuetudine
esterna e anzi contraria all’islam: «il discorso dominante è accettato ma al
tempo stesso nascosto sotto una cornice islamica»99. Si potrebbe però anche
sostenere che si tratta di una sintesi tra elementi diversi che risponde ad
alcuni elementi adattivi della tradizione giuridica islamica, originariamente
– come si è visto – aperta al contesto e flessibile. Forse l’essenza dell’Islam,
ammesso che esista, è proprio nella sua predisposizione all’adattamento e al
riassorbimento del cambiamento. I concetti estranei alla tradizione vengono
adattati a contesti e discorsi locali, con un processo di localizzazione del
globale100, in cui a elementi esterni viene dato un significato nuovo, talora
opposto a quello originario. Mentre si trasforma l’allogeno, acculturandolo,
lo si fonde con una realtà locale sempre più deculturata.
I processi ai quali abbiamo accennato sono di difficile interpretazione.
Ciò che è certo è che la commistione terminologica e concettuale che abbiamo osservato sfida molti pregiudizi che si ritrovano sui media occidentali
così come nella letteratura accademica: sfida, innanzitutto, il concetto di
autenticità (le pretese di un Islam originario al quale tornare) e la nozione
statica di identità che è alla base dei discorsi dicotomici dell’Islam radicale e
dei politologi huntingtoniani che discutono di «scontro delle civiltà».
Un’ultima osservazione riguarda gli ‘ulamˉa’, i protagonisti di questo
testo: per quanto disponibili, come si è visto, ad adattarsi al nuovo, pur
97
Peletz parla di «rebranding» volto ad accettare o legittimare il cambiamento: Peletz,
cit., p. 624. Di questa opinione sono anche Dale F. Eickelman e James P. Piscatori, Muslim
Politics, cit., p. 25.
98
Sami Zubaida, Law and Power in the Islamic World, cit., p. 180.
99
Prakash Shah, Shari‘a in the West: colonial consciusneess in a context of normative competition, in Elisa Giunchi (a cura di), Muslim Family Law, cit., p. 26.
100
Appadurai parla a questo proposito di «vernacular globalization»: Appadurai, cit., p. 10.
42 Elisa Giunchi
senza perdere alcuni elementi caratterizzanti, essi sembrano destinati a
non riacquistare il monopolio che avevano sul sacro prima dell’Ottocento.
Soprattutto in ambito urbano, il contesto non è favorevole alla diffusione
di una nuova teologia: prevale un Islam «di pronto utilizzo», del qui e ora,
senza speculazioni dottrinali101, che ben si adatta alla velocità e alla superficialità della conoscenza e delle comunicazioni che sembrano prevalere.
L’apertura dell’ijtihˉad a tutti crea tuttavia un deficit di autorità e rischia di
causare un’anarchia interpretativa che non giova a nessuno: ed è per questo che i «nuovi intellettuali religiosi» continueranno presumibilmente ad
appellarsi ai rappresentanti dell’Islam classico e a cercare di ottenere il loro
benestare, permettendo loro, in questo modo, di continuare ad esercitare
qualche forma, seppure limitata, di autorità.
101
Roy, Global Muslim, cit., p. 14.
Glossario
‘alˉım: dotto
‘alˉım al-sultˉ
∙ an: lett. «il dotto del
sultano», cioè dipendente dal
volere politico
amˉır: colui che detiene l’autorità
amr: autorità
ashrˉaf: lett. «illustre», nobile in
senso morale; titolo onorifico
che spesso indica la discendenza hascemita, hasanide o
husainide
bid‘a: innovazione
da’wa: lett. «chiamata», invito a
convertirsi all’Islam o a comportarsi da buon musulmano
dawla: dinastia; governo; stato
al-dˉın: religione
al-dˉın al-samı̄h:
. religione «semplice»
dˉın wa dawla: religione e stato
hadˉ
. ıth: detto, silenzio o atto che
forma la Sunna
hākim:
giudice
.
halˉ
. al: lecito sotto il profilo religioso
ifta’: l’atto di fornire fatˉawˉa
ikhtilˉaf: differenza interna alla
giurisprudenza islamica
ijmˉa‘: consenso dei dotti o, talora,
della comunità in senso ampio
ijtihˉad: sforzo interpretativo sulle
fonti sacre
‘ilm: conoscenza
imˉam: guida morale e/o religiosa;
colui che dirige la preghiera;
in senso anche politico per gli
sciiti, come guida della comunità; anche dai sunniti usato
per indicare il califfo
al-islˉam al-sa
. hˉ
. ıh:
. l’Islam «vero»
fatˉawˉa: pl. di fatwˉa
isnˉad: catena dei trasmettitori,
usato solitamente in relazione
alla Sunna
faqˉıh: giureconsulto
kˉafir: miscredente
fard. kifˉaya: dovere religioso
kalˉam Allˉah: parola di Dio
fiqh: giurisprudenza islamica
khalˉıfa: successore, deputato
fatwˉa: parere legale
fitna: dissidenza, disordine sociale
fuqahˉa’: plurale di faqˉıh
khatˉıb: colui che pronuncia la predica nella moschea
44 Glossario
khul‘: divorzio su richiesta della
moglie e con il consenso del
marito
khulafˉa’: plurale di khalˉıfa
khulafˉa’ al-rasˉul Allˉah: deputati
o successori, a seconda delle
interpretazioni, del Profeta di
Dio, cioè di Muhammad
rabhar: guida suprema
sharˉı ‘a: diritto islamico; le fonti sacre del diritto islamico, vale a
dire Corano e Sunna; secondo
alcuni, Corano, Sunma e consenso dei dotti
kuffˉar: plurale di kˉafir
shaykh: lett. «anziano»; capo della tribù o di una confraternita;
spesso anche sinonimo di imˉam;
in generale, titolo onorifico
kufr: miscredenza
shˉurˉa: consultazione
jihˉad: sforzo
madhhab: scuole giuridiche
shurta:
. polizia istituita sotto gli
Omayyadi
madrasa: scuole tradizionali islamiche
al-sunan: tradizione
marja‘ al-taqlˉıd: fonte di emulazione
takfˉır: l’atto di proclamare qualcuno kˉafir; scomunica
masla
. ha:
. bene pubblico
mazˉ
.alim: tribunali gestiti dal potere politico
muhtasib:
responsabile del controllo
.
del mercato, delle infrastrutture, dei prezzi e della moralità
pubblica
muftˉı: colui che fornisce un parere
legale
mujtahid: colui che pratica l’ijtihˉad
mustaftˉı: colui che chiede al muftˉı
un parere (fatwˉa)
nikˉah:
. matrimonio
qˉadˉ
. ı: giudice
takhayyur: ricorso a opinioni di diverse scuole giuridiche
.talˉaq: ripudio della moglie da parte
del marito
taqlˉıd: imitazione
‘ulamˉa’: pl. di ‘alˉım
‘ulamˉa’ al-dˉın: dotti religiosi
Umm al-kitˉab: la «Madre del
Libro», vale a dire l’archetipo
celeste del Corano
‘urfi: consuetudinario
wilˉayat al-faqˉıh: governo del
giureconsulto
INDICE
38, FASC. 1
(a.a. 2013-2014)
DEL VOLUME
La dispersione dell’autorità religiosa
nell’Islam contemporaneo: dai tribunali al web
di Elisa Giunchi
1. Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pp. 4-8
2. Nascita delle figure religiose . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8-13
3. La pluralità del fiqh . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14-15
4. Codificazione e prassi giudiziaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15-20
5. L’emarginazione degli ‘ulamˉa’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20-24
6. Autorità religiosa e new media . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24-31
7. Nuove forme di religiosità e autoritarismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32-35
8. Frammentazione e commistioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35-36
9. Autorità femminile e sacro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36-39
10. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39-42
Glossario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 43-44
ULTIMI
FASCICOLI PUBBLICATI
SERIE V, VOLUME 37
(a.a. 2012-2013)
FASC. 1
Dall’inganno di Ulisse all’arco di Apollo, di Claudio Faustinelli, 58 pp.
FASC. 2
Alle origini della filosofia del diritto a Torino: Pietro Luigi Albini. Con due documenti sulla collaborazione di Albini con Mittermaier, di Mario G. Losano, 104 pp.
FASC. 3
Museo Egizio di Torino. Le opere e i giorni dal 1946 al 2000, di Silvio Curto,
48 pp.
Pubblicazione realizzata con il contributo
dell’Università degli Studi di Milano
Direttore responsabile Luciano GALLINO
Autorizzazione del Tribunale di Torino n. 2686 del 13/04/1977
Iscrizione al R.O.C. n. 2037 del 30/06/2001
Finito di stampare
nel mese di febbraio 2015