MARY SHELLEY E FRANKENSTEIN Monologo di ENRICO

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MARY SHELLEY E FRANKENSTEIN Monologo di ENRICO
MARY SHELLEY
E FRANKENSTEIN
Monologo di
ENRICO BERNARD
Parlo ad alta voce verso la finestra
Come un folle che articola suoni
A causa del mio terrore dei tuoni
E del buio di una notte come questa
Che mi riporta indietro nel tempo
Al momento in cui una violenta tempesta
Con scrosci di pioggia e raffiche di vento
Si trasformò nello spettrale sottofondo
della mia infelice venuta al mondo.
Infatti non c’è creatura più sfortunata
Di quella che resta sola appena neonata.
Perché madre moristi
Quando mi partoristi?
Madre perché sono nata
Con la colpa d”averti stroncata?
Perché i miei occhi non videro
La luce dei tuoi che smisero
Di cullarmi accecati dal lampo
E dal rombo assordante che sento
Anche in questo momento
Come un lontano lamento?
E il mio corpo poco più sviluppato di un feto
Non percepì il dolce calore materno,
Ma conobbe precocemente l’inverno
Del freddo della morte e del Fato.
Per questo tremo all’avvicinarsi dei temporali
E sono costretta a rinchiudermi dentro
Me stessa per sfuggire ai suoi terribili strali,
Ad evocare i più spettrali fantasmi
Della mia già esausta e annichilita mente
Da cui fuoriescono solo fetidi miasmi
Come nubi di fumo che salgono lente.
Ecco allora perché parlo ad alta voce
Anche se nessuno mi sente
Come Cristo che urlò dalla Croce
Di essere anche Lui sofferente.
Dalla mia bocca esce solo vento,
Un vento pestilenziale che emana
Da tutto ciò che ho dentro,
Dalla mia stessa anima.
Un lampo seguito da un tuono.
Se il tuono t’incute tanta paura
Tu parla ad alta voce, creatura,
Affinché le tua anima pura
Non si rintani nel buio di se stessa.
Prima che il fulmine vicino ti scoppi,
Tu puoi sempre chiudere gli occhi
E calare il sipario smorzando
Il bagliore che aspetti ansimando.
Dà retta al tuo amato genitore
Che ti cullò fin dalle prime ore.
La luce, per quanto accecante,
Si può estromettere dai sensi
Occultandone alla vista la parvenza.
Ma all’esplosione di un tuono
Non c’è via scampo e l’onda
Sonora annichilisce non solo l’udito:
è come la corda d’un violino impazzito
che nel tuo cuore fa baraonda.
Fa allora che il tuo pensiero
Sia più potente del fragore
Che t’ammutolisce il cuore:
Non avrai più nessun timore
Della natura a te esteriore.
Un silenzio. Lontano brontolio.
Sono nata in una notte come questa
Una notte di angoscia e di tempesta
Ho solo ricordi vaghi ed animali
Di quelli che furono i miei natali.
Il sapore del sangue in bocca
E il grido di dolore sono ancestrali
Ricordi che mi tormentano la testa
Pensando a mia madre che mi tocca
Per la prima ed ultima volta
Cercando di apparire disinvolta
Per calmare mio padre in rivolta
Contro il destino e fuori di sé.
Perché, notte, parli più forte di me
Cercando di sopraffare la mia voce
Flebile al confronto della tua potenza
Che manda segnali a intermittenza
Da un cielo più plumbeo della pece?
Non posso competere con la tua violenza
Che può ridurmi al silenzio o invece,
Farmi cavalcare sui raggi della luna
Quando il suo aspetto sereno mostra
Il lato meno oscuro del pallido astro
Splendente come superficie d’alabastro,
Placando la tua sete di morte e nulla
Che riversasti maligna sulla mia culla.
Il pensiero inespresso è come l’uragano
Provocato da un battito d’ali più lontano
Di una farfalla: all’inizio è impercettibile
E lieve come frase appena comprensibile,
Poi il suono delle parole prende il sopravvento
E si trasforma in una vera tempesta di vento
Che spazza via al suo passaggio ogni cosa
Che alla sua veemenza opporsi osa.
Con un cangiamento di luci, esce “brechtianamente” dal personaggio trasformandosi in voce narrante.
L’estate del 1816 è ricordata come tra le peggiori, meteorologicamente parlando, a
memoria d’uomo. Violenti temporali, tempeste di vento, alluvioni, bufere e un cielo
costantemente attraversato da nuvoloni rigonfi di pioggia, grandine e saette si
abbatterono per mesi sull’Europa. Queste condizioni climatiche eccezionalmente
pessime furono messe in relazione col susseguirsi di catastrofiche eruzioni
vulcaniche nell’Oceano Pacifico. La spiegazione razionale di causa-effetto non è
certamente in discussione. La scienza, del resto, chiede sempre un passo indietro al
cuore e alle emozioni che spesso costruiscono scenari metafisici, dove l’atavica paura
della fine del mondo chiama in causa le oscure forze del destino .
Tuttavia, la natura coi suoi periodici cataclismi, catastrofi ed intemperie di ogni
ordine e grado, trova in noi un’atavica corrispondenza a livello di istinti e paure
primordiali. Le quali hanno per altro la funzione di segnalare un possibile pericolo.
Così si spiega, ad esempio, la paura di tutti gli esseri viventi (sensibili), soprattutto
dei cuccioli, per i tuoni. In quanto l’arrivo di un temporale viene percepito come
pericolo per il possibile allagamento della tana.
Con l’evoluzione e la civiltà la paura istintiva per i tuoni perde il suo originario
significato legato alla sopravvivenza. Così la mente associa al tuono uno stato di
pericolo generico: si ha allora terrore del tuono senza sapere più il motivo reale che
deve farcelo temere. Il fulmine e il tuono diventano simboli di una oscura forza che
“scende dal cielo” ed è quindi a stretto contatto con Dio: le forze della natura
rappresentabno dunque la sua volontà “come in cielo così in terra”.
All’ultimo stadio di questo processo di interiorizzazione del pericolo c’è il senso di
colpa. Non ci si chiede infatti che cosa provochi il fulmine e perché dobbiamo
temere un temporale, bensì che cosa abbiamo fatto per meritarci un simile
trattamento. Come se il destino non fosse il caso che connette eventi diversi tra loro,
ma una specie di libro già scritto che dobbiamo interpretare piuttosto che scriverlo noi
stessi.
Cambia tono “tornando” ad essere se stessa.
Chi può dirsi del tutto estraneo al male?
Non certo colui che, come un animale,
Col taglio del cordone ombelicale,
È stato messo suo malgrado al mondo
Per esser esposto al dolore immondo.
Io non posso dirmi estranea a questo male,
L’ho vissuto e provocato fino in fondo,
Ne sono stata la vittima perfetta,
Dal destino assassino prediletta
Perché si compisse il suo volere
Che solo dopo mi fu dato di sapere:
“mors tua vita mea” imparai a spese mie
mentre mia madre fu strappata dalle Arpie
che vollero riprendersi quella vita
che a me nascendo venne differita.
Perché la mia felicità deve sempre comportare
Il dolore e la rovina di qualcun altro? Come soffocare
Dentro di me, nel sangue delle mie stesse vene,
Il mostro palpitante che mi fa sperare
Nella morte di chiunque ostacoli il mio bene?
Percy si è finalmente addormentato come un bambino
Con la testa dolcemente abbandonata sul cuscino
Dopo essersi nel letto nervosamente girato e rigirato
Come se percepisse come me l’oscurità del fato
E di quanto a noi amanti in fuga esso ha riservato.
Quando mi disse di essere un uomo sposato
La mia prima reazione fu di una grande risata:
Come se queste cose mi abbiano mai impressionata.
La natura dell’Uomo è libera, gli risposi,
La ragione consiste nella libertà di scelta,
E per stare insieme non occorre che tu mi sposi:
La vita è molto breve, viviamola alla svelta.
Ho ereditato da mia madre lo spirito ribelle
E da mio padre, prete spretato ed ateo,
Ne ho sentite sull’amore libero di belle
Tanto che non arrossisco se ne parlo.
Non perse tempo è mi cominciò a baciare,
Avevo solo sedici anni e poco da imparare.
Fu solo grazie a me
Che Percy ritrovò
La forza del suo sé
E di me s’innamorò
Così perdutamente
Del mio corpo
e della mente.
Prima di conoscermi aveva
Infatti perso ogni fiducia
Nel futuro dell’umanità:
Era stato cacciato dall’università
Per aver negato la bontà
Di Dio e del Creato.
Qualcuno gli aveva poi parlato
Di un vecchio filosofo ateo
Che prete si era si era spretato
Per difendere l’umana dignità
Nei confronti d’una superiore Volontà.
Così Percy divenne il discepolo di mio padre
E cominciò a frequentare assiduamente
La nostra casa piena di ricordi di mia madre
Che era stata anche una scrittrice assai valente.
Silenzio.
Lui però non fu soltanto fonte di felicità
Nella mia vita che, nonostante la mia età,
Aveva già conosciuto traversie e difficoltà
Perché è difficile parlare di libertà
Trattando di convenzioni e e altre amenità
Che condizionano la nostra società.
Già!
Libero amore e puro sentimento,
Delle passioni il vento,
Per quanto possa suonar paradisiaco
(e non nego che sia alquanto afrodisiaco),
comporta un risvolto un po’ patetico:
crediamo di essere il centro universale
e non riusciamo a domare l’anima bestiale.
Così,
Quando Percy mi confessò di essere sposato
La prima cosa cui imediatamente ho pensato
E’ che non sarebbe stato dopo tutto male
Se fosse morta presto questa mia rivale.
Non sono del resto io stessa viva
Perché la mia povera madre è priva
Di ogni anelito vitale?
Ma cosa mi succede?
Sono nata con la morte
Di colei che mi precede
Ed ora spero nella fine
Di colei che già possiede
L’uomo che la sorte
Creò a me così affine?
Chi nasce sfidando la morte
E vive invocando l’altrui sorte
Si porta dentro come uno spettro
Pronto a colpirti con il suo scettro.
Ecco allora che dal castello di carte
Che il destino per me costruì ad arte
Scaturì una strana figura
Dall’orribile aspetto contro natura.
L’idea della morte che mi porto dentro
Mi fece partorire un essere che a stento
Visse un giorno solo come tortura.
Si avvicina ad una culla, ne estrae un fagotto privo di vita.
Figlio mio,
Perché muori anche tu?
Prima di te
Altri tre
Ne ho sepolti
Nati morti
Dagli aborti
Come pezzi di carne
Che vengono tolti
Con le tenaglie
Dal grembo materno
Che nel suo seno
Non può contenere
Che vita che muore
Angoscia e dolore
Sono per me
Figlio perché
Stai morendo anche tu?
Non è forse già stata
Punizione esemplare
L’essere nata
Dal corpo materno
Senz apim vita
Contenitore già vuoto
Di latte materno
Di dolce calore
Rassicuranti carezze
Che non saranno mai date
Né mai ricevute?
Un corpo freddo di morte mi mise
Alla luce del giorno che nacque già spento,
Grano di spiga martoriata dal vento,
Il destino di certo a me non arrise.
Se un seme cade da un baccello sfinito
Non potrà mai generare una pianta robusta
Capace di sfidare le intemperie e le insidie
Che la vita che spunta trova al suo arrivo:
Per questo niente da me può nascere vivo.
Così il mio desiderio di partorire un neonato
È purtroppo improvvisamente svanito
Quando non ho udito il primo vagito
Ma solo il rantolo amaro del Fato
Che stacca i frutti del mio sterile grembo.
Ora saetta la folgore del tonante nembo
Facendo rintanare il mostro che ho dentro
Nei meandri angoscianti della mia anima.
Oh, anima animale da cui son posseduta
Mentre tra inferno e paradiso son combattuta,
Perché l’amore che mi fa sentire bene
Provoca in me anche stravolgenti pene.
Mi sorprendo infatti a pensare alla morte
Non come dovrei, con rabbia ed orrore,
Non provo alcun tipo di reverente timore,
Ma la stimo come un’amica, la Sorte,
Nelle cui mani ripongo un sogno d’amore.
Se lei, la mia rivale, morisse,
No meglio, se non ci fosse,
Magari non esistesse,
Se la terra inghiottita l’avesse
Alla nascita o se l’amplesso
Dei suoi genitori abortisse…
Sì ecco: se lei non fosse
Mai nata, mai stata,
Non avrei bisogno adesso
Di odiar chi l’ha generata.
Così Percy sarebbe mio,
Ed io ringrazierei Dio
Senza procurarmi le ferite
Mortali nella coscienza
Che sembrano fuoriuscite
Da femminile demenza.
La mia felicità dipende dunque dall’esistenza
O meno di un’altra persona che ama
E del suo amor non può fare senza?
Mi domando se sia da considerarsi sana
O non piuttosto bestiale quest’ambivalenza
Di terrore e speranza nei confronti della morte,
Ora vissuta come un oscuro destino alle porte,
Oppure invocata come una benevola sorte.
Al cospetto dei miseri cadaverini
Dei miei sfortunati bambini
Non sono mai riuscita a provare
Alcun sentimento materno
Ma sollievo per il mio disimpegno.
Sfiorando con la punta del dito
Il braccino inerte sul corpo afflosciato
Mi sono comunque per un istante illusa
Di potergli trasmettere la scintilla vitale,
Ma poi mi son dovuta ritrarre delusa
Rendendomi conto che la carne mortale,
Di cui io stessa sono costituita, è fango
E nulla può contenere di sovrannaturale.
In che cosa consiste allora la vita
Se la morte è una condizione normale,
Lo stato in cui stanno le cose che sono
Senza sapere di essere, udire alcun suono,
Ma restano insensibilmente passive,
Prive d’istinti e facoltà cognitive?
Se la morte dunque non fa parte dell’Essere
Che cerca soddisfazione ai bisogni e benessere,
Ma è solo paragonabile ad uno stato di quiete
In cui, come dice Aristotele, nulla si muove
Od è mosso, non è forse condizione migliore
Di quella che ci riserva angoscia e dolore?
Forse non sono mai riuscita a mettere al mondo
Un essere vivente per non dovergli trasmettere,
Insieme alla vita, la percezione dell’impotenza
Di riuscire a determinare la propria esistenza.
Quattro ne ho sepolti nati morti
Di piccoli scheletrici corpi
Partoriti come orribili aborti.
E’ come se la vita non volesse attecchire
Nel mio grembo di madre che si rifiuta
Di mettersi a disposizione di un divino
Progetto che non permette di sceglierci
Da noi stessi il nostro triste destino.
Se voglio dare la vita a qualcuno,
Ad un essere umano che diamine!,
Non voglio esserci a forza costretta
Ma fare della maternità una libera scelta
Sia di chi dona che di chi riceve la vita.
Altrimenti nulla ci distinguerà dalle bestie
Che fanno nascere i cuccioli nelle foreste
Per sfamare la pancia del predatore
Che si avvicina alla tana senza rumore.
Chi te l’ha chiesta, madre, la vita
Di cui mi nutristi come un parassita
Che si nutre del suo stesso sangue,
Non ringrazia, ma si lamenta e piange?
Provo più tenerezza per i resticini
Di questi attoniti e muti esserini
Che restano immobili quando li sfioro
Per carpire il segreto della loro bellezza
Imperturbabile come la fronte d’alloro
Di un poeta che trionfa sulla bruttezza
Elevandosi al di sopra del coro.
Non si può avere però la certezza
Di far nascere un essere speciale,
Spesso è solo un comune mortale
Colui al quale si dona il natale.
Il seno avvizzisce
Allattando il mostro
Che dopo essersi formato
Pezzo per pezzo
Dentro il tuo corpo
Ti chiede conto
Del motivo per cui
L’hai messo al mondo.
“Dal momento – rinfaccia – che tu mi hai creato
sei responsabile dei frutti del tuo stesso parto:
mi cucisti le membra come un abile sarto
mettendo insieme di me arto su arto,
ora rinuncia a te stessa accudendo il neonato”.
No, la morte dei miei figlio non mi ha impressionato,
Dentro di me ho anzi mostruosamente gioito
Per non dovermi svegliare di notte al primo vagito.
Sono un mostro? Riesco davvero a sperare
Che i miei stessi figli nascano aborti
Con la testolina penzolante sui colli storti?
Sono un mostro? Riesco davvero a sognare
Che Percy si liberi dal suo legame familiare,
Che sua moglie si uccida e io prenda il suo posto…
Riesco davvero ad essere io questo orribile mostro?
Niente è totalmente buono o cattivo,
Anche la morte ha un lato positivo.
Cambio brechtiano, tono didascalico.
La moglie di Percy minaccia di uccidersi.
“Lo farò, lo farò per farti soffrire, come tu stai facendo soffrire me.”
Il suo corpo viene ritrovato nel tardo autunno del 1816 riverso in un gelido torrente.
Percy vuole convincersi che si tratti di una disgrazia accidentale.
Per me invece non semplicemente scivolata, come se il destino avverso a lei e
favorevole a me le avesse dato una spinta fatale.
In fondo la capisco, io avrei fatto la stessa cosa. Mi sarei gettata come lei in un
torrente, per farmi togliere il respiroe con esso il senso del dolore dal freddo delle
acque.
E poi lasciarsi trascinare come Ofelia dalla corrente. Via, via! Forse non in un altro
mondo, ma senz’altro in un’altra dimensione, dove tutto è ma nulla sa di esistere.
Questa è la vera vita dopo la morte, il paradiso! Di chi è fatto di materia sensibile
come la carne: tornare as essere materia informe e, al tempo stesso, partecipe del
Tutto.
Ma torno con la mente a quell’estate del 1816, qualche mese prima del suicidio che
permetterà a Percy Shelley di convolare in seconde nozze con me.
Io e Percy abbiamo deciso di fuggire lontano. Mio Padre stringe la mano a Percy e mi
abbraccia: pur sapendo che forse non ci rivedremo mai più, comprende che non
abbiamo altra scelta. A Londra girano strane voci sul nostro conto: la figlia di un ex
uomo di chiesa e di una libertina, che proclamava la libertà sessuale e la parità dei
sessi, invisciata in una relazione con un uomo sposato. Qualcuno sospetta che i miei
figli nati da questo rapporto non siano nati morti, ma siano deceduti dopo in strane
circostanze.
Così abbiamo deciso di andarcene verso i paesi del sud.. Francia, Svizzera e poi
l’Italia. La mia sorellastra Claire ha conosciuto Byron intimamente ed ora vuole
raggiungerlo a Ginevra dove egli ha affittato un villa in riva al lago per trascorrervi
l’estate.
Pausa, silenzio, rumore del mare.
Sulla nave che ci porta a Calais Percy sembra un bambino impazzito di gioia per un
giocattolo nuovo. Il vento gonfia le grandi vele bianche che appaiono e scompaiono in
cima ai pennoni nella fitta nebbia: sembrano fantasmi ridicolmente grassi. Percy si
arrampica sull’albero maestro e comincia a declamare alcuni versi di Shakespeare che
arrivano all’orecchio smangiucchiati dal rumore delle onde e dalle voci dei marinai.
“Oh, vento del destino!” sono le uniche parole che percepisco con chiarezza.
Avrei voglia di fare l’amore con lui. Ora, subito, qui, anche davanti a tutti… ma come
faccio a dirglielo?
Cambia tono e torna ad essere “introspettiva”.
Attento, amore, stai attento
Alle onde del mare
Alle insidie del vento
Che dovrai affrontare
Quando il meteorologico tempo
E quello che ti concede il destino
Coincideranno in un punto vicino.
Sogno una vela nera
Piegata sul mare
Su cui per calare
Impietosa è la sera.
Tu tra le onde
Vorresti nuotare
Verso le sponde
Per non affogare.
Pausa.
Non so come spiegare l’angoscia
Che come la nube di un temporale
Offusca la gioia che vorrei provare
E la vela del mio spirito affloscia.
Allora mi dico che di certo c’è
Qualcosa di marcio dentro di me,
Altrimenti non saprei spiegare perché
Mia madre morì partorendomi
E miei figli sono nati deformi.
Attento, amore, stai attento
Non è un destino benigno
Quello che racchiude lo scrigno
Della nostra breve esistenza
Da cui esce solo un lamento
Attento, Pecy, stai attento
Non è Zefiro quello che sento
Ma l’alito mortale del tempo
Che gonfia le vele di vento
E sospinge il tuo Ariel sul mare.
Deve marcire tutto quello che tocco?
E’ destinato a perire chiunque mi sia
Caro? Oh, destino di triste ipocrisia,
Prima mi illudi di essere felice
Poi mi fai bere dal tuo amaro calice
Che scioglie sulla culla il fiocco
Colorato che solo un attimo prima
Avevi annodato in segno di sorte benigna.
Così come al giorno segue la notte,
La notte mostruosa mi insegue maligna.
Lo sento, lo sento,
Che questo vento
Porterà via con sé
Ciò che resta di me
Dopo i miei tre
Figli toccherà pure a te,
Ciò che amo di più,
Percy, sei tu.
Il mio sentimento
È come un tormento
L’amore nasconde
Un triste lamento.
Lo sento, lo sento
Ne ho presentimento
Che questo lamento
Disciolto nel vento
Porterà cia da me
Ciò che amo sei tu
Ma non dico di più
Ché il Fato mi sente
E non è conveniente
Sfidarlo sapendo
La forza del vento.
Cambia tono torna ad essere “ voce narrante”.
Da Calais ci muoviamo verso la Svizzera francese, destinazione Geneve.
Pioggia, vento, grandine. Il cielo si accanisce nell’ostacolare, rendendola comunque
più triste, la nostra fuga. Ci accompagna come un rimprovero uil borbottiocontinuo
delle nuvole che, quando si rovesciano su di noi con uno scroscio di pioggia, lasciano
intravedere spettrali bagliori che schizzano tra le ripide pareti degl’imperiosi massicci
alpini. La nebbia di tanto in tanto si dirada e si scorgono le vette innevate che
sembrano punzecchiare il cielo scuro e carico di pioggia e saette.
Shelley non è affatto turbato da questa stranezza della natura che ci riserva uno
spicchio di inverno all’inizio dell’estate. Anzi, sembra che le condizioni climatiche lo
facciano concetrare meglio, tutto avvolto nel cappotto come un fagotto di stracci,
nella sua lettura preferita: Tacito.
Io vorrei descrivere in qualche modo il paesaggio che stiamo attraversando, ma non
posso né scrivere né disegnare perché la carrozza sobbalza di continuo su ogni pietra
del tortuoso sentierto che si inerpica lungo il fianco della montagna che sembra
saltellare per il solletico che gli procurano le ruote del carro.
Una nuvola nera con una forma bizzarra – beh, sembra la testa cornuya di una
mostruosa creatura degli inferi – sembra procedere alla nostra stessa andatura: come
se ci stese silenziosamente seguendo.
Dopo circa due ore di questo faticoso percorso, proprio mentre mi stavo per
addormentare sulla spalla di Shelley, la voce del vetturino mi fa sobbalzare:
“Geneve!”.
Sì ecco, mi sporgo dal finestrino, si vede Ginevra là sotto. Contornata anch’essa da
nubi minacciose ma momentaneaemnte baciata da uno sprazzo di sole che splende
sull’azzurro del lago formando un idilliaco quadretto, la città ci dà il suo benvenuto
così apparentemente cordiale.
Mi dico che potrebbe essere un buon segno, forse l’inizio di un periodo felice – e mi
sorprendo a rimproverarmi: perché non sono già abbastanza felice? Non ho forse
ottenuto quello che desideravo, il mio Percey tutto per me? La mia sorellastra Clara
mi guarda e sorride: forse ha intuito quello che mi sta passando per la mente. Anche
lei sembra felice: tra poco potrà rivedere il suo Byron che ci sta aspettando a Ginevra.
Ma quella relative alla felicità umana sono pure e stupide illusioni. Sì, solo stupide
illusioni!
La dura scorza della realtà è ben più ruvida ed ineluttabile degli sporadici e casuali
sobbalzi che fi fanno librare per qualche frazione di secondo verso il cielo. In realtà si
tratta soltanto di buche e di sassi su cui inciampano le ruote del nostro destino che
procede imperterrita fino alla destinazione finale: la tomba.
Ma di questi funesti pensieri mescolati a lampi di gioia, non voglio parlare.
Quando riprendiamo il cammino dopo una breve sosta per rifocillarci, comincia la
discesa e, non appena ricomincia a piovere, scende inesorabilmente l’oscurità
guastando del tutto quel mio stato d’animo perennemente in bilico tra angoscia e
speranza.
Percy alza lo sguardo dal libro e mi sorride teneramente: il suo spirito è forte come
una roccia e non si lascia intimorire dalle intemperie del tempo e del Fato.
Tornando sotto la soglia dei 1600 metri sul livello del mare il bosco s’infittisce
nuovamente fino a trasformarsi in un oscuro labirinto che inghiottisce l’ultimo
barlume di luce del giorno. Allora il bosco sembra fatto non di tronchi ed arbusti, ma
di ombre spettrali che si scansano malvolentieri al nostro passaggio.
La natura sembra proprio avere un’anima e quest’anima sembra sopportarci a stento
nel suo seno: è come se volesse risputarci al più presto fuori.
Percy mi sorride nuovamente: non trova nulla di strano in quello spettrle coacervo di
forme e apparenze rappresentato dal bosco.
“La natura – dice con tutta l’ingenuità di cui è capace – non è né buona né cattiva, ma
solo stupida. Sì, ha sentito bene, stupida. Perché giunge alle soglie dell’autocoscienza
senza riuscire mai a pensare se stessa, a porsi come oggetto del proprio pensiero. Così
non riesce ad accedere ad una superiore dimensione dell’essere.”
Percy è tenero come un bambino che si diletta col suo giocattolo preferito, tanto si
infervora quando si mette a filosofeggiare rapito dall’enfasi dello spirito.
Voce interiore.
Il destino ha occhi di fuoco e si nasconde
In agguato tra i rami degli abeti e le ombre
Della notte che attraversano lo spazio visivo
Come schegge impazzite d’un mondo illusivo.
Ho la sensazione che qualcuno segua le orme
Che mi lascio dietro affondando nella neve
Cercando d’avanzare col mio passo lieve.
Mi sono assopita e in questo sogno allusivo
Colui che mi segue è soltanto un pensiero,
Quel pensiero di morte che dentro mi porto
E che mi fa vedere il mio Percy già morto.
Vorrei smettere di dormire per più non sognare,
Vorrei smettere di sognare per più non pensare,
Vorrei smettere di morire per più non tremare,
Vorrei smettere di tremare per più non morire
O magari, morendo, riuscire infine a sognare.
Voce narrante.
Byron non vuole sentir storie: dobbiamo trasferci tutti nella dependance di Villa
Diodati in riva al lago che ha preso in affitto per l’estate. Si annoia e l’idea di avere a
portata di mano la compagnia di Shelley che molto lo rallegra, nonché la silenziosa
presenza di Claire sempre pronta a scaldargli il letto nelle fredde notti di questa
stramba estate, è per lui motivo di giaia.
Io? Io non posso né, tutto sommato, voglio oppormi. So bene che resterò sola,
immersa nei miei tenebrosi pensieri, dal momento che Byron assorbe l’attenzione e il
tempo di chiunque gli capiti a tiro.
Lord Byron ha del resto programmato la sua vacanza con pignoleria tipicamente
inglese. Si è scelto persino un giovane accompagnatore che può tornargli utile al
momento opportuno. Si tratta di Polidori, il figlio del segretario di Vittorio Alfieri, un
brillante ragazzone appena laureatosi in medicina a Cambridge che coltiva aspirazioni
letterarie. Nonostante l’aspetto simpatico e conviviale, Polidori ha però un lato
oscuro. Il suo sguardo si rabbuia facilmente come attraversato da un incubo. A volte
ci scherza persino su: “Non fateci caso se talvolta divento scontroso, ma per me la
medicina è solo un ripiego. Pago dunque lo scotto della vocazione che ho dovuto
tenere a freno, ma non spegnere, dentro di me. Ma un giorno smetterò di fare il
medico per dedicarmi interamente alla poesia e al teatro.”
Dalla chirugia alla drammaturgia, sospira Byron, il passo è dunque breve, ma non
vorrei essere curato da un drammaturgo e leggere le opere di un chirurgo!
Abbandoniamo dunque il nostro albergo che gode di una splendida e rasserenante
vista sul Monte Bianco, che si staglia come un saggio e pacifico gigante sullo sfondo
paradisiaco del cielo, per trasferirci dall’altra parte del lago. Dalle finestre della nostra
nuova dimora si scorge però un panorama ben diverso: al posto delle perenni e
luminose nevi del Mont Blanc, lo sguardo si perde nell’oscuro labirinto dei boschi del
Canton Jura, da cui nottetempo provengono tsrane grida e versi di animali selvatici.
Il Monte Bianco che prima mi faceva da scudiero e da silenziosa sentinella pronta a
scattare al primo segnale di pericolo, ora è scomparso dal mio orizzonte visivo per
lasciare il posto al cupo, sinistro intrigo di rami dei contorti abeti che sembrano
ballerini spennacchiate immortalate oscenamente, con le sottane sollevate, da un
pittore. Ma se ho accettato di venire a stare a Villa Diodati c’è un motivo preciso. In
queste stanze soggiornò il grande poeta Milton: proprio sulla mia scrivania scrisse
alcune pagine del celeberrimo "Paradise lost", là dove dice ad esempio "reason is
choise", la ragione è la facoltà di scegliere. Voglio dunque immergermi in questa
atmosfera ricca di suggestioni letterarie.
Pausa. Un silenzio. Prosegue.
Il nostro soggiorno a Ginevra suscita curiosità morbose: pare che la nostra fama di
libertini, prticanti riti orgiastici e l’amore libero ci abbia preceduto come un fantasma.
Una piccola folla di curiosi passa intere giornate appollaiata sul muro di cinta del
parco della villa nella speranza di poter gustare qualche scena osé.
Non dico che Byron non si sia meritata questa fama: è un Lord è può permettersi
ancheun tocco di eclettismo. Ma per me e Shelley significa ricadere nel girone
infernale delle maldicenze, quelle stesse cattiverie che speravamo di esserci lasciati
alle spalle, a Londra., per non esserne distrutti moralmente. Sono considerata una
libertina figlia di uno spretato e della sua concubina che difese e praticò l’amore
libero! La mia mostruosità mi insegue!
Silenzio.
Dopo cena, Byron e Shelley se la svignano. Frequentano un locale in città, Polidori
raramente li accompagna, ma mantiene uno stretto riserbo professionale.
Quanto inutile mistero per una cosa così normale come il sesso!
La verità è che questi uomini non sono abbastanza emancipati, se non a chiacchiere.
Una sera rimaniamo soli io e Polidori. Fa freddo nonostante sia il mese di giugno ed
accendiamo addirittura il caminetto. Scherziamo e ridiamo ma poi, quando lui
comincia a fissare con lo sguardo il fuoco che divampa, il suo volto si contrae in una
smorfia: all’improvviso non è più la stessa persona allegra diattimo prima.
Cerco di scuoterlo dal nulla interiore in cui sembra inebetito: gli chiedo che cosa
l’abbia spinto a studiare medicina, dal momento che si sente tanto portato per la
poesia. La sua risposta mi raggela il sangue nelle vene.
"Il corpo umano non è altro che una macchina carica di energia elettrica che
scaturisce dallo scontro interiore di una carica positiva e di una negativa. Questi
impulsi elettrici che attraverssano le nostre membra, i nostri organi, le nostre viscere,
rappresentano ciò che noi definiamo vita o, se vogliamo, Anima. Il mio scopo —
poetico e filosofico, ancorché scientifico — è dunque quello di sconfiggere la morte
riuscendo a ridare vita ad un corpo che ne è privo. Dopodiché intendo creare un essere
umano dal nulla assemblandone gli organi prelevati da altri corpi come se fosse una
macchina."
Non riesco a trattenermi: "Ma questa macchina sarà pur sempre un uomo!"
"No — mi lascia ancora una volta di stucco — un superuomo!"
"Un Superuomo — insisto — che finirà per odiare il suo stesso Creatore!"
"Beh — taglia corto Polidori attizzando il fuoco - è normale che la creatura bestemmi
il suo creatore: io non faccio altro da quando sono nato!"
Polidori si accorge che sono alquanto turbata e, credendo di aver fatto colpo, si vanta
di avere un’idea buona per un racconto che sto buttando giù. E’ la storia di una
spaventosa creatura che risorge dalla morte ad ogni chiaro di luna, si chiama
"Dracula".
Mi racconta un’orribile vicenda di morti viventi, i vampiri, che mi spaventa
terribilmente.
Un tuono. Torna al tono "lirico".
Siamo tutti così, mostri in attesa di diventarlo?
Oppure la morte nasconde un suo lato bello,
Magari meno evidente, sarebbe bene saperlo.
Quella notte non riuscii a chiudere occhio
Mi sveglio di soprassalto ad ogni schiocco
Dei tuoni che rimbomano in me molesti.
L’immaginazione fa poi dei brutti scherzi,
Quando il cuore è messo in mano a terzi.
E così, fantasia di quella notte stessa,
Mi si presenta per la prima volta lui:
Inorno al collo ha una corda spessa
E i suoi occhi sono immensamente bui.
Non deve aprir la bocca per farle fiato,
Col suono delle parole appena sussurrato
Mi fa capire non so come d’avere già tentato
Di autopunirsi con la morte dell’impiccato,
Ma poi pare che vi abbia rinunciato
Per commettere ancor qualche peccato
Tanto per non dover rischiare il Paradiso.
Tutti i rumori
Provenienti da fuori
Tacciono all’improvviso
Sbianca il mio viso
Di paura atterrito
Il corpo è immoto
Il respiro è sparito
Immersa nel vuoto
Della mia mente
L’orecchio non sente
Il ronzio del male
Che sta nascendo
Che sta crescendo,
Dolore bestiale,
Dentro di me.
Nella coscienza ancora permane
Ma è soltanto il tenue barlume
Di una voce che non riconosco
Come mia: estranea rimane,
Sembra la voce di un mostro.
Oppure di qualcosa che è morto
E cerca ora di tornare alla luce
Come spirito appena risorto
Senza sapere chi lo conduce.
Lo prego allora d’andarsene via,
La sua voce non può essere mia,
Ma lui sfugge senza alcun sforzo
Al vuoto in cui spengo il rimorso,
Quello di essere stata concepita
Togliendo a mia madre la vita.
Perché tutto questo tormento?
Perché, mostro, mi stai dentro?
Frankestein, la mia creatura,
Parla la lingua della paura
E della disperazione più pura
Di chi è nato contro natura.
Silenzio. Pausa. Tuoni lontani.
Questo essere avvolto nel mistero
Non scherza e parla in tono serio:
"Il mio nome è Viktor Frankenstein dice venendomi sempre più vicino —
e sono nato in questo bel paese alpino
da famiglia agiata d’origine ginevrina,
ho poi studiato in Germania medicina."
Io sono come paralizzata dal terrore
Di quest’apparizione nelle notturne ore
E non riesco a spiccicare una parola,
Ché la lingua mi si è seccata in gola.
Lui allora sedendosi ai piedi del mio letto
Senza che io gli abbia ancora nulla detto,
Mi mostra le cicatrici del martoriato petto,
Dopodiché per farmi un po’ tranquillizzare
Sorride come un Fauno sdentato al Baccanale.
"Sono io stesso colui che questo male
a se stesso ha volontariamente procurato
per scoprire dentro di sé i segreti del Creato.
Ho voluto insomma vedere dal di dentro
Del corpo umano l’intrinseco funzionamento!".
Sembra calmo ma ha uno sguardo allucinato
Di chi si è, forse, un po’ troppo avvinazzato,
Oppure di un maniaco pericoloso ed esaltato,
Come quello di uno che ha testé ammazzato.
Facendomi coraggio riesco solamente a dire:
Sei venuto per vedermi davanti a te morire?
"La verità — risponde — è che la morte è certa
mentre la vita è una ferita sempre aperta."
Pausa. S’immedesima nel mostro.
Tornerò a te come il dolore
A me ignoto della partoriente
Che percepisce il frutto dell’amore
Come un corpo estraneo nel suo ventre.
Fosti tu a generarmi con la mente
Ed ora non mi vorresti più presente?
Tornerò come l’amore
Disperato per la morte dell’amante
Che nel cigno ha il suo significante,
Tornerò a te come un alito di tomba
Di carne trasformata in ombra.
Tornerò a te come un’onda
Che travolge tutto al suo passaggio,
Questo è solo un modesto assaggio
Del mio crudele e insolito messaggio.
Pausa. Torna se stessa.
Ciò detto, come un tuono che svanisce,
Il suo volto si dissolve e poi sparisce,
Abbagliandomi col riverbero del lampo
Che si abbatte come grandine sul campo.
Si stende sul pavimento. Assume una posizione fetale. Parte una voce registrata.
VOCE REGISTRATA:
Mary Shelley, l’autrice del romanzo ‘Frankestein", muore nel 1831 affetta da un
tumore al cervello. Pare che nel decorso della malattia si sia più volte abbandonata ad
un vaniloquio poetico che non è stato possibile trascrivere e di cui qui si è tentata la
ricostruzione.
Dei suoi quattro figli avuti dal poeta Percy Shelley, solo uno che porta il nome del
padre, sopravviverà ai genitori.
Henriette, prima mogli e di Shelley, muore suicida nel 1816.
Shelley è sorpreso da una tempesta a bordo della sua barca Ariel mentre veleggia al
largo di Viareggio nel 1822.
Polidori muore suicida pare a causa dei debiti e di una forte depressione causata dal
fallimento artistico nel 1828.
Pare che il mostro di Mary Shelley — Viktor Frankstein — sia ancora in piena
attività.
SI racconta che nelle notti di luna piena si aggiri tra i boschi del cantone svizzero
dello Jura e le sponde meridionali del lago di Ginevra.
Chi l’ha visto è stato colpito di lì a poco da una sventura o ha subito incidenti.
La Polizia svizzera si sta occupando di numerosi casi di morti sospette nella zona che
vengono ricollegate alle ultime parole del Mostro:
"my ashes will be swept into the sea by the wind"
Che le mie ceneri siano sparse al vento sul lago.
Ma le ceneri del mostro sono forse ancora vive come la brace su cui ne fu cremato
l’orribile corpo?
FINE