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1 HAZEL Nel corso del terzo attacco, per poco Hazel non mangiò un masso. Stava scrutando tra la nebbia, domandandosi come potesse essere così difficile volare sopra una stupida catena montuosa, quando le campane di allarme della nave suonarono. “Tutta a sinistra!” gridò Nico dall’albero di trinchetto della nave volante. Alla postazione del timone, Leo tirò con violenza la ruota. L’Argo II virò a sinistra, con i suoi remi aerei che tagliavano le nuvole come una fila di coltelli. Hazel fece l’errore di guardare oltre la ringhiera. Una scura sagoma sferica si schiantò contro di lei. Pensò: Perché la Luna sta venendo verso di noi? Poi gridò e si gettò a terra. L’enorme masso le passò così vicino sopra la testa, che le fece volare i capelli all’indietro. CRACK! L’albero di trinchetto crollò – vele, aste e Nico, andarono tutti a schiantarsi sul ponte. Il masso, che raggiungeva senza problemi le dimensioni di un pickup, rotolò tra la nebbia come se avesse faccende più importanti da svolgere altrove. “Nico!” Hazel accorse verso di lui mentre Leo raddrizzava la nave. “Sto bene,” mormorò Nico, scalciando via pezzi di tela dalle gambe. Lo aiutò ad alzarsi e si diressero incerti verso prua. Hazel scrutò con più attenzione questa volta. Le nuvole si aprirono quel che bastava per rivelare la cima della montagna sotto di loro: una roccia nera terminante con una punta che sporgeva da pendii ricoperti d’erba. Sulla cima si trovava un dio della montagna – uno deinumina montanum, gli aveva chiamati Jason. Oppure ourae, in greco. Comunque si chiamassero, erano orribili. Come gli altri che avevano affrontato, questo indossava una semplice tunica bianca sopra una pelle grezza come il basalto. Era altro all’incirca sei metri ed era estremamente muscoloso, con una fluente barba bianca, capelli disordinati, e uno sguardo selvaggio negli occhi, come un eremita folle. Ruggì qualcosa che Hazel non comprese ma, chiaramente, non si trattava di un benvenuto. Con le mani nude, sollevò un altro pezzo di roccia dalla sua montagna e cominciò a imprimergli la forma di una palla. La scena scomparve nella nebbia, ma quando il dio della montagna ruggì nuovamente, altri numinarisposero in lontananza, le loro voci che riecheggiavano attraverso le valli. “Stupide divinità dei sassi!” urlò Leo dal timone. “Questa è la terza volta che devo sostituire quell’asta! Credete che crescano sugli alberi?” Nico si accigliò. “Le aste delle navi sono fatte di alberi.” “Non è quello che voglio dire!” Leo spinse un altro dei suoi controlli, un telecomando fatto in casa della Nitendo Wii, e lo roteò. A qualche metro di distanza, una botola si aprì sul ponte. Ne venne fuori un cannone di bronzo Celeste. Hazel ebbe appena il tempo di coprirsi le orecchie prima che sparasse verso il cielo, spruzzando una dozzina di sfere di metallo che rilasciavano una scia di fuoco verde. A mezza’aria, dalle sfere spuntarono delle punte, come le eliche di un elicottero, e volarono via nella nebbia. Un secondo più tardi, una serie di esplosioni crepitò attraverso i monti, seguita dai ruggiti oltraggiati delle divinità della montagna. “Ha!” gridò Leo. Sfortunatamente, pensò Hazel, a giudicare dei loro due ultimi incontri, la nuovissima arma di Leo non aveva fatto altro che irritare i numina. Un altro masso volò fischiando oltre tribordo. Nico gridò, “Portaci via da qui!” Leo borbottò qualche commento poco lusinghiero sui numina, ma girò il timone. I motori ronzarono. Dei cordami magici si legarono autonomamente, e la nave si inclinò a babordo. L’Argo II prese velocità, ritirandosi verso nordovest, come avevano fatto negli ultimi due giorni. Hazel non si rilassò finché non furono fuori dalle montagne. La nebbia si schiarì. Sotto di loro, la luce del mattino illuminava la campagna italiana – morbide colline verdi e campi dorati non troppo diversi da quelli della California settentrionale. Hazel poteva quasi immaginarsi che stessero navigando per tornare a casa, al Campo Giove. Il ricordo le pesò sul petto. Il Campo Giove era stato la sua casa solo per nove mesi, da quando Nico l’aveva riportata dall’Oltretomba. Ma le mancava più della sua casa natale a New Orleans, e senza dubbio più dell’Alaska, dove era morta nel 1942. Le mancava il suo letto nelle baracche della Quinta Coorte. Le mancavano le cene nel padiglione della mensa, con gli spiriti del vento che facevano volare i piatti attraverso l’aria e i legionari che scherzavano sui giochi di guerra. Voleva passeggiare per le strade di Nuova Roma, mano nella mano con Frank Zhang. Voleva provare cosa volesse dire essere una ragazza normale, solo per una volta, con un vero, dolce e premuroso ragazzo. Più di tutto, voleva sentirsi al sicuro. Era stanca di essere costantemente spaventata e preoccupata. Si trovava sul ponte rialzato mentre Nico si toglieva le schegge dell’albero dalle braccia e Leo premeva dei bottoni sulla console della nave. “Bè, quello è stato schifossimo,” disse Leo. “Sveglio gli altri?” Hazel era tentata di dire di sì, ma gli altri membri della nave avevano fatto il turno di notte e si erano guadagnati il loro riposo. Erano esausti per aver difeso la nave. Ogni qualche ora, sembrava, qualche mostro romano decideva che l’Argo II aveva l’aspetto di un gustoso spuntino. Qualche settimana prima, Hazel non avrebbe mai creduto che qualcuno potesse dormire durante un attacco di numina, ma ora immaginava che i suoi amici stessero ancora russando sottoponte. Ogni volta che leiaveva la possibilità di crollare, dormiva come se fosse in coma. “Hanno bisogno di riposo,” disse. “Dovremmo trovare un’altra strada da soli.” “Huh.” Leo si accigliò in direzione del suo monitor. Con la sua maglietta da lavoro a brandelli e i jeans sporchi di grasso, sembrava che avesse appena perso un incontro di lotta con una locomotiva. Fin da quando i loro amici Percy e Annabeth erano caduti nel Tartaro, Leo aveva lavorato quasi senza sosta. Si era comportato in maniera più arrabbiata e persino più ossessionata di prima. Hazel era preoccupata per lui. Ma parte di lei era sollevata dal cambiamento. Ogni volta che Leo sorrideva e scherzava, assomigliava troppo a Sammy, il suo bisnonno…. il primo fidanzato di Hazel nel 1942. Ugh, perché la sua vita doveva essere così complicata? “Un’altra strada,” borbottò Leo. “Ne vedi una?” Sul monitor brillava una mappa dell’Italia. Gli Appennini correvano lungo il centro dello stato a forma di stivale. Un puntino verde simboleggiante l’Argo II lampeggiava sul lato occidentale della catena montuosa, a qualche centinaia di chilometri a nord di Roma. Il loro percorso sarebbe dovuto essere semplice. Dovevano raggiungere un luogo chiamato Epiro in Grecia e trovare un antico tempio chiamato Casa di Ade (o Plutone, come lo chiamavano i romani; oppure come piaceva chiamarlo a Hazel: il Padre Assente Peggiore del Mondo). Per raggiungere Epiro, tutto quello che dovevano fare era procedere dritti verso est – sopra gli Appennini e attraverso il Mar Adriatico. Ma non aveva funzionato in quel modo. Ogni volta che cercavano di attraversare il limite dell’Italia, le divinità delle montagne attaccavano. Negli ultimi due giorni avevano costeggiato in direzione nord, nella speranza di trovare un passaggio sicuro, senza fortuna. I numina montanum erano figli di Gea, la dea meno preferita di Hazel. Ciò li rendeva dei nemici molto determinati. L’Argo II non poteva volare abbastanza in alto da evitare i loro attacchi; e persino con tutte le sue difese, la nave non era in grado di attraversare la catena senza essere fatta a pezzi. “E’ colpa nostra,” disse Hazel. “Mia e di Nico. I numina possono avvertire la nostra presenza.” Lanciò un’occhiata al suo fratellastro. Da quando l’avevano salvato dai giganti, aveva cominciato a riacquistare la sua forza, ma era ancora estremamente magro. La maglietta e i pantaloni neri gli cadevano sulla figura scheletrica. Lunghi capelli scuri gli incorniciavano gli occhi infossati. La sua carnagione olivastra si era fatta di un malsano colore bianco verdastro, come quello della resina degli alberi. In anni umani, aveva a malapena quattordici anni, solo un anno più grande di Hazel; ma ciò non era tutto. Come Hazel, Nico di Angelo era un semidio proveniente da un altro secolo. Irradiava un tipo di energiaantica – una malinconia proveniente dalla consapevolezza di non appartenere al mondo moderno. Hazel non lo conosceva da molto, ma capiva, condivideva persino la sua tristezza. I figli di Ade (Plutone – quello che era) raramente avevano delle vite felici. E a giudicare da quello che Nico le aveva detto la sera prima, la loro sfida più grande doveva ancora arrivare, quando avrebbero raggiunto la Casa di Ade – una sfida che lui le aveva implorato di non rivelare agli altri. Nico strinse l’elsa della sua spada di ferro di Stige. “Agli spiriti della terra non piacciono i figli dell’Oltretomba. Questo è vero. Gli diamo sui nervi. Ma credo che i numina potrebbero avvertire la nave in ogni caso. Stiamo trasportando l’Atena Partenone. Quella cosa è come una pizza magica.” Hazel rabbrividì, pesando all’enorme statua che occupava la maggior parte della stiva. Avevano sacrificato così tanto salvandola dalla caverna sotto Roma; ma non avevano idea di cosa farci. Fino a quel momento l’unica cosa alla quale sembrava servire era allertare altri mostri della loro presenza. Leo fece scorrere il dito lungo la mappa dell’Italia. “Quindi, attraversare le montagne è fuori questione. Il fatto è che, proseguono per molta strada in entrambe le direzioni.” “Potremmo andare via mare,” suggerì Hazel. “Navigare intorno alla punta meridionale dell’Italia.” “E’ una strada lunga,” disse Nico. “Inoltre, non abbiamo…” La sua voce si spezzò. “Sapete… il nostro esperto di mare, Percy.” Il nome rimase sospeso in aria come una tempesta incombente. Percy Jackson, figlio di Poseidone… probabilmente il semidio che Hazel ammirava di più al mondo. Le aveva salvato la vita così tante volte durante la loro impresa in Alaska; ma quando lui aveva avuto bisogno dell’aiuto di Hazel a Roma, lei l’aveva deluso. Aveva guardato, impotente, mentre lui e Annabeth si erano tuffati in quell’abisso… Hazel fece un respiro profondo. Percy e Annabeth erano ancora vivi. Lo sapeva nel suo cuore. Poteva ancoraaiutarli se fosse riuscita a raggiungere la Casa di Ade, se fosse riuscita a sopravvivere alla sfida della quale Nico l’aveva messa in guardia… “Se continuiamo ad andare verso nord?” chiese lei. “Ci deve essere un’interruzione nella catena montuosa, o qualcosa del genere.” Leo giocherellava con la sfera di bronzo di Archimede che aveva istallato nella console – il suo giocattolo più nuovo e più pericoloso. Ogni volta che Hazel guardava quella cosa, le si seccava la bocca. Temeva che Leo potesse digitare la combinazione sbagliata sulla sfera e farli volare tutti erroneamente via dal ponte, o far esplodere la nave, o trasformare l’Argo II in un tostapane gigante. Grazie al cielo, furono fortunati. Dalla sfera si sviluppò un obiettivo fotografico che proiettò un’immagine 3D degli Appennini sopra la console. “Non lo so.” Leo esaminò l’ologramma. “Non vedo nessun passaggio adatto, a nord. Ma preferisco questo all’idea di tornare indietro verso sud. Ne ho abbastanza di Roma.” Nessuno ribatté a quell’affermazione. Roma non era stata una bella esperienza. “Qualsiasi cosa facciamo,” disse Nico, “dobbiamo sbrigarci. Ogni giorno che Annabeth e Percy trascorrono nel Tartaro…” Non aveva bisogno di finire la frase. Dovevano sperare che Percy e Annabeth potessero sopravvivere abbastanza da trovare la parte del Tartaro delle Porte della Morte. Poi, ammesso che l’Argo II raggiungesse la Casa di Ade, era possibile che riuscissero ad aprire le porte dalla parte mortale, salvare i loro amici, e sigillare l’entrata, impendendo alle forze di Gea di reincarnarsi nel mondo mortale, ancora e ancora. Sì… nulla poteva andare storto con quel piano. Nico guardò corrucciato verso la campagna italiana sotto di loro. “Forse dovremmo svegliare gli altri. Questa decisione riguarda tutti.” “No,” disse Hazel. “Possiamo trovare una soluzione.” Non era certa del perché si sentisse così sicura di quello, ma da quando avevano lasciato Roma, il gruppo aveva iniziato a perdere la loro coesione. Avevano iniziato a lavorare come una squadre. E poi bam…i loro due membri più importanti erano caduti nel Tartaro. Percy era stato la loro spina dorsale. Aveva dato a tutti sicurezza, mentre navigavano attraverso l’Atlantico e nel Mediterraneo. Per quanto riguardava Annabeth – lei era il capo de facto dell’impresa. Aveva recuperato l’Atena Partenone da sola. Era la più brillante dei sette, quella con le risposte. Se Hazel svegliava il resto del gruppo ogni volta che avevano un problema, avrebbero semplicemente ricominciato a litigare, sentendosi sempre più senza speranza. Doveva rendere Percy e Annabeth orgogliosi di lei. Doveva prendere l’iniziativa. Non poteva credere che il suo unico ruolo in quell’impresa fosse quello da cui l’aveva messa in guardia Nico – rimuovere l’ostacolo che li stava aspettando nella Casa di Ade. Mise il pensiero da parte. “Abbiamo bisogno di essere creativi,” disse. “Un’altra strada per attraversare quelle montagne, o un modo per nasconderci dai numina.” Nico sospirò. “Se fossi stato da solo, avrei potuto usare il viaggio ombra. Ma non funzionerebbe con una nave intera. E onestamente, non sono certo di avere più la forza per trasportare anche solo me stesso.” “Forse potrei allestire qualche tipo di camuffamento,” disse Leo, “come uno schermo di fumo per nasconderci tra le nuvole.” Non sembrava molto entusiasta. Hazel fissò le fattorie che scorrevano sotto di loro, pensando a cosa giaceva sotto di esse – il regno di suo padre, signore dell’Oltretomba. Aveva incontrato Plutone solo una volta, e non aveva nemmeno capito chi fosse. Sicuramente non si era mai aspettata dell’aiuto da parte sua – non quando era stata viva la prima volta, non durante il suo periodo come spirito nell’Oltretomba, non da quando Nico l’aveva portata indietro nel mondo dei vivi. L’aiutante di suo padre, Tanato, dio della morte, aveva suggerito che forse Plutone le stava facendo un favore ignorandola. Non sarebbe dovuta essere in vita, dopotutto. Se Plutone la notava, avrebbe dovuto riportarla nella terra dei morti. Il che voleva dire che invocare Plutone sarebbe stata un’idea molto brutta. Tuttavia… Ti prego, papà, si ritrovò a pregare. Devo trovare un modo per raggiungere il tuo tempio in Grecia – la Casa di Ade. Se sei laggiù, mostrami cosa fare. All’orizzonte, un movimento improvviso catturò la sua attenzione – qualcosa di piccolo e beige che correva attraverso i campi a un’incredibile velocità, lasciando una scia di vapore come quella di un aereo. Hazel non poteva crederci. Non osava sperare, ma doveva essere… “Arion.” “Cosa?” chiese Nico. Leo si lasciò sfuggire un grido allegro mentre la nuvola di polvere si avvicinava. “E’ il suo cavallo, amico! Ti sei perso tutta quella storia. Non lo vedevamo dal Kansas!” Hazel rise – la prima volta che lo faceva da giorni. Era così bello rivedere il suo vecchio amico. A circa due chilometri a nord, il piccolo puntino beige fece il giro di una collina e si fermò sulla sua cima. Era difficile da distinguere, ma quando il cavallo si impennò sulle zampe posteriori e nitrì, il suono venne trasportato fino all’Argo II. Hazel non aveva dubbi – era Arion. “Dobbiamo andare da lui,” disse. “E’ qui per aiutare.” “Sì, va bene.” Leo si grattò la testa. “Ma, uh, avevamo parlato di non far più scendere la nave a terra, ricordi? Sai, con Gea che vuole distruggerci e tutto il resto.” “Fammi solo avvicinare, e userò la scala di corda.” Il cuore di Hazel stava martellando. “Credo che Arion voglia dirmi qualcosa.” 2 HAZEL Hazel non era mai stata così felice. Bè, ad eccezione forse per la sera del banchetto della vittoria al Campo Giove, quando aveva baciato Frank per la prima volta… ma questo momento gli si avvicinava parecchio. Non appena raggiunse il terreno, corse verso Arion e gli avvolse le braccia intorno al collo. “Mi sei mancato!” Premette il volto nel mantello caldo del cavallo, che odorava di acqua salata e mele. “Dove sei stato?” Arion nitrì. Hazel desiderò saper parlare con i cavalli come Percy, ma afferrò il concetto generale. Arion sembrava impaziente, come se stesse dicendo, Non abbiamo tempo per i sentimentalismi, ragazza! Andiamo! “Vuoi che venga con te?” indovinò lei. Arion abbassò la testa, trottando sul posto. I suoi occhi castano scuro brillavano di urgenza. Hazel non riusciva ancora credere che fosse davvero lì. Era in grado di galoppare su qualsiasi superficie, persino sul mare, ma lei aveva pensato che non li avrebbe seguiti nelle terre antiche. Il Mediterraneo era troppo pericoloso per i semidei e i loro alleati. Non sarebbe venuto fin laggiù a meno che Hazel non ne avesse avuto un bisogno assoluto. E sembrava essere così agitato… Qualsiasi cosa che era in grado di rendere nervoso un cavallo senza paura avrebbe dovuto terrorizzare Hazel. Al contrario, si sentiva euforica. Era così stanca di soffrire di mal di mare e mal d’aria. A bordo dell’Argo II, si sentiva utile più o meno come poteva esserlo una zavorra. Era felice di essere tornata sulla terra solida, anche se quello era il territorio di Gaia. Era pronta per cavalcare. “Hazel!” Nico la chiamò dalla nave. “Che succede?” “Va tutto bene!” Lei si inginocchiò a terra e fece apparire una pepita d’oro dal terreno. Stava migliorando nel controllare il suo potere. Ormai le pietre preziose apparivano raramente intorno a lei per sbaglio, e far spuntare l’oro dalla terra era facile. Diede ad Arion la pepita… il suo spuntino preferito. Poi sorrise rivolta verso Leo e Nico, che la stavano guardando dalla cima della scaletta a circa trenta metri d’altezza. “Arion vuole portarmi da qualche parte.” I due ragazzi si scambiarono delle occhiate nervose. “Uh…” Leo indicò verso nord. “Ti prego, dimmi che non ti sta portando verso quello.” Hazel era stata così concentrata su Arion che non aveva notato la perturbazione. A un paio di chilometri di distanza, sulla cresta della collina successiva, si era riunita una tempesta, proprio sopra delle antiche rovine di pietra – forse i resti di un tempio romano o di una fortezza. Un ciclone serpeggiava dall’alto verso la collina come un dito nero inchiostro. Hazel avvertì il sapore del sangue in bocca. Guardò Arion. “Vuoi andare là?” Arion nitrì, come a dire, Bè, certo! Bè… era stata Hazel a chiedere aiuto. Quella era forse la risposta di suo padre? Sperava di sì, ma avvertiva qualcos’altro oltre a Plutone che agiva in quella tempesta… qualcosa di oscuro, potente e non necessariamente amichevole. Tuttavia, quella era la sua possibilità di aiutare i suoi amici – la sua occasione di guidare invece che seguire. Strinse le cinghie della sua spada da cavalleria d’oro Imperiale e montò in sella ad Arion. “Andrà tutto bene!” esclamò rivolta verso Nico e Leo. “Rimanete pronti e aspettatemi.” “Aspettare quanto?” chiese Nico. “E se non torni?” “Non preoccuparti, tornerò,” promise, sperando che fosse vero. Spronò Arion, e insieme scattarono lungo la campagna, diretti dritti verso il tornado che montava. 3 HAZEL La tempesta aveva inghiottito la collina in un turbinante cono di vapore nero. Arion galoppò dritto verso di esso. Hazel si ritrovò sulla cima, ma sembrava essere una dimensione diversa. Il mondo perse i suoi colori. Le pareti della tempesta avvolsero la collina in un vortice scuro. Il cielo si agitava con nuvole grigie. I resti in rovina erano sbiancati così tanto che sembrava quasi che stessero brillando. Persino Arion era passato dal marrone caramello a una scura tonalità color cenere. Nell’occhio della tempesta, l’aria era immobile. La pelle di Hazel formicolò dal freddo, come se le avessero passato sopra uno straccio imbevuto di alcool. Davanti a lei, nelle mura ricoperte di muschio, si apriva un’apertura sormontata da un arco che portava in una sorta di recinzione. Hazel non riusciva a vedere molto attraverso il buio, ma avvertiva una presenza all’interno, come se lei fosse stata un pezzo di ferro vicino a un grosso magnete. La sua attrazione era irresistibile e la stava trascinando in avanti. Tuttavia esitò. Fermò Arion, e lui pestò gli zoccoli a terra impaziente, con il terreno che scricchiolava sotto di lui. Dovunque camminasse, l’erba, la terra e le pietre diventavano bianche come il ghiaccio. Hazel si ricordò del ghiacciaio Hubbard in Alaska – di come la sua superficie si incrinava sotto i piedi. Si ricordò del pavimento di quell’orribile caverna a Roma che si riduceva in polvere, gettando Percy e Annabeth nel Tartaro. Sperava che quella collina bianca e nera non si dissolvesse sotto di lei, ma decise che era meglio continuare a muoversi. “Andiamo avanti, bello.” La sua voce suonava attutita, come se stesse parlando attraverso un cuscino. Arion trottò attraverso l’arco di pietra. Delle pareti in rovina circondavano un cortile quadrato grande circa come un campo da tennis. Altri tre passaggi, uno al centro di ogni parete, portavano verso nord, est e ovest. Al centro del cortile, due sentieri di sassi si incrociavano, formando una croce. La foschia era sospesa nell’aria – incerti sbuffi di bianco che serpeggiavano e si avvolgevano come fossero vivi. Non foschia, si rese conto Hazel. La Foschia. Per tutta la sua vita, aveva sentito parlare della Foschia – il velo magico che oscurava il mondo dei miti alla vista dei mortali. Poteva ingannare i mortali, persino i semidei, facendo apparire i mostri come animali innocui, o gli dei come persone normali. Hazel non l’aveva mai immaginata come vero fumo, ma mentre la guardava avvolgersi intorno alle gambe di Arion, fluttuare attraverso gli antichi archi di quel cortile in rovine, le si rizzarono i peli delle braccia. In qualche modo lo sapeva: quella roba bianca era magia pura. In lontananza, un cane ululò. Solitamente nulla spaventava Arion, ma il cavallo si alzò sulle zampe posteriori, sbuffando nervosamente. “Va tutto bene.” Hazel lo accarezzò sul collo. “Rimaniamo uniti. Ora scendo, okay?” Smontò dalla schiena di Arion. Istantaneamente lui si voltò e corse via. “Arion, aspet -! Ma era già scomparso nella direzione dalla quale erano arrivati. Tanto perché dovevano rimanere uniti. Un altro ululato squarciò l’aria – questa volta più vicino. Hazel si diresse verso il centro del cortile. La Foschia si raccolse intorno a lei come ghiaccio secco. “C’è qualcuno?” esclamò. “Salve,” rispose una voce. La figura pallida di una donna apparve vicino all’arco settentrionale. No, aspettate… si trovava presso l’entrata orientale. No, vicino a quella occidentale. Tre immagini fumose della stessa donna si mossero contemporaneamente verso il centro delle rovine. La sua sagoma era confusa, fatta di Foschia, ed era seguita da due nuvolette di fumo più piccole, che balzavano accanto ai suoi piedi come animali. Qualche tipo di animaletto domestico? Raggiunse il centro del cortile e le sue tre figure si fusero in un’unica. Si solidificò fino a diventare una giovane donna con una scura toga senza maniche. Aveva i capelli dorati legati in una coda alta, nello stile dell’Antica Grecia. Il suo vestito era così setoso che sembrava ondeggiare, come se il tessuto fosse inchiostro che le stava scorrendo dalle spalle. Non sembrava avere più di vent’anni ma Hazel sapeva che ciò non voleva dire nulla. “Hazel Levesque,” disse la donna. Era bella, ma mortalmente pallida. Una volta, quando si trovava ancora a New Orleans, Hazel era stata costretta a partecipare alla veglia funebre di una sua compagna di classe morta. Si ricordava il corpo senza vita della giovane ragazza nella bara aperta. Il suo volto era stato acconciato in maniera elegante, come se stesse riposando, cosa che ad Hazel era sembrata terrificante. Quella donna ricordava a Hazel la bambina – solo che gli occhi della donna erano aperti ed erano completamente neri. Quando inclinò la testa, sembrò dividersi nuovamente in tre persone diverse… sagome fumose che si mischiavano insieme, come la fotografia di una persona che si era mossa troppo velocemente per catturarla a fuoco. “Chi sei tu?” Le dita di Hazel si contrassero sull’elsa della sua spada. “Voglio dire… quale dea?” Hazel era abbastanza sicura di quello. Quella donna irradiava potere. Tutto quello che c’era intorno a loro – la Foschia vorticante, la tempesta monocromatica, l’inquietante brillio delle rovine – era lì a causa della sua presenza. “Ah.” La donna annuì. “Lascia che ti illumini un po’.” Alzò le mani. Improvvisamente stava reggendo due torce di canna vecchio stile, animate dal fuoco. La Foschia indietreggiò fino ai margini del cortile. Ai piedi della donna, che indossava dei sandali, i due animali fumosi assunsero una forma solida. Uno era un Labrador Retriever nero. L’altro era un peloso roditore grigio e lungo con una maschera bianca intorno al muso. Una donnola, forse? La donna sorrise serenamente. “Io sono Ecate,” disse. “Dea della magia. Abbiamo molto da discutere se vuoi superare la notte viva.” 4 HAZEL Hazel voleva scappare, ma i suoi piedi sembravano essere incollati alla terra bianca. Dal terreno ai due lati dell’incrocio eruttarono due bracieri di metallo scuro, come i gambi di una pianta. Ecate vi posò dentro le sue torce, poi camminò in un lento cerchio intorno a Hazel, guardandola come se loro due fossero partner di qualche misteriosa danza. Il cane nero e la donnola la seguivano. “Sei come tua madre,” decise Ecate. Hazel sentì stringersi la gola. “La conoscevi?” “Certamente. Marie era una veggente. Trattava incantesimi, maledizioni e voodoo. Io sono la dea della magia.” Quegli occhi completamente neri sembravano attrarre Hazel, come se stessero cercando di estrarle l’anima. Durante la sua prima vita a New Orleans, Hazel era stata tormentata dai bambini della Scuola St. Agnes a causa di sua madre. Chiamavano Marie Levesque strega. Le suore mormoravano che la madre di Hazel faceva affari con il Diavolo. Se le suore avevano paura di mia madre, si chiese Hazel, cosa avrebbero fatto davanti a quella dea? “Molti mi temono,” disse Ecate, come se le stesse eleggendo i pensieri. “Ma la magia non è buona né cattiva. E’ uno strumento, come un coltello. Un coltello è forse malvagio? Solo se chi lo brandisce è malvagio.” “Mia – mia madre…” Hazel balbettò. “Lei non credeva nella magia. Non veramente. Faceva solo finta, per i soldi.” La donnola sbatté i denti e gli scoprì. Poi produsse un suono acuto con la sua estremità posteriore. In circostanze diverse, una donnola che rilasciava gas sarebbe potuta essere divertente, ma Hazel non rise. I rossi occhi del roditore la stavano fissando in modo funesto, come minuscoli tizzoni ardenti. “Pace, Gale,” disse Ecate. Scrollò le spalle rivolta verso Hazel per scusarsi. “A Gale non piace sentir parlare di miscredenti e truffatori. Lei stessa un tempo era una strega, capisci.” “La tua donnola era una strega?” “In realtà è una moffetta,” disse Ecate. “Ma, sì – Gale un tempo era una scontrosa strega umana. Aveva una terribile igiene personale, oltre a estremi – ah, problemi digestivi.” Ecate agitò la mano davanti al suo naso. “Portò ai miei altri seguaci una cattiva reputazione.” “Okay.” Hazel cercò di non guardare la donnola. Non desiderava davvero conoscere i problemi intestinali di quel roditore. “Ad ogni modo,” disse Ecate, “la trasformai in una moffetta. E’ molto meglio come moffetta.” Hazel deglutì. Guardò verso il cane nero, che stava dando dei colpetti affettuosi alla mano della dea con il muso. “E il tuo Labrador…?” “Oh, lei è Ecuba, l’antica regina di Troia,” disse Ecate, come se la cosa dovesse essere ovvia. Il cane fece un verso roco con la gola. “Hai ragione, Ecuba,” disse la dea. “Non abbiamo tempo per presentazioni lunghe. Il punto è che, Hazel Levesque, tua madre poteva aver sostenuto di non credere, ma aveva della magia vera. Alla fine, se ne rese conto. Quando cercò un incantesimo per evocare il dio Plutone, io la aiutai a trovarlo.” “Tu…?” “Sì.” Ecate continuava a camminare intorno ad Hazel. “Vidi del potenziale in tua madre. Vedo persino più potenziale in te.” La testa di Hazel stava girando. Ricordò la confessione di sua madre appena prima che morisse: come aveva invocato Plutone, come il dio si era innamorato di lei e come, a causa del suo avido desiderio, sua figlia Hazel era nata con una maledizione. Hazel era in grado di controllare le ricchezze della terra, ma tutti coloro che le usavano avrebbero sofferto e sarebbero morti. Ora quella dea stava dicendo che era stata lei a rendere possibile tutto quello. “Mia madre ha sofferto a causa di quella magia. Tutta la mia vita –“ “La tua vita non ci sarebbe stata senza di me,” disse Ecate con tono piatto. “Non ho tempo per la tua rabbia. E non ne hai nemmeno tu. Senza il mio aiuto, morirai.” Il cane nero ringhiò. La moffetta fece scattare i denti e rilasciò altra aria. Hazel aveva la sensazione che i suoi polmoni le si stessero riempiendo di sabbia bollente. “Che genere di aiuto?” chiese. Ecate sollevò le braccia pallide. I tre passaggi dai quali era venuta – nord, est e ovest – iniziarono a vorticare di Foschia. Un turbinio di immagini in bianco e nero brillò e tremolò, come i vecchi film muti che davano ancora nei cinema quando Hazel era piccola. Nel passaggio occidentale, semidei greci e romani in armatura stavano combattendo uno contro l’altro su una collina sotto un grande pino. L’erba era disseminata dai feriti e i morenti. Hazel vide se stessa a cavallo di Arion, in corsa attraverso la mischia e intenta a gridare – cercando di fermare quella violenza. Nel passaggio a est, Hazel vide l’Argo II che precipitava attraverso il cielo sopra gli Appennini. Le vele e i cordami erano in fiamme. Un masso si andò a schiantare sul ponte rialzato. Un altro attraversò lo scafo. La nave scoppiò come una zucca marcia, e il motore esplose. Le immagini nell’arco settentrionale erano persino peggiori. Hazel vide Leo, privo di sensi – o forse morto – che preciptava tra le nuvole. Vide Frank avanzare da solo e incerto lungo un corridoio buio, tenendosi il braccio stretto al petto, con la maglietta zuppa di sangue. E Hazel vide se stessa in un’ampia caverna piena di raggi di luce come una ragnatela luminosa. Stava lottando per districarsi da quella rete mentre, in lontananza, Percy e Annabeth giacevano abbandonati a terra e immobili alla base di due porte di metallo nere e argento. “Scelte,” disse Ecate. “Ti trovi a un incrocio, Hazel Levesque. E io sono la dea degli incroci.” La terra rombò ai piedi di Hazel. Lei abbassò lo sguardo e vide il luccichio di monete d’argento… migliaia di antichi denarii romani che eruttarono in superficie tutto intorno a lei, come se l’intera collina stesse arrivando al punto di ebollizione. Si era agitata così tanto a causa delle visioni dei passaggi che doveva aver invocato ogni pezzo d’argento che si trovava nella campagna circostante. “Il passato è vicino alla superficie in questo luogo,” disse Ecate. “Nei tempi antichi, due importanti strade romane si incontravano qui. Venivano scambiate le notizie. Aveva luogo il mercato. Gli amici si incontravano, e i nemici combattevano. Interi eserciti dovevano scegliere una direzione. Gli incroci sono sempre luoghi di decisioni.” “Come… come Giano.” Hazel si ricordò del tempio di Giano sulla Collina dei Templi al Campo Giove. I semidei andavano là per prendere delle decisioni. Facevano volare una moneta, testa o croce, e speravano che il dio dalle due facce li guidasse nella direzione giusta. Hazel aveva sempre odiato quel posto. Non aveva mai capito perché i suoi amici erano così propensi a lasciare che un dio portasse via la loro responsabilità di scegliere. Dopo tutto quello che Hazel aveva passato, si fidava della saggezza degli dei più o meno quanto si fidava di una slot machine di New Orleans. La dea della magia fece un sibilo di disgusto. “Giano e le sue porte. Lui ti farebbe credere che tutte le scelte sono bianco o nero, sì o no, dentro o fuori. In realtà, non è così semplice. Ogni volta che raggiungi l’incrocio, ci sono sempre come minimo tre vie da prendere… quattro, se conti il tornare indietro. Tu ora ti trovi a un incrocio del genere, Hazel.” Hazel guardò nuovamente ogni passaggio vorticante: una guerra di semidei, la distruzione dell’Argo II, la disfatta per se stessa e i suoi amici. “Sono tutte scelte negative.” “Sono tutte scelte che presentano dei rischi,” corresse la dea. “Ma qual è il tuo obiettivo?” “Il mio obiettivo?” Hazel agitò la mano impotente verso le porte. “Nessuno di questi” Il cane Ecuba ringhiò. La moffetta Gale zampettò intorno ai piedi della dea, rilasciando aria e digrignando i denti. “Potresti tornare indietro,” suggerì Ecate, “ripercorrere i tuoi passi verso Roma… ma le forze di Gaia se lo aspettano. Nessuno di voi sopravvivrebbe.” “Allora… cosa suggerisci?” Ecate camminò verso la torcia più vicina. Raccolse con le mani una manciata di fiamme e le modellò finché non si ritrovò in mano un mappa tridimensionale dell’Italia. “Potresti andare verso ovest.” Ecate allontanò il dito dalla sua mappa ardente. “Tornare in America con il vostro premio, l’Atena Partenone. I vostri compagni, i greci e i romani, sono sull’orlo di una guerra. Partite ora, e potreste salvare numerose vite.” “Potremmo,” ripeté Hazel. “Ma Gaia si sveglierà in Grecia. E’ lì che si stanno riunendo i giganti.” “Vero. Gaia ha programmato la data del primo Agosto, la Festa di Spes, dea della speranza, per la sua ascesa al potere. Risvegliandosi nel Giorno della Speranza, vuole distruggere tutte le speranze per sempre. Anche se riusciste a raggiungere la Grecia in tempo, sareste in grado di fermarla? Non lo so.” Ecate fece correre il dito lungo la cima dei suoi Appennini in fiamme. “Potreste andare verso est, oltre le montagne, ma Gaia farà qualsiasi cosa per impedirvi di attraversare l’Italia. Vi ha messo contro le sue divinità delle montagne.” “L’abbiamo notato,” disse Hazel. “Qualsiasi tentativo di attraversare gli Appennini porterebbe alla distruzione della vostra nave. Ironicamente, questa potrebbe essere l’opzione più sicura per il tuo gruppo. Prevedo che sopravvivreste tutti all’esplosione. E’ possibile, anche se improbabile, che fareste comunque in tempo a raggiungere Epiro e chiudere le Porte della Morte. Potreste trovare Gaia e impedirle di risorgere. Ma per allora tutti e due i campi di semidei sarebbero distrutti. Non avreste più una casa alla quale fare ritorno.” Ecate sorrise. “Molto più probabilmente, la distruzione della vostra nave vi bloccherebbe tra le montagne. Sarebbe la fina della vostra impresa, ma risparmierebbe a te e ai tuoi amici molto dolore e sofferenze che avreste nei giorni futuri. La guerra con i giganti dovrebbe essere vinta o persa senza di voi.” Vinta o persa senza di noi. Una piccola parte colpevole di Hazel trovò l’idea invitante. Aveva desiderato la possibilità di essere una ragazza normale. Non voleva altro dolore e sofferenze né per sé né per i suoi amici. Ne avevano già passate troppe. Guardò oltre Ecate, verso il passaggio centrale. Vide Percy e Annabeth stesi a terra, indifesi davanti a quelle porte nere e argentate. Un’enorme sagoma scura, vagamente umanoide, ora incombeva su di loro, con il piede sollevato come se fosse in procinto di schiacciare Percy. “Che ne sarebbe di loro?” chiese Hazel con voce roca. “Percy e Annabeth?” Ecate fece spallucce. “Ovest, est o sud… in qualsiasi caso, loro muoiono.” “Non è un’opzione,” disse Hazel. “Allora hai una sola strada, sebbene sia la più pericolosa.” Le dita di Ecate attraversarono la sua miniatura degli Appennini, lasciando una linea bianca brillante tra le fiamme rosse. “C’è un passaggio segreto qua a nord, un luogo dove ho il dominio, che un tempo Annibale attraversò quando marciò contro Roma.” La dea fece un’ampia curva… verso la cima dell’Italia, poi a est verso il mare, poi in giù lungo la costa occidentale della Grecia. “Una volta attraversato il passaggio dovrete viaggiare a nord verso Bologna e poi a Venezia. Da qui, salperete l’Adriatico verso la vostra meta: Epiro, in Grecia.” Hazel non sapeva molto di geografia. Non aveva idea di come fosse fatto il Mare Adriatico. Non aveva mai sentito parlare di Bologna, e tutto quello che sapeva riguardo a Venezia erano vaghe storie di canali e gondole. Ma una cosa era ovvia. “E’ un percorso estremamente fuori strada.” “Il che è il motivo per il quale Gaia non si aspetterà che voi prendiate questa rotta,” disse Ecate. “Posso oscurare il vostro cammino, per un po’, ma il successo del vostro viaggio dipenderà da te, Hazel Levesque. Devi imparare a utilizzare la Foschia.” “Io?” Hazel avvertì il cuore che le sprofondava nello stomaco. “Usare la Foschia, come?” Ecate estinse la sua mappa dell’Italia. Fece uno scatto con la mano verso il suo cane nero, Ecuba. La Foschia si raccolse intorno al Labrador finché questo non fu completamente nascosto da un bozzolo bianco. La nebbia si schiarì con un sonoro poof! Dove fino a un attimo prima si trovava il cane, c’era ora un gattino nero dall’aria seccata con occhi dorati. “Miao,” si lamentò l’animale. “Io sono la dea della Foschia,” spiegò Ecate. “Io sono responsabile di mantenere il velo che separa il mondo degli dei dal mondo dei mortali. I miei figli imparano a usare la Foschia a loro vantaggio, per creare illusioni o per influenzare la mente dei mortali. Possono farlo anche altri semidei. E così devi fare tu, Hazel, se vuoi aiutare i tuoi amici.” “Ma…” Hazel guardò il gatto. Sapeva che in realtà era Ecuba, il Labrador nero, ma non riusciva a convincersene. Il gatto sembrava così reale. “Non sono capace.” “Tua madre aveva il talento,” disse Ecate. “Tu ne hai persino di più. Come figlia di Plutone che ha fatto ritorno dai morti, tu capisci il velo che divide due mondi meglio di molti altri. Tu puoi controllare la Foschia. Se non lo fai… bè, tuo fratello Nico ti ha già messa in guardia. Gli spiriti gli hanno sussurrato delle cose, gli hanno parlato del tuo futuro. Quando raggiungerete la Casa di Ade, incontrerete un nemico formidabile. Lei non può essere sconfitta dalla forza o dalle armi. Solo tu puoi sconfiggerla, e avrai bisogno della magia.” Le gambe di Hazel si erano fatte malferme. Ricordò l’espressione seria di Nico, le sue dita che le premevano nel braccio. Non puoi dirlo agli altri. Non ancora. Il loro coraggio è già stato portato al massimo. “Chi?” chiese Hazel con voce roca. “Chi è questo nemico?” “Non pronuncerò il suo nome,” disse Ecate. “Ciò l’avvertirebbe della tua presenza prima che tu sia pronta ad affrontarla. Vai a nord, Hazel. Durante il viaggio allenati a invocare la Foschia. Quando arriverete a Bologna, cercate i due nani. Loro vi guideranno a un tesoro che potrebbe aiutarvi a sopravvivere nella Casa di Ade.” “Non capisco.” “Miao,” si lamentò il gatto. “Sì, sì, Ecuba.” La dea fece scattare la mano di nuovo, e il gatto scomparve. Il Labrador nero riapparve al suo posto. “Capirai, Hazel,” le promise la dea. “Di tanto in tanto, manderò Gale a controllare i tuoi progressi.” La moffetta soffiò, con i tondi occhi rossi che brillavano di cattiveria. “Meraviglioso,” borbottò Hazel. “Prima che raggiungiate Epiro, devi essere pronta,” disse Ecate. “Se avrai successo, allora forse ci incontreremo di nuovo… per la battaglia finale.” Una battaglia finale, pensò Hazel. Oh, che gioia. Hazel si chiese se potesse impedire le visioni che aveva visto nella Foschia – Leo che precipitava dal cielo; Frank che incespicava nel buio, solo e gravemente ferito; Percy e Annabeth in balia di un gigante oscuro. Detestava gli indovinelli degli dei e i loro criptici consigli. Stava cominciando a disprezzare gli incroci. “Perché mi stai aiutando?” chiese Hazel. “Al Campo Giove, dicevano che hai sostenuto i Titani durante l’ultima guerra.” Gli occhi scuri di Ecate brillarono. “Questo perché io sono un Titano – figlia di Perse e Asteria. Molto prima che gli dei dell’Olimpo prendessero il potere, io controllavo la Foschia. Malgrado questo, durante la Prima Guerra dei Titani, avvenuta millenni fa, mi schierai dalla parte di Zeus, contro Crono. Non ero ignara della crudeltà di Crono. Speravo che Zeus si sarebbe dimostrato un re migliore.” Fece una piccola risata amara. “Quando Demetra perse sua figlia Persefone, rapita da tuo padre, io guidai Demetra attraverso la notte più scura con le mie torce, aiutandola nella sua ricerca. E quando i giganti sorsero per la prima volta mi schierai nuovamente con gli dei. Combattei contro il mio nemico promesso Clitio, creato da Gaia per assorbire e sconfiggere tutta la mia magia.” “Clitio.” Hazel non aveva mai sentito quel nome ma pronunciarlo le fece appesantire le membra. Guardò verso le immagini nella porta settentrionale – l’enorme sagoma scura che incombeva su Percy e Annabeth. “E’ lui la minaccia nella Casa di Ade?” “Oh, lui vi aspetta là,” disse Ecate. “Ma prima dovrai sconfiggere la strega. A meno che tu non riuscirai a farlo…” Schioccò le dita, e tutti i varchi si fecero scuri. La Foschia si dissolse, le immagini sparirono. “Tutti affrontiamo delle scelte,” disse la dea. “Quando Crono sorse la seconda volta, io commisi un errore. Lo sostenni. Mi ero stancata di essere ignorata dalle cosiddette divinità maggiori. Nonostante i numerosi anni di fedele servizio, loro hanno diffidato di me, mi hanno rifiutato un trono nella loro sala…” Gale la moffetta fece scattare i denti, arrabbiata. “Ora non ha più importanza.” La dea sospirò. “Ho fatto nuovamente pace con l’Olimpo. Persino adesso che sono incapacitati – con le loro personalità greche e romane che si combattono a vicenda – io li aiuterò. Greca o romana, io sono sempre stata solo Ecate. Ti aiuterò contro i giganti, se tu ti dimostrerai degna. Adesso quindi si tratta della tua scelta, Hazel Levesque. Ti fiderai di me… oppure mi rifiuterai, come gli dei dell’Olimpo hanno fatto troppo spesso?” Il sangue ribolliva nelle orecchie di Hazel. Poteva davvero fidarsi di quella dea oscura, che aveva dato a sua madre la magia che le aveva rovinato la vita? Scusa ma, no. Non le piaceva molto il cane di Ecate né la sua moffetta piena d’aria. Ma sapeva anche che non poteva permettere che Percy e Annabeth morissero. “Andrò a nord,” disse. “Prenderemo il tuo passaggio segreto attraverso le montagne.” Ecate annuì, con una minuscola traccia di soddisfazione sul volto. “Hai fatto la scelta giusta, anche se il cammino non sarà facile. Numerosi mostri vi aspetteranno. Persino alcuni dei miei stessi servi si sono schierati con Gaia, sperando di distruggere il vostro mondo mortale.” La dea prese le sue due torce dai bracieri. “Preparati, figlia di Plutone. Se avrai successo contro la strega, ci incontreremo di nuovo.” “Avrò successo,” promise Hazel. “E, Ecate? Non sto scegliendo una delle tue strade. Sto creando la mia.” La dea inarcò le sopracciglia. La sua moffetta si agitò, e il cane ringhiò. “Troveremo un modo per fermare Gaia,” disse Hazel. “Salveremo i nostri amici dal Tartaro. Manterremo unito il gruppo e la nave e impediremo la guerra tra il Campo Giove e il Campo Mezzosangue. Faremo tutto.” La tempesta ululò, le pareti scure del ciclone vorticarono più velocemente. “Interessante,” disse Ecate, come se Hazel fosse il risultato inaspettato di un esperimento scientifico. “Quella sarebbe una magia degna di essere vista.” Un’ondata di oscurità ricoprì il mondo. Quando Hazel riacquistò la vista, la tempesta, la dea e i suoi servi se n’erano andati. Hazel si trovava sulla collina avvolta dal sole della mattina, da sola tra le rovine fatta eccezione per Arion, che camminava impaziente accanto a lei, nitrendo. “Sono d’accordo,” disse Hazel al cavallo. “Andiamo via da qui.” “Cosa è successo?” chiese Leo mentre Hazel montava a bordo dell’Argo II. Le mani di Hazel stavano ancora tremando dalla sua chiacchierata con la dea. Guardò oltre la ringhiera e vide la polvere della scia di Arion che si allungava lungo le colline dell’Italia. Aveva sperato che il suo amico rimanesse, ma non poteva biasimarlo per volersi allontanare da quel posto il più velocemente possibile. La campagna brillava con il sole dell’estate che si rifletteva nella rugiada del mattino. Sulla collina, le antiche rovine erano bianche e silenziose – nessun segno di antiche strade, o di divinità, o di donnole con aria nella pancia. “Hazel?” chiese Nico. Le sue ginocchia tremarono. Nico e Leo l’afferrarono dalle braccia e l’aiutarono ad andare verso le scale del ponte rialzato. Era imbarazzata, a crollare come la donzella di qualche fiaba, ma la sua energia era andata. Il ricordo di quelle scene luminose presso l’incrocio la riempivano di terrore. “Ho incontrato Ecate,” riuscì a dire. Non li raccontò tutto. Si ricordava di quello che Nico le aveva detto: Il loro coraggio è già stato portato al massimo. Ma raccontò loro del passaggio segreto settentrionale che attraversava le montagne, e della deviazione descritta da Ecate che poteva portali a Epiro. Quando ebbe finito Nico le prese la mano. I suoi occhi erano carichi di preoccupazione. “Hazel, hai incontrato Ecate presso un incrocio. Questa è… questa è una cosa alla quale molti semidei non sopravvivono. E quelli che lo fanno non sono mai più gli stessi. Sei sicura di stare – “ “Sto bene,” insistette lei. Ma sapeva che non era così. Si ricordava di quanto si era sentita audace e arrabbiata, quando aveva detto alla dea che avrebbe trovato la sua strada e sarebbe riuscita a fare tutto. Ora il suo vanto le sembrava ridicolo. Il coraggio l’aveva abbandonata. “Se Ecate ci stesse imbrogliando?” chiese Leo. “Questo percorso potrebbe essere una trappola.” Hazel scosse la testa. “Se fosse stata una trappola, credo che Ecate avrebbe fatto apparire il percorso settentrionale allettante. Credimi, non l’ha fatto.” Leo tirò fuori una calcolatrice dalla sua cintura degli attrezzi e digitò alcuni numeri. “Questa… è una cosa come cinquecento chilometri fuori strada per raggiungere Venezia. Poi dovremmo tornare indietro lungo l’Adriatico. E hai detto qualcosa riguardo a nani e cicogne?” “Nani a Bologna,” disse Hazel. “Immagino che Bologna sia una città. Ma perché dobbiamo cercare dei nani là… non ne ho idea. Ha a che fare con qualche tipo di tesoro per aiutarci con l’impresa.” “Huh,” disse Leo. “Cioè, vado matto per i tesori, ma –“ “E’ la nostra migliore possibilità.” Nico aiutò Hazel ad alzarsi. “Dobbiamo recuperare il tempo perso, viaggiare più veloci che possiamo. Le vite di Percy e Annabeth potrebbero dipendere da questo.” “Veloce?” Leo fece un grosso sorriso. “So andare veloce.” Si gettò verso la console e iniziò ad armeggiare con gli interruttori. Nico prese Hazel per il braccio e la guidò fuori portata d’orecchie. “Cos’altro ha detto Ecate? Niente riguardo –“ “Non posso.” Hazel lo interruppe di colpo. Le immagini che aveva visto l’avevano quasi sopraffatta: Percy e Annabeth indifesi alla base di quelle porte di metallo nero, il gigante oscuro che incombeva su di loro, Hazel stessa intrappolata in un brillante labirinto di luce, incapace di aiutare. Devi sconfiggere la strega, aveva detto Ecate. Solo tu puoi farlo. A meno che non ci riuscirai… La fine, pensò Hazel. Tutte le porte chiuse. Tutta la speranza estinta. Nico l’aveva avvertita. Aveva avuto contatti con i morti, li aveva sentiti sussurrare indizi sul loro futuro. Due figli dell’Oltretomba sarebbero entrati nella Casa di Ade. Avrebbero affrontato un nemico impossibile. Solo uno di loro avrebbe raggiunto le Porte della Morte. Hazel non riusciva a incontrare gli occhi di suo fratello. “Te lo racconto più tardi,” promise, cercando di impedire alla sua voce di tremare. “Al momento, dovremmo riposarci finché possiamo. Stanotte attraverseremo gli Appennini.” 5 ANNABETH Nove giorni. Mentre precipitavano, Annabeth pensò ad Esiodo, l’antico poeta greco che aveva sostenuto che ci sarebbero voluti nove giorni per cadere dalla terra fino al Tartaro. Sperava che Esiodo si sbagliasse. Aveva perso il conto di quanto fosse passato da quando lei e Percy erano precipitati – ore? Un giorno? Sembrava un’eternità. Si erano tenuti per mano fin da quando erano caduti nell’abisso. Adesso Percy la tirò vicino a lui, abbracciandola stretta mentre cadevano a picco attraverso l’oscurità assoluta. Il vento fischiava nelle orecchie di Annabeth. L’aria si faceva più calda e umida, come se stessero precipitando nella gola di un drago enorme. La sua caviglia recentemente rotta pulsava, ma non riusciva a capire se fosse ancora avvolta dalle ragnatele. Quel dannato mostro di Aracne. Nonostante fosse stata intrappolata nella sua stessa tela, schiacciata da una macchina e tirata nel Tartaro, la donna ragno aveva avuto la sua vendetta. In qualche modo la sua seta si era intrecciata intorno alla gamba di Annabeth e l’aveva trascinata oltre il bordo della voragine, con Percy al seguito. Annabeth non riusciva a credere che Aracne fosse ancora viva, da qualche parte sotto di loro, nel buio. Non voleva incontrare di nuovo quel mostro una volta raggiunto il fondo. Guardando il lato positivo, presumendo che esistesse un fondo, Annabeth e Percy si sarebbero probabilmente spiaccicati all’impatto, quindi i ragni giganti erano l’ultimo dei suoi problemi. Avvolse le braccia intorno a Percy e cercò di non piangere. Non si era mai aspettata che la sua vita sarebbe stata semplice. La maggior parte dei semidei moriva da giovane per mano di mostri terribili. Era stato così fin dai tempi antichi. I greci avevano inventato la tragedia. Sapevano che i più grandi eroi non avevano un lieto fine. Tuttavia, non era giusto. Ne aveva passate così tante per recuperare quella statua di Atena. Proprio quando ce l’aveva fatta, quando le cose avevano cominciato a migliorare e lei si era riunita a Percy, erano precipitati dritti verso la loro morte. Persino gli dei non potevano escogitare un destino così crudele. Ma Gaia non era come gli altri dei. Madre Terra era più antica, più malvagia, più assetata di sangue. Annabeth poteva immaginarla intenta a ridere mentre loro precipitavano nell’abisso. Annabeth premette le labbra contro l’orecchio di Percy. “Ti amo.” Non era certa che lui potesse sentirla – ma se stavano per morire voleva che quelle fossero le sue ultime parole. Aveva cercato disperatamente di pensare a un piano per salvarli. Era una figlia di Atena. Aveva dato prova di sé nei sotterranei di Roma, aveva superato una serie di sfide usando solo la sua mente. Ma non riusciva a pensare a nessun modo per invertire o anche solo rallentare la loro caduta. Nessuno dei due aveva il potere di volare – non come Jason, che poteva controllare i venti, o come Frank, che poteva trasformarsi in un animale alato. Se raggiungevano il fondo alla loro velocità di caduta terminale… bè, capiva abbastanza di scienza da sapere che sarebbe stato terminale. Stava seriamente pensando alla possibilità di arrangiare un paracadute con le loro magliette – era disperata fino a quel punto – quando qualcosa nell’ambiente mutò. L’oscurità assunse una tinta grigio-rossastra. Si rese conto che era in grado di vedere i capelli di Percy mentre lo abbracciava. Il fischio nelle sue orecchie si trasformò in qualcosa di più simile a un ruggito. L’aria si fece insopportabilmente calda, permeata da un odore di uova marce. Improvvisamene, il tunnel attraverso il quale stavano precipitando si aprì in un’ampia caverna. A circa un chilometro sotto di loro, Annabeth poté vedere il fondo. Per un attimo fu troppo sconvolta per pensare lucidamente. All’interno di quella caverna ci sarebbe potuta entrare tutta l’isola di Manhattan – e non poteva nemmeno vederla interamente. Nuvole rosse erano sospese in aria come sangue vaporizzato. Il paesaggio – almeno quello che riusciva a vedere – era formato da rocciose pianure nere, punteggiate da montagne frastagliate e abissi in fiamme. Alla sinistra di Annabeth, il terreno precipitava verso il basso con una serie di dirupi, come scalini colossali che portavano ancora più in profondità. Il puzzo di zolfo rendeva difficile concentrarsi, ma lei si focalizzò sul terreno sotto di loro e vide una striscia di luccicante liquido nero – un fiume. “Percy!” le gridò lei nell’orecchio. “Acqua!” Indicò agitata con le braccia. Il volto di Percy era difficile da leggere nella fioca luce rossa. Sembrava stordito e terrorizzato, ma annuì come se avesse capito. Percy era in grado di controllare l’acqua – presumendo che quella sotto di loro fosse acqua. Avrebbe potuto attutire in qualche modo la loro caduta. Ovviamente Annabeth aveva sentito storie orribili riguardo ai fiumi dell’Oltretomba. Potevano portarti via i ricordi, o ridurre il tuo corpo e la tua anima in cenere. Ma decise di non pensarci. Quella era la loro unica possibilità. Il fiume sfrecciava verso di loro. All’ultimo secondo, Percy emise un urlo di sfida. L’acqua eruttò in un geyser gigante e li inghiottì interamente. 6 ANNABETH L’impatto non la uccise, ma per poco non lo fece il freddo. Acqua ghiacciata le tolse il fiato dai polmoni. I suoi arti si fecero rigidi, e lei perse la presa su Percy. Cominciò ad affondare. Strani lamenti le riempirono le orecchie – milioni di voce dai cuori spezzati, come se il fiume fosse fatto da tristezza distillata. Le voci erano peggio del freddo. Le pesavano addosso e la rendevano insensibile. Perché lottare? le dicevano. Sei comunque morta. Non lascerai mai questo posto. Poteva affondare e lasciarsi annegare, lasciare che il fiume trasportasse via il suo corpo. Sarebbe stata la cosa più facile. Poteva semplicemente chiudere gli occhi… Percy afferrò la sua mano e la riportò improvvisamente alla realtà. Non riusciva a vederlo nell’acqua sporca, ma improvvisamente non voleva più morire. Insieme sbatterono le gambe verso l’alto e irruppero in superficie. Annabeth boccheggiò, grata dell’aria, non importava quanto fosse sulfurea. L’acqua vorticava intorno a loro, e lei si rese conto che Percy stava creando un mulinello per tenerli a galla. Anche se non riusciva a distinguere l’ambiente che li circondava, sapeva che si trovavano in un fiume. E i fiumi avevano le rive. “Terra,” disse con voce gracchiante. “Muoviamoci di lato.” Percy sembrava quasi morto dalla stanchezza. Solitamente l’acqua lo rinvigoriva, ma non quell’acqua. Controllarla doveva aver richiesto fino all’ultima goccia della sua forza. Il mulinello iniziò a dissolversi. Annabeth ancorò un braccio intorno alla vita di Percy e lottò contro la corrente. Il fiume le si opponeva: migliaia di voci piangenti che le sussurravano nelle orecchie, entrandole nella mente. La vita è disperazione, dicevano. E’ tutto inutile, e alla fine si muore. “Inutile,” mormorò Percy. I suoi denti stavano sbattendo dal freddo. Smise di nuotare e iniziò ad affondare. “Percy!” gridò lei. “Il fiume sta giocando con la tua mente. E’ il Cocito – il Fiume del Pianto. E’ fatto di pura sofferenza!” “Sofferenza,” concordò lui. “Combattila!” Lei scalciò e lottò, cercando di mantenere entrambi a galla. Un altro scherzo cosmico per il divertimento di Gaia: Annabeth muore cercando di impedire al suo ragazzo, il figlio di Poseidone, di annegare. Non succederà, vecchia strega, pensò Annabeth. Abbracciò Percy più stretto e lo baciò. “Raccontami di Nuova Roma,” chiese. “Che piani avevi per noi?” “Nuova Roma… Per noi…” “Sì, Testa d’Alghe. Hai detto che potremmo avere un futuro là! Parlamene!” Annabeth non aveva mai voluto lasciare il Campo Mezzosangue. Era l’unica vera casa che avesse mai avuto. Ma giorni prima, a bordo dell’Argo II, Percy le aveva detto che immaginava un futuro per loro due tra i semidei romani. Nella loro città di Nuova Roma, i veterani della legione potevano sistemarsi al sicuro, andare al college, sposarsi, persino avere dei bambini. “Architettura,” mormorò Percy. La nebbia che aveva negli occhi cominciò a schiarirsi. “Ho pensato che ti sarebbero piaciute le case, i parchi. C’è una strada con un sacco di fontane bellissime.” Annabeth cominciò a fare progressi contro la corrente. Le sembrava che le sue braccia fossero diventate sacche piene di sabbia bagnata, ma adesso Percy la stava aiutando. Riusciva a vedere la linea scura della riva a un tiro di sasso di distanza. “College,” disse lei senza fiato. “Potremmo andarci insieme?” “S-sì,” annuì lui, con un po’ più di sicurezza. “Cosa studieresti, Percy?” “Non lo so,” ammise lui. “Scienze marine,” suggerì lei. “Oceanografia?” “Surf?” chiese lui. Lei rise, e quel suono inviò un’ondata improvvisa attraverso l’acqua. I lamenti si ridussero a rumori di sottofondo. Annabeth si chiese se qualcuno prima d’ora avesse mai riso nel Tartaro – solo una pura e semplice risata di piacere. Ne dubitava. Usò ciò che le rimaneva della sua forza per raggiungere la sponda del fiume. I suoi piedi sprofondarono nel fondo sabbioso. Lei e Percy si issarono a riva, tremanti e senza fiato, e crollarono sulla sabbia scura. Annabeth voleva raggomitolarsi accanto a Percy e dormire. Voleva chiudere gli occhi, sperare che tutto quello fosse solo un brutto sogno e svegliarsi per ritrovarsi sull’Argo II, al sicuro con i suoi amici (o almeno tanto al sicuro quanto può esserlo un semidio). Ma, no. Si trovavano davvero nel Tartaro. Ai loro piedi, il Fiume Cocito scorreva ruggendo, un torrente d’infelicità liquida. L’aria sulfurea bruciava nei polmoni di Annabeth e le pungeva la pelle. Quando si guardò le braccia, vide che erano già ricoperte da un eritema. Cercò di mettersi a sedere e boccheggiò dal dolore. La spiaggia non era fatta di sabbia. Erano seduti su una distesa di frammenti di vetro nero, alcuni dei quali erano adesso conficcati nei palmi di Annabeth. Quindi, l’aria era acida. L’acqua fatta di miseria. Il terreno era vetro infranto. Tutto in quel luogo era pensato per ferire e uccidere. Annabeth fece un respiro incerto e si chiese se le voci del Cocito non avessero ragione. Forse combattere per sopravvivere era inutile. Sarebbero morti nel giro di un’ora. Vicino a lei, Percy tossì. “Questo posto odora come il mio vecchio patrigno.” Annabeth abbozzò un sorriso debole. Non aveva mai incontrato Gabe il Puzzone, ma aveva sentito abbastanza storie. Amava Percy per il fatto che cercasse di sollevarle il morale. Se fosse caduta nel Tartaro da sola, pensò Annabeth, sarebbe stata spacciata. Dopo tutto quello che aveva affrontato nel sottosuolo di Roma, per trovare l’Atena Partenone, quello era semplicemente troppo. Si sarebbe rannicchiata a piangere finché non fosse diventata un altro fantasma, fondendosi nel Cocito. Ma non era da sola. Aveva Percy. E ciò voleva dire che non poteva arrendersi. Si obbligò a fare il punto della situazione. Il suo piede era ancora avvolto nella sua stecca improvvisata fatta di assi di legno e carta da imballaggio, sempre avvolto dalle ragnatele. Ma quando lo mosse, non provò dolore. L’ambrosia che aveva preso nei tunnel sotto Roma doveva aver finalmente guarito le sue ossa. Il suo zaino era andato – perso durante la caduta, o forse spazzato via dal fiume, Odiava l’idea di aver perso il computer di Dedalo, con tutti i suoi fantastici programmi e file, ma aveva dei problemi più grandi. Il suo pugnale di bronzo Celeste non c’era più – l’arma che aveva avuto con sé da quando aveva sette anni. Quella consapevolezza per poco non la travolse, ma non poteva permettersi di rimanere a rimuginarci sopra. Lo avrebbe rimpianto più tardi. Cos’altro avevano? Niente cibo, niente acqua… praticamente nessun tipo di scorta. Già. Inizio promettente. Annabeth lanciò un’occhiata a Percy. Aveva un aspetto piuttosto brutto. I suoi capelli scuri erano appiattiti contro la fronte, la maglietta era ridotta a brandelli. Le dita erano sbucciate da quando si era retto a quella sporgenza prima che cadessero. Cosa più preoccupante di tutte, stava tremando e aveva le labbra blu. “Dovremmo continuare a muoverci o rischieremo l’ipotermia,” disse Annabeth. “Puoi alzarti in piedi?” Lui annuì. Si alzarono entrambi con fatica. Annabeth gli avvolse il braccio intorno alla vita, sebbene non sapesse chi stava sostenendo chi. Ispezionò l’ambiente circostante. Sopra di loro, non vide nessun segno del tunnel dal quale erano caduti. Non riusciva nemmeno a vedere il tetto della caverna – solo nuvole color rosso sangue che fluttuavano nella nebbiosa aria grigia. Era come guardare attraverso un sottile strato di zuppa al pomodoro e cemento mischiati insieme. La spiaggia di vetro nero si allungava verso l’entroterra per circa cinquanta metri, poi si gettava oltre il bordo di un dirupo. Da dove si trovava, Annabeth non poteva vedere cosa ci fosse al di sotto, ma il bordo tremolava di luci rosse come se fosse illuminato da falò enormi. Un lontano ricordo cominciò a tormentarla – qualcosa che riguardava il Tartaro e il fuoco. Prima che potesse pensarci troppo, Percy fece un respiro secco e trattenne il fiato. “Guarda.” Indicò verso il fiume, nella direzione della corrente. A trenta metri di distanza, una macchina celeste italiana dall’aspetto familiare si era schiantata di muso nella sabbia. Sembrava essere identica alla Fiat che era crollata su Aracne e che l’aveva spedita nell’abisso. Annabeth sperava che si stesse sbagliando, ma quante macchina sportive italiane potevano esserci nel Tartaro? Parte di lei non voleva avvicinarsi affatto, ma doveva scoprirlo. Afferrò la mano di Percy, e insieme arrancarono verso il rottame. Una delle gomme della macchina si era staccata e stava galleggiando in un mulinello creato dall’acqua del Cocito. I finestrini della Fiat erano andati in frantumi, e avevano sparso del vetro più chiaro sulla spiaggia scura, rendendolo simile a glassa. Sotto il cofano schiacciato giacevano i resti a brandelli e luccicanti di un bozzolo di seta gigante – la trappola che Annabeth aveva fatto tessere ad Aracne con l’inganno. Era indubbiamente vuota. Segni di squarci nella sabbia creavano una scia nella direzione della corrente… come se qualcosa di pesante, con numerose gambe, fosse corsa nell’oscurità. “E’ viva.” Annabeth era così inorridita, così oltraggiata dall’ingiustizia di tutto quello, che dovette soffocare lo stimolo di rigettare. “E’ il Tartaro,” disse Percy. “La casa dei mostri. Forse qui sotto non possono essere uccisi.” Guardò Annabeth con uno sguardo imbarazzato, come se si stesse rendendo conto che non stava aiutando il morale della coppia. “O magari è gravemente ferita, e si è trascinata via per morire.” “Facciamo che è così,” concordò Annabeth. Percy stava ancora tremando. Nemmeno Annabeth si sentiva molto riscaldata, nonostante la calda aria appiccicosa. I tagli del vetro che aveva sulle mani stavano ancora sanguinando, cosa che era insolita per lei. Normalmente, guariva in fretta. Il suo respiro si fece sempre più affaticato. “Questo posto ci sta uccidendo,” disse. “Voglio dire, ci ucciderà letteralmente, a meno che…” Tartaro. Fuoco. Quel ricordo lontano divenne chiaro. Guardò verso il dirupo illuminato dalle fiamme sottostanti. Era un’idea totalmente folle. Ma poteva essere la loro unica possibilità. “A meno che cosa?” la incitò Percy. “Hai un piano brillante, non è così?” “E’ un piano,” mormorò Annabeth. “Non so se sia brillante. Dobbiamo trovare il Fiume del Fuoco.” 7 ANNABETH Quando raggiunsero il bordo, Annabeth fu certa che aveva appena segnato le loro morti. Il dirupo cadeva per più di venti metri. Sul fondo si allungava una versione da incubo del Grand Canyon: un fiume di fuoco che si apriva un percorso attraverso un crepaccio fatto di ossidiana frastagliata, con la corrente rosso brillante che gettava ombre orribili sulle pareti del precipizio. Persino dalla cima del canyon, il calore era intenso. Il gelo del Fiume Cocito non aveva ancora lasciato le ossa di Annabeth, ma adesso il suo volto sembrava escoriato e bruciato dal sole. Ogni respiro richiedeva uno sforzo sempre più grande, come se il suo petto fosse stato riempito di polistirolo. Invece di rallentare, i tagli che aveva sulle mani sanguinarono più velocemente. La caviglia di Annabeth, che era quasi guarita, adesso sembrava essere nuovamente rotta. Si era tolta la stecca improvvisata, ma ora se ne pentiva. Ogni passo la faceva sussultare. Dando per scontato che sarebbero riusciti a raggiungere il fiume ardente, cosa della quale dubitava, il suo piano sembrava certificatamente folle. “Uh…” Percy esaminò il precipizio. Indicò una minuscola fessura che correva diagonalmente dal bordo fino al fondo. “Possiamo provare con quella sporgenza. Potremmo riuscire a scendere.” Non disse che sarebbero stati dei folli a provarci. Riuscì a sembrare positivo. Annabeth ne era grata, ma temeva anche che lo stesse guidando verso la sua condanna. Ovviamente se fossero rimasti là, sarebbero morti in ogni caso. Sulle loro braccia erano cominciate a spuntare delle vesciche a causa dell’esposizione all’aria del Tartaro. Tutto l’ambiente era sano più o meno come un’area colpita da un’esplosione nucleare. Percy andò per primo. Il bordo era a stento largo abbastanza per essere usato come appoggio. Le loro mani si aggrappavano a qualsiasi crepa nella roccia vetrosa. Ogni volta che Annabeth poggiava del peso sul suo piede ferito, voleva urlare. Si era strappata le maniche della maglietta e aveva usato il tessuto per bendarsi le mani sanguinanti, ma le sue dita erano ancora scivolose e deboli. Qualche passo sotto di lei, Percy grugnì mentre si allungava per raggiungere un’altra sporgenza. “Allora… com’è chiamato questo fiume di fuoco?” “Il Flegetonte,” disse lei. “Dovresti concentrarti nella discesa.” “Il Flegetonte?” Si mosse lungo il bordo. Avevano percorso all’incirca un terzo della strada verso il fondo – erano ancora abbastanza in alto da morire in caso di caduta. “Suona come il nome di una gara di cerbottane.” “Ti prego, non farmi ridere,” disse lei. “Cerco solo di alleggerire il morale.” “Grazie,” disse lei con voce roca, mancando per poco una sporgenza con il piede ferito. “Avrò un sorriso stampato in faccia mentre precipito verso la mia morte.” Continuarono a scendere, un passo alla volta. Gli occhi di Annabeth pizzicavano a causa del sudore. Le braccia le tremavano. Ma, con suo stesso stupore, raggiunsero finalmente il fondo del dirupo. Quando lei raggiunse il terreno, inciampò. Percy l’afferrò al volo. Fu spaventata nel sentire quanto fosse febbricitante la sua pelle. Gli erano comparse delle bolle rosse sul volto, quindi aveva l’aspetto di una vittima di vaiolo. La sua stessa vista era sfocata. La sua gola era irritata, e il suo stomaco si era contratto più stretto di un pugno. Dobbiamo sbrigarci, pensò. “Dobbiamo solo raggiungere il fiume,” disse a Percy, cercando di impedire il panico che avvertiva nella voce. “Possiamo farcela.” Avanzarono incerti sopra scivolose sporgenze vetrose, intorno a enormi massi, evitando le stalagmiti che li avrebbero impalati con il più piccolo passo falso. I loro vestiti ridotti a brandelli fumavano a causa del calore del fiume, ma continuarono ad avanzare finché non caddero sulle ginocchia sulle rive del Flegetonte. “Dobbiamo bere,” disse Annabeth. Percy oscillò con il corpo, i suoi occhi quasi completamene chiusi. Gli ci vollero tre secondi per rispondere. “Uh… bere fuoco?” “Il Flegetonte scorre dal regno di Ade fino al Tartaro.” Annabeth riusciva a malapena a parlare. La sua gola si stava chiudendo a causa del calore e dell’aria acida. “Il fiume viene usato per punire i dannati. Ma oltre a questo… alcune leggende lo chiamano il Fiume della Guarigione.” “Alcune leggende?” Annabeth deglutì, cercando di rimanere cosciente. “Il Flegetonte mantiene interi i dannati così che possano sopportare i tormenti dei Campi della Punizione. Credo… credo che possa essere l’equivalente dell’Oltretomba di ambrosia e nettare.” Percy sussultò mentre dei tizzoni provenienti dal fiume gli schizzavano sul volto. “Ma è fuoco. Come possiamo -?” “Così.” Annabeth tuffò le mani nel fiume. Stupido? Sì, ma era convinta che non avessero altra scelta. Se avessero aspettato ancora, sarebbero svenuti e morti. Meglio provare qualcosa di stupido e sperare che funzionasse. Al primo contatto, il fuoco non fu doloroso. Sembrava freddo, il che voleva probabilmente dire che era così caldo che stava sovraccaricando i nervi di Annabeth. Prima che potesse cambiare idea, raccolse del liquido ardente tra le mani e lo portò alla bocca. Si aspettava che avesse il sapore della benzina. Fu molto peggio. Una volta in un ristorante a San Francisco, aveva commesso l’errore di assaggiare un peperoncino messicano che era arrivato con un piatto di cibo indiano. Dopo averlo a malapena mordicchiato, aveva pensato che il suo sistema respiratorio stesse per implodere. Bere dal Felgetonte era come inghiottire un frullato di quel peperoncino. Le vie respiratorie le si riempirono di fiamme liquide. Sembrava che le stessero friggendo la bocca. Dagli occhi le scesero lacrime bollenti, e ogni poro che aveva sul viso esplose. Crollò, boccheggiando e lottando per respirare, con tutto il corpo scosso da violente convulsioni. “Annabeth!” Percy la afferrò dalle braccia e riuscì a malapena a fermarla prima che lei rotolasse nel fiume. Le convulsioni passarono. Fece un respiro incerto e riuscì a sedersi. Si sentiva orribilmente debole e nauseata, ma il respiro successivo arrivò più facilmente. Le vesciche che aveva sulle braccia stavano iniziando a svanire. “Ha funzionato,” disse con voce rotta. “Percy, devi bere.” “Io…” Gli occhi gli si rigirarono nella testa, e si abbandonò contro di lei. Disperatamente, prese altro fuoco con le mani. Ignorando il dolore, versò il liquido nella bocca di Percy. Lui non reagì. Tentò di nuovo, versandogli un’intera manciata di fuoco nella gola. Questa volta lui sputò e tossì. Annabeth lo tenne stretto mentre lui tremava, con il fuoco magico che scorreva attraverso il suo sistema. La sua febbre scomparve. Le vesciche svanirono. Riuscì a mettersi seduto e fece schioccare le labbra. “Ugh,” disse. “Piccante, ma disgustoso.” Annabeth rise debolmente. Era così sollevata che si sentiva la testa leggera. “Già. Hai riassunto bene la sensazione.” “Ci hai salvati.” “Per adesso,” disse. “Il problema è che siamo ancora nel Tartaro.” Percy sbatté le palpebre. Si guardò intorno come se stesse appena realizzando dove si trovavano. “Santa Era. Non avevo mai pensato… bè, non sono certo di cosa pensassi. Forse che il Tartaro fosse un luogo vuoto, un abisso senza fondo. Ma questo è un luogo reale.” Annabeth richiamò alla mente il paesaggio che aveva visto mentre stavano precipitando – una serie di altopiani che portavano ancora più in profondità nel buio. “Non abbiamo visto tutto,” avvertì lei. “Questa potrebbe essere solo la prima minuscola parte dell’abisso, come i gradini del portico.” “Il tappetino d’ingresso,” borbottò Percy. Guardarono entrambi in alto verso le nuvole rosso sangue che vorticavano nella nebbia grigia. In nessun modo avrebbero avuto la forza di arrampicarsi nuovamente su quel dirupo, anche se avessero voluto. Ora c’erano solo due scelte: andare nella direzione uguale o opposta rispetto allo scorrere del fiume, costeggiando le rive del Flegetonte. “Troveremo un modo per uscire,” disse Percy. “Le Porte della Morte.” Annaneth rabbrividì. Si ricordava quello che Percy aveva detto appena prima che cadessero nel Tartaro. Aveva fatto promettere a Nico di Angelo di guidare l’Argo II a Epiro, alla parte mortale delle Porte della Morte. Ci incontreremo là, aveva detto Percy. Quell’idea sembrava persino più folle del bere fuoco. Come avrebbero fatto loro due a vagare attraverso il Tartaro e a trovare le Porte della Morte? Erano a malapena riusciti a fare pochi metri in quel luogo avvelenato senza morire. “Dobbiamo farlo,” disse Percy. “Non solo per noi. Per tutti quelli che amiamo. Le Porte devono essere chiuse da entrambe le parti, altrimenti i mostri continueranno a usarle per tornare. Le forze di Gea invaderanno il mondo.” Annabeth sapeva che aveva ragione. Tuttavia… quando cercava di immaginare un piano che poteva funzionare, la logistica prendeva il sopravvento. Non avevano nessun modo per localizzare le Porte. Non sapevano quanto tempo ci sarebbe voluto, o neanche se il tempo scorreva alla stessa velocità nel Tartaro. Come era possibile che riuscissero a sincronizzare un incontro con i loro amici? E Nico aveva parlato di una legione formata dai mostri più forti di Gaia a guardia delle Porte dalla parte del Tartaro. Annabeth e Percy non potevano esattamente lanciarsi in un attacco frontale. Decise di non parlare di nulla di tutto quello. Sapevano entrambi che le probabilità erano pessime. Inoltre, dopo aver nuotato nel Fiume Cocito, Annabeth aveva sentito abbastanza pianti e lamenti da esserle sufficienti per una vita intera. Si ripromise di non lamentarsi mai più. “Bene.” Fece un respiro profondo, grata del fatto che almeno i suoi polmoni non le facessero male. “Se rimaniamo vicini al fiume, avremo un modo per guarirci. Se seguiamo la corrente –“ Accadde così velocemente che Annabeth sarebbe morta se fosse stata da sola. Gli occhi di Percy si spostarono su qualcosa alle sue spalle. Annabeth si girò di scatto mentre un’enorme sagoma scura si gettava contro di lei – una ringhiante e mostruosa macchia nera con affusolate zampe uncinate e occhi luccicanti. Ebbe il tempo di pensare: Aracne. Ma era congelata dal terrore, con i sensi soffocati dal nauseante odore dolciastro. Poi udì il familiare SHINK della penna a sfera di Percy che si trasformava in una spada. La lama volò sopra la sua testa disegnando un brillante arco di bronzo. Un’orribile lamento riecheggiò attraverso il canyon. Annabeth rimase ferma là, sconvolta, mentre della polvere gialla – i resti di Aracne – le pioveva intorno come polline. “Stai bene?” Percy scrutò i massi e le rocce, in guardia per altri mostri, ma non apparve nient’altro. La polvere dorata del ragno si posò sulle rocce di ossidiana. Annabeth fissò il suo ragazzo stupita. La lama di bronzo Celeste di Vortice brillava persino più forte nell’oscurità del Tartaro. Mentre attraversava la densa aria calda, la spada produsse un sibilo provocatorio, come un serpente infastidito. “Mi… mi avrebbe ucciso,” disse Annabeth balbettando. Percy scalciò la polvere sulle rocce, con un’espressione tetra e insoddisfatta. “E’ morta troppo facilmente, considerando quanti tormenti ti ha fatto subire. Si meritava di peggio.” Annabeth non aveva nulla da ridire su quello, ma il tono duro nella voce di Percy la rese inquieta. Non aveva mai visto qualcuno essere così arrabbiato o vendicativo per conto di lei. La rese quasi felice del fatto che Aracne fosse morta subito. “Come hai fatto a muoverti così velocemente?” Percy scrollò le spalle. “Dobbiamo guardarci le spalle a vicenda, giusto? Ora, cosa stavi dicendo… seguire la corrente?” Annabeth annuì, ancora stordita. La polvere gialla si dissipò sulla sponda rocciosa, trasformandosi in vapore. Almeno adesso sapevano che i mostri potevano essere uccisi nel Tartaro… anche se non aveva idea di quanto tempo Aracne sarebbe rimasta morta. Annabeth non aveva intenzione di rimanere abbastanza a lungo da scoprirlo. “Sì, seguire la corrente,” riuscì a dire. “Se il fiume viene dai livelli più alti dell’Oltretomba, dovrebbe scorrere verso le profondità del Tartaro –“ “Quindi porta in territori più pericolosi,” finì Percy. “Che probabilmente è dove si trovano le Porte. Evviva.” 8 ANNABETH Avevano percorso solo poche centinaia di metri quando Annabeth udì delle voci. Avanzò arrancando, in parte stupita, mentre cercava di formulare un piano. Dal momento che lei era una figlia di Atena, i piani sarebbero dovuti essere la sua specialità; ma era difficile pensare a delle strategie con lo stomaco che brontolava e la gola secca. L’acqua di fuoco del Flegetonte poteva averla guarita e averle ridato la forza, ma non aveva fatto nulla per la fame o sete. Il fiume non aveva lo scopo di farti sentire bene, indovinò Annabeth. Si limitava a permetterti di andare avanti così da poter provare altri tormenti. La sua testa iniziò a inclinarsi dalla stanchezza. Poi le udì – voci femminili che stavano avendo qualche tipo di discussione – e fu immediatamente allerta. Sussurrò. “Percy, giù!” Lo tirò dietro il masso più vicino, accucciandosi così vicino alla sponda che le sue scarpe sfioravano il fuoco del fiume. Dall’altra parte, nello stretto sentiero tra il fiume e le scogliere, c’erano delle voci ringhianti, che si facevano sempre più forti mentre si avvicinavano seguendo la corrente. Annabeth cercò di regolare il respiro. Le voci suonavano vagamente umane, ma quello non voleva dire nulla. Dava per scontato che qualsiasi cosa nel Tartaro fosse loro nemico. Non sapeva come fosse possibile che i mostri non li avessero ancora individuati. Inoltre, i mostri potevano sentire l’odore dei semidei – soprattutto di quelli potenti come Percy, figlio di Poseidone. Annabeth dubitava che nascondersi dietro a un masso sarebbe servito a molto quando i mostri avessero catturato la loro scia. Nonostante ciò, mentre i mostri si avvicinavano, le loro voci non cambiarono tono. I loro passi irregolari –scrap, clump, scrap, clump – non aumentarono di velocità. “Tra poco?” chiese una di loro con una voce aspra, come se avesse fatto i gargarismi nel Flegetonte. “Oh mie dei!” disse un’altra voce. Questa suonava più giovane e molto più umana, come una adolescente mortale che si esasperava con gli amici al centro commerciale. Per qualche ragione, ad Annabeth suonava familiare. “Siete assolutamente irritanti! Ve l’ho detto, si trova a tipo tre giorni da qui.” Percy afferrò il polso di Annabeth. La guardò allarmato, come se anche lui avesse riconosciuto la voce della ragazza del centro commerciale. Ci fu un coro di ringhi e brontolii. Le creature – forse una mezza dozzina, indovinò Annabeth – si erano fermate proprio dall’altra parte del masso, ma continuavano a non dare segno di aver avvertito l’odore dei semidei. Annabeth si chiese se i semidei avessero un odore diverso nel Tartaro, o se gli altri odori fossero così forti da mascherare l’aura dei semidei. “Mi chiedo,” disse una terza voce, stridula e antica come la prima, “se magari è che non conosci la strada, giovane.” “Oh, chiudi la tua bocca zannata, Serefone,” disse la ragazza del centro commerciale. “Quando è stata l’ultima volta nella quale tu sei fuggita nel mondo mortale? Io ci sono stata un paio di anni fa. Conosco la strada! Inoltre, io so a cosa andiamo incontro lassù. Voi non ne avete la minima idea!” “Madre Terra non ti ha nominata capo!” strillò una quarta voce. Ci furono altri sibili, rumori di azzuffamenti e lamenti da animali – come giganti gatti di vicolo che lottavano. Alla fine quella chiamata Serefone urlò, “Basta così!” I rumori da azzuffamenti morirono. “Per ora ti seguiremo,” disse Serefone. “Ma se non ci guiderai bene, se scopriamo che hai mentito sulla chiamata di Gea –“ “Io non mento!” scattò la ragazza del centro. “Credimi, ho dei buoni motivi per partecipare a questa battaglia. Ho dei nemici da divorare, e voi banchetterete con il sangue degli eroi. Per me dovrete solo lasciare uno speciale boccone – quello chiamato Percy Jackson.” Annabeth trattenne a stento un ringhio tutto suo. Si dimenticò della sua paura. Voleva saltare oltre il masso e affettare i mostri fino a ridurli in polvere con il suo pugnale… se non fosse per il fatto che non ce l’aveva più il pugnale. “Credetemi,” disse la ragazza da centro commerciale. “Gea ci ha chiamate, e ci divertiremo così tanto. Prima che questa guerra sia conclusa, i mortali e i semidei tremeranno al suono del mio nome – Kelli!” Per poco Annabeth non gemette ad alta voce. Lanciò un’occhiata a Percy. Persino nella luce rossa del Flegetonte, il suo volto sembrava di cera. Empousai, mimò con le labbra. Vampiri. Percy annuì tetro. Si ricordava di Kelli. Due anni prima, durante l’orientamento del liceo di Percy, lui e la loro amica Rachel Dare erano stati attaccati da due empousai travestite da cheerleader. Una di loro era Kelli. In seguito, la stessa empousa li aveva attaccati nel laboratorio di Dedalo. Annabeth l’aveva pugnalata alla schiena e l’aveva mandata… lì. Nel Tartaro. Le creature ripresero a camminare, con le voci che si facevano più deboli. Annabeth si avvicinò al bordo del masso e si arrischiò a guardare. Come aveva pensato, cinque donne stavano camminando barcollando su gambe spaiate – di bronzo e meccanica sulla sinistra, pelosa e dotata di zoccolo sulla destra. I loro capelli erano fatti di fuoco, la loro pelle era bianca come ossa. La maggior parte indossava vestiti dell’Antica Grecia a brandelli, fatta eccezione per quella alla guida, Kelli, che indossava una camicetta bruciata e strappata con una corta gonna pieghettata… la sua divisa da cheerleader. Annabeth strinse i denti. Aveva affrontato un sacco di brutti mostri nel corso degli anni, ma odiava leempousai più della maggior parte. Oltre ai loro orribili artigli e zanne, avevano la potente capacità di controllare la Foschia. Potevano cambiare forma e usare la lingua ammaliatrice, ingannando i mortali ad abbassare la guardia. Gli uomini erano particolarmente impressionabili. La tattica preferita dell’empousa era di far innamorare un ragazzo di se stessa, per poi bere il suo sangue e divorarne la carne. Non proprio un primo appuntamento fantastico. Kelli aveva quasi ucciso Percy. Aveva manipolato il più vecchio amico di Annabeth, Luke, incitandolo a fare imprese sempre più malvagie nel nome di Crono. Annabeth desiderava davvero di avere ancora con sé il suo pugnale. Percy si alzò in piedi. “Sono dirette alle Porte della Morte,” mormorò. “Sai che significa?” Annabeth non voleva pensarci, ma purtroppo, quella squadra di donne mangiatrici di carne da film horror sarebbe potuta essere la cosa più vicina alla fortuna che avrebbero trovato nel Tartaro. “Sì,” disse lei. “Dobbiamo seguirle.” 9 LEO Leo aveva passato la notte lottando con un’Atena di dodici metri. Fin da quando avevano portato la statua a bordo, era stato ossessionato dal cercare di capire come funzionava. Era certo che avesse poteri straordinari. Ci doveva essere un interruttore segreto, un disco a pressione o qualcosa nascosto da qualche parte. Avrebbe dovuto dormire, ma semplicemente non poteva. Passava ore accucciato accanto alla statua, che occupava la maggior parte del ponte inferiore. I piedi di Atena sporgevano nell’infermeria, quindi dovevi aggirare i suoi alluci di avorio se volevi qualcosa contro il mal di testa. Il suo corpo era lungo come il corridoio di babordo, le sue mani aperte sporgevano nella sala motori, nell’atto di offrire la figura a grandezza naturale di Nike che aveva sul palmo, come a dire, Ecco qui, prendete un po’ di Vittoria! Il volto calmo di Atena occupava la maggior parte delle stalle dei pegasi a poppa, che fortunatamente erano vuote. Se Leo fosse stato un cavallo magico, non avrebbe voluto vivere in una stalla con una dea della saggezza extralarge a fissarlo. La statua era incastrata nel corridoio, dove entrava a malapena, così Leo dovette arrampicarsi sopra di lei e contorcersi sotto i suoi arti, in cerca di leve e bottoni. Come al solito, non trovò nulla. Aveva fatto qualche ricerca sulla statua. Sapeva che era fatta da uno scheletro cavo di legno ricoperto di avorio e oro, il che spiegava perché fosse così leggera. Era in condizioni piuttosto buone, considerando che aveva più di duemila anni, era stata saccheggiata da Atene, trasportata a Roma, e conservata segretamente nella caverna di un ragno per la maggior parte degli ultimi due millenni. Doveva essere stata la magia ad averla mantenuta intatta, immaginava Leo, combinata con un lavoro d’artigianato davvero eccellente. Annabeth aveva detto… bè, cercò di non pensare ad Annabeth. Si sentiva ancora in colpa per il fatto che lei e Percy fossero caduti nel Tartaro. Leo sapeva che era colpa sua. Avrebbe dovuto far salire tutti al sicuro a bordo dell’Argo II prima di iniziare a legare la statua. Avrebbe dovuto rendersi conto che il pavimento della caverna era instabile. Tuttavia, rimuginarci sopra non avrebbe riportato indietro Percy e Annabeth. Doveva concentrasti sul risolvere i problemi che poteva aggiustare. Ad ogni modo, Annabeth aveva detto che la statua era la chiave per sconfiggere Gea. Poteva guarire la spaccatura tra i semidei greci e romani. Leo immaginava che ci fosse qualcosa di più in lei che semplice simbolismo. Magari gli occhi di Atena erano pistole laser, o il serpente dietro il suo scudo poteva sputare veleno. O forse la statua più piccola di Nike prendeva vita e cominciava ad attaccare con mosse da ninja. Leo poteva pensare a tutta una serie di cose divertenti che la statua avrebbe potuto fare se fosse stato lui a progettarla, ma più la esaminava più diventava frustato. L’Atena Partenone irradiava magia. Persino luipoteva avvertirlo. Ma non sembrava fare nulla eccetto apparire maestosa. La nave sbandò di lato, facendo manovre evasive. Leo resistette all’impulso di correre al timone. In quel momento Jason, Piper e Frank erano di guardia con Hazel. Potevano affrontare qualsiasi cosa stesse succedendo. Inoltre, Hazel aveva insistito nel voler prendere il timone per guidarli attraverso il passaggio segreto di cui le aveva parlato la dea della magia. Leo sperava che Hazel avesse ragione sulla lunga deviazione a nord. Non si fidava di questa signora Ecate. Non capiva perché una dea così inquietante avesse improvvisamente deciso di aiutarli. Ovviamente, lui non si fidava della magia in generale. Era per quello che stava avendo così tanti problemi con l’Atena Partenone. Non aveva parti moventi. Qualsiasi cosa facesse, apparentemente operava con stregoneria pura… e Leo non apprezzava la cosa. Voleva che avesse senso, come una macchina. Alla fine fu troppo esausto per riuscire a pensare coerentemente. Si avvolse in una coperta nella sala motori e si mise ad ascoltare il ronzio calmante dei generatori. Buford, il tavolo meccanico, si trovava in un angolo in modalità addormentato, e produceva piccoli sbuffi di vapore: Shh, pfft, shh, pfft. A Leo piaceva la sua postazione di comando ma si sentiva più al sicuro lì, nel cuore della nave – in una stanza piena di macchinari che sapeva come controllare. Inoltre, forse se passava più tempo a stretto contatto con l’Atena Partenone, alla fine avrebbe assorbito i suoi segreti. “Io o te, Signora Gigante,” mormorò mentre si tirava la coperta fino al mento. “Alla fine collaborerai.” Chiuse gli occhi e si addormentò. Sfortunatamente, ciò voleva dire sognare. Stava correndo per salvarsi la vita attraverso la vecchia officina di sua madre, dove era morta in un incendio quando Leo aveva otto anni. Non era certo di che cosa lo stesse inseguendo, ma avvertiva che si stava avvicinando in fretta – qualcosa di grosso, buio e carico di odio. Si scontrò con i tavoli da lavoro, sbatté contro le cassette per gli attrezzi, e inciampò sui fili elettrici. Intravide l’uscita e scattò verso di essa, ma una figura incombeva davanti a lui – una donna con vestiti fatti di terra vorticante, il volto coperto da un velo di polvere. Dove stai andando, piccolo eroe? chiese Gea. Rimani, e incontra il mio figlio prediletto. Leo scattò sulla sinistra, ma la risata della Dea della Terra lo seguì. La notte in cui tua madre è morta, io ti avvertii. Ti dissi che le Parche non mi avrebbero permesso di ucciderti allora. Ma adesso hai scelto il tuo cammino. La tua morte è vicina, Leo Valdez. Lui corse, scontrandosi con un tavolo inclinabile – la vecchia postazione di lavoro di sua madre. La parete dietro di essa era decorata con i disegni a pastello di Leo. Singhiozzò disperato e si voltò, ma la cosa che lo stava inseguendo adesso si trovava sul suo cammino – un essere colossale avvolto dalle ombre, con una forma vagamente umanoide, la testa toccava quasi il soffitto sei metri più in alto. Le mani di Leo presero fuoco. Lanciò una palla di fiamme contro il gigante, ma l’oscurità la consumò. Leo cercò di prendere la sua cintura degli attrezzi. Le sue tasche erano state cucite. Cercò di parlare – di dire qualsiasi cosa che avrebbe potuto salvargli la vita – ma non riuscì a produrre nessun suono, come se gli avessero rubato l’aria dai polmoni. Mio figlio non permetterà nessun incendio questa notte, disse Gea dalle profondità del magazzino. Lui è il nulla che consuma tutta la magia, il freddo che consuma tutto il fuoco, il silenzio che consuma tutte le parole. Leo voleva urlare: E io sono il ragazzo che se ne sta andando da qui! La sua voce non funzionava, così usò i suoi piedi. Si lanciò sulla destra, abbassandosi per evitare le ombrose mani del gigante, e si gettò verso la porta più vicina. Improvvisamente, si ritrovò al Campo Mezzosangue, solo che il campo era ridotto in macerie. Le cabine erano ammassi bruciati. I campi in fiamme fumavano alla luce della luna. Il padiglione della cena era crollato diventando una pila di macerie bianche, e la Casa Grande stava andando a fuoco, con le sue finestre che brillavano come occhi di demoni. Leo continuò a correre, certo che il gigante d’ombra fosse ancora dietro di lui. Zigzagò intorno ai corpi dei semidei greci e romani. Voleva controllare se erano vivi. Voleva aiutarli. Ma in qualche modo sapeva che era a corto di tempo. Corse verso le uniche persone vive che vedeva – un gruppo di romani che si trovavano presso il campo da pallavolo. Due centurioni erano appoggiati con aria indifferente ai loro giavellotti, intenti a chiacchierare con un alto ragazzo biondo e magrissimo che indossava una toga viola. Leo inciampò. Era il tipo strano chiamato Octavian, l’augure del Campo Giove, che era sempre in cerca di guerra. Octavian si voltò verso di lui, ma sembrava essere in trance. I tratti del suo volto erano inerti, i suoi occhi chiusi. Quando parlò, lo fece con la voce di Gea: Questo non può essere impedito. I romani si spostano verso est da New York. Si avvicinano al vostro campo, e nulla può rallentarli. Leo era tentato di dare un pugno in faccia ad Octavian. Invece continuò a correre. Salì sulla Collina Mezzosangue. Sulla cima, dei lampi avevano distrutto il pino gigante. Si fermò all’improvviso. Tutto quello che c’era oltre la collina era stato spazzato via. Al di là di essa, tutto il mondo era svanito. Leo non vide nulla eccetto nuvole librate più in basso – un ondulato tappeto d’argento sotto il cielo scuro. Una voce acuta disse, “Ebbene?” Leo indietreggiò. Accanto al pino in pezzi, una donna era inginocchiata presso l’entrata di una caverna che si era aperta tra le radici dell’albero. La donna non era Gea. Sembrava più come un’Atena Partenone vivente, con gli stessi vestiti dorati e le nude braccia d’avorio. Quando si alzò, per poco Leo non precipitò oltre il bordo del mondo. Il suo volto era regalmente bello, con zigomi alti, grandi occhi scuri, e capelli color liquirizia legati con un’elegante acconciatura dell’Antica Grecia, decorati con una spirale di smeraldi e diamanti, così da ricordare a Leo un albero di Natale. La sua espressione irradiava odio puro. Le sue labbra si incurvarono. Il suo naso si arricciò. “Il figlio del dio meccanico,” disse con sarcasmo. “Non sei una minaccia, ma suppongo che la mia vendetta debba iniziare da qualche parte. Fai la tua scelta.” Leo cercò di parlare, ma stava per schizzare fuori dalla pelle per il panico. Tra questa regina dell’odio e il gigante che lo inseguiva, non aveva idea di cosa fare. “Sarà presto qui,” avvertì la donna. “Il mio oscuro amico non ti darà il lusso di una scelta. Il precipizio o la grotta, ragazzo!” Improvvisamente Leo capì quello che voleva dire. Era stato messo all’angolo. Avrebbe potuto saltare dal precipizio, ma quello era un suicidio. Anche se ci fosse stata la terra sotto quelle nuvole, sarebbe morto durante la caduta, o forse avrebbe semplicemente continuato a cadere in eterno. Ma la grotta… fissò l’apertura buia tra le radici dell’albero. Aveva un odore di morte e putrefazione. Sentiva dei corpi che si agitavano dall’interno, voci che sussurravano tra le ombre. La grotta era la casa dei morti. Se scendeva là sotto, non sarebbe mai tornato. “Sì,” disse la donna. Intorno al suo collo era appeso uno strano pendente di bronzo e smeraldi, come un labirinto circolare. I suoi occhi erano così arrabbiati, che Leo capì finalmente perché si diceva impazzire dalla rabbia. Quella donna era stata portata alla follia dall’odio. “La Casa di Ade attende. Tu sarai il primo piccolo roditore a morire nel mio labirinto. Hai solo un’opportunità per fuggire, Leo Valdez. Coglila.” Fece un gesto verso il precipizio. “Lei è matta,” riuscì a dire. Era la cosa sbagliata da dire. Lei gli afferrò il polso. “Forse dovrei ucciderti adesso, prima che arrivi il mio amico oscuro?” Dei passi fecero tremare il fianco della collina. Il gigante stava arrivando, avvolto dalle ombre, enorme, pesante e incline all’omicidio. “Hai mai sentito della morte in un sogno, ragazzo?” chiese la donna. “E’ possibile, per mano di una maga!” Il braccio di Leo iniziò a fumare. Il tocco della donna era acido. Cercò di liberarsi, ma la sua presa era come acciaio. Aprì la bocca per urlare. L’enorme sagoma del gigante incombeva sopra di lui, oscurata da strati di fumo nero. Il gigante sollevò il pugno, e una voce arrivò attraverso il sogno. “Leo!” Jason gli stava scuotendo la spalla. “Hey, amico, perché stai abbracciando Nike?” Gli occhi di Leo si aprirono di scatto. Le sue braccia erano avvolte intorno alla statua a grandezza umana sulla mano di Atena. Doveva essersi agitato nel sonno. Era aggrappato alla dea della vittoria come era solito aggrapparsi al suo cuscino da bambino quando aveva degli incubi. (Cavoli, era stata una cosa cosìimbarazzante nelle case adottive.) Si sciolse dalla statua e si mise a sedere, strofinandosi la faccia. “Nulla,” borbottò. “Ci stavamo solo facendo le coccole. Um, che succede?” Jason non lo punzecchiò. Quella era una cosa del suo amico che Leo apprezzava. Gli occhi blu ghiaccio di Jason erano calmi e seri. La piccola cicatrice sulla sua bocca si contrasse come faceva sempre quando doveva dare brutte notizie. “Abbiamo attraversato le montagne,” disse. “Siamo quasi arrivati a Bologna. Dovresti raggiungerci nella sala mensa. Nico ha delle novità.” 10 LEO Leo aveva progettato le pareti della sala mensa in modo tale che mostrassero immagini in tempo reale dal Campo Mezzosangue. All’inizio aveva pensato che fosse un’idea piuttosto fantastica. Adesso non ne era più così certo. Le scene di casa – i canti di gruppo intorno al falò, le cene al padiglione, le partite di volleyball fuori dalla Casa Grande – sembravano solo rendere tristi i suoi amici. Più si allontanavano da Long Island, più la cosa peggiorava. Il fuso orario continuava a cambiare, facendo sentire a Leo la distanza ogni volta che guardava le pareti. Lì in Italia il sole era appena spuntato. Al Campo Mezzosangue erano nel bel mezzo della notte. Le torce erano accese alle porte delle cabine. La luce della luna luccicava sulle onde di Long Island Sound. La spiaggia era ricoperta di impronte, come se ci fosse appena passata una grande folla. Con stupore, Leo si rese conto che il giorno prima – la scorsa notte, quello che era – era stato il Quattro Luglio. Si erano persi la festa annuale del Campo Mezzosangue sulla spiaggia con grandiosi fuochi d’artificio preparati dai fratelli di Leo della Cabina Nove. Decise di non dirlo al gruppo, ma sperava che i loro amici a casa si fossero divertiti. Anche loro avevano bisogno di qualcosa che tenesse alto il loro morale. Si ricordò delle immagini che aveva visto nel suo sogno – il campo in rovina, cosparso di corpi; Octavian che si trovava al campo da pallavolo, che parlava incurante nella voce di Gea. Fissò le sue uova con bacon. Desiderò poter disattivare i video a parete. “Allora,” disse Jason, “adesso che siamo qui…” Si mise seduto a capotavola, in maniera quasi automatica. Da quando avevano perso Annabeth, Jason aveva fatto del suo meglio per comportarsi come il leader del gruppo. Essendo stato pretore del Campo Giove, era probabilmente abituato; ma Leo poteva capire che il suo amico era stressato. I suoi occhi erano persino più infossati del solito. I suoi capelli biondi erano stranamente in disordine, come se si fosse dimenticato di pettinarli. Leo guardò gli altri ragazzi intorno al tavolo. Anche Hazel aveva gli occhi annebbiati, ma lei ovviamente era stata in piedi tutta la notte per pilotare la nave attraverso le montagne. I suoi ricci capelli color cannella erano legati all’indietro con una bandana, cosa che le dava un aspetto da capitano che Leo trovava quasi attraente – e poi si sentì immediatamente in colpa per quello. Accanto a lei era seduto il suo ragazzo, Frank Zhang, vestito con pantaloni da ginnastica neri e una maglietta da turista di Roma con la scritta CIAO! (era davvero una parola?). La vecchia spilla da centurione di Frank era appuntata alla sua maglietta, nonostante il fatto che adesso i semidei dell’Argo II erano i Nemici Pubblici Numero dall’1 al 7 del Campo Giove. La sua espressione seria non faceva altro che rinforzare la sua triste somiglianza a un lottatore di sumo. Poi c’era il fratellastro di Hazel, Nico di Angelo. Accidenti, quel ragazzo dava a Leo i brividi. Era seduto con il suo giacchetto di pelle da aviatore, la sua maglietta nera e i jeans, quell’anello a forma di teschio d’argento dall’aspetto cattivo al dito, e la spada di ferro di Stige al fianco. I suoi ciuffi di capelli neri sporgevano in ricci simili a piccole ali di pipistrello. I suoi occhi erano tristi e in un cero senso vuoti, come se avessero visto attraverso le profondità del Tartaro – cosa che avevano fatto. L’unico semidio assente era Piper, che stava facendo il suo turno al timone con il Coach Hedge, il loro satiro accompagnatore. Leo desiderava che Piper fosse lì. Aveva la capacità di calmare la situazione con quel suo incantesimo da figlia di Afrodite. Dopo il sogno della notte scorsa, a Leo avrebbe fatto comodo un po’ di calma. D’altra parte, era probabilmente una buona cosa che lei si trovasse sopra coperta ad accompagnare il loro accompagnatore. Ora che si trovavano nelle Terre Antiche, dovevano stare costantemente in guardia. Leo era nervoso all’idea di lasciare il Coach Hedge a dirigere la nave da solo. Il satiro aveva un tantino il grilletto facile, e il timone aveva un sacco di luminosi bottoni pericolosi che potevano far esplodere i pittoreschi paesini italiani sotto di loro. Leo si era estraniato così tanto che non si era reso conto che Jason stava ancora parlando. “ – la Casa di Ade,” stava dicendo. “Nico?” Nico si sporse in avanti. “Ho parlato con i morti ieri notte.” Buttò la notizia con disinvoltura, come se avesse detto di aver ricevuto un messaggio da un amico. “Sono stato in grado di sapere di più su quello che affronteremo,” continuò Nico. “Nei tempi antichi, la Casa di Ade era un posto di grande importanza per i pellegrini greci. Ci si recavano per parlare con i morti e onorare i loro antenati.” Leo si accigliò. “Sembra come il Dià de los Muertos. Mia Zia Rosa prendeva quelle cose seriamente.” Si ricordava di quando veniva trascinato da lei al cimitero locale di Houston, dove pulivano le tombe dei loro parenti e lasciavano offerte di limonata, biscotti e calendule fresche. Zia Rosa costringeva Leo a rimanere per fare un picnic, come se trascorrere la giornata con persone morte fosse stata una cosa positiva per il suo appetito. Frank emise un brontolio. “Anche i Cinesi lo fanno – il culto degli antenati, spazzare le tombe in primavera.” Guardò Leo. “Tua Zia Rosa sarebbe andata d’accordo con mia nonna.” Leo ebbe una visione terrificante di sua Zia Rosa e di qualche anziana donna cinese vestita da lottatrice, che si attaccavano a vicenda con mazze chiodate. “Sì,” disse Leo. “Sono certo che sarebbero state migliori amiche.” Nico si schiarì la voce. “Numerose culture hanno tradizioni stagionali per onorare i morti, ma la Casa di Ade era aperta tutto l’anno. I pellegrini potevano realmente parlare con i fantasmi. In greco, il luogo era chiamato Necromanteion, l’Oracolo della Morte. Dovevi farti strada attraverso diversi livelli di tunnel, lasciando offerte e bevendo pozioni speciali –“ “Pozioni speciali,” borbottò Leo. “Yum.” Jason gli lanciò un’occhiata che sembrava dire, Amico, basta così. “Nico, vai avanti.” “I pellegrini credevano che ogni livello del tempio ti portasse più vicino all’Oltretomba, fino a che i morti non ti apparivano. Se erano soddisfatti delle tue offerte, rispondevano alle tue domande, magari ti dicevano persino il futuro.” Frank picchiettò sulla sua tazza di cioccolata calda. “E se gli spiriti non erano soddisfatti?” “Alcuni pellegrini non trovavano nulla,” disse Nico. “Alcuni impazzivano, oppure morivano dopo aver lasciato il tempio. Altri si perdevano nei tunnel e non venivano più rivisti.” “Il punto è che,” disse Jason velocemente, “Nico ha scoperto delle informazioni che potrebbero aiutarci.” “Sì.” Nico non sembrava molto entusiasta. “Il fantasma con il quale ho parlato la scorsa notte… era un sacerdote di Ecate. Ha confermato quello che la dea ha detto ieri ad Hazel presso l’incrocio. Durante la prima guerra con i giganti, Ecate combatté con gli dei. Uccise uno dei giganti – uno che era stato pensato come l’anti-Ecate. Un tipo di nome Clitio.” “Tipo oscuro,” indovinò Leo. “Avvolto dalle ombre.” Hazel si voltò verso di lui, stringendo i suoi occhi dorati. “Leo, come facevi a saperlo?” “Diciamo che ho fatto un sogno.” Nessun sembrò sorpreso. La maggior parte dei semidei faceva degli incubi vividi su quello che accadeva nel mondo. I suoi amici prestarono grande attenzione mentre Leo spiegava. Cercò di non guardare le immagini a parete del Campo Mezzosangue mentre descriveva il luogo in rovina. Raccontò loro del gigante scuro, e della strana donna sulla Collina Mezzosangue, che gli offriva una morte a scelta multipla. Jason allontanò il suo piatto di pancake. “Allora il gigante è Clitio. Immagino che ci starà aspettando, sorvegliando le Porte della Morte.” Frank arrotolò uno dei suoi pancake e iniziò a masticare rumorosamente – non un tipo che permetteva a una morte imminente di impedire una colazione salutare. “E la donna del sogno di Leo?” “Lei è un problema mio.” Hazel si rigirò un diamante tra le dita con un rapido movimento di mano. “Ecate ha parlato di una nemica formidabile nella Casa di Ade – una strega che non può essere sconfitta se non da me, usando la magia.” “Conosci la magia?” chiese Leo. “Non ancora.” “Ah.” Cercò di pensare a qualcosa di positivo da dire, ma gli tornarono alla mente gli occhi arrabbiati della donna, il modo in cui la sua presa d’acciaio gli aveva fatto fumare la pelle. “Nessuna idea su chi possa essere?” Hazel scosse la testa. “Solo che…” Lanciò un’occhiata a Nico, e tra loro due passò qualche tipo di discussione silenziosa. Leo ebbe la sensazione che i due avessero avuto una conversazione privata sulla Casa di Ade, e che non stessero condividendo tutti i dettagli. “Solo che non sarà facile da sconfiggere.” “Ma c’è qualche buona novità,” disse Nico. “Il fantasma con il quale ho parlato ha spiegato come Ecate sconfisse Clitio durante la prima guerra. Usò le sue torce per mandargli a fuoco i capelli. Lui bruciò fino a morire. In altre parole, il fuoco è la sua debolezza.” Si girarono tutti a guardare Leo. “Oh,” disse. “Okay.” Jason annuì incoraggiante, come se fossero delle grandi notizie – come se si aspettasse che Leo andasse diretto verso una massa incombente di oscurità, lanciasse qualche palla di fuoco e risolvesse tutti i loro problemi. Leo non voleva abbatterlo, ma riusciva ancora a sentire la voce di Gea: Lui è il nulla che consuma tutta la magia, il freddo che consuma tutto il fuoco, il silenzio che consuma tutte le parole. Leo era piuttosto sicuro che ci sarebbe voluto più di qualche fiammifero per far prendere fuoco al gigante. “E’ un buon inizio,” insistette Jason “Almeno sappiamo come uccidere il gigante. E questa maga… bè, se Ecate crede che Hazel può batterla, allora lo credo anche io.” Hazel abbassò lo sguardo. “Ora dobbiamo solo raggiungere la Casa di Ade, farci strada attraverso le forze di Gea –“ “E attraverso un sacco di fantasmi,” aggiunse Nico serio. “Gli spiriti in quel tempio potrebbero non essere amichevoli.” “ – e trovare le Porte della Morte,” continuò Hazel. “Assumendo che riusciremo in qualche modo ad arrivare nello stesso momento di Percy e Annabeth e salvarli.” Frank mandò giù un morso di pancake. “Possiamo farcela. Dobbiamo farcela.” Leo ammirava l’ottimismo del ragazzone. Desiderò averlo anche lui. “Allora, per quanto riguarda questa deviazione,” disse Leo, “ho calcolato che ci vorranno quattro o cinque giorni per arrivare ad Epiro, presumendo che non ci saranno ritardi causati da, sapete, attacchi di mostri e cose così.” Jason fece un sorriso asciutto. “Già. Quelli non accadono mai.” Leo guardò Hazel. “Ecate ti ha detto che Gea stava pianificando la sua grande festa di risveglio per il primo Agosto, giusto? La Festa di Qualche Cosa?” “Spes,” disse Hazel. “La dea della speranza.” Jason giocherellò con la sua forchetta. “Teoricamente, questo ci lascia abbastanza tempo. Siamo solo al cinque di Luglio. Dovremmo essere in grado di chiudere le Porte della Morte, poi trovare il quartier generale dei giganti e impedire loro di svegliare Gea prima del primo Agosto.” “Teoricamente,” concordò Hazel. “Ma mi piacerebbe comunque sapere come riusciremo ad attraversare la Casa di Ade senza impazzire o morire.” Nessuno propose qualche idea. Frank mise giù il suo involtino di pancake come se improvvisamente non avesse più un sapore così buono. “E’ il cinque Luglio. Oh, cavoli, non ci avevo nemmeno pensato….” “Hey, amico, va tutto bene,” disse Leo. “Sei Canadese, giusto? Non mi aspettavo che mi facessi un regalo per la Festa d’Indipendenza o niente del genere… a meno che non volevi farlo.” “Non è quello. Mia nonna… mi diceva sempre che il sette era un numero sfortunato. Era un numerofantasma. Non le piacque l’idea quando le dissi che ci sarebbero stati sette semidei nella nostra impresa. E Luglio è il settimo mese dell’anno.” “Sì, ma…” Leo picchiettò le dita sul tavolo con fare nervoso. Si rese conto che stava usando il codice Morse per dire ti voglio bene, come era solito fare con sua madre, cosa che sarebbe stata piuttosto imbarazzante se i suoi amici avessero saputo il codice Morse. “Ma è solo una coincidenza, giusto?” L’espressione di Frank non lo rassicurò. “In Cina,” disse Frank, “ai tempi antichi, le persone chiamavano il settimo mese il mese fantasma. Era quando il mondo degli spiriti e il mondo umano erano più vicini. I vivi e i morti potevano andare avanti e indietro. Dimmi che è una coincidenza il fatto che stiamo cercando le Porte della Morte durante il mese fantasma.” Nessun disse nulla. Leo voleva credere che le vecchie credenze cinesi non potessero avere nulla a che fare con i greci e i romani. Erano cose totalmente diverse, giusto? Ma l’esistenza di Frank era la prova che le culture erano legate insieme. La famiglia Zhang risaliva all’Antica Grecia. Avevano attraversato Roma e la Cina e alla fine erano arrivati in Canada. Inoltre, Leo continuava a pensare al suo incontro con la dea della vendetta, Nemesi, al Grande Lago Salato. Nemesi lo aveva definito la settima ruota, la riserva dell’impresa. Non intendeva settimo per dire fantasma,no? Jason premette le mani contro i braccioli della sedia. “Concentriamoci sulle cose che possiamo risolvere. Ci stiamo avvicinando a Bologna. Forse avremo più risposte una volta trovati questi nani che Ecate –“ La nave sbandò come se avesse colpito un iceberg. Il piatto della colazione di Leo scivolò lungo il tavolo. Nico cadde all’indietro e sbatté la testa contro la credenza. Crollò sul pavimento, con una dozzina di calici e piatti magici che gli precipitarono addosso. “Nico!” Hazel corse ad aiutarlo. “Cosa -?” Frank cercò di mettersi in piedi, ma la nave sterzò nella direzione opposta. Si scontrò contro il tavolo e cadde di faccia nel piatto di uova strapazzate di Leo. “Guardate!” Jason indicò le pareti. Le immagini del Campo Mezzosangue stavano vibrando e mutando. “Impossibile,” mormorò Leo. Non c’era modo nel quale quegli incantesimi potessero mostrare qualcosa di diverso dalle scene del campo, ma improvvisamente un enorme faccia distorta riempì l’intera parete di babordo: gialli denti storti, una rossa barba incolta, un naso bitorzoluto, e due occhi spaiati – uno molto più grande e in alto rispetto all’altro. La faccia sembrava cercare di farsi strada nella stanza a morsi. Le altre pareti vibrarono, mostrando scene dal ponte. Piper si trovava al timone, ma c’era qualcosa che non andava. Dalle spalle in giù era avvolta dal nastro adesivo, con la bocca imbavagliata e le gambe legate alla console di controllo. All’albero maestro, il Coach Hedge era anche lui legato e imbavagliato, mentre una creatura dall’aspetto strano – una sorta di mix tra uno gnomo e uno scimpanzé con scarso senso dello stile – gli danzava intorno, acconciando i capelli del coach in minuscole treccine con elastici rosa. Sulla parete di babordo, l’enorme volto indietreggiò così da permettere a Leo di vedere l’intera creatura – un altro scimpanzé gnomo, con vestiti ancora più folli. Questo qui iniziò a saltellare per il ponte, infilando varie cose in una sacca di tela – il pugnale di Piper, il controllore Wii di Leo. Poi andò a curiosare verso la sfera di Archimede, tirandola fuori dalla console di comando. “No!” urlò Leo. “Uhhh,” gemette Nico dal pavimento. “Piper!” urlò Jason. “Scimmie!” gridò Frank. “Non sono scimmie,” borbottò Hazel. “Credo che quelli siano nani.” “Che stanno rubando le mie cose!” gridò Leo, e corse verso le scale. 11 LEO Leo era vagamente consapevole di Hazel che gridava, “Andate! Io mi occupo di Nico!” Come se Leo avesse intenzione di tornare indietro. Certo, sperava che di Angelo stesse bene, ma lui aveva i suoi mal di testa personali. Leo si gettò verso le scale, con Jason e Frank al seguito. La situazione sul ponte era persino peggiore di quanto avesse temuto. Il Coach Hedge e Piper stavano lottando per liberarsi dallo scotch mentre uno dei nani scimmia indemoniati ballava sul ponte, raccogliendo qualsiasi cosa non fosse fissata a terra e ficcandola nella sua sacca. Era alto circa un metro e venti, persino più basso del Coach Hedge, con gambe inarcate e piedi da scimpanzé, con dei vestiti così appariscenti che fecero venire le vertigini a Leo. I suoi pantaloni di lana verdi erano risvoltati sull’orlo, ed erano tenuti su da bretelle rosso acceso sopra una camicetta da donna a strisce rosa e nere. Indossava una mezza dozzina di orologi d’oro su ciascun braccio, e un cappello zebrato da cowboy con un cartellino del prezzo che dondolava dalla tesa. La sua pelle era ricoperta da macchie di incolta pelliccia rossa, sebbene il novanta per cento dei suoi peli sembrava essere concentrato sulle sue maestose sopracciglia. Leo aveva appena formato il pensiero Dov’è l’altro nano? quando udì un clik dietro di lui e si rese conto di aver guidato i suoi amici in una trappola. “Giù!” Si gettò a terra mentre l’esplosione gli faceva scoppiare i timpani. Nota a se stesso, pensò Leo barcollando. Non lasciare scatole di granate magiche dove i nani possono raggiungerle. Almeno era vivo. Ultimamente Leo aveva sperimentato con ogni tipo di arma basandosi sulla sfera di Archimede che aveva scoperto a Roma. Aveva costruito granate che potevano spruzzare acido, fuoco, pallottole esplosive, o popcorn appena imburrati. (Hey, non si può mai sapere quando ti verrà fame in battaglia.) A giudicare dal fischio nelle orecchie di Leo, i nani avevano fatto esplodere la granata stordente, che Leo aveva riempito con una rara fiala della musica di Apollo, puro estratto liquido. Non uccideva, ma gli lasciò la sensazione di essersi appena buttato di pancia in piscina. Cercò di alzarsi. I suoi arti erano inutilizzabili. Qualcuno lo stava trascinando dalla vita, forse un amico che stava cercando di aiutarlo ad alzarsi? No. I suoi amici non odoravano di gabbie per scimmie inzuppate di profumo. Riuscì a voltarsi. La sua vista era sfocata e sfumava sul rosa, come se il mondo fosse stato immerso in una gelatina alle fragole. Un grottesco volto sorridente incombeva sopra di lui. Il nano dalla pelliccia marrone era vestito in maniera persino peggiore del suo amico, con una bombetta verde simile a quella di un lepracano, orecchini a pendente di diamanti, e una maglietta bianca e nera da arbitro. Mise in mostra il premio che aveva appena rubato – la cintura degli attrezzi di Leo – e poi andò via danzando. Leo cercò di afferrarlo, ma le sue dita erano intorpidite. Il nano saltellò verso la balista più vicina, che il suo amico dalla pelliccia rossa stava caricando per sparare. Il nano con il pelo marrone saltò sul missile come fosse uno skateboard, e il suo amico lo lanciò nel cielo. Pelliccia Rossa fece delle capriole verso il Coach Hedge. Diede al satiro un grosso schiaffo sulla guancia, poi saltellò fino alla balaustra. Si inchinò verso Leo, levandosi il suo capello da cowboy zebrato, e fece una capriola all’indietro oltre il bordo. Leo riuscì ad alzarsi. Jason era già in piedi, barcollava e inciampava sulle cose. Frank si era trasformato in un gorilla (perché, Leo non era certo; forse per comunione con i nani scimmia?) ma la granata stordente lo aveva colpito duramente. Era abbandonato sul ponte con la lingua di fuori e i suoi occhi da gorilla rigirati nella testa. “Piper!” Jason avanzò insicuro fino al timone e le levò con attenzione il bavaglio dalla bocca. “Non sprecare il tempo con me!” disse lei. “Inseguite loro!” Presso l’albero, il Coach Hedge borbottò, “HHHmmmmm-hmmm!” Leo immaginò che volesse dire: “UCCIDETELI!” Traduzione facile, dal momento che la maggior parte delle frasi del coach includevano la parola uccidere. Leo guardò verso la console di controllo. La sua sfera di Archimede era andata. Si mise la mano alla vita, dove ci sarebbe dovuta essere la sua cintura per gli attrezzi. La sua testa iniziò a schiarirsi, e il suo senso di oltraggio cominciò a ribollire. Quei nani avevano attaccato la sua nave. Avevano rubato i suoi averi più preziosi. Sotto di lui si estendeva la città di Bologna – un fitto puzzle di edifici dai tetti rossi in una vallata bordata da colline verdi. A meno che Leo non fosse riuscito a trovare i nani da qualche parte in quel labirinto di strade… No. Il fallimento non era un’opzione. Né lo era aspettare che i suoi amici si riprendessero. Si voltò verso Jason. “Ti senti abbastanza in forma per controllare i venti? Mi servirebbe un passaggio.” Jason aggrottò le sopracciglia. “Certo, ma –“ “Bene,” disse Leo. “Abbiamo delle scimmie da catturare.” Jason e Leo atterrarono in una grande piazza costeggiata da bianchi edifici pubblici di marmo e bar all’aperto. Biciclette e Vespe intasavano le strade circostanti, ma la piazza stessa era vuota fatta eccezione per i piccioni e qualche uomo anziano intento a bere caffè. Nessuno dei locali sembrava notare l’enorme nave da guerra greca librata sopra la piazza, o il fatto che Jason e Leo fossero appena atterrati dal cielo, Jason brandendo una spada dorata, e Leo… bè, Leo praticamente a mani vuote. “Dove si va?” chiese Jason. Leo lo fissò. “Bè, non lo so. Fammi tirare fuori il mio localizzatore di nani GPS dalla mia cintura…. Oh, aspetta! Non ho un localizzatore di nani GPS – e nemmeno la mia cintura!” “Bene,” brontolò Jason. Guardò verso la nave come per orientarsi, poi indicò dall’altra parte della piazza. “La balista ha sparato il primo nano in quella direzione, credo. Andiamo.” Si fecero strada attraverso un lago di piccioni, poi girarono lungo una stradina laterale di negozi di vestiti e gelaterie. I marciapiedi erano fiancheggiati da colonne bianche ricoperte di graffiti. Qualche elemosinatore chiese loro degli spicci (Leo non conosceva l’italiano, ma afferrò il messaggio forte e chiaro). Continuava a tastarsi la vita, sperando che la sua cintura per gli attrezzi riapparisse magicamente. Non lo fece. Cercò di non andare nel panico, ma era arrivato a dipendere da quella cintura per quasi qualsiasi cosa. Si sentiva come se qualcuno gli avesse rubato una mano. “La troveremo,” promise Jason. Solitamente, Leo si sarebbe sentito rassicurato. Jason aveva un talento per rimanere calmo e razionale durante una crisi, e aveva tirato Leo fuori da un sacco di brutti guai. Quel giorno, tuttavia, tutto quello a cui Leo riusciva a pensare era lo stupido biscotto della fortuna che aveva aperto a Roma. La dea Nemesi gli aveva promesso dell’aiuto, e lui l’aveva avuto: il codice per attivare la sfera di Archimede. Allora, Leo non aveva avuto altra scelta se non quella di usarlo se voleva salvare i suoi amici – ma Nemesi aveva avvertito che il suo aiuto aveva un prezzo. Leo si chiese se quel prezzo sarebbe mai stato ripagato. Percy e Annabeth non c’erano più. La nave era a centinaia di metri fuori rotta, diretta verso una sfida impossibile. Gli amici di Leo contavano su di lui per sconfiggere un gigante terrificante. E adesso non aveva nemmeno la sua cintura degli attrezzi o la sua sfera di Archimede. Era così preso dal piangersi addosso che non si accorse dove si trovavano fino a che Jason non gli afferrò il braccio. “Dai un’occhiata.” Leo alzò lo sguardo. Erano arrivati in una piazza più piccola. Sopra di loro si profilava un’enorme statua di bronzo raffigurante un Nettuno nudo. “Ah, cavoli.” Leo distolse lo sguardo. Non aveva davvero bisogno di vedere dei genitali divini di mattina presto. Il dio del mare si trovava su una grossa colonna di marmo in mezzo a una fontana non in funzione (cosa che sembrava un po’ ironica). Su entrambi i lati di Nettuno, piccoli Cupidi alati stavano seduti, come se stessero chiacchierando tranquilli, del tipo, Che mi racconti? Nettuno in persona (evitando le parti intime) aveva il fianco inclinato da una parte in un atteggiamento alla Elvis Presley. Aveva il tridente tenuto senza forze nella mano destra e la mano sinistra tesa verso l’esterno come se stesse dando la sua benedizione a Leo, o forse come stesse cercando di farlo levitare. “E’ una specie di indizio?” chiese Leo. Jason si accigliò. “Forse, forse no. Ci sono statue delle divinità ovunque in Italia. Mi sarei sentito meglio se avessimo incontrato Giove. O Minerva. Davvero, chiunque tranne Nettuno.” Leo entrò nella fontana secca. Mise la mano sul piedistallo della statua, e una sensazione improvvisa gli salì attraverso la punta delle dita. Avvertì ingranaggi di bronzo Celeste, leve magiche, molle e pistoni. “E’ meccanico,” disse. “Fosse una porta per il covo segreto dei nani?” “Ooooo!” gridò una voce vicina. “Covo segreto?” “Io voglio un covo segreto!” urlò un’altra voce dall’alto. Jason indietreggiò, la spada pronta. Leo rischiò quasi un colpo di frusta nel tentativo di guardare in due direzioni contemporaneamente. Il nano dalla pelliccia rossa con il capello da cowboy era seduto a circa nove metri di distanza, al più vicino tavolo da bar, intento a sorseggiare un espresso con i suoi piedi da scimmia. Il nano con la pelliccia marrone e la bombetta verde era appollaiato sul piedistallo di marmo ai piedi di Nettuno, appena sopra la testa di Leo. “Se avessimo un covo segreto,” disse Pelliccia Rossa, “vorrei un palo dei pompieri.” “E uno scivolo ad acqua!” disse Pelliccia Marrone, che stava tirando fuori dalla cintura di Leo attrezzi a caso, gettando da parte chiavi, martelli e spara chiodi. “Smettila!” Leo cercò di afferrare i piedi del nano, ma non riusciva a raggiungere la cima del piedistallo. “Troppo basso?” disse Pelliccia Marrone con simpatia. “Stai dicendo a me che sono basso?” Leo si guardò intorno in cerca di qualcosa da lanciare, ma non c’era nulla eccetto piccioni, e dubitava di essere in grado di acchiapparne uno. “Ridammi la mia cintura, stupido –“ “Calma, calma!” disse Pelliccia Marrone. “Non ci siamo nemmeno presentati. Io sono Acmone. E mio fratello laggiù –“ “ – è quello bello!” Il nano rosso sollevò il suo espresso. A giudicare dai suoi occhi dilatati e il sorriso da maniaco, non aveva bisogno di altra caffeina. “Passalo! Cantante di canzoni! Bevitore di caffè! Ladro di cose luccicanti!” “Per favore!” urlò suo fratello, Acmone. “Io rubo molto meglio di te.” Passalo fece un verso di scherno. “Rubi pisolini, magari!” Tirò fuori un pugnale – il pugnale di Piper – e iniziò a usarlo come stuzzicadenti. “Hey!” gridò Jason. “Quello è il coltello della mia ragazza!” Si lanciò verso Passalo, ma il nano rosso era troppo veloce. Saltò dalla sua sedia, rimbalzò sulla testa di Jason, fece una capriola, e atterrò accanto a Leo, con le sue braccia pelose attorno alla sua vita. “Mi salvi?” implorò il nano. “Staccati!” Leo cercò di cacciarlo via, ma Passalo fece un salto mortale all’indietro e atterrò fuori dalla sua portata. I pantaloni di Leo caddero prontamente fino alle ginocchia. Fissò Passalo, che adesso stava sogghignando e teneva in mano una piccola serpeggiante striscia di metallo. In qualche modo, il nano aveva rubato la zip dai pantaloni di Leo. “Dammi – la stupida – zip!” Leo balbettò, cercando di agitare il pugno e di tenersi su i pantaloni allo stesso tempo. “Eh, non è abbastanza luccicante.” Passalo la gettò via. Jason si lanciò con la spada sguainata. Passalo saltò verso l’alto e fu improvvisamente seduto sul piedistallo della statua accanto a suo fratello. “Dimmi che non ho stile,” si vantò Passalo. “Okay,” disse Acmone. “Non hai stile.” “Bah!” disse Passalo. “Dammi la cintura degli attrezzi. Voglio vedere.” “No!” Acmone gli diede una gomitata per allontanarlo. “Tu hai il pugnale e la palla brillante.” “Sì, la palla brillante è carina.” Passalo si tolse il cappello da cowboy. Come un mago che faceva apparire un coniglio, tirò fuori la sfera di Archimede e iniziò a giocherellare con gli antichi quadranti di bronzo. “Smettila!” urlò Leo. “Quella è una macchina delicata.” Jason arrivò al suo fianco e fissò furioso i nani. “Chi siete voi due?” “I Cercopi!” Acmone strinse gli occhi verso Jason. “Scommetto che tu sei un figlio di Giove, eh? Lo capisco sempre.” “Proprio come Didietro Scuro,” concordò Passalo. “Didietro Scuro?” Leo resistette all’impulso di saltare di nuovo verso i piedi dei nani. Era certo che Passalo avrebbe danneggiato la sfera di Archimede in qualsiasi momento. “Sì, sai.” Acmone sogghignò. “Ercole. Lo chiamavamo Didietro Scuro perché era solito andare in giro senza vestiti. Si era abbronzato così tanto sulla parte posteriore, che –“ “Almeno lui aveva senso dell’umorismo!” disse Passalo. “Stava per ucciderci quando lo derubammo, ma ci lasciò andare perché gli piacevano i nostri scherzi. Non come voi due. Musoni, musoni!” “Hey, io ho senso dell’umorismo,” ringhiò Leo. “Ridatemi le nostre cose, e vi farò una bella battuta.” “Bella prova!” Acmone tirò fuori una chiave inglese dalla cintura degli attrezzi e la fece ruotare come fosse una trombetta. “Oh, he carina! La terrò senza dubbio! Grazie, Didietro Blu!” Didietro blu? Leo abbassò lo sguardo. I pantaloni gli erano caduti nuovamente alle caviglie, rivelando i suoi boxer blu. “Basta così!” urlò. “Le mie cose. Ora. Oppure vi mostrerò quanto può essere divertente un nano in fiamme.” Le sue mani presero fuoco. “Ora sì che si ragiona.” Jason alzò la sua spada verso il cielo. Nuvole scure iniziarono a raggrupparsi sopra la piazza. I tuoni risuonarono. “Oh, spaventoso!” gridò Acmone. “Sì,” concordò Passalo. “Se solo avessimo un covo segreto dove nasconderci.” “Purtroppo, questa statua non è l’entrata per un covo segreto,” disse Acmone. “Ha una funzione diversa.” Lo stomaco di Leo si strinse. Le fiamme sulle sue mani morirono, e si rese conto che qualcosa stava andando davvero storto. Urlò, “Trappola!” e si allontanò velocemente dalla fontana. Sfortunatamente, Jason era troppo occupato a evocare la sua tempesta. Leo rotolò sulla schiena mentre cinque corde dorate venivano sparate dalle dita della statua di Nettuno. Una mancò a malapena il piede di Leo. Le altre puntarono dritte su Jason, avvolgendolo come un vitello da rodeo e sollevandolo a testa in giù. Un lampo di saette colpì le punte del tridente di Nettuno, mandando archi di elettricità lungo tutta la statua, ma i Cercopi erano già scomparsi. “Grande!” Acmone stava applaudendo da un vicino tavolo da bar. “Sei una pinata meravigliosa, figlio di Giove!” “Sì!” concordò Passalo. “Ercole appese noi a testa in giù una volta, sai. Oh, la vendetta è dolce!” Leo invocò una palla di fuoco. La lanciò verso Passalo, che stava cercando di fare il giocoliere con due piccioni e la sfera di Archimede. “Eek!” Il nano saltò via dall’esplosione, facendo cadere la sfera e lasciando volare via i piccioni. “E’ il momento di andare via!” decise Acmone. Si picchiettò sulla bombetta e schizzò via, saltando di tavolo in tavolo. Passalo guardò verso la sfera di Archimede, che era rotolata tra i piedi di Leo. Leo evocò un’altra palla di fuoco. “Mettimi alla prova,” ringhiò. “Ciao!” Passalo fece una capriola all’indietro e corse dietro a suo fratello. Leo raccolse da terra la sfera di Archimede e corse da Jason, che era ancora appeso a testa in giù, completamente legato fatta eccezione del braccio che reggeva la spada. Stava cercando di tagliare le corde con la sua lama dorata ma senza successo. “Aspetta,” disse Leo. “Se riesco a trovare la leva di rilascio –“ “Vai!” ringhiò Jason. “Io ti seguo quando mi libero da qui.” “Ma –“ “Non perderli!” L’ultima cosa che Leo desiderava era passare del tempo da solo con i nani scimmia, ma i Cercopi stavano già scomparendo dietro l’angolo opposto della piazza. Leo lasciò Jason appeso alla statua e corse per inseguirli. 12 LEO I nani non si impegnarono troppo nel cercare di seminarlo, cosa che rese Leo sospettoso. Rimasero appena in vista, sgambettando sui tetti rossi, buttando giù i vasi dai davanzali, gridando e urlando e lasciando una scia di viti e chiodi presi dalla cintura degli attrezzi di Leo – quasi come se volessero che Leo li seguisse. Lui corse dietro di loro, imprecando ogni volta che i suoi pantaloni cadevano giù. Girò un angolo e vide due antiche torri di pietra che saettavano verso il cielo, una affianco all’altra, molto più alte di qualsiasi altra cosa nel vicinato – forse torri di controllo medievali? Avevano inclinazioni diverse, come le leve del cambio di una macchina da corsa. I Cercopi scalarono la torre sulla destra. Quando raggiunsero la cima, si arrampicarono sulla parte posteriore e scomparvero. Erano entrati all’interno? Leo poteva vedere delle minuscole finestre sulla cima, bloccate da delle grate di metallo; ma dubitava che ciò avrebbe fermato i nani. Rimase a guardare per un minuto, ma i Cercopi non ricomparvero. Il che voleva dire che Leo doveva salire lassù e andare a cercarli. “Fantastico,” borbottò. Nessun amico volante che lo potesse trasportare. La nave era troppo lontana per chiedere aiuto. Avrebbe potuto improvvisare qualche tipo di strumento di volo con la sfera di Archimede, forse, ma solo se avesse avuto la sua cintura degli attrezzi – cosa che non aveva. Studiò il vicinato, cercando di pensare. A mezzo isolato di distanza, si aprirono due porte di vetro, dalle quali uscì zoppicando una vecchia signora che trasportava delle buste della spesa. Un supermercato? Hmm… Leo si toccò le tasche. Con stupore, aveva ancora qualche banconota in euro di quando era stato a Roma. Quegli stupidi nani si erano presi tutto tranne i suoi soldi. Corse verso il negozio tanto veloce quanto gli permettevano i pantaloni senza zip. Leo perlustrò le corsie, in cerca di cose che poteva usare. Non sapeva come dire in italiano Salve, dove tenete i prodotti chimici pericolosi, per favore? Ma probabilmente era una buona cosa. Non voleva ritrovarsi in una prigione italiana. Fortunatamente, non ebbe bisogno di leggere le etichette. Era in grado di capire solo prendendo in mano un tubetto di dentifricio se questo conteneva o meno il nitrato di potassio. Trovò il carbone. Trovò lo zucchero e il bicarbonato. Il negozio vendeva i fiammiferi, il repellente per gli insetti, e la carta argentata. Praticamente tutto quello di cui aveva bisogno, più una corda per il bucato che poteva usare come cintura. Aggiunse un po’ di cibo spazzatura italiano al carello, solo per cercare di mascherare gli altri acquisti più sospetti, poi scaricò le sue cose alla cassa. Una ragazza dagli occhi spalancati che stava al banco gli fece qualche domanda che lui non capì, ma riuscì a pagare, prendere una busta e a correre via. Si mise al riparo sotto l’arco più vicino, da dove poteva tenere d’occhio le torri. Si mise al lavoro, evocando il fuoco per far asciugare il materiale e per cuocere un po’ di cose che altrimenti avrebbero richiesto giorni per essere completate. Di tanto in tanto lanciava uno sguardo alla torre, ma non c’era traccia dei nani. Leo poteva solo sperare che fossero ancora lassù. Fare l’arsenale richiese solo qualche minuto – era davvero bravo – ma sembrarono ore. Jason non comparve. Forse era ancora intrecciato alla statua di Nettuno, o stava perlustrando le strade alla ricerca di Leo. Dalla nave non arrivò nessuno per aiutare. Probabilmente levare tutti quegli elastici rosa dai capelli del Coach Hedge stava richiedendo parecchio tempo. Ciò voleva dire che Leo aveva solo se stesso, il suo sacchetto di cibo spazzatura, e alcune armi altamente improvvisate fatte di zucchero e dentifricio. Oh, e la sfera di Archimede. Quella era abbastanza importante. Sperava di non averla rovinata riempiendola di polveri chimiche. Corse verso la torre e trovò l’entrata. Iniziò a salire le scale a chiocciola all’interno, solo per essere fermato a uno sportello per i biglietti da un guardiano che gli urlò contro in italiano. “Seriamente?” chiese Leo. “Ascolta, amico, avete dei nani sul campanile. Io sono il disinfestatore.” Sollevò il suo spray repellente per insetti. “Vedi? Disinfestatore molto buono. Spruzzo, spruzzo. Ahhh!” Imitò un nano che si scioglieva terrorizzato, cosa che per qualche ragione l’italiano sembrò non capire. L’uomo si limitò a tendere la mano in avanti, in attesa dei soldi. “Cavoli, amico,” brontolò Leo, “ho appena speso tutto per degli esplosivi fatti in casa e cose simili.” Rovistò nella sua busta della spesa. “Non credo che accetterai…uh… qualsiasi cosa sia questa?” Leo tirò fuori un sacchetto giallo e rosso chiamato Fonzies. Pensò che si trattasse di qualche tipo di patatine. Con sua sorpresa, il guardiano scrollò le spalle e prese il sacchetto. “Avanti!” Leo continuò a salire, ma prese la nota mentale di fare provviste di Fonzies. A quanto sembrava erano meglio dei soldi in Italia. Le scale proseguivano, e proseguivano e proseguivano. L’intera torre sembrava non essere altro che una scusa per costruire scale. Si fermò su un pianerottolo e crollò contro una stretta finestra sbarrata, cercando di riprendere fiato. Stava sudando da pazzi, e il suo cuore martellava contro le costole. Stupidi Cercopi. Leo immaginava che non appena avesse raggiunto la cima questi sarebbero saltati via prima che lui potesse usare le sue armi; ma doveva provare. Riprese a salire. Finalmente, con le gambe molli come spaghetti, raggiunse la cima. La stanza era grande circa come uno sgabuzzino per le scope, con finestre sbarrate su tutte e quattro le pareti. Ammassati agli angoli c’erano sacchi di tesori, oggetti scintillanti versati per tutto il pavimento. Leo individuò il pugnale di Piper, un antico libro rilegato in pelle, qualche strumento meccanico dall’aspetto interessante, e abbastanza oro da far venire il mal di pancia al cavallo di Hazel. All’inizio, pensò che i nani se ne fossero andati. Poi alzò lo sguardo. Acmone e Passalo erano appesi con i loro piedi da scimmia alle travi, a testa in giù, intenti a giocare a poker contro la gravità. Quando videro Leo, lanciarono le loro carte come coriandoli e si misero ad applaudire. “Te l’avevo detto che l’avrebbe fatto!” gridò Acmone deliziato. Passalo scrollò le spalle e si tolse uno dei suoi orologi d’oro per passarlo a suo fratello. “Hai vinto. Non credevo che fosse così stupido.” Si lanciarono tutti e due sul pavimento. Acmone stava indossando la cintura degli attrezzi di Leo – così vicina, che Leo dovette resistere all’impulso di lanciarsi per prenderla. Passalo si raddrizzò il suo capello da cowboy e aprì con un calcio la sbarra della finestra più vicina. “Cosa dovremmo fargli scalare dopo, fratello? La cupola di San Luca?” Leo voleva strangolare i nani, ma forzò un sorriso. “Oh, sembra divertente! Ma prima che ve ne andiate, vi state dimenticando una cosa luccicante.” “Impossibile!” disse Acmone con sguardo corrucciato. “Siamo stati molto accurati.” “Sei sicuro?” Leo sollevò il suo sacchetto della spesa. I nani si avvicinarono. Come Leo aveva sperato, la loro curiosità era così forte che non potevano resistere. “Guardate.” Leo tirò fuori la sua prima arma – una palla di polveri chimiche avvolta con carta argentata – e le diede fuoco con le mani. Lui sapeva di doversi voltare quando fosse esplosa, ma i nani la stavano fissando attentamente. Dentifricio, zucchero e repellente per insetti non erano buoni come la musica di Apollo, ma erano adatti per creare un’esplosione piuttosto decente. I Cercopi gemettero, coprendosi gli occhi. Si diressero verso la finestra, ma Leo accese i suoi fuochi d’artificio fatti in casa – facendoli scattare intorno ai piedi nudi dei nani per farli perdere l’equilibrio. Poi, tanto per essere sicuri, Leo ruotò i quadranti sulla sua sfera di Archimede, che rilasciò uno sbuffo di puzzolente nebbia bianca che riempì la stanza. A Leo il fumo non dava fastidio. Essendo immune al fuoco, si era ritrovato in mezzo a falò fumanti, aveva sopportato l’alito di drago, e aveva ripulito le fucine in fiamme un sacco di volte. Mentre i nani si agitavano e ansimavano, lui afferrò la sua cintura da Acmone, evocò senza fretta delle corde e legò i nani. “I miei occhi!” tossì Acmone. “La mia cintura!” “I miei piedi vanno a fuoco!” gemette Passalo. “Non è luccicante! Non è affatto luccicante!” Dopo essersi assicurato che fossero strettamente legati, Leo trascinò i Cercopi in un angolo e iniziò a frugare tra i loro tesori. Recuperò il pugnale di Piper, alcune dei suoi prototipi di granata, e un’altra dozzina di oggetti che i nani avevano preso dall’Argo II. “Ti prego!” gemette Acmone. “Non prendere i nostri luccicanti!” “Faremo un patto con te!” suggerì Passalo. “Ti daremo il dieci per cento se ci lasci andare!” “Temo di no,” borbottò Leo. “E’ tutto mio adesso.” “Il venti percento!” Proprio in quel momento, dei tuoni riecheggiarono dall’alto. Ci furono dei lampi, e le sbarre della finestra più vicina esplosero in sfrigolanti mozziconi di ferro fuso. Jason entrò volando come Peter Pan, con l’elettricità che scintillava intorno a lui e la sua spada dorata che fumava. Leo fece un fischio di apprezzamento. “Amico, hai appena sprecato un’entrata fantastica.” Jason aggrottò le sopracciglia. Notò i Cercopi legati. “Cosa –“ “Tutto da solo,” disse Leo. “Sono davvero speciale. Come mi hai trovato?” “Uh, il fumo,” riuscì a dire Jason. “E ho sentito rumori di esplosioni. Vi stavate sparando qui dentro?” “Qualcosa del genere.” Leo gli lanciò il pugnale di Piper, poi riprese a frugare tra le borse dei nani. Ricordava quello che Hazel aveva detto sul trovare un tesoro che li avrebbe aiutati con l’impresa, ma non sapeva cosa stava cercando. C’erano monete, pepite d’oro, gioielli, graffette, carte di alluminio, gemelli. Continuava a ritornare su un paio di cose che non sembravano appartenere al gruppo. Uno era un antico strumento di navigazione di bronzo, come l’astrolabio di una nave. Era gravemente danneggiato e sembrava che li mancasse qualche parte, ma Leo lo trovava comunque interessante. “Prendilo!” offrì Passalo. “Lo fece Odisseo, sai! Prendilo e lasciaci andare.” “Odisseo?” chiese Jason. “Nel senso di quell’Odisseo?” “Sì!” squittì Passalo. “Lo fece quando era ormai anziano ad Itaca. Una delle sue ultime invenzioni, e noi la rubammo!” “Come funziona?” chiese Leo. “Oh, non funziona,” disse Acmone. “Credo che li serva qualche cristallo mancante?” Guardò suo fratello in cerca di aiuto. “ ‘Il mio più grande ‘se’,” disse Passalo. “ ‘Avrei dovuto portare un cristallo.’ E’ questo quello che continuava a borbottare nel sonno, la notte in cui lo rubammo.” Passalo scrollò le spalle. “Non ho idea di quello che voleva dire. Ma quel luccicante è vostro! Adesso possiamo andare?” Leo non sapeva perché volesse l’astrolabio. Era ovviamente rotto, e non aveva la sensazione che quello fosse ciò che Ecate voleva che trovassero. Tuttavia, lo fece scivolare in una delle tasche magiche della sua cintura. Spostò la sua attenzione verso l’altro strano pezzo di bottino – il libro rilegato in pelle. Il suo titolo era scritto in foglie d’oro, in una lingua che Leo non riusciva a capire, ma nient’altro del libro sembrava essere luccicante. Non credeva che i Cercopi fossero grandi lettori. “Questo cos’è?” Lo agitò verso i nani, che avevano ancora gli occhi lucidi a causa del fumo. “Niente!” disse Acmone. “Solo un libro. Aveva una bella copertina dorata, quindi gliel’abbiamo rubato.” “A chi?” chiese Leo. Acmone e Passalo si scambiarono delle occhiate nervose. “Dio minore,” disse Passalo. “A Venezia. Davvero, non è nulla.” “Venezia.” Jason guardò Leo con aria interrogativa. “Non è dove dovremmo andare dopo Bologna?” “Sì.” Leo esaminò il libro. Non riusciva a leggere il testo, ma aveva un sacco di illustrazioni: falci, varie piante, un disegno del sole, un gruppo di buoi che trainavano un carro. Non capiva come tutto quello potesse essere importante, ma se il libro era stato rubato da un dio minore a Venezia – il luogo che Ecate aveva detto loro di andare a visitare – allora quello doveva essere ciò che stavano cercando. “Dove possiamo trovare esattamente questo dio minore?” chiese Leo. “No!” strillò Acmone. “Non potete riportarglielo! Se scopre che l’abbiamo rubato –“ “Vi distruggerà,” indovinò Jason. “Che è quello che faremo noi se non ce lo dite, e noi siamo molto più vicini.” Premette la punta della sua spada contro la gola pelosa di Acmone. “Okay, okay!” strillò il nano. “La Casa Nera! Calle Frezzeria!” “E’ un indirizzo?” chiese Leo. Entrambi i nani annuirono con vigore. “Vi prego non ditegli che l’abbiamo rubato noi,” implorò Passalo. “Non è affatto gentile!” “Chi è?” chiese Jason. “Quale dio?” “Non – non posso dirlo,” balbettò Passalo. “Farai meglio a farlo,” avvertì Leo. “No,” disse Passalo con aria miserabile. “Voglio dire, davvero non posso dirlo. Non riesco a pronunciarlo! Tr – tri – è troppo difficile!” “Tru,” disse Acmone. “Tru-to – Troppe sillabe!” Scoppiarono entrambi a piangere. Leo non sapeva se i Cercopi li stessero dicendo la verità, ma era difficile rimanere arrabbiati con dei nani in lacrime, non importava quanto fossero irritanti e mal vestiti. Jason abbassò la spada. “Cosa vuoi farci con loro, Leo? Mandarli nel Tartaro?” “Vi prego, no!” gemette Acmone. “Ci potremmo mettere settimane per tornare.” “Assumendo che Gea ce lo permetta!” Passalo tirò su con il naso. “Ora lei controlla le Porte della Morte. Sarà molto arrabbiata con noi.” Leo guardò i nani. Aveva combattuto un sacco di mostri in passato e non si era mai sentito dispiaciuto quando li uccideva, ma quello era diverso. Doveva ammettere che in un certo senso ammirava quei piccoletti. Facevano scherzi notevoli e li piacevano le cose che luccicavano. Leo li capiva. Inoltre, Percy e Annabeth si trovavano nel Tartaro in quel momento, si sperava ancora vivi, a lottare per raggiungere le Porte della Morte. L’idea di mandare quelle scimmie gemelle laggiù ad affrontare gli stessi problemi da incubo… bè, non sembrava giusto. Immaginò Gea che rideva delle sue debolezze – un semidio dal cuore troppo tenero per uccidere dei mostri. Si ricordò del suo sogno sul Campo Mezzosangue in rovine, i corpi di greci e romani cosparsi sui campi. Ricordò Octavian che parlava con la voce della Dea della Terra: I romani si spostano verso est da New York. Si avvicinano al vostro campo, e nulla può rallentarli. “Nulla può rallentarli,” rifletté Leo. “Mi chiedo…” “Cosa?” chiese Jason. Leo guardò i nani. “Vi offrirò un accordo.” Gli occhi di Acmone si accesero. “Il trenta per cento?” “Vi lasceremo tutto il vostro tesoro,” disse Leo, “ad eccezione delle cose che ci appartengono, dell’astrolabio e di questo libro, che riporteremo al tipo a Venezia.” “Ma ci distruggerà!” gemette Passalo. “Non diremo dove l’abbiamo preso,” promise Leo. “E non vi uccideremo. Vi lasceremo andare.” “Uh, Leo…?” chiese Jason nervoso. Acmone squittì di gioia. “Sapevo che eri intelligente come Ercole! Ti chiamerò Didietro Scuro, il Sequel!” “Sì, no grazie,” disse Leo. “Ma in cambio del fatto che noi risparmieremo le vostre vite, voi dovete fare qualcosa per noi. Vi manderò in un posto dove dovrete rubare ad alcune persone, tormentatele, rendete loro la vita difficile in qualsiasi modo potete. Dovete seguire esattamente le mie istruzioni. Dovete giurare sul Fiume Stige.” “Giuriamo!” disse Passalo. “Rubare alle persone è la nostra specialità!” “Adoro tormentare!” concordò Acmone. “Dove andiamo?” Leo fece un grosso sorriso. “Mai sentito parlare di New York?” 13 PERCY Percy aveva portato la sua ragazza a fare delle passeggiate romantiche prima d’ora. Quella non ne era un esempio. Seguirono il Fiume Flegetonte, inciampando sul liscio terreno nero, saltando sopra le crepe, e nascondendosi dietro alle rocce ogni volta che le ragazze vampiro davanti a loro rallentavano. Era difficile rimanere abbastanza lontani da evitare di essere visti ma anche abbastanza vicini per poter continuare a vedere Kelli e le sue compagne attraverso la scura aria nebbiosa. Il calore del fiume stava cuocendo la pelle di Percy. Ogni respiro era come inalare fibra di vetro al sapore di zolfo. Quando avevano bisogno di bere, il meglio che potevano fare era sorseggiare un po’ di rinfrescante fuoco liquido. Già. Percy sapeva senza dubbio come far passare una bella giornata a una ragazza. Almeno la caviglia di Annabeth sembrava essere guarita. Ormai zoppicava a malapena. I suoi vari tagli e graffi erano svaniti. Si era tirata indietro i capelli biondi usando una striscia di tessuto strappato dai suoi pantaloni, e nell’ardente luce del fiume, i suoi occhi grigi brillavano. Nonostante fosse malconcia, ricoperta di terra, e vestita come fosse una senzatetto, per Percy aveva un aspetto fantastico. Che importava che si trovavano nel Tartaro? Che importava se avevano una minuscola possibilità di sopravvivere? Era così contento che si trovassero insieme che ebbe la ridicola voglia di sorridere. Fisicamente, anche Percy si sentiva meglio, anche se dai suoi vestiti sembrava che fosse stato colpito da una tromba d’aria fatta di pezzi di vetro. Era assetato, affamato, e terrorizzato (anche se quello non l’avrebbe detto ad Annabeth), ma si era scosso via il freddo senza speranza del fiume Cocito. E per quanto orribile fosse l’acqua di fuoco, sembrava permettergli di andare avanti. Era impossibile calcolare il tempo. Avanzavano a fatica, seguendo il fiume che tagliava il paesaggio aspro. Fortunatamente le empousai non erano esattamente delle camminatrici veloci. Si spostavano sulle loro gambe spaiate, di metallo e da asino, sibilando e litigando l’una contro l’altra, apparentemente senza nessuna fretta di raggiungere le Porte della Morte. Una volta, i demoni avevano accelerato ed erano corse in avanti eccitate, gettandosi su quello che assomigliava a una carcassa spiaggiata sulla sponda del fiume. Percy non riuscì a dire di cosa si trattasse – un mostro caduto? Qualche tipo di animale? Le empousai lo avevano attaccato con gusto. Quando i demoni avevano ripreso a camminare, Percy e Annabeth avevano raggiunto il punto dell’attacco e non avevano trovato nessun resto, se non qualche pezzo d’osso e chiazze luccicanti che si stavano asciugando con il calore del fiume. Percy non aveva nessun dubbio sul fatto che le empousai avrebbero divorato i semidei con lo steso gusto. “Andiamo.” Aveva gentilmente allontanato Annabeth dalla scena. “Non possiamo perderle.” Mentre camminavano, Percy ripensò alla prima volta che aveva combattuto contro l’empousa Kelli alla Goode High School, durante la giornata di orientamento delle matricole, quando lui e Rachel Elizabeth Dare erano rimasti intrappolati nell’aula di musica. A quel tempo, era sembrata una situazione senza speranza. Adesso, avrebbe dato qualsiasi cosa per avere a che fare con un problema così semplice. Almeno allora si era trovato nel mondo mortale. Lì, non c’era nessun posto dove scappare. Wow. Quando iniziava a ripensare alla guerra contro Crono come tempi facili – era triste. Continuava a sperare che le cose sarebbero migliorate per lui e Annabeth, ma le loro vite non facevano altro che diventare sempre più pericolose,come se le Tre Parche stessero tessendo i loro futuri con filo spinato al posto della lana solo per vedere quanto potessero sopportare due semidei. Dopo qualche altro chilometro, le empousai scomparvero oltre una cresta. Quando Percy e Annabeth le raggiunsero, si ritrovarono sul bordo di un altro enorme precipizio. Il fiume Felgetonte si gettava oltre il bordo dividendosi in frastagliati getti di cascata di fuoco. Le demoni si stavano facendo strada lungo lo strapiombo, saltando da sporgenza a sporgenza come capre di montagna. Il cuore di Percy gli strisciò in gola. Anche se lui e Annabeth avessero raggiunto il fondo del precipizio vivi, non li aspettava granché davanti. Il paesaggio sotto di loro era desolato, una pianura grigio cenere dentellata da alberi neri, come zampe d’insetto. Il terreno era punteggiato da vesciche. Di tanto in tanto, una delle bolle si gonfiava e scoppiava, vomitando un mostro come fosse una larva che usciva da un uovo. Improvvisamente Percy non aveva più fame. Tutti i nuovi mostri appena nati stavano strisciando e zoppicando nella stessa direzione – verso un banco di nebbia nera che inghiottiva l’orizzonte come un fronte tempestoso. Il Flegetonte scorreva nella stessa direzione raggiungendo circa la metà della pianura, dove incontrava un altro fiume di acqua nera – forse il Cocito? I due fiumi scorrevano mischiati in un unico flusso fumante e ribollente verso la nebbia nera. Più Percy guardava quella tempesta di oscurità, meno aveva il desiderio di raggiungerla. Poteva celare qualsiasi cosa – un oceano, un abisso senza fondo, un esercito di mostri. Ma se le Porte della Morte si trovavano in quella direzione, era la loro unica possibilità di tornare a casa. Si sporse oltre il bordo del precipizio. “Vorrei che sapessimo volare,” borbottò. Annabeth si strofinò le braccia. “Ti ricordi le scarpe alate di Luke? Mi chiedo se sono ancora qui sotto da qualche parte.” Percy se le ricordava. Quelle scarpe erano state maledette per trascinare chi le indossava nel Tartaro. Avevano quasi preso il suo migliore amico Grover. “Mi andrebbe bene un deltaplano.” “Forse non sarebbe una buona idea.” Annabeth indicò qualcosa. Sopra di loro, delle scure sagome alate volavano a spirale entrando e uscendo dal banco di nuvole rosso sangue. “Furie?” chiese Percy. “Oppure qualche altro tipo di demone,” disse Annabeth. “Nel Tartaro ce ne sono a migliaia.” “Incluso il tipo che mangia i deltaplani,” indovinò Percy. “Okay, allora scaliamo.” Non riusciva più a vedere le empousai sotto di loro. Erano scomparse dietro una delle sporgenze, ma non importava. Era chiaro dove lui e Annabeth dovevano andare. Come tutti i mostri larva che strisciavano sulle pianure del Tartaro, loro dovevano dirigersi verso l’orizzonte scuro. Percy era semplicemente colmo d’entusiasmo a quell’idea. 14 PERCY Mentre cominciavano a scendere lungo il dirupo, Percy si concentrò sulle sfide immediate: mantenere l’appoggio, evitare di far cadere le rocce, cosa che avrebbe allertato le empousai della loro presenza, e ovviamente assicurarsi che lui e Annabeth non precipitassero verso le loro morti. A circa metà strada lungo il precipizio, Annabeth disse, “Fermiamoci, va bene? Solo una pausa veloce.” Le sue gambe stavano tremando così tanto, che Percy si maledisse per non aver proposto una pausa prima. Si misero a sedere insieme su una sporgenza vicina a una ruggente cascata di fuoco. Percy mise il braccio intorno ad Annabeth, e lei si appoggiò contro di lui, tremante dalla stanchezza. Lui stesso non si sentiva molto meglio. Il suo stomaco sembrava essersi ridotto ad una caramella. Se si fossero imbattuti in qualche altra carcassa di mostro, temeva che avrebbe potuto trasformasi in un’empousa e cercare di mangiarla. Almeno aveva Annabeth. Avrebbero trovato un modo per uscire dal Tartaro. Dovevano farlo. Non aveva molta fiducia nel fato e nelle profezie, ma credeva in una cosa: lui e Annabeth erano destinati a stare insieme. Non erano sopravvissuti a così tante sfide solo per essere uccisi proprio adesso. “Le cose potrebbero andare peggio,” tentò Annabeth. “Sì?” Percy non vedeva come, ma cercò di sembrare ottimista. Lei si rannicchiò accanto a lui. I suoi capelli odoravano di fumo, e se lui chiudeva gli occhi, poteva quasi immaginare ti trovarsi al falò del Campo Mezzosangue. “Saremmo potuti cadere nel fiume Lete,” disse lei. “Perdendo tutti i nostri ricordi.” La pelle di Percy si accapponò al solo pensiero. Aveva già avutio abbastanza problemi con l’amnesia da bastargli per una vita intera. Solo il mese scorso, Era gli aveva cancellato la memoria per metterlo fra i semidei romani. Percy era capitato al Campo Giove senza avere nessuna idea di chi fosse o da dove venisse. E qualche anno prima di quello, aveva combattuto contro un Titano sulle rive del Lete, vicino al palazzo di Ade. Aveva colpito il Titano con l’acqua del fiume e gli aveva ripulito completamente la memoria. “Sì, il Lete,” borbottò. “Non è il mio fiume preferito.” “Qual’era il nome del Titano?” chiese Annabeth. “Uh… Giapeto. Disse che voleva dire il Perforatore o qualcosa del genere.” “No, il nome che tu gli hai dato dopo aver perso la memoria. Steve?” “Bob,” disse Percy. Annabeth accennò una risata debole. “Il Titano Bob.” Le labbra di Percy erano così secche, che sorridere faceva male. Si chiese cosa potesse essere capitato a Giapeto dopo che l’avevano lasciato al palazzo di Ade… se fosse ancora contento di essere Bob, amichevole, felice e ignaro. Percy sperava di sì, ma l’Oltretomba sembrava tirare fuori il peggio di chiunque – mostri, eroi e dei. Vagò con lo sguardo lungo le pianure di cenere. Gli altri Titani avrebbero dovuto trovarsi lì nel Tartaro – magari in catene, o intenti a vagare senza meta, o nascosti in qualcuna di quelle scure fessure. Percy e i suoi alleati avevano distrutto il titano peggiore, Crono, ma persino i suoi resti potevano trovarsi là sotto da qualche parte – un miliardo di arrabbiate particelle di Titano che fluttuavano attraverso le nuvole rosso sangue o che aleggiavano in quella nebbia scura. Percy decise di non pensarci. Baciò la fronte di Annabeth. “Dovremmo continuare a muoverci. Vuoi un altro po’ di fuoco da bere?” “Ugh. Passo.” Si rimisero in piedi a fatica. Il resto del dirupo sembrava impossibile da scalare – nulla se non un sentiero puntinato da minuscole sporgenze – ma ripresero a scendere. Il corpo di Percy entrò in pilota automatico. Le sue dita avevano i crampi. Sentiva le vesciche che gli scoppiavano sulle caviglie. Cominciò a tremare per la fame. Si chiese se sarebbero morti di stenti, o se l’acqua-fuoco avrebbe permesso loro di andare avanti. Si ricordò della punizione di Tantalo, che era stato bloccato per sempre in una piscina d’acqua sotto un albero di frutti ma non poteva raggiungere né cibo né acqua. Cavoli, erano anni che Percy non ripensava a Tantalo. Quello stupido era stato rilasciato brevemente per fare il direttore del Campo Mezzosangue. Probabilmente si trovava nuovamente nei Campi della Punizione. Percy non si era mai sentito dispiaciuto per quell’idiota prima d’ora, ma adesso stava cominciando a capirlo. Poteva immaginarsi come doveva essere, avere sempre e sempre più fame per l’eternità ma non essere mai in grado di mangiare. Continua a scalare, si disse. Cheeseburger, gli rispose il suo stomaco. Stai zitto, pensò. Con patatine, si lamentò lo stomaco. Un miliardo di anni più tardi, con una nuova dozzina di vesciche sui piedi, Percy raggiunse il fondo. Aiutò Annabeth a scendere, e insieme crollarono a terra. Davanti a loro si estendevano chilometri e chilometri di terra desolata, puntellati da bolle esplosive di mostri-larva e grossi alberi a forma di zampe di insetto. Alla loro destra, il Flegetonte si divideva in vari rami che incidevano la pianura, allargandosi in un delta di fumo e fuoco. A nord, lungo il corso principale del fiume, il terreno era crivellato da entrate di grotte. Qua e là, punte di roccia sporgevano dal terreno come punti esclamativi. Sotto le mani di Percy, il terreno era paurosamente caldo e liscio. Cercò di prendere una manciata di terra, poi si rese conto che sotto un sottile strato di terra e detriti, il terreno era costituito da un’unica vasta membra… simile a pelle. Per poco non vomitò, ma si obbligò a non farlo. Non c’era nulla nel suo stomaco a parte il fuoco. Non ne parlò ad Annabeth, ma cominciò ad avere la sensazione che qualcosa li stesse osservando – qualcosa di vasto e malvagio. Non riusciva a metterlo a fuoco, perché la presenza si trovava tutta intorno a loro.Osservare, inoltre, era la parola sbagliata. Ciò implicava degli occhi, e quella cosa era semplicemente consapevole della loro presenza. Adesso le creste sopra di loro assomigliavano meno a delle scale e più a delle file di denti enormi. Le torri di roccia assomigliavano a costole rotte. E se il terreno era pelle… Percy scacciò quei pensieri. Quel luogo lo stava solo facendo impazzire. Nient’altro. Annabeth si alzò, pulendosi la polvere dal viso. Guardò verso l’oscurità all’orizzonte. “Saremo completamente esposti, attraversando questa pianura.” A circa cento metri davanti a loro, una bolla esplose sul terreno. Un mostro strisciò fuori… un luccicante telchino con una lucida pelliccia, un corpo da foca, e minuscoli arti da umano. Riuscì a strisciare per qualche metro prima che qualcosa spuntasse improvvisamente dalla grotta più vicina, così veloce che Percy poté solo registrare una testa verde scuro da rettile. Il mostro afferrò il telchino strillante con le sue mandibole e lo trascinò nell’oscurità. Rinato nel Tartaro per due secondi, solo per essere mangiato. Percy si chiese se quel telchino sarebbe rispuntato in qualche altro posto nel Tartaro, e quanto gli ci sarebbe voluto per riformarsi. Deglutì l’aspro sapore dell’acqua-fuoco. “Oh, già. Sarà divertente.” Annabeth lo aiutò ad alzarsi. Lui diede un’ultima occhiata alle rupi, ma non si poteva tornare indietro. Avrebbe dato mille dracme dorate per avere Frank Zhang lì con loro in quel momento – il buon vecchio Frank, che sembrava sempre spuntare quando c’era bisogno di lui e che poteva trasformarsi in un’aquila o in un dragone per farli volare attraverso quella stupida valle deserta. Iniziarono a camminare, cercando di evitare le entrate delle grotte, rimanendo vicini alle sponde del fiume. Stavano appena costeggiando una delle torri di roccia quando un barlume di movimento catturò lo sguardo di Percy – qualcosa che balzava tra le rocce alla loro destra. Un mostro che li stava seguendo? O magari si trattava solo di qualche creatura di passaggio, diretta verso le Porte della Morte. Improvvisamente si ricordò del motivo per il quale avevano iniziato a seguire quella strada, e si bloccò. “Le empousai.” Afferrò il braccio di Annabeth. “Dove sono?” Annabeth scrutò il paesaggio a trecentosessanta gradi, gli occhi grigi che brillavano di allarme. Forse i demoni erano stati catturati da quel rettile nella cava. Se le empousai si trovavano ancora davanti a loro, avrebbero dovuto essere visibili da qualche parte nella pianura. A meno che non si stessero nascondendo… Troppo tardi, Percy sguainò la sua spada. Le empousai emersero dalle rocce intorno a loro – cinque di loro che formarono un cerchio. Una trappola perfetta. Kelli zoppicò in avanti sulle sue gambe spaiate. I suoi capelli di fuoco le ardevano sulle spalle come una cascata del Flegetonte in miniatura. La sua divisa da cheerleader a brandelli era spruzzata di macchie marrone ruggine, e Percy era piuttosto sicuro che non fosse ketchup. Lei fissò il suo sguardo su di lui con i suoi brillanti occhi rossi e scoprì le zanne. “Percy Jackson,” tubò. “Che cosa fantastica! Non devo nemmeno tornare nel mondo mortale per distruggerti!” 15 PERCY Percy ricordava quanto era stata pericolosa Kelli l’ultima volta che avevano combattuto nel Labirinto. Nonostante quelle gambe diverse, sapeva muoversi velocemente quando voleva. Aveva schivato i suoi affondi e gli avrebbe mangiato la faccia se Annabeth non l’avesse pugnalata alle spalle. Adesso aveva quattro amiche con lei. “E la tua amica Annabeth è con te!” sibilò Kelli ridendo. “Oh, sì, mi ricordo perfettamente di lei.” Kelli si toccò lo sterno, dove era uscita la punta del pugnale quando Annabeth l’aveva colpita alla schiena. “Qual è il problema, figlia di Atena? Non hai la tua arma? Che peccato. L’avrei usata per ucciderti.” Percy cercò di pensare. Lui e Annabeth si trovavano spalla contro spalla come avevano già fatto molte volte, pronti per combattere. Ma nessuno di loro era in forma per una battaglia. Annabeth era a mani vuote. Erano in netta minoranza. Non c’era nessun posto dove scappare. Non sarebbe arrivato nessun aiuto. Percy prese brevemente in considerazione l’idea di chiamare Mrs O’Leary, la sua amica segugio infernale che poteva fare i viaggi ombra. Anche se l’avesse sentito, poteva raggiungere il Tartaro? Quello era il posto dove andavano i mostri quando morivano. Chiamarla là avrebbe potuto ucciderla, o farla tornare al suo stato naturale di mostro feroce. No… non poteva fare questo al suo cane. Quindi, nessun aiuto. Combattere era una scommessa persa. Quello lasciava spazio solo alle tattiche preferite di Annabeth: astuzia, parlare, ritardare. “Allora…” iniziò, “immagino ti stia chiedendo che cosa ci facciamo nel Tartaro.” Kelli ridacchiò. “No di certo. Voglio solo uccidervi.” Se fosse stato per Percy, sarebbe finita lì, ma Annabeth riprese. “Peccato,” disse. “Perché non avete idea di cosa sta succedendo nel mondo mortale.” Le altre empousai strinsero il cerchio, guardando Kelli in attesa di un cenno per attaccare; l’ex-cheerleader si limitò a ringhiare, allontanandosi dal raggio della spada di Percy. “Sappiamo abbastanza,” disse Kelli. “Gea ha parlato.” “Siete dirette verso una colossale sconfitta.” Annabeth suonava così sicura, che persino Percy ne fu impressionato. Lei guardò le altre empousai, una alla volta, poi indicò Kelli in maniera accusatoria. “Lei sostiene di guidarvi verso la vittoria. Sta mentendo. L’ultima volta che è stata nel mondo mortale, Kelli aveva il compito di mantenere il mio amico Luke Castellan fedele a Crono. Alla fine, Luke lo rifiutò. Diede la sua vita per cacciare Crono. I Titani persero perché Kelli fallì. Adesso Kelli vuole guidarvi verso un altro disastro.” Le altre empousai borbottarono e si mossero a disagio. “Basta così!” Le unghie di Kelli si estesero fino a diventare lunghi artigli neri. Fissò Annabeth come se la stesse immaginando ridotta in numerosi piccoli pezzi. Percy era abbastanza sicuro che Kelli avesse avuto una cotta per Luke Castellan. Luke aveva quell’effetto sulle ragazze – persino sui vampiri con le gambe da asino – e Percy non era convinto che nominarlo fosse un’idea molto buona. “La ragazza mente,” disse Kelli. “I Titani persero. Bene! Quello era parte del piano per svegliare Gea! Ora Madre Terra e i suoi giganti distruggeranno il mondo mortale, e noi banchetteremo sui semidei!” Gli altri vampiri digrignarono i denti con smania. Percy era stato nel bel mezzo di un banco di squali quando l’acqua era carica di sangue. Quello non era neanche lontanamente spaventoso come le empousai pronte per nutrirsi. Si preparò ad attaccare, ma quante poteva ucciderne prima che lo schiacciassero? Non sarebbero state abbastanza. “I semidei si sono uniti!” urlò Annabeth. “Fareste meglio a pensarci due volte prima di attaccarci. Greci e Romani vi combatteranno insieme. Non avete nessuna possibilità!” Le empousai indietreggiarono nervosamente, sibilando, “Romani.” Percy indovinò che dovevano aver fatto esperienza con la Dodicesima Legione in passato, e che la cosa non fosse finita bene per loro. “Sì, ci potete scommettere, Romani.” Percy si scoprì l’avambraccio e mostrò loro il simbolo che aveva avuto al Campo Giove – la scritta SPQR, con il tridente di Nettuno. “Mischiate greco e romano, e sapete cosa ottenete? Ottenete un BAM!” Sbatté il piede a terra, e le empousai indietreggiarono frettolosamente. Una cadde dal masso sul quale si era arrampicata. Ciò fece sentire Percy bene, ma loro si ripresero velocemente e li accerchiarono di nuovo. “Discorso coraggioso,” disse Kelli, “per due semidei persi nel Tartaro. Abbassa la tua spada, Percy Jackson, e ti ucciderò velocemente. Credimi, ci sono modi peggiori di morire qua sotto.” “Aspetta!” tentò Annabeth nuovamente. “Le empousai non sono le servitrici di Ecate?” Kelli arricciò le labbra. “Allora?” “Allora Ecate è dalla nostra parte adesso,” disse Annabeth. “Ha una cabina al Campo Mezzosangue. Alcuni dei suoi figli semidei sono miei amici. Se ci combattete, lei sarà arrabbiata.” Percy voleva abbracciare Annabeth, era così brillante. Una delle altre empousai ringhiò. “E’ vero, Kelli? La nostra padrona ha fatto pace con l’Olimpo?” “Stai zitta, Serefone!” strillò Kelli. “Dei, quanto sei irritante!” “Non mi metterò contro la Signora Oscura.” Annabeth ne approfittò. “Fareste tutte meglio a seguire Serefone. Lei è più anziana e più saggia.” “Sì!” strillò Serefone. “Seguitemi!” Kelli colpì così velocemente, che Percy non ebbe la possibilità di sollevare la sua spada. Fortunatamente, non attaccò lui. Kelli si lanciò contro Serefone. Per mezzo secondo, i due demoni furono una macchia indistinta di artigli e zanne. Poi finì tutto. Kelli si trovava trionfante sopra una pila di polvere. Dai suoi artigli pendevano i resti a brandelli del vestito di Serefone. “Qualche altro problema?” scattò Kelli verso le sue sorelle. “Ecate è la dea della Foschia! Le sue strade sono misteriose. Chi sa da quale parte sta davvero? E’ anche la dea degli incroci, e lei si aspetta che noi facciamo le nostre scelte. Io scelgo la strada che ci porterà la maggior quantità di sangue di semidio! Io scelgo Gea!” Le sue amiche sibilarono con approvazione. Annabeth guardò Percy, e lui vide che era a corto d’idee. Aveva fatto tutto quello che poteva. Aveva fatto sì che Kelli eliminasse una delle sue. Ora non era rimasto nient’altro che combattere. “Per due anni mi sono agitata nell’abisso,” disse Kelli. “Sai quanto sia assolutamente irritante essere vaporizzati, Annabeth Chase? Riformarsi lentamente, completante coscienti, affetti da un dolore bruciante per mesi e anni mentre il tuo corpo ricresce, poi riuscire finalmente a rompere la crosta di questo luogo infernale e farsi strada di nuovo alla luce del giorno? Tutto questo perché qualche ragazzina ti ha pugnalato alla schiena?” Il suo sguardo maligno sosteneva quello di Annabeth. “Mi chiedo cosa succede se un semidio viene ucciso nel Tartaro. Dubito che sia mai accaduto prima. Perché non lo scopriamo?” Percy attaccò, brandendo Vortice con un ampio arco. Tagliò uno dei demoni a metà, ma Kelli lo schivò e si lanciò verso Annabeth. Le altre due empousai si lanciarono verso Percy. Una gli afferrò il braccio che teneva la spada. La sua amica gli saltò sulla schiena. Percy cercò di ignorarle e si mosse instabile verso Annabeth, determinato a cadere nel tentativo di difenderla se doveva; ma Annabeth se la stava cavando piuttosto bene. Saltò da un lato, evitando gli artigli di Kelli, e si rialzò con una roccia in mano, che lanciò contro il naso del mostro. Kelli gemette. Annabeth raccolse della sabbia e la lanciò negli occhi dell’empousa. Nel frattempo Percy si dibatteva da un lato all’altro, cercando di scrollarsi di dosso l’empousa, ma i suoi artigli affondarono più in profondità nelle sue spalle. La seconda empousa gli teneva il braccio, impedendogli di usare Vortice. Con la coda dell’occhio, vide Kelli attaccare, affondando le sue zanne nel braccio di Annabeth. Annabeth urlò e cadde. Percy cercò di muoversi nella sua direzione. Il vampiro sulla sua schiena penetrò i denti nel suo collo. Del dolore bruciante gli attraversò il corpo. Le sue ginocchia tremarono. Rimani in piedi, si disse. Devi sconfiggerle. Poi l’altro vampiro gli morse il braccio, e Vortice cadde tintinnando a terra. Era finita. La sua fortuna alla fine si era esaurita. Kelli incombeva su Annabeth, gustandosi il suo trionfo. Le altre due empousai accerchiarono Percy, con le bocche bavose, pronte per un altro assaggio. Poi un’ombra passò su Percy. Un profondo grido di battaglia ruggì da qualche punto più in alto, riecheggiando lungo le pianure del Tartaro, e un Titano entrò sul campo di battaglia. 16 PERCY Percy pensò di avere le allucinazioni. Semplicemente, non era possibile che una gigantesca figura argentata potesse precipitare dal cielo e spiaccicare Kelli, riducendola in un mucchietto di polvere di mostro. Ma era esattamente quello che era appena successo. Il Titano era alto tre metri, con selvaggi capelli argentati alla Einstein, occhi completamente d’argento, e delle braccia muscolose che gli spuntavano da una rovinata uniforme blu da bidello. Nelle mani aveva un’enorme scopa. Sulla sua targhetta del nome, incredibilmente, c’era critto BOB. Annabeth gridò e cercò di strisciare via, ma il bidello gigante non era interessato a lei. Si voltò verso le dueempousai rimaste, che si trovavano su Percy. Una di loro fu così stupida da attaccare. Si lanciò con la velocità di una tigre, ma non ebbe nemmeno una possibilità. Dall’estremità della scopa di Bob spuntò una punta di lancia. Con un unico colpo mortale, la ridusse in polvere. L’ultimo vampiro cercò di scappare. Bob lanciò la sua scopa come fosse un boomerang extralarge (esistevano cose come una scopa-boomerang?). Attraversò il vampiro e tornò nelle mani di Bob. “VITTORIA!” Il Titano sogghigno di gioia e fece un balletto della vittoria. “Vittoria, vittoria, vittoria!” Percy non riusciva a parlare. Non poteva credere che fosse davvero accaduto qualcosa di buono. Annabeth sembrava altrettanto scioccata. “C-come…?” balbettò lei. “Mi ha chiamato Percy!” disse il bidello felice. “Sì, l’ha fatto.” Annabeth strisciò un po’ più lontana. Il suo braccio stava sanguinando copiosamente. “Chiamato? Lui – aspetta. Tu sei Bob? Quel Bob?” Il bidello si accigliò quando si accorse delle ferite di Annabeth. “Bua.” Annabeth indietreggiò quando lui si inginocchiò accanto a lei. “Va tutto bene,” disse Percy, ancora confuso dal dolore. “E’ amichevole.” Si ricordò di quando aveva incontrato Bob la pma volta. Il Titano aveva guarito una brutta ferita sulla spalla di Percy limitandosi a toccarla. E anche in quel caso, il bidello sfiorò l’avambraccio di Annabeth e questo guarì istantaneamente. Bob ridacchiò, soddisfatto di se stesso, poi saltellò da Percy e guarì il collo e il braccio sanguinanti del ragazzo. Le mani del Titano erano sorprendentemente calde e gentili. “Tutto meglio!” dichiarò Bob, con i suoi strani occhi argentati che luccicavano di piacere. “Io sono Bob, l’amico di Percy!” “Uh… sì,” riuscì a dire Percy. “Grazie per l’aiuto, Bob. E’ davvero bello rivederti.” “Sì!” concordò il bidello. “Bob. Sono io. Bob, Bob, Bob.” Saltellò intorno, chiaramente contento del suo nome. “Sto aiutando. Ho sentito il mio nome. Al piano di sopra, nel palazzo di Ade, nessuno chiama Bob a meno che non c’è un guaio. Bob, spazza via queste ossa. Bob, asciuga queste anime torturate. Bob, è esploso uno zombie in sala da pranzo.” Annabeth guardò Percy con aria interrogativa, ma lui non aveva nessuna spiegazione. “Poi ho sentito chiamare il mio amico!” Il Titano fece un sorriso raggiante. “Percy ha detto, Bob!” Afferrò il braccio di Percy e lo sollevò rimettendolo in piedi. “E’ fantastico,” disse Percy. “Davvero. Ma come hai –“ “Oh, parliamo dopo.” L’espressione di Bob si fece seria. “Dobbiamo andare, prima che vi trovino. Stanno arrivando. Sì, è così.” “Stanno?” chiese Annabeth. Percy studiò l’orizzonte. Non vide nessun mostro in avvicinamento – nulla a parte la grigia terra desolata. “Sì,” annuì Bob. “Ma Bob conosce una strada. Andiamo, amici! Ci divertiremo!” XVII FRANK Frank si svegliò nel corpo di un pitone, cosa che lo disorientò. Non era il fatto di trasformarsi in animale che lo confondeva. Quello lo faceva spesso. Ma non si era mai trasformato da un animale a un altro durante il sonno prima d’ora. Era abbastanza sicuro di non essersi addormentato come un serpente. Solitamente, dormiva come un cane. Aveva scoperto che affrontava la notte molto meglio se si accucciava nel suo letto nei panni di un bulldog. Qualunque fosse la ragione, in quel modo i suoi incubi non gli davano altrettanto fastidio. Le urla costanti che aveva in testa sparivano quasi del tutto. Non aveva idea del perché fosse diventato un pitone reticolato, ma spiegava il suo sogno di inghiottire lentamente una mucca. La sua gola faceva ancora male. Si preparò e tornò nella forma umana. Immediatamente, il suo mal di testa lancinante fece ritorno, insieme alle voci. Combattili! urlò Marte. Prendi questa nave! Difendi Roma! La voce di Ares gli rispose urlando: Uccidi i romani! Sangue e morte! Grosse pistole! Le personalità greca e romana di suo padre si urlavano contro nella mente di Frank con la solita colonna sonora di rumori di battaglia – esplosioni, mitragliatrici, ruggenti motori di jet – il tutto pulsando come in un amplificatore dietro gli occhi di Frank. Si mise a sedere nella sua cuccetta, stordito dal dolore. Come faceva ogni mattina, fece un respiro profondo e fissò la lampada sulla sua scrivania – una minuscola fiamma che bruciava giorno e notte, alimentata da olio di oliva magico proveniente dalla dispensa. Fuoco… la più grande paura di Frank. Tenere una fiamma accesa nella sua stanza era una cosa che lo terrorizzava, ma lo aiutava anche a concentrarsi. Il rumore nella sua testa si ridusse a un vocio di sottofondo, permettendogli di pensare. Era migliorato nel farlo, ma per giorni interi era stato quasi incapace di agire. Non appena era scoppiata la battaglia al Campo Giove, le due voci del dio della guerra avevano iniziato a urlare senza tregua. Fin da allora, Frank si era ritrovato ad andare avanti come in trance, a malapena in grado di funzionare normalmente. Si era comportato come uno stupido, ed era certo che i suoi amici pensavano che avesse perso qualche rotella. Non poteva dirgli cosa c’era che non andava. Non c’era nulla che potessero fare, e ascoltandoli parlare, Frank era abbastanza sicuro che loro non avessero lo stesso problema con i loro genitori divini che li urlavano nelle orecchie. Era proprio la fortuna tipica di Frank, ma doveva risolvere la cosa. I suoi amici avevano bisogno di lui – soprattutto adesso che Annabeth non c’era più. Annabeth era stata gentile con lui. Anche quando era stato così distratto da comportarsi come un buffone, lei era stata paziente e d’aiuto. Mentre Ares urlava che non ci si poteva fidare dei figli di Atena, e Marte gli ruggiva di uccidere tutti i greci, Frank era arrivato a rispettare Annabeth. Adesso che erano senza di lei, Frank era la cosa più vicina a uno stratega militare di cui il gruppo disponesse. Avrebbero avuto bisogno di lui per il viaggio che li aspettava. Si alzò e si vestì. Fortunatamente era riuscito a comprare dei vestiti nuovi a Siena un paio di giorni prima, sostituendo quelli che Leo aveva spedito via con il tavolo Buford. (Lunga storia.) Si infilò un paio di Levi’s e una maglietta verde militare, poi fece per prendere il suo maglione preferito prima di ricordarsi che non gli serviva. Faceva troppo caldo. Cosa più importante, non aveva più bisogno delle tasche per proteggere il legnetto magico che controllava la sua vita. Hazel lo stava tenendo al sicuro per lui. Forse la cosa avrebbe dovuto renderlo nervoso. Se il legno bruciava, Frank moriva: fine della storia. Ma si fidava di Hazel più di quanto si fidasse di se stesso. Sapere che lei stava proteggendo la sua grande debolezza lo faceva sentire meglio – come se avesse allacciato la sua cintura di scurezza per una corsa ad alta velocità. Si mise arco e faretra in spalla. Si trasformarono immediatamente in un normale zaino. Frank adorava la cosa. Non avrebbe mai scoperto il potere di mimetizzazione della faretra se Leo non se ne fosse accorto. Leo! ruggì Marte. Deve morire! Strozzalo! gridò Ares. Strozza tutti! Di chi stavamo parlando? I due ricominciarono a urlarsi contro, sopra al rumore di bombe che esplodevano nel cranio di Frank. Si appoggiò al muro per non perdere l’equilibrio. Per giorni, Frank aveva ascoltato quelle voci che ordinavano la morte di Leo Valdez. Dopotutto, Leo aveva dato inizio alla guerra con il Campo Giove attaccando il Foro con le baliste. Certo, in quel momento era stato posseduto; ma Marte chiedeva comunque vendetta. Leo rendeva le cose più difficili prendendosi costantemente gioco di Frank, e Ares chiedeva che Frank reagisse per ogni insulto. Frank teneva le voci a bada, ma non era facile. Durante il loro viaggio attraverso l’Atlantico, Leo aveva detto qualcosa che era ancora impressa nella mente di Frank. Quando avevano scoperto che Gea, la malvagia dea della terra, aveva messo una taglia sulle loro teste, Leo aveva voluto sapere quanto fosse alta. Posso capire se non valgo come Jason o Percy, aveva detto, ma valgo, quanto, due o tre Frank? Solo un altro degli stupidi scherzi di Leo, ma la battuta aveva toccato un nervo scoperto. Sull’Argo II, Frank si sentiva senza dubbio come il GMI – il Giocatore Meno Importante. Va bene, lui poteva trasformarsi in animale. E allora? Il più grande aiuto che aveva dato fino a quel momento era stato trasformarsi in una donnola per fuggire da un laboratorio sotterraneo, e persino quella era stata un’idea di Leo. Frank era meglio conosciuto per il Fiasco da Pesce Rosso Gigante ad Atlanta, e, giusto il giorno prima, per essersi trasformato in un gorilla di duecento chili solo per essere messo al tappeto da una granata stordente. Leo non aveva ancora fatto nessuna battuta sui gorilla. Ma era solo questione di tempo. Uccidilo! Torturalo! Poi uccidilo! Le due parti del dio della guerra sembravano prendersi a calci e pugni dentro la testa di Frank, usando l’interno del suo cranio come ring. Sangue! Pistole! Roma! Guerra! State zitti, ordinò Frank. Sorprendentemente, le voci obbedirono. Va bene, pensò Frank. Forse sarebbe finalmente riuscito a tenere sotto controllo quegli irritanti dei in miniatura urlanti. Forse quel giorno sarebbe stato un buon giorno. Quella speranza andò in frantumi non appena salì sul ponte. “Cosa sono?” chiese Hazel. L’Argo II era ormeggiata presso un molto affollato. Da una parte si allungava un canale di navigazione largo circa mezzo chilometro. Dall’altra si allargava la città di Venezia – tetti dalle tegole rosse, cupole di chiese di metallo, torri gugliate, ed edifici sbiancati dal sole di tutti i colori dei cuori di cioccolata di San Valentino – rosso, bianco, ocra, rosa e arancione. Da ogni parte c’erano statue di leoni – sui piedistalli, sopra gli archi, sui portici degli edifici più grandi. Ce n’erano così tanti, che Frank immaginò che il leone dovesse essere la mascotte della città. Dove ci sarebbero dovute essere le strade, dei canali verdi si scavavano la via attraverso i quartieri, tutti carichi di motoscafi. Lungo le banchine, i marciapiedi erano affollati di turisti che facevano acquisti alle bancarelle di magliette, che si riversavano fuori dai negozi, e che oziavano su acri di tavolini dei bar all’aperto, come banchi di leoni marini. Frank aveva pensato che Roma fosse piena di turisti. Quel luogo era da matti. Tuttavia, Hazel e il resto dei suoi amici non stavano prestando attenzione a niente di tutto quello. Si erano riuniti alla ringhiera di tribordo per fissare una dozzina di strani mostri pelosi che bighellonavano tra la folla. Ogni mostro era grande circa come una mucca, con una schiena curva come un cavallo dalla sella infossata, pelliccia grigia a chiazze, gambe sottili, e zoccoli neri. Le teste delle creature sembravano essere troppo pesanti per i loro colli. I lunghi musi da formichiere erano piegati verso il terreno. Le loro criniere grigie troppo cresciute li coprivano completamente gli occhi. Frank guardò mentre una delle creature si muoveva con passo pesante verso il corso, odorando e leccando la pavimentazione con la lingua lunga. I turisti si spostavano per farla passare, noncuranti. Alcuni di loro le fecero persino qualche carezza. Frank si chiese come facessero i mortali ad essere così calmi. Poi l’aspetto del mostro vacillò. Per un attimo si trasformò in un vecchio, grasso beagle. Jason grugnì. “I mortali pensano che siano cani randagi.” “O animali di qualcuno che vagano per le strade,” disse Piper. “Mio padre girò un film a Venezia una volta. Ricordo che mi disse che c’erano cani ovunque. I veneziani amano i cani.” Frank si accigliò. Continuava a dimenticarsi che il padre di Piper era Tristan McLean, una star del cinema di prima classe. Lei non ne parlava molto. Sembrava essere con i piedi molto per terra per una ragazza cresciuta ad Hollywood. A Frank andava bene. L’ultima cosa di cui avevano bisogno in quell’impresa erano dei paparazzi che scattavano foto di tutti gli epici fallimenti di Frank. “Ma cosa sono?” chiese ripetendo la domanda di Hazel. “Assomigliano a… pelose mucche affamate con una pelliccia da cane pastore.” Attese che qualcuno lo illuminasse. Nessuno offrì alcuna informazione. “Magari sono innocue,” suggerì Leo. “Stanno ignorando i mortali.” “Innocue!” rise Gleeson Hedge. Il satiro indossava i suoi soliti pantaloncini da ginnastica, maglietta sportiva, e il fischietto da allenatore. La sua espressione era brusca come sempre, ma aveva ancora un elastico rosa incastrato tra i capelli, reduce dei nani dispettosi di Bologna. Frank era un po’ spaventato di farglielo notare. “Valdez, quanti mostri innocui abbiamo incontrato? Dovremmo semplicemente puntare le baliste e vedere quello che succede!” “Uh, no,” disse Leo. Per una volta, Frank era d’accordo con lui. C’erano troppi mostri. Sarebbe stato impossibile colpirne uno senza causare danni collaterali tra le folle di turisti. Inoltre, se quelle creature fossero state prese dal panico e avessero iniziato a scappare imbizzarrite… “Dovremo camminare tra di loro e sperare che siano pacifiche,” disse Frank, già detestando quell’idea. “E’ l’unico modo nel quale possiamo localizzare il proprietario di quel libro.” Leo tirò fuori il volume rilegato in pelle da sotto il suo braccio. Aveva attaccato un foglietto adesivo sulla copertina con sopra l’indirizzo che i nani di Bologna gli avevano dato. “La Casa Nera,” lesse. “Calle Frezzeria.” “La Casa Nera,” ripeté Nico di Angelo. “Calle Frezzeria è il nome della strada.” Frank cercò di non indietreggiare quando si rese conto che Nico era accanto a lui. Il ragazzo era così silenzioso e meditativo, che sembrava quasi smaterializzarsi quando non parlava. Hazel poteva essere quella che era tornata dai morti, ma Nico era molto più spettrale. “Parli italiano?” chiese Frank. Nico gli lanciò un’occhiata di avvertimento, come a dire: Attento alle domande che fai. Tuttavia, parlò con tono calmo. “Frank ha ragione. Dobbiamo trovare quell’indirizzo. L’unico modo per farlo è camminare per la città. Venezia è un labirinto. Dovremo addentrarci tra le folle e quei… qualunque cosa siano.” Dei tuoni riecheggiarono nel sereno cielo estivo. Avevano attraversato delle tempeste la sera prima. Frank aveva pensato che fossero passate, ma adesso non ne era così sicuro. L’aria era densa e calda come il vapore di una sauna. Jason aggrottò le sopracciglia rivolto verso l’orizzonte. “Forse dovrei rimanere a bordo. C’erano un sacco diventi in quella tempesta la scorsa notte. Se decidono di attaccare di nuovo la nave…” Non ebbe bisogno di finire. Avevano tutti avuto le loro esperienze con gli infuriati spiriti del vento. Jason era l’unico che aveva abbastanza fortuna nel combatterli. Coach Hedge grugnì. “Bè, anche io sono fuori. Se voi pasticcini dal cuore tenero state andando a fare una passeggiata per Venezia senza nemmeno colpire quegli animali pelosi sulla testa, lasciate perdere. Non mi piacciono le spedizioni noiose.” “Va bene, Coach.” Leo fece un grosso sorriso. “Dobbiamo ancora riparare l’albero di trinchetto. Poi mi serve il suo aiuto in sala motori. Ho un’idea per un nuovo impianto.” A Frank non piacque il luccichio negli occhi di Leo. Da quando aveva trovato quella sfera di Archimede, aveva sperimentato un sacco di “nuovi impianti”. Solitamente, esplodevano o rilasciavano del fumo che andava a finire nella cabina di Frank al piano di sopra. “Bè…” Piper si mosse a disagio. “Chiunque vada dovrebbe essere bravo con gli animali. Io, uh… ammetto che non sono bravissima con le mucche.” Frank immaginò che ci dovesse essere una storia dietro quell’affermazione, ma decise di non fare domande. “Andrò io,” disse. Non era sicuro del perché si fosse offerto – forse perché era ansioso di essere utile, tanto per cambiare. O forse non voleva nessuno che lo battesse sul tempo. Animali? Frank può trasformarsi in animale! Mandate lui! Leo gli diede delle pacche sulla spalla e gli passò il libro di pelle. “Fantastico. Se passi davanti a un ferramenta, potresti portarmi qualche pezzo di legno e un gallone di catrame?” “Leo,” lo rimproverò Hazel, “non è una missione per fare spese.” “Io andrò con Frank,” offrì Nico. L’occhio di Frank iniziò a fremere. Le voci delle divinità della guerra salirono in un crescendo nella sua testa:Uccidilo! Feccia di graecus! No! Io adoro la feccia di graecus! “Uh… sei bravo con gli animali?” chiese. Nico sorrise senza umorismo. “In realtà, la maggior parte degli animali mi odia. Possono avvertire la morte. Ma c’è qualcosa riguardo questa città…” La sua espressione si fece scura. “Parecchia morte. Spiriti inquieti. Se vengo, potrei essere in grado di tenerli a bada. Inoltre, come hai notato, parlo italiano.” Leo si grattò la testa. “Parecchia morte, huh? Personalmente, sto cercando di evitare tanta morte, ma voi ragazzi divertitevi!” Frank non era certo di cosa lo spaventasse maggiormente: pelosi mostri-mucca, orde di fantasmi inquieti, o andare da qualche parte da solo con Nico di Angelo. “Vengo anche io.” Hazel fece scivolare il braccio in quello di Frank. “Tre è il numero migliore per un’impresa di semidei, giusto?” Frank cercò di non sembrare troppo sollevato. Non voleva offendere Nico. Ma guardò Hazel e le disse con gli occhi: Grazie grazie grazie. Nico fissò i canali, come chiedendosi quali nuovi e interessanti tipi di spiriti malvagi potessero nascondersi lì. “Va bene, allora. Andiamo a trovare il proprietario di quel libro.” XVIII FRANK A Frank sarebbe potuta piacere Venezia se non fosse stato il periodo estivo e la stagione turistica, e se la città non fosse stata infestata da grosse creature pelose. Tre le file di vecchie case e i canali, i marciapiedi erano già troppo stretti per le folle che si spintonavano a vicenda e che si fermavano per scattare fotografie. I mostri rendevano le cose peggiori. Si muovevano con le teste abbassate, andando a scontrarsi con i mortali e annusando il terreno. Uno sembrò trovare qualcosa che gli piaceva sul bordo di un canale. Mordicchiò e leccò tra una spaccatura che si era aperta tra le pietre finché non riuscì a staccare un qualche tipo di radice verdognola. Il mostro la mangiò felice e riprese la sua andatura dinoccolata. “Bè, sono erbivori,” disse Frank. “E’ una buona notizia.” Hazel fece scivolare la mano nella sua. “A meno che non completino la loro dieta con semidei. Speriamo di no.” Frank era così contento di essere mano nella mano con lei, che improvvisamente la folla, il caldo e i mostri non sembravano più così male. Si sentiva voluto – utile. Non che a Hazel servisse la sua protezione. Chiunque l’avesse vista andare in battaglia in sella ad Arion, con la spada sguainata, avrebbe capito che lei sapeva badare a se stessa. Tuttavia, a Frank piaceva stare accanto a lei, immaginando che fosse il suo bodyguard. Se qualcuno di quei mostri avesse cercato di farle del male, Frank si sarebbe volentieri trasformato in un rinoceronte e li avrebbe spinti nel canale. Poteva trasformarsi in un rinoceronte? Frank non ci aveva mai provato. Nico si fermò. “Là.” Avevano svoltato in una strada più piccola, lasciandosi il canale alle spalle. Davanti a loro si trovava una piccola piazza fiancheggiata da edifici di cinque piani. La zona era stranamente deserta – come se i mortali potessero avvertire che non era sicura. Al centro del cortile fatto di ciottoli, una dozzina di pelose creature-mucca stavano annusando la base erbosa di un antico pozzo di pietra. “Un sacco di mucche in un unico posto,” disse Frank. “Sì, ma guardate,” disse Nico. “Oltre quell’arco.” La vista di Nico doveva essere migliore della sua. Frank strizzò gli occhi. All’estremità opposta della piazza, un arco di pietra con bassorilievi di leoni portava in una stretta strada. Appena oltre l’arco, una delle case era dipinta di nero – l’unico edificio nero che Frank avesse visto fino a quel momento a Venezia. “La Casa Nera,” indovinò. La stretta di Hazel sulle sue dita si fece più forte. “Non mi piace quella piazza. Sembra… fredda.” Frank non sapeva cosa volesse dire. Lui stava ancora sudando come un matto. Ma Nico annuì. Studiò le finestre della casa, la maggior parte delle quali erano ricoperte da imposte di legno. “Hai ragione, Hazel. Questo quartiere è pieno di lemuri.” “Lemuri?” chiese Frank nervoso. “Immagino che non stai parlando delle piccole creaturine pelose di Madagascar?” “Spiriti arrabbiati,” disse Nico. “I Lemuri risalgono ai tempi romani. Si trovano in numerose città italiane, ma non ne ho mai avvertiti così tanti in un unico posto. Mia madre mi disse…” Esitò. “Era solita raccontarmi storie sui fantasmi di Venezia.” Nuovamente, Frank fu incuriosito dal passato di Nico, ma aveva paura di chiedere. Catturò lo sguardo di Hazel. Vai, sembrava che stesse dicendo. Nico ha bisogno di fare pratica nel parlare con le persone. Il suono di mitragliatrici e bombe atomiche nella testa di Frank si fece più forte. Marte e Ares stavano cercando di sfidarsi cantando “Dixie” e “L’Inno di Battaglia della Repubblica.” Frank fece del suo meglio per metterli da parte. “Nico, tua madre era italiana?” indovinò. “Di Venezia?” Nico annuì con riluttanza. “Incontrò Ade qui, negli anni Trenta. Quando la Seconda Guerra Mondiale cominciò ad avvicinarsi, fuggì negli Stati Uniti con me e mia sorella. Voglio dire… Bianca, la mia altra sorella. Non ricordo molto dell’Italia, ma so ancora parlare la lingua.” Frank cercò di pensare a una risposta da dare. Oh, carino non sembrava appropriato. Stava andando in giro non con uno, ma con due semidei che erano stati tirati fuori dal tempo. Entrambi erano, tecnicamente, circa settant’anni più vecchi di lui. “Deve essere stata dura per tua madre,” disse Frank. “Immagino che si farebbe qualsiasi cosa per qualcuno che amiamo.” Hazel gli strinse la mano riconoscente. Nico fissò i ciottoli. “Sì,” disse amaramente. “Immagino di sì.” Frank non era certo di quello che Nico stesse pensando. Trovava difficile immaginare Nico di Angelo fare qualcosa per qualcuno in nome dell’amore, fatta eccezione forse per Hazel. Ma Frank decise che si era spinto al massimo di quanto volesse osare con le domande personali. “Allora, i lemuri…” Deglutì. “Come li evitiamo?” “Ci sto già pensando,” disse Nico. “Sto inviando il messaggio che dovrebbero stare alla larga e ignorarci. Con un po’ di fortuna basterà. Altrimenti… le cose potrebbero farsi complicate.” Hazel si morse le labbra. “Procediamo,” suggerì. Quando si trovarono al centro della piazza, andò tutto storto; ma non aveva niente a che fare con i fantasmi. Stavano girando intorno al pozzo al centro della piazza, cercando di mantenere un po’ di distanza dai mostri mucca, quando Hazel inciampò su un ciottolo dissestato. Frank la prese al volo. Sei o sette delle grosse bestie grigie si voltò per guardarli. Frank intravide un brillante occhio verde sotto la criniera di uno di loro, e istantaneamente venne colpito da un’ondata di nausea, proprio come si sentiva quando mangiava troppo formaggio o gelato. Le creature produssero dei profondi suoni vibranti con la gola, simili a campane per le navi molto arrabbiate. “Belle mucche,” mormorò Frank. Si mise tra i suoi amici e i mostri. “Ragazzi, credo che dovremmo andarcene lentamente da qui.” “Sono una stupida,” sussurrò Hazel. “Mi dispiace.” “Non è colpa tua,” disse Nico. “Guarda i tuoi piedi.” Frank abbassò lo sguardo e trannette il respiro. Sotto le loro scarpe, le pietre del terreno si stavano muovendo – appuntiti viticci di piante si stavano facendo strada sputando dalle crepe. Nico indietreggiò. Le radici si mossero nella sua direzione, cercando di seguirlo. I viticci si fecero più spessi, emettendo un umido vapore verde che odorava di cavolo cotto. “A queste radici sembrano piacere i semidei,” notò Frank. La mano di Hazel andò all’elsa della sua spada. “E alle creature mucca piacciono le radici.” L’intero gregge stava ora guardando nella loro direzione, producendo brontolii da nave e pestando gli zoccoli. Frank capiva il comportamento degli animali abbastanza bene da ricevere il messaggio: Vi trovate sul nostro cibo. Questo vi rende dei nemici. Frank cercò di pensare. C’erano troppi mostri per combattere. Qualcosa riguardo i loro occhi nascosti sotto le folte criniere… A Frank era venuta la nausea solo intravedendoli. Aveva la brutta sensazione che se quei mostri avessero fatto contatto diretto con gli occhi, gli sarebbe venuto qualcosa di molto peggio di della nausea. “Non incrociate i loro sguardi,” avvertì Frank. “Io li distrarrò. Voi due indietreggiate lentamente verso quella casa nera.” Le creature si fecero tese, pronte ad attaccare. “Non importa,” disse Frank. “Correte!” Come si scoprì, Frank non poteva trasformarsi in un rinoceronte, e perse del tempo prezioso provandoci. Nico e Hazel si lanciarono verso la strada laterale. Frank si mise davanti ai mostri, sperando di mantenere la loro attenzione su di lui. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, immaginando se stesso come un temibile rinoceronte, ma con Ares e Marte che gli urlavano nella testa, non riuscì a concentrarsi. Rimase il vecchio Frank di sempre. Due dei mostri mucca si staccarono dalla mandria per inseguire Nico e Hazel. “No!” urlò Frank verso di loro. “Io! Io sono il rinoceronte!” Il resto della mandria circondò Frank. Ringhiarono, mentre del gas verde smeraldo gli usciva dalle narici. Frank indietreggiò per evitare il vapore, ma il puzzo per poco non lo fece svenire. Okay, quindi niente rinoceronte. Qualcos’altro. Frank sapeva che aveva solo qualche secondo prima che i mostri lo calpestassero o lo avvelenassero, ma non riusciva a pensare. Non riusciva a trattenere l’immagine di nessun animale abbastanza a lungo per mutare forma. Poi alzò lo sguardo verso uno dei terrazzi degli appartamenti e vide un bassorilievo di pietra – il simbolo di Venezia. L’istante successivo, Frank era un leone adulto. Ruggì in segno di sfida, poi balzò dal centro della mandria di mostri e atterrò a otto metri di distanza, sulla cima del vecchio pozzo di pietra. I mostri ruggirono in risposta. Tre di loro attaccarono insieme, ma Frank era pronto. I suoi riflessi da leone erano fatti per essere veloci in combattimento. Ridusse i primi due mostri in polvere con i suoi artigli, poi affondò le zanne nella gola del terzo e lo gettò di lato. Ne erano rimasti sette, più i due che stavano inseguendo i suoi amici. Non era una situazione molto positiva, ma Frank doveva tenere il grosso della mandria concentrato su di lui. Ruggì verso i mostri, e questi indietreggiarono. Lo superavano in numero, era vero. Ma Frank era un predatore di prima classe. La mandria di mostri lo sapeva. Inoltre, aveva appena visto Frank che spediva tre dei loro amici nel Tartaro. Sfruttò il suo vantaggio e saltò giù dal pozzo, sempre con le zanne scoperte. La mandria si fece indietro. Se solo avesse potuto aggirarli, poi girarsi e correre dai suoi amici… Se la stava cavando bene, fino a che fece il suo primo passo indietro verso l’arco. Una delle mucche, forse la più coraggiosa oppure la più stupida, prese la cosa come segno di debolezza. Lo attaccò e colpì Frank in faccia con del gas verde. Lui colpì il mostro riducendolo in polvere, ma il danno era ormai fatto. Si obbligò a non respirare. Nonostante quello, poteva avvertire la pelliccia sul muso che bruciava. Gli occhi gli pungevano. Inciampò all’indietro, mezzo cieco e stordito, vagamente consapevole di Nico che urlava il suo nome. “Frank! Frank!” Cercò di concentrarsi. Era tornato in forma umana, instabile e con la nausea. Sembrava che gli si stesse staccando la faccia. Davanti a lui, la nuvola verde di gas aleggiava tra lui e la mandria. I mostri mucca rimasti lo guardavano accorti, probabilmente chiedendosi se Frank avesse qualche altro trucco nella manica. Si guardò alle spalle. Sotto l’arco di pietra, Nico di Angelo stava reggendo la sua spada nera di ferro di Stige, facendo segno a Frank di sbrigarsi. Ai piedi di Nico, due pozzanghere scure macchiavano il terreno – senza dubbio i resti dei mostri mucca che li avevano inseguiti. E Hazel… era appoggiata contro il muro dietro suo fratello. Non si muoveva. Frank corse verso di loro, dimenticandosi della mandria di mostri. Superò Nico e afferrò le spalle di Hazel. La testa della ragazza le ricadde sul petto. “E’ stata colpita dal gas verde dritta in faccia,” disse Nico miserabilmente. “Non – non sono stato abbastanza veloce.” Frank non riusciva a capire se stesse respirando. Rabbia e disperazione si combattevano dentro di lui. Aveva sempre avuto paura di Nico. Adesso voleva buttare il figlio di Ade nel canale più vicino. Forse non era giusto, ma a Frank non importava. Né importava agli dei della guerra che gli urlavano in testa. “Dobbiamo riportarla alla nave,” disse Frank. La mandria di mostri mucca si aggirava con cautela appena oltre l’arco. Ruggivano con i loro ringhi da campana di nave. Dalle strade vicine, risposero altri mostri. I rinforzi avrebbero presto circondato i semidei. “Non ce la faremo mai a piedi,” disse Nico. “Frank, trasformati in un’aquila gigante. Non preoccuparti per me. Riportala sull’Argo II!” Con il volto in fiamme e le voci che gli urlavano in testa, Frank non era certo di poter cambiare forma; ma stava per provare, quando una voce alle loro spalle disse, “I vostri amici non possono aiutarvi. Non conoscono la cura.” Frank si voltò. In piedi sulla soglia della Casa Nera c’era un giovane uomo in jeans e maglietta. Aveva dei ricci capelli neri e un sorriso amichevole, anche se Frank dubitava che lui fosse amichevole. Probabilmente non era nemmeno umano. Al momento, a Frank non importava. “Può curarla?” chiese. “Certo,” disse l’uomo. “Ma fareste meglio a entrare di corsa. Credo che abbiate fatto infuriare tutti icatoblepa di Venezia.” XIX FRANK Riuscirono a malapena ad entrare in tempo. Non appena il loro ospite fece scorrere i catenacci, i mostri mucca ruggirono e si lanciarono contro la porta, facendo tremare i cardini. “Oh, non possono entrare,” assicurò loro l’uomo con la maglietta di jeans. “Siete al sicuro adesso!” “Al sicuro?” chiese Frank. “Hazel sta morendo!” Il loro ospite aggrottò le sopracciglia come se non apprezzasse che Frank rovinasse il suo buon umore. “Sì, sì. Portatela da questa parte.” Frank trasportò Hazel mentre seguivano l’uomo più in profondità nell’edificio. Nico si offrì di aiutarlo, ma Frank non ne aveva bisogno. Hazel non pesava nulla, e il corpo di Frank stava martellando di adrenalina. Poteva sentire Hazel che tremava, quindi almeno sapeva che era viva; ma la sua pelle era fredda. Le sue labbra avevano assunto una tonalità verdognola – o forse era solo la vista confusa di Frank? I suoi occhi stavano ancora bruciando a causa del fiato del mostro. Nei polmoni aveva la sensazione di aver inalato un cavolo in fiamme. Non sapeva perché il gas l’aveva affetto in modo meno grave di quanto aveva fatto con Hazel. Forse lei ne aveva ispirato di più nei polmoni. Avrebbe dato qualsiasi cosa per scambiare la situazione, se ciò voleva dire salvarla. Le voci di Marte e Ares stavano urlando nella sua testa, spronandolo a uccidere Nico e l’uomo con la giacca di jeans e chiunque altro potesse trovare, ma Frank obbligò i rumori a scemare. La camera principale della casa era una sorta di serra. I muri erano allineati da tavoli con sopra vassoi di piante posizionate sotto luci fluorescenti. Nell’aria c’era odore di fertilizzante. Forse i veneziani curavano i loro giardini all’interno, visto che erano circondati dall’acqua al posto della terra. Frank non lo sapeva, ma non si fermò troppo a lungo a preoccuparsene. La stanza sul retro somigliava a un mix tra un garage, il dormitorio di un collegio, e un laboratorio di computer. Contro la parete di sinistra brillava una parete di server e computer, con immagini di campi arati e trattori come screensaver. Contro il muro di destra c’era un unico letto, una scrivania disordinata, e un guardaroba aperto carico di altri vestiti di jeans e una fila di attrezzi da fattoria, come forconi e rastrelli. La parete di fondo consisteva in un’unica enorme porta da garage. Parcheggiato accanto c’era un carro rosso e dorato con una seduta aperta e un unico asse per gli animali, come i carri che Frank aveva guidato al Campo Giove. Dai lati della cabina del guidatore si estendevano delle giganti ali piumate. Avvolto attorno al cerchione della ruota di sinistra, c’era un pitone maculato che russava rumorosamente. Frank non sapeva che i pitoni potessero russare. Sperava che lui non l’avesse fatto la scorsa notte quando si era trasformato in pitone. “Metti la tua amica qui”, disse l’uomo in jeans. Frank mise gentilmente Hazel sul letto. Le tolse la spada e cercò di metterla comoda, ma lei era inerte come uno spaventapasseri. La sua carnagione aveva senza dubbio assunto una tonalità verde. “Cosa erano quelle cose mucca?” chiese Frank. “Cosa le hanno fatto?” “Catoblepe” disse il loro ospite. “Al singolare: catoblepa. Nella nostra lingua, vuol dire coloro che guardano in basso. Sono chiamati così perché –“ “Guardano sempre in basso.” Nico si sbatté la mano in fronte. “Giusto. Ricordo di aver letto di loro.” Frank lo fissò furioso. “Te lo ricordi adesso?” Nico abbassò la testa quasi come fosse un catoblepa. “Io, uh… giocavo a questo stupido gioco di carte quando ero più piccolo. Mitomagia. I catoblepe erano una delle carte mostro.” Frank sbatté le palpebre. “Io giocavo a Mitomagia. Non ho mai visto quella carta.” “Era nel pacchetto espansione Extreme Africa.” “Oh.” Il loro ospite si schiarì la voce. “Voi due avete finito di, ah, fare i nerd, come dicono oggi?” “Giusto, scusi,” borbottò Nico. “Ad ogni modo, i catoblepa hanno un alito e uno sguardo velenosi. Pesavo che vivessero solo in Africa.” L’uomo con i jeans scrollò le spalle. “Quella è la loro terra nativa. Furono importati accidentalmente a Venezia centinaia di anni fa. Avete sentito parlare di San Marco?” Frank voleva urlare dalla frustrazione. Non vedeva come niente di tutto quello potesse essere rilevante, ma se il loro ospite era in grado di guarire Hazel, Frank decise che forse poteva essere meglio non farlo arrabbiare. “Santi? Non fanno parte della mitologia greca.” L’uomo vestito di jeans ridacchiò. “No, ma San Marco è il santo patrono di questa città. Morì in Egitto, oh, molto tempo fa. Quando i veneziani divennero potenti… bè, le reliquie dei santi erano una grande attrazione turistica nei Tempi Medievali. I Veneziani decisero di rubare le reliquie di San Marco e di portarle nella loro grande chiesa dedicata al Santo. Esportarono il suo corpo mettendolo in un barile di prodotti sottaceto.” “Questo è… disgustoso,” disse Frank. “Sì,” concordò l’uomo con un sorriso. “Il punto è che, non si può fare una cosa del genere e non avere delle conseguenze. I veneziani esportarono senza volerlo anche qualcos’altro dall’Egitto – i catoblepe. Arrivarono qui a bordo di quella nave e si sono riprodotti come topi fin da allora. Adorano le magiche radici velenose che crescono qui – piante paludose dall’odore orribile che si infiltrano dai canali. Rende il loro alito persino più velenoso! Solitamente i mostri ignorano i mortali, ma i semidei… soprattutto i semidei che si mettono sulla loro strada –“ “Afferrato,” scattò Frank. “Può curarla?” L’uomo scrollò le spalle. “Forse.” “Forse?” Frank dovette fare uso di tutta la sua forza di volontà per non strangolare quel ragazzo. Mise la sua mano sotto il naso di Hazel. Non riusciva a sentire il suo respiro. “Nico, ti prego dimmi che sta facendo quella trance di morte, come quella che hai fatto tu nella giara di bronzo.” Nico fece una smorfia. “Non so se Hazel può farla. Suo padre tecnicamente è Pluto, non Ade, quindi –“ “Ade!” gridò l’ospite. Indietreggiò, fissando Nico con disgusto. “Allora è questo l’odore che sentivo. Figli dell’Oltretomba? Se l’avessi saputo, non vi avrei mai fatti entrare!” Frank si scaldò. “Hazel è una brava persona. Ha promesso che l’avrebbe aiutata.” “Non l’ho promesso.” Nico sguainò la sua spada. “E’ mia sorella,” ringhiò. “Non so chi sei, ma se puoi curarla, devi farlo, altrimenti giuro sul Fiume Stige –“ “Oh, blah, blah, blah!” L’uomo agitò la mano. Improvvisamente, dove un attimo prima si trovava Nico di Angelo, apparve una pianta in vaso alta circa mezzo metro, con foglie verdi che scendevano verso il basso, ciuffi di seta, e una mezza dozzina di gialle pannocchie mature. “Ecco,” sbuffò l’uomo, agitando il dito contro la pannocchia. “I Figli di Ade non possono darmi ordini! Dovresti parlare di meno e ascoltare di più. Ora almeno non hai una bocca.” Frank inciampò contro il letto. “Cosa ha – perché – ?” L’uomo inarcò un sopracciglio. Frank fece un suono stridulo che non era molto coraggioso. Era stato così concentrato su Hazel che si era dimenticato quello che Leo aveva detto loro sull’uomo che stavano cercando. “Tu sei un dio,” si ricordò. “Trittolemo.” L’uomo si inchinò. “I miei amici mi chiamano Trit, quindi tu non farlo. E se sei un altro figlio di Ade –“ “Marte!” disse Frank velocemente. “Figlio di Marte!” Trittolemo sbuffò. “Bè… non molto meglio. Ma forse ti meriti di essere qualcosa di meglio di una pianta di pannocchie. Saggina? La saggina è molto bella.” “Aspetti!” implorò Frank. “Siamo qui per una missione amichevole. Abbiamo portato un dono.” Molto lentamente, prese il suo zaino e tirò fuori il libro rilegato in pelle. “Questo appartiene a lei?” “Il mio almanacco!” Trittolemo fece un grosso sorriso e afferrò il libro. Scorse le pagine e iniziò a saltellare sul posto. “Oh, è fantastico! Dove l’hai trovato?” “Um, a Bologna. C’erano questi” – Frank si ricordò che non doveva parlare dei nani – “mostri terribili. Abbiamo rischiato le nostre vite, ma sapevamo che era importante per lei. Quindi potrebbe, sa, far tornare Nico umano e guarire Hazel?” “Hmm?” Trit alzò lo sguardo dal libro. Stava felicemente recitando una cantilena tra sé e sé – qualcosa che riguardava il programma di semina delle rape. Frank desiderò che Ella l’arpia fosse lì. Sarebbe andata d’accordo con quel tipo. “Oh, guarirli?” Trittolemo ridacchiò con disapprovazione. “Sono riconoscente per il libro, ovviamente. Posso senza dubbio lasciare andare te, figlio di Marte. Ma ho un problema di lungo corso con Ade. Dopotutto, devo i miei poteri divini a Demetra!” Frank cercò nella sua mente, ma era difficile farlo con le voci che gli urlavano in testa e il veleno delcatoblepa che lo confondeva. “Uh, Demetra,” disse, “la dea dell’agricoltura. A lei – a lei non piace Ade perché …” Improvvisamente ricordò una vecchia storia che aveva sentito al Campo Giove. “Sua figlia, Proserpina –“ “Persefone,” lo corresse Trit. “Preferisco il greco, se non ti dispiace.” Uccidilo! gridò Marte. Adoro questo ragazzo! urlò Ares di rimando. Uccidilo comunque! Frank decise di non sentirsi offeso. Non voleva essere trasformato in una pianta di saggina. “Okay. Ade rapì Persefone.” “Esattamente!” disse Trit. “Quindi… Persefone era una sua amica?” Trit fece un verso di scherno. “Ero solo un principe mortale allora. Persefone non mi avrebbe notato. Ma quando sua madre, Demetra, andò in cerca di lei, perlustrando tutta la terra, non c’erano molte persone disposte ad aiutarla. Ecate le illuminò la strada di notte con le sue torce. E io… bè, quando Demetra venne nella mia parte della Grecia, le offrii un posto dove stare. La confortai, le diedi da mangiare, e le offrii la mia assistenza. Non sapevo che fosse una dea a quel tempo, ma le mie buone azioni mi ripagarono. Più tardi, Demetra mi ricompensò nominandomi dio dell’agricoltura!” “Wow,” disse Frank. “Agricoltura. Congratulazioni.” “lo so! Forte, vero? Comunque, Demetra non è mai andata d’accordo con Ade. così naturalmente, sai, io devo schierarmi con la mia dea protettrice. I figli di Ade – dimenticalo! Infatti, uno di loro – questo re Sciziano chiamato Lynkos, sai? Quando cercai di insegnare ai suoi cittadini l’agricoltura, lui uccise il mio pitone di destra!” “Il suo… pitone di destra?” Trit marciò fino al suo carro alato e ci saltò dentro. Tirò una leva, e le ali iniziarono a sbattere. Il pitone maculato sulla ruota sinistra aprì gli occhi. Iniziò a contorcersi, avvolgendosi attorno all’asse da animali come una molla. Il carro tremò entrando in azione, ma la ruota di destra rimase al suo posto, così Trittolemo girò in cerchio, con il carro che sbatteva le sue ali e balzava su e giù come una giostra difettosa. “Vedi?” disse mentre girava. “Non è bello! Fin da quando ho perso il mio pitone di destra, non sono stato in grado di diffondere la parola sull’agricoltura – almeno non di persona. Adesso devo mi devo arrangiare dando lezioni online.” “Cosa?” Non appena lo disse, Frank si pentì di averlo chiesto. Trit saltò giù dal suo carro mentre questo stava ancora girando. Il pitone rallentò fino a fermarsi e tornò a russare. Trit corse verso la fila di computer. Picchiettò le tastiere e gli schermi si accesero, mostrando un sito Web sui colori del marrone dorato, con l’immagine di un contadino felice che indossava una toga e un capellino della John Deere, in piedi con la sua falce di bronzo in un campo di grano. “Università dell’Agricoltura di Trittolemo!” annunciò con orgoglio. “In sole sei settimane, puoi ottenere la tua laurea nell’emozionante e vibrante carriera del futuro – l’agricoltura!” Frank avvertì un rivolo di sudore scendergli lungo la guancia. Non gli importava di quel dio folle o del suo carro con i serpenti o del suo programma di laurea online. Ma Hazel si stava facendo sempre più verde. Nico era una pianta di pannocchie. E lui era da solo. “Senta,” disse. “Le abbiamo portato l’almanacco. E i miei amici sono davvero simpatici. Loro non sono come gli altri figli di Ade che ha incontrato. Quindi se c’è un modo –“ “Oh!” Trit schioccò le dita. “Capisco dove vuoi arrivare!” “Uh… davvero?” “Assolutamente! Se curo la tua amica Hazel e trasformo l’altro, Nicholas –“ “Nico.” “ – se lo trasformo di nuovo in un umano…” Frank esitò. “Sì?” “Allora in cambio, tu rimani con me e ti dedichi all’agricoltura! Un figlio di Marte come mio apprendista? E’ perfetto! Che portavoce saresti. Possiamo trasformare le spade in aratri e divertirci così tanto!” “In realtà…” Frank cercò di formare velocemente un piano. Ares e Marte gli urlavano in testa, Spade! Pistole! Grosse Esplosioni! Se rifiutava l’offerta di Trit, Frank immaginava che così avrebbe offeso il dio e sarebbe finito come una pianta di saggina o di frumento o qualche altra pianta da coltura. Se quello era l’unico modo per salvare Hazel, allora certo, poteva accettare la richiesta di Trit e diventare un agricoltore. Ma non era possibile che quello fosse l’unico modo. Frank si rifiutava di credere che fosse stato scelto dalle Parche per partecipare a quell’impresa solo perché potesse iscriversi a dei corsi online di coltivazione di rape. Gli occhi di Frank andarono al carro rotto. “Ho un’offerta migliore,” disse improvvisamente. “Posso ripararlo.” Il sorriso di Trit si fuse. “Riparare… il mio carro?” Frank voleva prendersi a calci. Cosa stava pensando? Non era Leo. Non riusciva nemmeno a capire come funzionava uno stupido paio di manette cinesi. Era a malapena in grado di cambiare le batterie al telecomando di un televisore. Non poteva aggiustare un carro magico! Ma qualcosa gli diceva che quella era la sua unica possibilità. Quel carro era la cosa che Trittolemo voleva davvero. “Andrò a cercare un modo per aggiustare il carro,” disse. “In cambio, lei aggiusta Nico e Hazel. Ci lascia andare in pace. E – e ci da qualsiasi aiuto possa darci per sconfiggere le forze di Gea.” Trittolemo rise. “Cosa ti fa credere che posso aiutarti con quello?” “Ce lo ha detto Ecate,” disse Frank. “Lei ci ha mandati qui. Lei – lei ha scelto Hazel come una delle sue prescelte.” Il colore dalla faccia di Trittolemo svanì. “Ecate?” Frank sperava di non aver esagerato. Non aveva bisogno che anche Ecate si infuriasse con lui. Ma se Trittolemo ed Ecate erano entrambi amici di Demetra, forse quello avrebbe convinto Trit ad aiutare. “La dea ci ha guidati al suo almanacco a Bologna,” disse Frank. “Voleva che lo riportassimo a lei, perché… bè, doveva sapere che lei ha qualche conoscenza che ci potrebbe aiutare ad entrare nella Casa di Ade ad Epiro.” Trit annuì lentamente. “Sì. Capisco. So perché Ecate vi ha mandati da me. Molto bene, figlio di Marte. Trova un modo per aggiustare il mio carro. Se avrai successo, farò tutto quello che chiedi. In caso contrario –“ “Lo so,” borbottò Frank. “I miei amici muoiono.” “Sì,” disse Trit allegramente. “E tu sarai una bella pianta di saggina!” XX FRANK Frank si gettò fuori dalla Casa Nera. La porta si chiuse alle sue spalle, e lui crollò contro il muro, sopraffatto dal senso di colpa. Fortunatamente i catoblepi se ne erano andati, o sarebbe semplicemente rimasto seduto là lasciandosi calpestare da loro. Non si meritava nulla di meglio. Aveva lasciato Hazel là dentro, morente e indifesa, alla mercé di un pazzo dio agricoltore. Uccidi gli agricoltori! urlava Ares nella sua testa. Torna alla legione e combatti i greci! diceva Marte. Che ci facciamo qui? Uccidiamo gli agricoltori! gli urlò Ares di rimando. “State zitti!” gridò Frank ad alta voce. “Tutti e due!” Un paio di signore anziane con delle buste della spesa gli passarono accanto. Lanciarono a Frank delle strane occhiate, borbottarono qualcosa in italiano, e continuarono a camminare. Frank fissò miserabilmente la spada da cavalleria di Hazel, che giaceva ai suoi piedi accanto allo zaino. Poteva correre all’Argo II e prendere Leo. Forse Leo poteva aggiustare il carro. Ma in qualche modo Frank sapeva che quello non era un problema per Leo. Era il compito di Frank. Doveva dimostrare le sue capacità. Inoltre, il carro non era esattamente guasto. Gli mancava un serpente. Frank poteva trasformarsi in un serpente. Magari quando quella mattina si era svegliato nei panni di un serpente gigante, era stato un segno dagli dei. Non voleva passare il resto della sua vita a girare la ruota del carro di un contadino, ma se questo voleva dire salvare Hazel… No. Ci doveva essere un altro modo. Serpenti, pensò Frank. Marte. Suo padre aveva qualche connessione con i serpenti? L’animale sacro di Marte era il cinghiale selvaggio, non il serpente. Tuttavia, Frank era certo di aver sentito qualcosa una volta…. Riusciva a pensare ad una sola persona alla quale chiedere. Con riluttanza, aprì la sua mente alle voci del dio della guerra. Ho bisogno di un serpente, disse loro. Come faccio? Ha, ha! urlò Ares. Sì, il serpente! Come quel vile di Cadmo, disse Marte. Lo punimmo per aver ucciso il nostro drago! Iniziarono a urlare insieme, finché Frank non temette che la sua mente si stesse per spaccare in due. “Okay! Smettetela!” Le voci si zittirono. “Cadmo” borbottò Frank. “Cadmo…” La storia gli tornò alla mente. Il semidio Cadmo aveva ucciso un drago che era un figlio di Ares. Perché Ares avesse un drago come figlio, era una cosa che Frank non voleva sapere; ma come punizione per la morte del drago, Ares aveva trasformato Cadmo in un serpente. “Allora potete trasformare i vostri nemici in serpenti,” disse Frank. “E’ di questo che ho bisogno. Devo trovare un nemico. Poi ho bisogno che voi lo trasformiate in un serpente.” Credi che lo farei per te? ruggì Ares. Non hai dimostrato il tuo valore! Solo l’eroe più grande può chiedere un dono del genere, disse Marte. Un eroe come Romolo! Troppo Romano! gridò Ares. Diomede! Mai! urlò Marte di rimando. Quel codardo cadde contro Eracle! Allora, Orazio, suggerì Marte. Ares non rispose. Frank avvertì un accordo forzato. “Orazio,” disse Frank. “Bene. Se è questo che serve, dimostrerò che sono capace quanto Orazio. Uh… lui cosa ha fatto?” Delle immagini inondarono la mente di Frank. Vide un guerriero solitario su un ponte di pietra, rivolto verso un intero esercito raggruppato sulla riva più lontana del Fiume Tevere. Frank si ricordava della leggenda. Orazio, il generale romano, aveva trattenuto da solo un’orda di invasori, sacrificando se stesso su quel fiume per impedire ai barbari si attraversare il Tevere. Dando ai suoi compagni romani il tempo di completare le loro difese, aveva salvato la Repubblica. Venezia è invasa, disse Marte, come stava per esserlo Roma. Purificala! Distruggili tutti! disse Ares. Uccidili! Frank chiuse le voci fuori dalla sua testa. Si guardò le mani e fu stupito nel vedere che non stavano tremando. Per la prima volta da giorni, i suoi pensieri erano chiari. Sapeva esattamente quello che doveva fare. Non sapeva come avrebbe fatto. Le possibilità di morire erano eccellenti, ma doveva provare. La vita di Hazel dipendeva da lui. Si legò la spada di Hazel alla cintura, mutò il suo zaino in arco e faretra, e corse verso la piazza dove si era scontrato con i mostri mucca. Il piano era composto da tre fasi: pericoloso, molto pericoloso, e pazzamente pericoloso. Frank si fermò presso l’antico pozzo di pietra. Non c’era nessun catoblepa in vista. Sguainò la spada di Hazel e la usò per rovistare tra i ciottoli, dissotterrando un grosso groviglio di radici acuminate. I viticci si sciolsero, diffondendo i loro puzzolenti vapori verdi mentre strisciavano verso i piedi di Frank. In lontananza, il muggito da nave di un catoblepa riempì l’aria. Altri si unirono al suono da tutte le direzioni. Frank non sapeva come facessero i mostri a sapere che stava mietendo il loro cibo preferito – forse avevano semplicemente un eccellente olfatto. Adesso doveva muoversi velocemente. Tagliò un lungo mazzo di viticci e li legò facendoli passare attraverso uno dei passanti della sua cintura, cercando di ignorare il bruciore e il prurito che aveva alle mani. In poco tempo aveva un brillante lasso puzzolente fatto di alghe velenose. Urrà. I primi catoblepi entrarono con passo pensate nella piazza, ruggendo di rabbia. Gli occhi verdi brillavano sotto le loro criniere. I loro lunghi musi rilasciavano nuvole di gas, come macchine a vapore pelose. Frank scoccò una freccia. Provò una temporanea fitta di colpa. Quelli non erano i mostri peggiori che avesse mai incontrato. In realtà erano solo animali brucanti che per caso erano anche velenosi. Hazel sta morendo a causa loro, si ricordò. Lasciò andare la freccia. Il catoblepa più vicino crollò, riducendosi in cenere. Scoccò una seconda freccia, ma il resto della mandria era quasi su di lui. Altri ne stavano arrivando dalla direzione opposta. Frank si trasformò in un leone. Ruggì in segno di sfida e balzò verso l’arco, dritto sopra le teste della seconda mandria. I due gruppi di catoblepe si scontrarono tra loro, ma si ripresero velocemente e corsero verso di lui. Frank non era stato sicuro che le radici avrebbero continuato a puzzare quando lui avesse cambiato forma. Solitamente i suoi vestiti e gli oggetti che aveva addosso si limitavano a unirsi alla sua forma animale, ma apparentemente continuava a odorare come una succulenta cena velenosa. Ogni volta che correva accanto a un catoblepa, questo ruggiva oltraggiato e si univa alla Parata dell’Uccidiamo Frank! Svoltò in una strada più ampia e si fece largo tra la folla di turisti. Non aveva idea di quello che vedevano i mortali – un gatto inseguito da un branco di cani? Le persone imprecarono contro Frank in circa dodici lingue diverse. Volavano coni gelato. Una donna fece cadere una pila di maschere di carnevale. Un tizio cadde nel canale. Quando Frank si guardò indietro, aveva almeno due dozzine di mostri al suo seguito, ma aveva bisogno di altri. Aveva bisogno di tutti i mostri di Venezia, e doveva far sì che quelli dietro di lui continuassero ad essere arrabbiati. Trovò un passaggio libero tra la folla e si ritrasformò in umano. Sguainò la spata di Hazel – non era mai stata la sua arma preferita, ma era abbastanza grande e forte che la pesante spada non lo infastidiva. Al contrario, era felice per la portata extra. Agitò la lama dorata, distruggendo il primo catoblepa e lasciando che gli altri si raggruppassero attorno a lui. Cercò di evitare i loro occhi, ma poteva avvertire i loro sguardi fissi e brucianti su di lui. Immaginò che se tutti quei mostri avessero soffiato contro di lui contemporaneamente, le loro nuvole nocive combinate sarebbero bastate per farlo sciogliere in una pozzanghera. I mostri si mossero in avanti e cozzarono uno contro l’altro. Frank urlò, “Volete le mie radici velenose? Venite a prendervele!” Si trasformò in un delfino e saltò nel canale. Sperava che i catoblepa non sapessero nuotare. Perlomeno, sembravano riluttanti nel seguirlo, e lui non poteva biasimarli. Il canale era disgustoso – maleodorante e salato e caldo come una zuppa – ma Frank avanzò rapidamente tra le sue acque, schivando le gondole e i motoscafi, fermandosi di tanto in tanto per rivolgere qualche insulto nei versi del delfino contro i mostri che lo inseguivano dai marciapiedi. Quando raggiunse il molo più vicino, Frank tornò in forma umana, pugnalò qualche altro catoblepa per mantenerli arrabbiati, e riprese a correre. E così continuò. Dopo un po’, Frank entrò in una sorta di trance. Attrasse altri mostri, fece sparpagliare altre folle di turisti, e guidò il seguito ormai enorme di catoblepa attraverso le strade serpeggianti dell’antica città. Ogni volta che aveva bisogno di una rapida via di fuga, si gettava nel canale in forma di delfino, o si trasformava in un’aquila e volava in alto, ma non si allontanava mai troppo dai suoi inseguitori. Ogni volta che pensava che i mostri stessero perdendo interesse nei suoi confronti, si fermava sul tetto di una casa e prendeva il suo arco, abbattendo qualcuno dei catopleba al centro della mandria. Agitava il suo lasso di viticci velenosi e insultava l’alito cattivo dei mostri, aizzandoli contro di lui. Poi riprendeva a correre. Fece marcia indietro. Si perse. Una volta svoltò un angolo e si ritrovò davanti la coda della sua stessa folla inseguitrice. Avrebbe dovuto essere esausto, tuttavia in qualche modo trovava la forza per continuare a correre – il che era un bene. La parte più difficile doveva ancora arrivare. Individuò un paio di ponti, ma non sembravano giusti. Uno era elevato e completamente coperto; non sarebbe mai riuscito a farci passare i mostri. Un altro era troppo affollato dai turisti. Anche se i mostri ignoravano i mortali, quel gas nocivo di certo non era buono per nessuno. Più grande si faceva la mandria di mostri, più mortali venivano spinti di lato, buttati in acqua o calpestati. Alla fine Frank vide qualcosa che avrebbe potuto funzionare. Proprio davanti a lui, dopo una grande piazza, un ponte di legno attraversava uno dei canali più ampi. Il ponte in sé era un arco di legno intrecciato, come una montagna russa vecchio stile, lungo circa cinquanta metri. Dall’alto, in forma di aquila, Frank non vide nessun mostro in lontananza. Ogni catoblepa di Venezia sembrava essersi unito alla mandria e si stava facendo avanti per le strade dietro di lui mentre i turisti urlavano e si sparpagliavano, forse pensando di essersi ritrovati nel mezzo di una fuga di cani randagi. Il ponte era privo di pedoni. Era perfetto. Frank precipitò come una pietra e tornò umano. Corse fino al centro del ponte – un punto di restringimento naturale – e lanciò la sua esca di radici velenose sul pavimento alle sue spalle. Mentre la parte anteriore della mandria di catoblepa raggiungeva l’inizio del ponte, Frank sguainò la spatadorata di Hazel. “Andiamo!” urlò. “Volete sapere quanto vale Frank Zhang? Fatevi avanti!” Si rese conto che non stava solo urlando contro i mostri. Stava sfogando settimane di paura, rabbia e risentimento. Le voci di Marte e Ares urlavano insieme a lui. I mostri caricarono. La vista di Frank si fece rossa. Più tardi, non riuscì a ricordarsi chiaramente tutti i dettagli. Attaccò con la spada contro i mostri finché non si ritrovò circondato da polvere gialla che gli arrivava alle caviglie. Ogni volta che stava per essere sopraffatto e le nuvole di gas iniziavano a soffocarlo, lui cambiava forma – diventando un elefante, un drago, un leone – e ogni trasformazione sembrava purificare i suoi polmoni, dandogli una nuova carica di energia. I suoi mutamenti di forma si fecero così fluidi, che poteva iniziare un attacco in forma umana con la sua spada e concluderlo in forma di leone, affondando i suoi artigli sui musi dei catoblepe. I mostri attaccavano con i loro zoccoli. Sputavano gas nocivo e fissavano Frank con i loro occhi velenosi. Avrebbe dovuto morire. Sarebbe dovuto essere schiacciato. Ma in qualche modo, rimase in piedi, illeso, e sguinzagliò un vortice di violenza. Non provava nessun tipo di piacere nel farlo, ma non esitò nemmeno. Pugnalava un mostro e ne affrontava un altro. Si trasformò in un drago e afferrò un catoblepa affettandolo a metà, poi mutò in un elefante e ne schiacciò tre contemporaneamente sotto le sue zampe. La sua vista era ancora tinteggiata di rosso, e si accorse che i suoi occhi non gli stavano giocando un brutto scherzo. Stava davvero brillando – era circondato da un’aura rosata. Non capiva il perché, ma continuò a lottare fino a che non fu rimasto un solo mostro. Frank lo affrontò con la spada pronta. Era a corto di fiato, sudato, e ricoperto da polvere di mostro, ma era illeso. Il catoblepa ringhiò. Non doveva essere il mostro più sveglio di tutti. Malgrado il fatto che diverse centinaia dei suoi fratelli erano appena morti, lui non si ritirò. “Marte!” gridò Frank. “Ho dimostrato il mio valore. Ora ho bisogno di un serpente!” Frank non credeva che qualcuno avesse mai urlato quelle parole prima d’ora. Era una richiesta abbastanza strana. Non ebbe nessuna risposta dai cieli. Per una volta, le voci nella sua testa erano silenziose. Il catoblepa perse la pazienza. Si lanciò contro Frank e non gli lasciò altra scelta. Affondò la spada. Non appena la lama colpì il mostro, il catoblepa scomparve in un lampo di luce rosso sangue. Quando la visione di Frank si schiarì, ai suoi piedi era acciambellato un pitone del Burmese marrone e chiazzato. “Ben fatto,” disse una voce familiare. A pochi metri da lui si trovava suo padre, Marte, con addosso un berretto rosso e una tuta mimetica color oliva con il distintivo delle Forze Speciali Italiane, una mitragliatrice sulla schiena. Il suo volto era duro e spigoloso, gli occhi erano coperti da occhiali da sole neri. “Padre,” balbettò Frank. Non riusciva a credere a quello che aveva appena fatto. Il terrore iniziò a sopraffarlo. Sentiva il bisogno di piangere, ma indovinò che non sarebbe stata una buona idea davanti a Marte. “E’ normale avere paura.” La voce del dio della guerra era sorprendentemente calda, carica di orgoglio. “Tutti i grandi guerrieri hanno paura. Solo quelli stupidi e indegni non la provano. Ma tu hai affrontato la tua paura, figlio mio. Hai fatto quello che dovevi fare, come Orazio. Questo era il tuo ponte, e tu l’hai difeso.” “Io –“ Frank non sapeva cosa dire. “Io… mi serviva solo un serpente.” Un minuscolo sorriso apparve all’angolo della bocca di Marte. “Sì. E adesso ne hai uno. Il tuo coraggio ha unito le mie forme, greca e romana, anche solo per un attimo. Vai. Salva i tuoi amici. Ma ascolta, Frank. Il tuo test più grande deve ancora arrivare. Quando affronterai l’esercitò di Gea in Epiro, la tua guida –“ Improvvisamente il dio si piegò su se stesso, stringendosi la testa. La sua figura vacillò. I suoi vestiti si trasformarono in una toga, poi nel giacchetto e i jeans di un motociclista. La sua mitragliatrice divenne una spada e poi un lanciarazzi. “Agonia!” ruggì Marte. “Vai! Sbrigati!” Frank non fece domande. Nonostante fosse esausto, si trasformò in un’aquila gigante, afferrò il pitone con i grossi artigli, e si lanciò in aria. Quando guardò indietro, un’esplosione in miniatura eruttò dal centro del ponte, con anelli di fuoco che si riversavano verso l’esterno, e due voci – Marte e Ares – urlarono, “Noooo!” Frank non sapeva cosa fosse accaduto, ma non aveva tempo per pensarci. Volò sopra la città – ora completamente libera dai mostri – e si diresse verso la casa di Trittolemo. “Ne hai trovato uno!” esclamò il dio dell’agricoltura. Frank lo ignorò. Si gettò nella Casa Nera, trascinando il pitone dalla coda come una sacca di Babbo Natale davvero strana, e lo scaricò accanto al letto. Si inginocchiò al fianco di Hazel. Era ancora viva – verde e tremante, che respirava a malapena, ma viva. Per quanto riguardava Nico, lui era ancora una pianta di mais. “Guariscili,” disse Frank. “Adesso.” Trittolemo incrociò le braccia. “Come faccio a sapere che il serpente funzionerà?” Frank strinse i denti. Dall’esplosione sul ponte, le voci del dio della guerra nella sua testa si erano fatte silenziose, ma avvertiva ancora la loro rabbia combinata che ribolliva dentro di lui. Si sentiva anche fisicamente diverso. Era possibile che Trittolemo si fosse abbassato? “Il serpente è un dono da Marte,” ringhiò Frank. “Funzionerà.” Come se avesse ricevuto un segnale, il pitone Burmese strisciò fino al carro e si arrotolò intorno alla ruota di destra. L’altro serpente si svegliò. I due serpenti di studiarono a vicenda, si toccarono i nasi, poi girarono le ruote all’unisono. Il carro si mosse in avanti, con le ali che sbattevano. “Vedi?” disse Frank. “Adesso, cura i miei amici!” Trittolemo si picchiettò il mento. “Bè, ti ringrazio per il serpente, ma non sono certo che mi piaccia il tuo tono, semidio. Forse ti trasformo in un –“ Frank fu più rapido. Si lanciò verso Trit e lo sbatté contro la parete, con le dita chiuse attorno alla gola del dio. “Pensa alle tue prossime parole,” avvertì Frank, con un tono mortalmente calmo. “O invece di trasformare la mia spada in un aratro, te la sbatterò in testa.” Trittolemo deglutì. “Sai… credo che curerò i tuoi amici.” “Giuralo sul Fiume Stige.” “Lo giuro sul Fiume Stige.” Frank lo lasciò andare. Trittolemo si toccò la gola, come per assicurarsi che fosse ancora là. Fece un sorriso nervoso verso Frank, gli passò accanto, e si affrettò verso la camera anteriore. “Prendo – prendo solo delle erbe!” Frank guardò mentre il dio raccoglieva delle foglie e delle radici e le frantumava in un mortaio. Fece una pallina grande quanto una pillola fatta di sostanza verde e corse da Hazel. Mise la pallina viscida sotto la lingua di Hazel. Istantaneamente, lei tremò e si mise a sedere, tossendo. I suoi occhi si spalancarono. La tinta verdastra sulla sua pelle scomparve. Si guardò intorno, disorientata, finché non vide Frank. “Cosa -?” Frank la travolse con un abbraccio. “Andrà tutto bene,” disse con forza. “Va tutto bene.” “Ma…” Hazel gli mise la mano sulle spalle e lo fissò stupita. “Frank, cosa ti è successo?” “A me?” Si alzò, improvvisamente imbarazzato. “Io non…” Abbassò lo sguardo e capì quello che voleva dire. Trittolemo non si era abbassato. Frank era più alto. La sua pancia si era ridotta. Il suo petto sembrava più muscoloso. Frank aveva avuto degli sviluppi rapidi prima d’ora. Una volta si era svegliato due centimetri più alto di quando era andato a dormire. Ma quello era da pazzi. Era come se un po’ del drago e del leone fossero rimasti con lui quando era tornato umano. “Uh… io non… Forse posso aggiustarlo.” Hazel rise divertita. “Perché? Sei fantastico!” “D-davvero?” “Voglio dire, prima eri bellissimo! Ma adesso sembri più adulto e più alto, e così distinto –“ Trittolemo fece un sospiro drammatico. “Sì, si tratta ovviamente di qualche tipo di benedizione da Marte. Congratulazioni, blah, blah, blah. Adesso, se abbiamo finito…?” Frank lo fissò furioso. “Non abbiamo finito. Cura Nico.” Il dio dell’agricoltura fece volare gli occhi al cielo. Indicò la pianta di mais, e BAM! Nico di Angelo apparve con un’esplosione di foglie di frumento. Nico si guardò intorno nel panico. “Ho – ho fatto l’incubo più strano di sempre sui popcorn.” Guardò accigliato Frank. “Perché sei più alto?” “Va tutto bene,” assicurò Frank. “Trittolemo stava per dirci come sopravvivere alla Casa di Ade. “Non è così, Trit?” Il dio dell’agricoltura alzò gli occhi al cielo, come a dire, Demetra, perché a me? “Bene,” disse Trit. “Quando arriverete ad Epiro, vi sarà offerto un calice dal quale bere.” “Offerto da chi?” chiese Nico. “Non importa,” scattò Trit. “Sappiate soltanto che è pieno di veleno mortale.” Hazel tremò. “Quindi stai dicendo che non dobbiamo berlo.” “No!” disse Trit. “Dovete berlo, o non sarete mai in grado di attraversare il tempio. Il veleno vi collega al mondo dei morti, vi permette di passare nei livelli più bassi. Il segreto per sopravvivergli è” – i suoi occhi luccicarono – “l’orzo.” Frank lo fissò. “L’orzo.” “Nella stanza anteriore, prendete un po’ del mio orzo speciale. Fateci alcuni pasticcini. Mangiateli prima di entrare nella Casa di Ade. L’orzo assorbirà il peggio del veleno, così che vi farà effetto, ma non vi ucciderà.” “Tutto qui?” chiese Nico. “Ecate ci ha fatto attraversare mezza Italia così che tu potevi dirci di mangiare dell’orzo?” “Buona fortuna!” Trittolemo attraversò la stanza di corsa e saltò nel suo carro. “E, Frank Zhang, ti perdono! Hai fegato. Se mai decidessi cambiare idea, la mia offerta è sempre valida. Mi piacerebbe tantissimo vederti prendere una laurea in agricoltura!” “Sì,” borbottò Frank. “Grazie.” Il dio tirò una leva del carro. Le ruote-serpenti girarono. Le ali sbatterono. Sul retro della stanza, le porte del garage si aprirono. “Oh, di nuovo in movimento!” urlò Trit. “Così tante terre ignoranti che hanno bisogno della mia conoscenza. Insegnerò loro le glorie della coltivazione, irrigazione, fertilizzazione!” Il carro si sollevò da terra e scattò verso l’esterno, con Trittolemo che urlava verso il cielo, “Via, miei serpenti! Via!” “Questo,” disse Hazel, “è stato molto strano.” “Le glorie della fertilizzazione.” Nico si spazzò via qualche foglia di frumento dalle spalle. “Possiamo uscire da qui adesso?” Hazel mise la mano sulla spalla di Frank. “Stai bene, davvero? Hai contrattato per le nostre vite. Cosa ti ha fatto fare Trittolemo?” Frank cercò di mantenere il controllo. Si rimproverò del fatto che si sentiva così debole. Poteva affrontare un esercito di mostri, ma non appena Hazel gli mostrava la sua gentilezza, lui voleva strillare e piangere. “Quei mostri mucca… i catoblepe che ti hanno avvelenata… ho dovuto distruggerli.” “E’ stato coraggioso,” disse Nico. “Ce ne dovevano essere, quanti, sei o sette rimasti in quella mandria.” “No.” Frank si schiarì la gola. “Tutti. Ho ucciso tutti quelli della città.” Nico e Hazel lo fissarono in un silenzio sconvolto. Frank temeva che potessero dubitare di lui, o iniziare a ridere. Quanti mostri aveva ucciso su quel ponte – duecento? Trecento? Ma vide nei loro occhi che gli credevano. Erano figli dell’Oltretomba. Forse potevano avvertire la morte e la carneficina che aveva affrontato. Hazel lo baciò sulla guancia. Adesso doveva sollevarsi in punta di piedi per farlo. I suoi occhi erano incredibilmente tristi, come se si fosse resa conto che qualcosa in Frank era cambiato – qualcosa di molto più importante della crescita fisica. Anche Frank lo sapeva. Non sarebbe stato mai più lo stesso. Solo che non sapeva se fosse una buona cosa. “Bé,” disse Nico, spezzando la tensione, “qualcuno di voi sa che aspetto abbia l’orzo?” XXI ANNABETH Annabeth aveva deciso che non sarebbero stati i mostri a ucciderla. Né lo avrebbe fatto l’atmosfera velenosa, o il pericoloso paesaggio con i suoi abissi, precipizi e rocce acuminate. No. Molto più probabilmente sarebbe morta da un sovraccarico di stranezze che le avrebbero fatto esplodere la testa. Prima, lei e Percy avevano dovuto bere del fuoco per sopravvivere. Poi erano stati attaccati da un gruppo di vampiri, guidate da una cheerleader che Annabeth aveva ucciso due anni prima. Alla fine, erano stati salvati da un Titano bidello di nome Bob che aveva dei capelli alla Einstein, occhi argentati, e una scopa mortale. Certo. Perché no? Seguirono Bob attraverso la terra desolata, procedendo lungo il percorso del Flegetonte mentre si avvicinavano al banco di oscurità. Ogni tanto si fermavano per bere l’acqua di fuoco, che li teneva in vita ma Annabeth non ne era molto contenta. In gola aveva la sensazione di fare continui gargarismi con l’acido di batteria. Il suo unico conforto era Percy. Di tanto in tanto la guardava e sorrideva, o le stringeva la mano. Doveva essere spaventato e abbattuto proprio come lo era lei, e lei lo amava per il fatto che cercasse di farla sentire meglio. “Bob sa quello che sta facendo,” assicurò Percy. “Hai degli amici interessanti,” mormorò Annabeth. “Bob è interessante!” Il Titano si voltò e fece un grosso sorriso. “Sì, grazie!” Il ragazzone aveva delle buone orecchie. Annabeth doveva ricordarselo. “Allora, Bob…” Cercò di suonare indifferente e amichevole, che non era cosa facile con la gola irritata dall’acqua di fuoco. “Come sei arrivato nel Tartaro?” “Sono saltato,” disse, come se fosse ovvio. “Sei saltato nel Tartaro,” disse lei, “perché Percy ha detto il tuo nome?” “Aveva bisogno di me.” Quegli occhi d’argento brillavano nell’oscurità. “Va tutto bene. Ero stanco di pulire il palazzo. Venite! Siamo quasi arrivati in un’area di sosta.” Area di sosta. Annabeth non riusciva a immaginare cosa volessero dire quelle parole nel Tartaro. Ricordava tutte le volte in cui lei, Luke e Talia si erano affidati alle aree di sosta delle autostrade quando erano semidei senza casa, cercando di sopravvivere. Ovunque li stesse portando Bob, sperava che ci fossero bagni puliti e una macchinetta delle merendine. Soffocò una risatina. Sì, stava senza dubbio perdendo la testa. Annabeth avanzò zoppicando, cercando di ignorare il brontolio nella pancia. Fissò la schiena di Bob mentre lui li guidava verso la parete di oscurità, che adesso si trovava solo a poche centinaia di metri. La sua tuta blu da bidello era strappata tra le scapole, come se qualcuno avesse cercato di pugnalarlo. Stracci per pulire gli uscivano dalle tasche. Una bottiglietta spray oscillava legata alla sua cintura, con il liquido blu al suo interno che si agitava in maniera ipnotica. Annabeth ricordò la storia di Percy su come aveva incontrato il Titano. Talia Grace, Nico di Angelo e Percy avevano combattuto insieme per sconfiggere Bob sulle rive del Lete. Dopo aver ripulito la sua memoria, non avevano avuto il coraggio di ucciderlo. Era diventato così gentile, dolce e collaborativo che lo avevano lasciato al palazzo di Ade, dove Persefone aveva promesso loro che si sarebbero presi cura di lui. Apparentemente, il re e la regina dell’Oltretomba pensavano che “prendersi cura” di qualcuno volesse dire dargli una scopa e fargli ripulire i loro pasticci. Annabeth si chiese come persino Ade potesse essere così insensibile. Non si era mai sentita dispiaciuta per un Titano prima d’ora, ma non sembrava giusto prendere un immortale senza memoria e trasformarlo in un custode non pagato. Non è tuo amico, ricordò a se stesa. Era terrorizzata all’idea che Bob potesse improvvisamente ricordarsi di sé. Il Tartaro era dove andavano i mostri per rigenerarsi. E se questo li guariva la memoria? Se tornava ad essere Giapeto… bè aveva visto cosa aveva fatto a quelle empousai. Annabeth non aveva nessuna arma. Lei e Percy non erano nelle condizioni di combattere un Titano. Guardò nervosamente il manico della scopa di Bob, chiedendosi quanto tempo ci sarebbe voluto prima che la sua punta di lancia nascosta venisse puntata contro di lei. Seguire Bob attraverso il Tartaro era un rischio assurdo. Sfortunatamente, non riusciva a pensare a nessun piano migliore. Si fecero strada attraverso il deserto di cenere mentre dei lampi rossi brillavano sopra di loro tra le nuvole nocive. Solo un altro delizioso giorno nelle segrete della creazione. Annabeth non riusciva a vedere molto in là nell’aria nebbiosa, ma più camminavano, più era certa che l’intero paesaggio fosse una curva che procedeva in discesa. Aveva sentito delle descrizioni contrastanti sul Tartaro. Era un abisso senza fine. Era una fortezza circondata da muri d’ottone. Non era nient’altro che un nulla eterno. Una storia lo descriveva come l’inverso del cielo – un enorme, vuota cupola capovolta fatta di roccia. Quella sembrava la più accurata, sebbene, se il Tartaro era una cupola, Annabeth pensava che fosse come il cielo – senza una vera fine ma fatto di multipli livelli, ciascuno più scuro e meno ospitabile di quello precedente. E persino quella non era la completa, orribile verità…. Passarono accanto a una bolla nel terreno – una traslucida vescica che si agitava grande come un minivan. Avvolto all’interno c’era il corpo per metà formato di un dragone. Bob impalò la bolla con la sua lancia senza nemmeno pensarci. Questa scoppiò in un geyser di fumante sostanza gialla, e il dragone si dissolse nel nulla. Bob riprese a camminare. I mostri sono dei foruncoli sulla pelle del Tartaro, pensò Annabeth. Tremò. Qualche volta desiderava non avere un’immaginazione così buona, perché adesso era certa che stavano camminando su una cosa viva. Tutto quel paesaggio contorto – la cupola, l’abisso, o comunque lo si volesse chiamare – era il corpo del dio Tartaro – la più antica incarnazione del male. Proprio come Gea abitava la superficie della terra, Tataro abitava l’abisso. Se quel dio li notava camminare sulla sua pelle, come mosche su un cane… Basta così. Non doveva più pensare. “Qui,” disse Bob. Si fermarono sulla sommità di una cresta. Sotto di loro, in una depressione avvallata simile a un cratere lunare, c’era un anello di colonne di marmo nero distrutte che circondavano uno scuro altare di pietra. “Il tempio di Hermes,” spiegò Bob. Percy si accigliò. “Un tempio di Hermes nel Tartaro?” Bob rise di gusto. “Sì. Cadde da qualche parte molto tempo fa. Forse dal mondo mortale. Forse dall’Olimpo. Ad ogni modo, i mostri ne stanno alla larga. Il più delle volte.” “Come facevi a sapere che era qui?” chiese Annabeth. Il sorriso di Bob svanì. Gli apparve uno sguardo vago negli occhi. “Non riesco a ricordare.” “Non fa niente,” disse Percy velocemente. Annabeth voleva prendersi a calci. Prima che Bob fosse Bob, era stato Giapeto il Titano. Come tutti i suoi fratelli, era stato imprigionato nel Tartaro per secoli. Era ovvio che conoscesse il posto. Se si ricordava del tempio, avrebbe potuto iniziare a ricordare altri dettagli della sua vecchia prigione e della sua vecchia vita. Quella non sarebbe stata una buona cosa. Raggiunsero il cratere ed entrarono nell’anello di colonne. Annabeth crollò su una lastra spezzata di marmo, troppo esausta per fare un altro passo. Percy rimase in piedi accanto a lei con fare protettivo, studiando il paesaggio circostante. Il banco di tempesta color inchiostro adesso si trovava a meno di trenta metri, oscurando tutto quello che avevano davanti. Il bordo del cratere bloccava alla loro vista quello che avevano alle spalle. Sarebbero stati ben nascosti là, ma se i mostri li avessero trovati, loro non avrebbero potuto accorgersene in anticipo. “Hai detto che qualcuno ci stava inseguendo,” disse Annabeth. “Chi?” Bob passò la sua scopa intorno alla base dell’altare, chinandosi occasionalmente per studiare il terreno come se stesse cercando qualcosa. “Ci stanno seguendo, sì. Sanno che siete qui. Giganti e Titani. Quelli sconfitti. Loro sanno.” Quelli sconfitti… Annabeth cercò di controllate la sua paura. Quanti Titani e giganti avevano combattuto lei e Percy nel corso degli anni? Ognuno era sembrato una sfida impossibile. Se tutti loro si trovavano laggiù nel Tartaro, e se stavano attivamente dando la caccia a Percy e Annabeth… “Perché ci fermiamo allora?” disse lei. “Dovremmo continuare a camminare.” “Presto,” disse Bob. “Ma i mortali hanno bisogno di riposo. Qui è un buon posto. Il miglio posto per… oh, molta, molta strada. Farò io la guardia.” Annabeth guardò Percy, mandandogli il muto messaggio: Uh, no. Era già abbastanza brutto andare in giro con un Titano. Dormire mentre un Titano faceva la guardia su di te… non aveva bisogno di essere una figlia di Atena per sapere che era al cento per cento non saggio. “Tu dormi,” le disse Percy. “Io farò il primo turno di guardia con Bob.” Bob ruggì d’accordo. “Sì, bene. Quando ti sveglierai, il cibo dovrebbe essere qui!” Lo stomaco di Annabeth fece una capriola sentendo parlare di cibo. Non vedeva come Bob potesse evocare del cibo nel bel mezzo del Tartaro. Forse oltre ad essere un custode era anche un addetto al catering. Non voleva dormire, ma il suo corpo la tradì. I suoi occhi si fecero di piombo. “Percy, svegliami per il secondo turno. Non fare l’eroe.” Lui le rivolse quel sorriso furbo che lei era arrivata ad amare. “Chi, io?” La baciò, con le labbra secche e febbrilmente calde. “Dormi.” Annabeth si sentiva come se si trovasse di nuovo nella cabina di Hypnos al Campo Mezzosangue, sopraffatta dalla sonnolenza. Si rannicchiò sul terreno duro e chiuse gli occhi. XXII ANNABETH In seguito, Annabeth prese una decisione: mai, MAI dormire nel Tartaro. I sogni dei semidei erano sempre brutti. Anche al sicuro nel suo letto del campo, aveva fatto degli incubi orribili. Nel Tartaro, erano un migliaio di volte più vividi. All’inizio, era tornata ad essere una bambina piccola che lottava per salire sulla Collina Mezzosangue. Luke Castellan le teneva la mano, tirandola dietro di lui. Il loro satiro guida, Grover Underwood, saltellava nervosamente sulla cima urlando, “Sbrigatevi! Sbrigatevi!” Talia Grace si trovava dietro di loro, intenta a trattenere un esercito di segugi infernali con il suo scudo che emanava terrore, Aegis. Dalla cima della collina Annabeth poteva vedere il campo nella valle sotto di loro – le calde luci delle cabine, la possibilità di un luogo sicuro. Inciampò, storcendosi la caviglia, e Luke la prese in braccio per trasportarla. Quando si guardarono indietro, i mostri si trovavano a soli pochi metri di distanza – e diverse dozzine di loro stavano circondando Talia. “Andate!” gridò Talia. “Li tratterrò io.” Brandì la sua lancia, e delle saette ramificate si diffusero attraverso i ranghi dei mostri; ma mentre i segugi infernali cadevano, altri prendevano il loro posto. “Dobbiamo correre!” gridò Grover. Fece loro strada verso il campo. Luke lo seguì, con Annabeth che piangeva, battendogli sul petto, e urlando che non potevano lasciare Talia da sola. Ma era troppo tardi. La scena mutò. Annabeth era più grande, e stava salendo verso la cima della Collina Mezzosangue. Nel punto in cui Talia era caduta, adesso sorgeva un alto pino. Nel cielo stava rombando una tempesta. I tuoni scuotevano la vallata. Un lampo spaccò l’albero fino alle sue radici, aprendo una crepa fumante. Nell’oscurità in basso si trovava Reyna, il pretore di Nuova Roma. Il suo mantello era del colore del sangue fresco che scorre nelle vene. La sua armatura dorata luccicava. Alzò lo sguardo, il volto regale e distante, e parlò nella mente di Annabeth. Hai agito bene, disse Reyna, ma la voce era quella di Atena. Il resto del mio viaggio deve avvenire sulle ali di Roma. Gli scuri occhi del pretore divennero grigi come la tempesta. Devo stare qui, le disse Reyna. Devono portarmi i romani. La collina tremò. Il terreno si increspò mentre l’erba si trasformava nelle pieghe di seta di un vestito – quello di una dea gigantesca. Gea si alzò incombendo sul Campo Mezzosangue – il suo volto addormentato era grande come una montagna. I segugi infernali si riversarono dalla collina. Giganti, Figli della Terra dalle sei braccia, e Ciclopi selvaggi attaccarono dalla spiaggia, abbattendo il padiglione della cena, dando fuoco alle cabine e alla Casa Grande. Sbrigati, disse la voce di Atena. Il messaggio deve essere inviato. Il terreno sotto i piedi di Annabeth si spaccò, e lei cadde nell’oscurità. I suoi occhi si aprirono di scattò. Urlò, afferrando le braccia di Percy. Si trovava ancora nel Tartaro, al tempio di Hermes. “Va tutto bene,” la rassicurò Percy. “Brutti sogni?” Il suo corpo tremò dal terrore. “E’ – è il mio turno di guardia?” “No, no. Non c’è bisogno. Ti ho lasciata dormire.” “Percy!” “Hey, va bene così. Inoltre, ero troppo emozionato per dormire. Guarda.” Bob il Titano era seduto a gambe incrociate accanto all’altare, intento a sgranocchiare felice un pezzo di pizza. Annabeth si stropicciò gli occhi, chiedendosi se stesse ancora sognando. “Quella è… pizza con il salame?” “Offerte del falò,” disse Percy. “Sacrifici per Hermes dal mondo mortale, credo. Sono apparse con una nuvola di fumo. Abbiamo metà hot dog, un po’ di uva, un piatto di roastbeef, e un pacchetto di M&M’s.” “M&M’s per Bob!” disse Bob contento. “Uh, va bene?” Annabeth non protestò. Percy le portò il piatto di roastbeef, e lei lo divorò. Non aveva mai mangiato nulla di così buono. La carne era ancora calda, con la stessa identica salsa piccante del barbecue del Campo Mezzosangue. “Lo so,” disse Percy, leggendo la sua espressione. “Credo che venga dal Campo Mezzosangue.” L’idea diede ad Annabeth le vertigini per la malinconia. Con ogni pasto, i campeggiatori bruciavano una porzione del loro cibo per onorare i loro genitori divini. Apparentemente il fumo era apprezzato dagli dei, ma Annabeth non aveva mai pensato a dove andasse a finire il cibo che veniva bruciato. Forse le offerte ricomparivano sugli altari degli dei sull’Olimpo… o persino lì, nel bel mezzo del Tartaro. “M&M’s agli arachidi,” disse Annabeth. “Connor Stoll ne brucia sempre un pacco per suo padre a cena.” Pensò di essere seduta nel padiglione della cena, guardando il tramonto sul Long Island Sound. Quello era stato il primo posto dove lei e Percy si erano veramente baciati. Le pungevano gli occhi Percy le mise la mano sulla spalla. “Hey, è una cosa bella. Del vero cibo da casa, no?” Lei annuì. Finirono di mangiare in silenzio. Bob masticò gli ultimi M&M’s. “Adesso dovremmo andare. Saranno qui tra pochi minuti.” “Tra pochi minuti?” Annabeth fece per prendere il suo pugnale, poi si ricordo che non l’aveva più. “Sì… bè, credo che siano minuti…” Bob si grattò la testa argentata. “Il tempo è difficile nel Tartaro. Non è lo stesso.” Percy si avvicinò al bordo del cratere. Sbirciò nella direzione dalla quale erano venuti. “Non vedo nulla, ma questo non significa molto. Bob, di quali giganti stiamo parlando? Quali Titani?” Bob grugnì. “Non sono certo dei nomi. Sei, forse sette. Riesco ad avvertirli.” “Sei o sette?” Annabeth non era sicura che la carne sarebbe rimasta nel suo stomaco. “E loro possono avvertire te?” “Non so.” Bob sorrise. “Bob è diverso! Ma possono sentire l’odore dei semidei, sì. Voi due avete un odore molto forte. Un buon forte. Come… hmm. Come pane imburrato!” “Pane imburrato,” disse Annabeth. “Bè, è fantastico.” Percy tornò all’altare. “E’ possibile uccidere un gigante nel Tartaro? Voglio dire, dal momento che non abbiamo un dio che ci aiuta?” Guardò Annabeth come se lei potesse avere la risposta. “Percy, non lo so. Viaggiare nel Tartaro, combattere i mostri qui… non è mai stato fatto prima. Forse Bob potrebbe aiutarci ad uccidere un gigante? Forse un Titano potrebbe contare come dio? Non lo so proprio.” “Già,” disse Percy. “Okay.” Poteva vedere la preoccupazione nei suoi occhi. Per anni, lui era dipeso da lei per le risposte. Adesso, quando aveva più bisogno di lei, non poteva aiutarlo. Detestava essere così ignara, ma nulla di tutto quello che aveva mai imparato al campo l’aveva preparata per il Tartaro. C’era solo una cosa della quale era certa: dovevano continuare a muoversi. Non potevano essere raggiunti da sei o sette immortali malvagi. Si alzò, ancora disorientata a causa dei suoi incubi. Bob iniziò a ripulire, raccogliendo la loro spazzatura in una piccola pila, usando il suo spruzzino per lavare l’altare. “Adesso dove si va?” chiese Annabeth. Percy indicò il tempestoso muro di oscurità. “Bob dice da quella parte. A quanto pare le Porte della Morte –“ “Glielo hai detto?” Annabeth non voleva suonare così dura, ma Percy sussultò. “Mentre dormivi,” ammise. “Annabeth, Bob ci può aiutare. Abbiamo bisogno di una guida.” “Bob aiuta!” concordò Bob. “Nelle Terre Oscure. Le Porte della Morte… hmm, andare dritti verso di loro sarebbe una brutta cosa. Troppi mostri si sono riuniti là. Persino Bob non potrebbe spazzarne via così tanti. Ucciderebbero Percy e Annabeth in circa due secondi.” Il Titano si accigliò. “Credo che siano secondi. Il tempo è difficile nel Tartaro.” “Va bene,” brontolò Annabeth. “Allora c’è un’altra strada?” “Nascondendoci,” disse Bob. “La Foschia di Morte potrebbe nascondervi.” “Oh…” Improvvisamente Annabeth si sentì molto piccola nell’ombra del Titano. “Uh, cos’è la Foschia di Morte?” “E’ pericoloso,” disse Bob, “Ma se la signora vi darà la Foschia di Morte, questa potrebbe nascondervi. Se riusciamo a evitare Notte. La signora è molto vicina a Notte. E’ brutto.” “La signora,” ripeté Percy. “Sì.” Bob indicò il buio inchiostro davanti a loro. “Dovremmo andare.” Percy guardò Annabeth, ovviamente sperando in qualche consiglio, ma lei non ne aveva nessuno. Stava pensando al suo incubo – il pino di Talia ridotto in schegge dai lampi, Gea che sorgeva sulla collina e sguinzagliava i suoi mostri sul Campo Mezzosangue. “Okay, allora,” disse Percy. “Immagino che andremo a trovare una signora per un po’ di Foschia di Morte.” “Aspetta,” disse Annabeth. La sua mente stava fremendo. Pensò al sogno di Luke e Talia. Richiamò alla mente le storie che Luke le aveva raccontato su suo padre, Hermes – dio dei viaggiatori, guida agli spiriti dei morti, dio delle comunicazioni. Fissò l’altare nero. “Annabeth?” Percy suonava preoccupato. Arrivò fino alla pila di spazzatura e prese un tovagliolo di carta abbastanza pulito. Ricordò della sua visione di Reyna, in piedi nell’apertura fumante sotto le rovine dell’albero di Talia, che le parlava attraverso la voce di Atena: Devo stare qui. Devono portarmi i romani. Sbrigati. Il messaggio deve essere inviato. “Bob,” disse lei, “le offerte che vengono bruciate nel mondo mortale compaiono su questo altare, giusto?” Bob si accigliò a disagio, come se non fosse pronto per un quiz a sorpresa. “Sì?” “Allora cosa succede se brucio qualcosa sull’altare qui?” “Uh…” “Va tutto bene,” disse Annabeth. “Non lo sai. Nessuno lo sa, perché non è mai stato fatto.” C’era una possibilità, pensò, solo la più piccola delle possibilità che un’offerta bruciata su quell’altare potesse comparire al Campo Mezzosangue. Non era certo, ma se funzionava davvero… “Annabeth?” disse Percy di nuovo. “Stai pianificando qualcosa. Hai quell’espressione da sto-pianificando-qualcosa.” “Non ho un’espressione da sto-pianificando-qualcosa.” “Sì, ce l’hai. Inarchi le sopracciglia e stringi le labbra e –“ “Hai una penna?” gli chiese. “Stai scherzando, vero?” Tirò fuori Vortice. “Sì, ma ci puoi davvero scrivere?” “Non – non lo so,” ammise lui. “Non ci ho mai provato.” Tolse il tappo alla penna. Come sempre, questa si espanse fino a diventare una spada. Annabeth lo aveva visto fare centinaia di volte. Normalmente, quando combatteva, Percy si limitava a gettare via il tappo. Più tardi gli ricompariva sempre in tasca, quando ne aveva bisogno. Quando toccava la punta della spada con il tappo, l’arma si ritrasformava in una penna. “Che succede se metti il tappo sull’altra estremità della spada?” disse Annabeth. “Mettendolo dove metteresti normalmente il tappo se dovessi davvero scrivere con la penna.” “Uh…” Percy sembrava dubbioso, ma toccò l’elsa della spada con il tappo. Vortice rimpicciolì nuovamente tornando a essere una penna, ma adesso la punta per scrivere era esposta. “Posso?” Annabeth la prese. Appiattì il tovagliolo sull’altare e iniziò a scrivere. L’inchiostro di Vortice brillò del colore del bronzo Celeste. “Cosa stai facendo?” chiese Percy. “Invio un messaggio,” disse Annabeth. “Spero solo che Rachel lo riceva.” “Rachel?” chiese Percy. “Intendi la nostra Rachel? Rachel Oracolo di Delfi?” “Quella.” Annabeth soffocò un sorriso. Ogni volta che nominava Rachel, Percy diventava nervoso. Un tempo, Rachel aveva avuto un interesse per Percy. Quella era storia antica. Adesso lei e Annabeth erano buone amiche. Ma ad Annabeth non dispiaceva rendere Percy un po’ nervoso. Era giusto tenere un po’ sulle spine il proprio ragazzo. Annabeth finì di scrivere il suo messaggio e ripiegò il tovagliolo. Sulla parte esterna, scrisse: Connor, Dallo a Rachel. Non è uno scherzo. Non fare lo stupido. Con affetto, Annabeth Fece un respiro profondo. Stava chiedendo a Rachel Dare di fare qualcosa di ridicolamente pericoloso, ma era l’unico modo al quale riusciva a pensare per poter comunicare con i romani – l’unico modo che avrebbe potuto evitare un massacro. “Adesso devo solo bruciarlo,” disse. “Qualcuno ha un fiammifero?” La punta della lancia di Bob spuntò dal manico della sua scopa. Produsse delle scintille contro l’altare ed eruttò con fiamme argentee. “Uh, grazie.” Annabeth accese il tovagliolo e lo mise sull’altare. Guardò mentre questo si riduceva in cenere e si chiese se fosse pazza. Il fumo sarebbe davvero riuscito ad attraversare il Tartaro? “Adesso dovremmo andare,” avvertì Bob. “Davvero, davvero andare. Prima di essere uccisi.” Annabeth fissò la parete di oscurità davanti a loro. Da qualche parte là dentro c’era una signora che distribuiva una Foschia di Morte che avrebbe potuto celarli ai mostri – un piano raccomandato da un Titano, uno dei loro nemici più malvagi. Un’altra dose di stranezza per farle esplodere la testa. “Va bene,” disse. “Sono pronta.” XXIII ANNABETH Annabeth andò letteralmente a sbattere contro il secondo Titano. Dopo essere entrati nel banco di tempesta, arrancarono per quelle che sembrarono ore, facendo affidamento sulla luce del bronzo Celeste della spada di Percy, e su Bob, che brillava debolmente nel buio come uno strano tipo di angelo custode. Annabeth riusciva a vedere solo a un metro e mezzo davanti a lei. In uno strano modo, le Terre Oscure le ricordavano di San Francisco, dove viveva suo padre – durante quei pomeriggi estivi quando i banchi di nebbia avanzavano rotolando come fossero fatti di freddo e umido materiale da imballaggio e inghiottivano il quartiere del Pacific Heights. Solo che là nel Tartaro, la foschia era fatta di inchiostro. Le rocce sbucavano dal nulla. Gli abissi comparivano ai loro piedi, e Annabeth riusciva a malapena a non cadere. Ruggiti mostruosi riecheggiavano nel buio, ma Annabeth non riusciva a dire da dove venissero. Tutto quello di cui poteva essere certa era che il terreno andava ancora in discesa. In discesa sembrava essere l’unica direzione permessa nel Tartaro. Se Annabeth tornava indietro anche di un solo passo, si sentiva stanca e pensate, come se la gravità aumentasse per scoraggiarla. Assumendo che l’intero abisso fosse il corpo di Tartaro, Annabeth aveva l’orribile sensazione che stessero marciando dritti lungo la sua gola. Era così presa da quel pensiero, che non notò la sporgenza finché non fu troppo tardi. Percy gridò, “Whoa!” Cercò di afferrarle il braccio, ma lei stava già cadendo. Fortunatamente, si trattava solo di una piccola depressione del terreno. La maggior parte di essa era occupata da una bolla di mostro. Fece un atterraggio morbido su una superficie calda sulla quale rimbalzò e si sentì fortunata – finché non aprì gli occhi e si ritrovò a fissare, attraverso una brillante membrana dorata, un volto molto più grande del suo. Gridò e si dibatté, cadendo a un lato della bolla. Il suo cuore fece un centinaio di salti. Percy l’aiuto ad alzarsi. “Stai bene?” Non si fidava a rispondere. Se apriva la bocca, avrebbe potuto urlare di nuovo, e la cosa non sarebbe stata dignitosa. Era una figlia di Atena, non la ragazzina urlante di qualche film horror. Ma, dei dell’Olimpo… avvolto nella bolla di membrana davanti a lei c’era un Titano completamente formato con l’armatura dorata e la pelle del colore di monetine lucidate. Aveva gli occhi chiusi, ma era così accigliato che sembrava essere in procinto di lanciare un raccapricciante grido di guerra. Persino attraverso la bolla, Annabeth poteva avvertire il calore che si irradiava dal suo corpo. “Iperione,” disse Percy. “Lo detesto.” Improvvisamente la spalla di Annabeth le cominciò a far male in ricordo di una vecchia ferita. Durante la Battaglia di Manhattan, Percy aveva combattuto alla Riserva contro questo Titano – acqua contro fuoco. Era stata la prima volta nella quale Percy aveva invocato un uragano – che era una cosa che Annabeth non si sarebbe mai dimenticata. “Pensavo che Grover l’avesse trasformato in un albero di acero.” “Sì,” annuì Percy. “Forse l’acero è morto, e lui è riapparso qui?” Annabeth ricordò di come Iperione aveva invocato potenti esplosioni, e quanti satiri e ninfe aveva distrutto prima che Percy e Grover lo fermassero. Stava per suggerire di far scoppiare la bolla di Iperione prima che si svegliasse. Sembrava pronto a uscirne in qualsiasi momento e iniziare ad arrostire qualsiasi cosa sul suo cammino. Poi guardò verso Bob. Il Titano argentato stava studiando Iperione con le sopracciglia corrucciate dalla concentrazione – forse per riconoscimento. I loro volti si assomigliavano così tanto…. Annabeth si rimangiò un’imprecazione. Certo che si assomigliavano. Iperione era suo fratello. Iperione era il signore Titano dell’est. Giapeto, Bob, era il signore dell’ovest. Togliendo la scopa di Bob e i suoi vestiti da custode, mettendolo in un armatura e tagliandoli i capelli, cambiando il tono della pelle da argento a oro, ecco che Giapeto sarebbe diventato quasi indistinguibile da Iperione. “Bob,” disse lei, “dovremmo andare.” “Oro, non argento,” mormorò Bob. “Ma mi assomiglia.” “Bob,” disse Percy. “Hey, amico, vieni qui.” Il Titano si voltò con riluttanza. “Sono tuo amico?” chiese Percy. “Sì.” Bob suonava pericolosamente incerto. “Noi siamo amici.” “Tu sai che ci sono alcuni mostri che sono buoni,” disse Percy. “E altri che sono cattivi.” “Hmm,” disse Bob. “Come… le belle signore fantasma che servono Persefone sono buone. Gli zombie che esplodono sono cattivi.” “Esatto,” disse Percy. “E alcuni mortali sono buoni, e altri cattivi. Bè, la stessa cosa vale per i Titani.” “Titani…” Bob incombeva su di loro, brillando. Annabeth era piuttosto sicura che il suo ragazzo avesse appena commesso un grosso errore. “E’ quello che sei,” disse Percy con tono calmo. “Il Titano Bob. Tu sei buono. Infatti, sei fantastico. Ma alcuni Titani non lo sono. Questo qui, Iperione, è completamente cattivo. Ha cercato di uccidermi… ha cercato di uccidere un sacco di persone.” Bob sbatté i suoi occhi argentati. “Ma sembra… la sua faccia è così –“ “Assomiglia a te,” concordò Percy. “Lui è un Titano, come te. Ma non è buono come lo sei tu.” “Bob è buono.” Le sue dita si strinsero attorno al manico della sua scopa. “Sì. Ce n’è sempre almeno uno buono – mostri, Titani, giganti.” “Uh…” Percy storse la bocca. “Bè, non sono certo per quanto riguarda i giganti.” “Oh, sì.” Bob annuì con vigore. Annabeth avvertiva che erano già rimasti in quel posto troppo a lungo. I loro inseguitori si sarebbero avvicinati. “Dovremmo andare,” li incitò. “Che facciamo con…?” “Bob,” disse Percy, “la scelta è tua. Iperione fa parte della tua razza. Potremmo lasciarlo stare, ma se si sveglia –“ La lancia-scopa di Bob entrò in azione. Se avesse mirato ad Annabeth o Percy, sarebbero stati affettai a metà. Invece, Bob affettò la bolla mostruosa, che scoppiò in un geyser di calda fanghiglia dorata. Annabeth si ripulì la sostanza di Titano dagli occhi. Al posto di Iperione, non c’era nulla eccetto un cratere fumante. “Iperione è un Titano cattivo,” annunciò Bob, con espressione seria. “Adesso non potrà più far del male ai miei amici. Dovrà riformarsi da qualche altra parte nel Tartaro. Speriamo che ci metterà parecchio tempo.” Gli occhi del Titano apparivano più brillanti del solito, come se stesse per piangere argento vivo. “Grazie, Bob,” disse Percy. Come riusciva a rimanere così controllato? Il modo in cui parlava a Bob lasciava Annabeth impressionata… e forse anche un po’ nervosa. Se Percy era stato serio, quando aveva detto di lasciare la scelta a Bob, allora non le piaceva tutta la fiducia che riponeva nel Titano. Se aveva manipolato Bob per fargli prendere quella decisione… bè, allora Annabeth era sconvolta dal fatto che Percy potesse essere così calcolatore. Lui incrociò il suo sguardo, ma lei non riuscì a leggere la sua espressione. Anche quello la fece innervosire. “Faremo meglio a riprendere,” disse lui. Lei e Percy seguirono Bob, con le macchie di fango dorato proveniente dall’esplosione della bolla di Iperione che brillavano sulla sua divisa da custode. XXIV ANNABETH Dopo un po’, i piedi di Annabeth divennero simili al fango di Titano. Continuò a camminare, seguendo Bob, ascoltando il monotono sciabordio del liquido nella sua bottiglia spray. Rimani in guardia, si disse, ma era difficile. I suoi pensieri erano intorpiditi come le sue gambe. Di tanto in tanto, Percy le prendeva la mano o faceva un commento incoraggiante; ma lei capiva che l’ambiente scuro stava abbattendo anche lui. I suoi occhi avevano una debole lucentezza – come se il suo spirito stesse venendo lentamente estinto. E’ precipitato nel Tartaro per stare con te, disse una voce nella sua testa. Se lui muore, sarà colpa tua. “Basta,” disse ad alta voce. Percy aggrottò le sopracciglia. “Cosa?” “No, non te.” Tentò con un sorriso rassicurante, ma non riusciva a farne uno. “Parlavo da sola. Questo posto…. sta giocando con la mia testa. Mi da dei brutti pensieri.” Le rughe di preoccupazione intorno agli occhi verde-mare di Percy si fecero più profonde. “Hey, Bob, dove siamo diretti esattamente?” “La signora,” disse Bob. “Foschia di Morte. Annabeth soffocò la sua irritazione. “Ma che vuol dire? Chi è questa signora?” “Nominarla?” Bob si guardò indietro. “Non è una buona idea.” Annabeth sospirò. Il Titano aveva ragione. I nomi avevano potere, e pronunciarli lì nel Tartaro era probabilmente davvero pericoloso. “Puoi almeno dirci quanto manca?” chiese. “Non lo so,” ammise Bob. “Posso solo avvertirlo. Aspettiamo finché il buio non si fa più buio. Poi andiamo di lato.” “Di lato,” borbottò Annabeth. “Naturalmente.” Era tentata di chiedere una pausa, ma non voleva fermarsi. Non là in quel freddo luogo scuro. La foschia nera le penetrava nel corpo, trasformandole le ossa in polistirolo bagnato. Si chiese se il suo messaggio sarebbe arrivato a Rachel Dare. Se Rachel sarebbe in qualche modo riuscita a consegnare la sua offerta a Reyna senza essere uccisa nel tentativo… Una speranza ridicola, disse la voce nella sua testa. Hai solo messo Rachel in pericolo. Anche se trova i romani, perché Reyna dovrebbe fidarti di te dopo tutto quello che è accaduto? Annabeth era tentata di urlare di rimando alla voce, ma resistette. Anche se stava impazzendo, non volevasembrare come una che stava impazzendo. Aveva disperatamente bisogno di qualcosa che le sollevasse il morale. Una sorsata di acqua vera. Un attimo di luce. Un letto caldo. Una parola gentile da parte di sua madre. Improvvisamente Bob si fermò. Alzò la mano: Aspettate. “Cosa?” sussurrò Percy. “Shh,” avvertì Bob. “Davanti a noi. Si muove qualcosa.” Annabeth forzò il suo udito. Da qualche parte nella nebbia veniva un ronzio profondo, come il motore di una grossa macchina da costruzione a riposo. Poteva avvertire le vibrazioni attraverso le sue scarpe. “Lo circonderemo,” sussurrò Bob. “Tutti e due, prendete un fianco.” Per la milionesima volta, Annabeth desiderò avere con sé il suo pugnale. Sollevò un pezzo frastagliato di ossidiana e scivolò sulla sinistra. Percy andò a destra, con la spada pronta. Bob prese il centro, con la lancia che brillava nella nebbia. Il ronzio si fece più forte, facendo tremare il terreno ai piedi di Annabeth. Il rumore sembrava provenire dritto davanti a loro. “Pronti?” mormorò Bob. Annabeth si chinò, preparandosi a saltare. “Al tre?” “Uno,” sussurrò Percy. “Due –“ Una sagoma apparve dalla nebbia. Bob sollevò la sua lancia. “Aspetta!” gridò Annabeth. Bob si bloccò appena in tempo, con la punta della lancia librata a due centimetri di distanza sopra la testa di un minuscolo gatto a macchie. “Rrow?” disse il gattino, chiaramente non impressionato dal loro piano d’attacco. Sbatté la testa contro il piede di Bob e fece le fusa rumorosamente. Sembrava impossibile, ma il profondo ronzio che avevano sentito veniva dal gatto. Mentre faceva le fusa, il terreno tremò e i sassi saltellarono. Il gattino fissò i suoi occhi gialli, simili a lampade, su una roccia in particolare, proprio tra i piedi di Annabeth e saltò. Il gatto poteva essere un demone o un orribile mostro dell’Oltretomba camuffato. Ma Annabeth non poté trattenersi. Lo prese da terra e lo cullò tra le braccia. La piccola creatura era ossuta sotto la pelliccia, ma a parte quello sembrava perfettamente normale. “Come…?” Non riusciva nemmeno a formulare la domanda. “Cosa ci fa un gatto…?” Il gattino si fece impaziente e si divincolò dalle sue braccia. Atterrò con un tonfo attutito, si diresse verso Bob, e ricominciò a fare le fusa mentre strofinava la testa contro i suoi stivali. Percy rise. “Piaci a qualcuno, Bob.” “Deve essere un mostro buono.” Bob alzò lo sguardo, nervoso. “Non è così?” Annabeth avvertì un groppo in gola. Vedendo quel Titano enorme e quel minuscolo gattino insieme, improvvisamente si sentì insignificante paragonata alla vastezza del Tartaro. Quel luogo non aveva rispetto per nulla – buona o cattiva, piccola o grande, intelligente o sciocca. Il Tartaro inghiottiva Titani, semidei e gattini indiscriminatamente. Bob si inginocchiò e prese il gatto in braccio. Entrava perfettamente nel palmo della sua mano, ma decise di esplorare. Si arrampicò sul braccio del Titano, si mise comodo sulla sua spalla, e chiuse gli occhi, facendo le fusa come una escavatrice. Improvvisamente la sua pelliccia brillò. Con un lampo, il gattino divenne uno scheletro spettrale, come se fosse passato dietro a una macchina a raggi X. Poi tornò ad essere un gattino normale. Annabeth sbatté le palpebre. “L’hai visto –?” “Sì.” Percy aggrottò le sopracciglia. “Oh, cavoli… Io conosco questo gatto. E’ uno di quelli dello Smithsonian.” Annabeth cercò di dare un senso alle sue parole. Non era mai stata allo Smithsonian con Percy… poi si ricordò di diversi anni prima, quando il Titano Atlante l’aveva catturata. Percy e Talia avevano guidato un’impresa per salvarla. Lungo la strada, avevano visto Atlante far risorgere dei guerrieri scheletro da dei denti di drago nello Smithsonian Museum. Secondo quanto aveva raccontato Percy, il primo tentativo del Titano non era andato a buon fine. Aveva piantato dei denti di tigre dai denti a sciabola per sbaglio, e aveva fatto sorgere un gruppo di gattini scheletro dal terreno. “Questo è uno di loro?” chiese Annabeth. “Come ha fatto ad arrivare qua?” Percy allargò le mani senza risposta. “Atlante aveva detto ai suoi servi di portare via i gatti. Forse li avevano distrutti e loro sono rinati nel Tartaro? Non lo so.” “E’ carino,” disse Bob, mentre il gattino gli annusava l’orecchio. “Ma è sicuro?” chiese Annabeth. Il Titano grattò il mento del gattino. Annabeth non sapeva se fosse una buona idea, portare con loro un gatto che era nato da un dente preistorico; ma ovviamente in quel momento non aveva importanza. Il Titano e il gatto avevano fatto amicizia. “Lo chiamerò Piccolo Bob,” disse Bob. “E’ un mostro buono.” Fine dell’argomento. Il Titano sollevò la sua lancia e continuarono a marciare nell’oscurità. Annabeth camminò come fosse in trance, cercando di non pensare alla pizza. Per mantenersi distratta, guardò Piccolo Bob che saltellava sulle spalle di Bob e faceva le fusa, trasformandosi occasionalmente in un brillante gattino scheletro e poi tornando a essere una palla di pelo a macchie. “Qui,” annunciò Bob. Si fermò così improvvisamente, che Annabeth gli andò quasi a sbattere contro. Bob stava fissando verso la loro sinistra, come se fosse perso nei pensieri. “E’ questo il posto?” chiese Annabeth. “Dove dobbiamo andare di lato?” “Sì,” annuì Bob. “Più buio, poi di lato.” Annabeth non riusciva a dire se fosse davvero più buio, ma l’aria sembrava più fredda e densa, come se fossero entrati in un diverso microclima. Nuovamente il posto le ricordò San Francisco, dove si poteva andare da un quartiere all’altro e la temperatura poteva precipitare di dieci gradi. Si chiese se i Titani avessero costruito il loro palazzo sul Monte Tamalpais perché la Bay Area ricordava loro del Tartaro. Che idea deprimente. Solo i Titani avrebbero visto un luogo così bello come un potenziale avamposto dell’abisso – una casa infernale lontano da casa. Bob girò verso sinistra. Loro lo seguirono. L’aria si fece senza dubbio più fredda. Annabeth si strinse contro Percy per avere calore. Lui le avvolse un braccio intorno alle spalle. Era una bella sensazione essere così vicina a lui, ma lei non riusciva rilassarsi. Erano entrati in una sorta di foresta. Torreggianti alberi neri si alzavano verso l’oscurità, perfettamente circolari e nudi da rami come mostruosi follicoli di peli. Il terreno era liscio e pallido. Con la nostra fortuna, pensò Annabeth, stiamo camminando dritti sull’ascella di Tartaro. Improvvisamente i suoi sensi entrarono in allerta, come se qualcuno l’avesse colpita con un elastico alla base del collo. Posò la mano sul tronco dell’albero più vicino. “Cosa c’è?” Percy sollevò la sua spada. Bob si voltò e guardò indietro, confuso. “Ci fermiamo?” Annabeth alzò la mano per indicare di fare silenzio. Non era certa di cosa l’avesse messa in guardia. Non c’era nulla che sembrava diverso. Poi si rese conto che il tronco dell’albero stava tremando. Si chiese per un attimo se si trattasse delle fusa del gatto; ma Piccolo Bob si era addormentato sulla spalla di Grande Bob. A qualche metro di distanza, un altro albero iniziò a tremare. “Qualcosa si sta muovendo sopra di noi,” sussurrò Annabeth. “Stiamo vicini.” Bob e Percy le si avvicinarono, schiena contro schiena. Annabeth sforzò la vista, cercando di vedere sopra di loro attraverso il buio, ma non si mosse nulla. Aveva quasi deciso che stava solo facendo la paranoica quando il primo mostro precipitò a terra a solo un metro e mezzo da loro. Il primo pensiero di Annabeth fu: Furie. La creatura sembrava quasi esattamente una di loro: una strega raggrinzita con ali da pipistrello, artigli di ottone, e brillanti occhi rossi. Indossava un vestito a brandelli fatto di seta nera, e il suo volto era contorto e feroce, come una nonna demonica dell’umore giusto per uccidere. Bob grugnì mentre un’altra di quelle creature atterrava davanti a lui, e poi un’altra davanti a Percy. In poco tempo una mezza dozzina li stava circondando. Altre sibilavano negli alberi sopra di loro. Non potevano essere Furie, allora. Loro erano solo tre, e quelle streghe alate non avevano delle fruste. Quello non rassicurò Annabeth. Gli artigli dei mostri apparivano parecchio pericolosi. “Cosa siete?” chiese lei. Le arai, sibilò una voce. Le maledizioni! Annabeth cercò di localizzare chi aveva parlato, ma nessuno dei demoni aveva mosso la bocca. I loro occhi apparivano morti; le loro espressioni erano congelate, come quelle di una marionetta. La voce sembrava provenire dall’alto come quella di un narratore esterno in un film, come se una sola mente controllasse tutte le creature. “Cosa – cosa volete?” chiese Annabeth, cercando di mantenere un tono sicuro. La voce ridacchiò con malvagità. Maledirvi, ovviamente! Distruggervi un migliaio di volte nel nome di Madre Notte! “Solo un migliaio di volte?” mormorò Percy. “Oh, bene… Pensavo che fossimo nei guai.” Il cerchio di donne demone si strinse attorno a loro. XXV HAZEL Tutto aveva l’odore del veleno. Due giorni dopo aver lasciato Venezia, Hazel non riusciva ancora a togliersi il profumo di eau di mostri mucca dal naso. Il mal di mare non aiutava. L’Argo II navigava attraverso l’Adriatico, una stupenda distesa scintillante di blu; ma Hazel non riusciva ad apprezzarla grazie al costante dondolio della nave. Sopra coperta, cercava di tenere gli occhi fissi sull’orizzonte – sulle cime bianche che sembravano trovarsi sempre a soli due chilometri verso est. Che paese era quello, la Croazia? Non lo sapeva. Desiderava solo trovarsi di nuovo sulla terra ferma. La cosa che le dava più la nausea era la donnola. La scorsa notte, l’animaletto di Ecate, Gale, era apparso nella sua cabina. Hazel si era svegliata da un incubo, pensando, Cos’è questo odore? Aveva trovato un roditore peloso acciambellato sul suo petto, che la fissava con i suoi lucidi occhietti neri. Non c’era nulla di paragonabile al svegliarsi urlando, scalciandosi via le coperte e ballando per la cabina mentre una donnola ti correva tra i piedi, stridendo e rilasciando aria. I suoi amici si erano precipitati nella sua stanza per vedere se stava bene. Era stato difficile spiegare la donnola. Hazel poteva capire che Leo aveva cercato con tutte le sue forze di non fare battute. La mattina dopo, una volta che l’emozione era scemata, Hazel aveva deciso di fare visita al Coach Hedge, dal momento che lui poteva parlare con gli animali. Aveva trovato la porta della sua cabina socchiusa e aveva sentito il coach all’interno, intento a parlare come se fosse al telefono con qualcuno – solo che non c’erano telefoni a bordo. Forse stava inviando un messaggio-Iride? Hazel aveva sentito dire che i greci li usavano spesso. “Certo, tesoro,” stava dicendo Hedge. “Sì, lo so, piccola. No, è una notizia fantastica, ma –“ La sua voce si spezzò dall’emozione. Hazel si sentì immediatamente una persona orribile per il fatto che stesse origliando. Sarebbe tornata indietro, ma Gale squittì ai suoi piedi. Hazel bussò alla porta del coach. Hedge tirò fuori la testa, imbronciato come al solito, ma aveva gli occhi rossi. “Cosa?” ringhiò. “Um… mi dispiace,” disse Hazel. “Si sente bene?” Il coach fece uno sbuffo e aprì completamente la porta. “Che razza di domanda è questa?” Non c’era nessun altro nella stanza. “Io –“ Hazel cercò di ricordare la ragione per qui era lì. “Mi chiedevo se potesse parlare con la mia donnola.” Gli occhi del coach si strinsero. Abbassò la voce. “Stiamo parlando in codice? C’è un intruso a bordo?” “Bè, in un certo senso.” Gale spuntò da dietro i piedi di Hazel e iniziò a squittire. Il coach sembrava offeso. Squittì di rimando alla donnola. Si calarono in quella che sembrava una discussione molto animata. “Cosa ha detto?” chiese Hazel. “Un sacco di cose maleducate,” brontolò il satiro. “Il succo del discorso: è qui per vedere come va.” “Come va cosa?” Coach Hedge sbatté lo zoccolo a terra. “Come faccio a saperlo? E’ una moffetta! Loro non danno mai delle risposte chiare. Adesso, se vuoi scusarmi, ho delle, uh, cose da…” Le chiuse la porta in faccia. Dopo colazione, Hazel andò alla ringhiera di babordo, cercando di calmare il suo stomaco. Accanto a lei, Gale correva su e giù lungo la balaustra, lasciando aria; ma il forte vento dell’Adriatico aiutava a spazzarla via. Hazel si domandò cosa ci fosse che non andava con il Coach Hedge. Doveva aver usato il messaggio-Iride per parlare con qualcuno, ma se aveva ricevuto delle notizie fantastiche, perché era apparso così devastato? Non l’aveva mai visto così scosso. Sfortunatamente, dubitava che il coach avrebbe chiesto aiuto se ne avesse avuto bisogno. Non era esattamente il tipo che si apriva facilmente. Fissò le cime bianche in lontananza e pensò al motivo per cui Ecate aveva mandato la moffetta Gale. E’ qui per vedere come va. Stava per accadere qualcosa. Hazel sarebbe stata messa alla prova. Non sapeva come avrebbe dovuto imparare la magia senza addestramento. Ecate si aspettava che sconfiggesse qualche maga potentissima – la signora con il vestito dorato, quella che Leo aveva descritto dal suo sogno. Ma come? Hazel aveva trascorso tutto il suo tempo libero cercando di capirlo. Aveva fissato la sua spatha, cercando di farla apparire come un bastone da passeggio. Aveva cercato di evocare una nuvola per nascondere la luna piena. Si era concentrata fino a che non le si era incrociata la vista e non le si erano tappate le orecchie, ma non era accaduto nulla. Non era in grado di manipolare la Foschia. Nelle ultime notti, i suoi sogni erano peggiorati. Si era ritrovata di nuovo nei Campo dell’Asfodelio, vagando senza meta tra i fantasmi. Poi si era trovata nella grotta di Gea in Alaska, dove Hazel e sua madre erano morte mentre il soffitto crollava e la voce della Dea della Terra urlava di rabbia. Si ritrovò sulle scale dell’appartamento di sua madre a New Orleans, faccia a faccia con suo padre, Plutone. Le sue dita fredde le afferravano il braccio. Il tessuto del suo completo di lana nera si contorceva con le anime imprigionate al suo interno. Lui la bloccava con i suoi scuri occhi arrabbiati e diceva: I morti vedono quello che credonovedranno. Così fanno i vivi. E’ questo il segreto. Non le aveva mai detto quella cosa nella realtà. Non aveva idea di cosa volesse dire. L’incubo peggiore assomigliava a un assaggio di futuro. Hazel stava arrancando attraverso uno scuro tunnel mentre la risata di una donna riecheggiava attorno a lei. Controlla questo se ci riesci, figlia di Plutone, la derideva la donna. E come sempre, Hazel sognava le immagini che aveva visto all’incrocio di Ecate: Leo che precipitava dal cielo; Percy e Annabeth a terra privi di sensi, forse morti, davanti a delle scure porte di metallo; e una figura avvolta che incombeva sopra di loro – il gigante Clitio avvolto dalle tenebre. Accanto a lei sulla balaustra, la donnola Gale squittì impaziente. Hazel era tentata di spingere quello stupido roditore in mare. Non riesco nemmeno a controllare i miei stessi sogni, voleva urlare. Come faccio a controllare la Foschia? Era così affranta, che non notò Frank finché non le apparve affianco. “Ti senti meglio?” chiese. Le prese la mano, le sue dita coprivano completamente quelle di lei. Non riusciva a credere a quanto si fosse alzato. Si era trasformato in così tanti animali, che non era certa che un’altra trasformazione l’avrebbe stupita, ma improvvisamente lui era cresciuto adattandosi al suo corpo. Nessuno poteva più chiamarlo grassottello o tenero. Aveva l’aspetto di un giocatore di football, solido e forte, con un nuovo centro di gravità. Le sue spalle si erano allargate. Camminava con più sicurezza. Quello che Frank aveva fatto su quel ponte a Venezia… Hazel era ancora scioccata. Nessuno di loro aveva davvero visto la battaglia, ma nessuno ne dubitava. L’intera postura di Frank era cambiata. Persino Leo aveva smesso di fare battute a suo conto. “Sto – sto bene,” riuscì a dire Hazel. “Tu?” Lui sorrise, con delle rughette che gli apparvero agli angoli degli occhi. “Sono, uh, più alto. A parte quello, sì. Sto bene. Non sono davvero, sai, cambiato dentro…” La sua voce aveva ancora un po’ dei vecchi dubbi e imbarazzi – la voce del suo Frank, che era sempre preoccupato di essere un inadatto e di combinare qualche guaio. Hazel si sentiva sollevata. Le piaceva quella parte di lui. All’inizio, il suo nuovo aspetto l’aveva scioccata. Era stata preoccupata che fosse cambiata anche la sua personalità. Adesso stava iniziando a rilassarsi. Malgrado tutta la sua forza, Frank era rimasto lo stesso ragazzo dolce di sempre. Era ancora vulnerabile. Si fidava ancora di lei con la sua più grande debolezza – il legnetto magico che lei aveva nella tasca del suo giacchetto, accanto al suo cuore. “Lo so, e ne sono felice.” Gli strinse la mano. “Non… non è di te che sono preoccupata.” Frank grugnì. “Come sta Nico?” Lei stava pensando a se stessa, non a Nico, ma seguì lo sguardo di Frank verso la cima dell’albero di trinchetto, dove Nico era appollaiato sulla varea. Nico sosteneva che gli piaceva fare la guardia perché aveva una buona vista. Hazel sapeva che non era quella la ragione. La cima dell’albero era uno dei pochi posti a bordo della nave dove Nico poteva stare da solo. Gli altri gli avevano proposto di usare la cabina di Percy, visto che Percy era… bè, assente. Nico aveva rifiutato duramente. Passava la maggior parte del suo tempo in alto tra le vele e gli alberi, dove non era costretto a parlare con il resto della ciurma. Da quando era stato trasformato in una pianta di mais a Venezia, si era fatto solo più chiuso e scontroso. “Non lo so,” ammise Hazel. “Ne ha passate parecchie. Essere catturato nel Tartaro, essere tenuto prigioniero in quella giara di bronzo, vedere Percy e Annabeth cadere…” “E promettere di guidarci ad Epiro.” Frank annuì. “Ho la sensazione che Nico non si trovi molto a suo agio con gli altri.” Frank si raddrizzò. Indossava una maglietta marrone chiaro con l’immagine di un cavallo e la scritta PALIO DI SIENA. L’aveva comprata solo un paio di giorni prima, ma adesso era troppo piccola. Quando si allungava con le braccia, aveva l’addome esposto. Hazel si rese conto che lo stava fissando. Distolse velocemente lo sguardo, con il volto in fiamme. “Nico è il mio unico parente,” disse. “Non è facile farselo piacere, ma… grazie per essere gentile con lui.” Frank sorrise. “Hey, hai sopportato mia nonna a Vancouver. Tanto per parlare di persone non facili da farsi piacere.” “Adoro tua nonna!” La moffetta Gale corse verso di loro, lasciò del gas, e corse via. “Ugh.” Frank agitò la mano per mandare via l’odore. “Perché quella cosa è qui?” Hazel era quasi grata del fatto che non si trovasse sulla terra ferma. Per come era agitata, probabilmente avrebbe fatto spuntare oro e gemme tutto intorno a lei. “Ecate ha mandato Gale per osservare,” disse. “Osservare cosa?” Hazel cercò di trovare conforto nella presenza di Frank, nella sua nuova aura di sicurezza e forza. “Non lo so,” disse alla fine. “Qualche tipo di test.” Improvvisamente la barca fu lanciata in avanti. XXVI HAZEL Hazel e Frank si scontrarono. Hazel si praticò per errore la manovra di Heimlich sbattendosi l’elsa della spada sulla pancia, e si accasciò sul ponte, gemendo e tossendo con il sapore del veleno di catoblepa in bocca. Attraverso una nebbia di dolore, udì la polena della nave, Festus, il drago di bronzo, che strideva in allarme e sputava fuoco. Confusa, Hazel si chiese se avessero colpito un iceberg – ma nell’Adriatico, in piena estate? La nave dondolò verso babordo con un enorme trambusto, come dei pali del telefono che venivano spezzati a metà. “Gahh!” gridò Leo da qualche parte alle sue spalle. “Sta mangiando i remi!” Cosa? si chiese Hazel. Cercò di alzarsi, ma qualcosa di grande e pensate le stava bloccando le gambe. Si rese conto che si trattava di Frank, che borbottava mentre cercava di districarsi da una pila di cordame. Tutti gli altri stavano correndo per la nave. Jason saltò sopra di loro, con la spada sguainata, e corse verso poppa. Piper si trovava già sul ponte rialzato, sparando cibo dalla sua cornucopia e urlando, “Hey! HEY! Mangia questo, stupida tartaruga!” Tartaruga? Frank aiutò Hazel ad alzarsi. “Stai bene?” “Sì,” mentì Hazel, tenendosi lo stomaco. “Vai!” Frank corse verso le scale, facendosi scivolare lo zaino dalle spalle, che immediatamente divenne un arco con la faretra. Quando raggiunse il timone, aveva già scoccato una freccia e stava preparando la seconda. Leo stava lavorando selvaggiamente ai controlli della nave. “I remi non si ritirano. Mandatela via! Mandatela via!” In alto tra le vele, il volto di Nico era inerte dallo shock. “Per lo Stige – è gigantesca!” gridò. “Babordo! Gira a babordo!” Il Coach Hedge fu l’ultimo a salire sul ponte. Compensò quel ritardo con il suo entusiasmo. Saltò sulle scale, agitando la sua mazza da baseball, e senza esitare corse con passo da capra verso poppa e balzò oltre la ringhiera con un gioioso “Ha- HA!” Hazel si diresse incerta verso il ponte rialzato per unirsi ai suoi amici. La barca tremò. Si spezzarono altri remi, e Leo gridò. “No, no, no! Maledetto, viscido figlio di – !” Hazel raggiunse la poppa e non riuscì a credere a quello che vide. Quando aveva sentito la parola tartaruga, aveva pensato a una tenera piccola creatura grande come un portagioie, arrampicata su una roccia al centro di un laghetto. Quando aveva sentito gigantesca, la sua mente aveva cercato di adattarsi – okay, forse era come le tartarughe delle Galapagos che aveva visto una volta allo zoo, con un guscio abbastanza grande da poter essere cavalcato. Non si era immaginata una creatura grande come un’isola. Quando vide l’enorme cupola scavata da quadrati neri e marroni, la parola tartaruga semplicemente non le diceva nulla. Il suo guscio era più simile a una terra in mezzo al mare – colline di ossa, vallate di perle brillanti, foreste di alghe e muschio marino, fiumi d’acqua salata che gocciolavano tra gli incavi del suo carapace. Sul lato di tribordo della nave, un’altra parte del mostro sorse dall’acqua come un sottomarino. Lari Romani…. quella era la sua testa? I suoi occhi dorati erano grandi come piscine di plastica da giardino, con scure fenditure nere laterali come pupille. La sua pelle luccicava come materiale mimetico bagnato – marrone chiazzato di verde e giallo. La sua bocca rossa priva di denti avrebbe potuto inghiottire l’Atena Partenone in un solo boccone. Hazel guardò mentre questa spezzava una mezza dozzina di remi. “Smettila!” gemette Leo. Coach Hedge si stava arrampicando sul guscio della tartaruga, colpendolo inutilmente con la sua mazza da baseball e urlando, “Prendi questo! E questo!” Jason saltò dalla punta di poppa e atterrò sulla testa della creatura. Piantò la sua spada dorata proprio in mezzo agli occhi della tartaruga, ma la lama scivolò di lato, come se la pelle del mostro fosse fatta di acciaio ricoperto di grasso. Frank sparava frecce contro gli occhi del mostro senza successo. Le velate palpebre interne della tartaruga si abbassavano con una precisione sorprendente, deviando tutti i colpi. Piper sparò dei meloni in acqua, urlando, “Prendi, stupida tartaruga!” Ma la tartaruga sembrava essere concentrata sul divorare l’Argo II, “Come ha fatto ad avvicinarsi così tanto?” chiese Hazel. Leo lanciò le mani in cielo esasperato. “Deve essere stato quel guscio. Credo che sia invisibile ai sonar. E’ una dannata tartaruga invisibile!” “Possiamo far volare la nave?” chiese Piper. “Con la metà dei nostri remi spezzati?” Leo pigiò alcuni bottini e fece girare la sua sfera di Archimede. “Dovrò provare con qualcos’altro.” “Là!” gridò Nico dall’alto. “Puoi portarci in quel canale?” Hazel guardò nel punto che stava indicando. A circa un chilometro di distanza verso est, una lunga striscia di terra correva parallela alle colline del litorale. Era difficile esserne sicuri da quella distanza, ma la distesa di acqua tra le due sembrava essere larga solo venti o trenta metri – forse abbastanza grande per farci passare l’Argo II, ma senza dubbio non abbastanza larga per il guscio della tartaruga gigante. “Sì. Sì.” Apparentemente Leo aveva capito. Ruotò la sfera di Archimede. “Jason, allontanati dalla testa di quella cosa! Ho un’idea!” Jason stava ancora attaccando il muso della tartaruga, ma quando udì Leo dire Ho un’idea, fece l’unica scelta saggia. Se ne allontanò il più velocemente possibile. “Coach, andiamo!” disse Jason. “No, l’ho presa!” disse Hedge, ma Jason lo afferrò dalla vita e decollò. Sfortunatamente, il coach si dibatteva così tanto che la spada di Jason gli scivolò dalla mano e precipitò in mare. “Coach!” si lamentò Jason. “Cosa?” disse Hedge. “La stavo indebolendo!” La tartaruga sbatté la testa contro lo scafo, facendo quasi cadere l’intero gruppo verso babordo. Hazel sentì un rumore scricchiolante, come se la chiglia si fosse frantumata. “Solo un altro minuto,” disse Leo, con le mani che volavano sulla console. “Potremmo non essere qui tra un altro minuto!” Frank scoccò la sua ultima freccia. Piper gridò alla tartaruga, “Va via!” Per un attimo, funzionò davvero. La tartaruga si allontanò dalla nave e immerse la testa sott’acqua. Ma poi risalì in superficie e ricominciò a colpirli con forza persino maggiore. Jason e il Coach Hedge atterrarono sul ponte. “Stai bene?” chiese Piper. “Sto bene,” borbottò Jason. “Senza un’arma, ma bene.” “Via alle bombe!” gridò Leo, agitando il suo controllore della Wii. Hazel pensò che la poppa fosse esplosa. Getti di fuoco esplosero dietro di loro, inondando la testa della tartaruga. La nave si lanciò in avanti e gettò nuovamente Hazel a terra. Lei si alzò e vide che la nave stava schizzando sulle onde a una velocità incredibile, lasciando una scia di fuoco come fosse un razzo. La tartaruga era già a cento metri di distanza, con la testa bruciacchiata e fumante. Il mostro ruggì dalla frustrazione e iniziò a seguirli, con le sue zampe da nuotatore che agitavano l’acqua con tale forza che iniziò a recuperarli. L’entrata del canale era ancora a mezzo chilometro di distanza. “Una distrazione,” borbottò Leo. “Non ce la faremo mai a meno che non creiamo una distrazione.” “Una distrazione,” ripeté Hazel. Si concentrò e pensò: Arion! Non aveva idea se la cosa avrebbe funzionato. Ma istantaneamente, Hazel individuò qualcosa all’orizzonte, un lampo di luce e vapore. Volò sulla superficie dell’Adriatico. In un attimo, Arion si trovava sul ponte rialzato. Dei dell’Olimpo, pensò Hazel. Amo questo cavallo. Arion sbuffò come a dire, Certo che mi ami. Non sei stupida. Hazel gli montò in sella. “Piper, mi farebbe comodo la tua lingua ammaliatrice.” “Un tempo le tartarughe mi piacevano,” borbottò Piper, accettando la mano di Hazel per montare in sella. “Adesso non più!” Hazel spronò Arion. Lui balzò oltre il bordo della barca, colpendo l’acqua quando era già in pieno galoppo. La tartaruga era una nuotatrice veloce, ma non poteva competere con la velocità di Arion. Hazel e Piper corsero intorno alla testa del mostro, Hazel colpendo con la sua spada, Piper urlando comandi a caso come, “Immergiti! Girati a sinistra! Guarda dietro di te!” La spada non infliggeva nessun danno. Ogni comando funzionava solo per un attimo, ma stavano facendo irritare parecchio la tartaruga. Arion nitrì in modo derisorio mentre la tartaruga cercava di morderlo, ottenendo solo una boccata di vapore di cavallo. Presto, il mostro si dimenticò completamente dell’Argo II. Hazel continuava a pugnalarlo alla testa. Piper continuava a dare comandi e a usare la sua cornucopia per lanciare noci di cocco e polli arrosto contro gli occhi della tartaruga. Non appena l’Argo II ebbe attraverso il canale, Arion interruppe le molestie. Scattarono dietro la nave, e un attimo dopo si trovavano di nuovo a bordo. Il fuoco da razzo si era estinto, anche se dalla poppa spuntavano ancora dei tubi di scappamento di bronzo. L’Argo II arrancò in avanti sotto la forza del vento, ma il loro piano aveva funzionato. Si trovavano ormeggiati al sicuro in uno stretto corso d’acqua, con lunghe isole rocciose sulla destra e le lisce scogliere bianche della terraferma sulla sinistra. La tartaruga si fermò all’entrata del canale e li fissò sguardo funesto, ma non fece nessun tentativo di seguirli. Il suo guscio era ovviamente troppo ampio. Hazel smontò da Arion e ricevette un grande abbraccio da Frank. “Bel lavoro là fuori!” disse. Il suo volto avvampò. “Grazie.” Piper scivolò sul ponte accanto a lei. “Leo, da quando in qua abbiamo dei propulsori jet?” “Aw, sai…” Leo cercò di sembrare modesto e fallì. “Solo una cosetta che ho messo insieme nel tempo libero. Vorrei poter creare più di qualche secondo di spinta, ma almeno ci ha tirati fuori di lì.” “Ed ha arrostito la testa della tartaruga,” disse Jason con apprezzamento. “Allora adesso che si fa?” “Uccidiamolo!” disse il Coach. “C’è da chiedere? Abbiamo abbastanza distanza. Abbiamo le baliste. Tutti alle armi, semidei!” Jason si accigliò. “Coach, prima di tutto, mi ha fatto perdere la spada.” “Hey! Non ho chiesto di essere evacuato!” “Secondo, non credo che le baliste funzionerebbero. Quel guscio è come la pelle del Leone di Nemea. E la sua testa non è da meno.” “Allora ne spariamo uno dritto nella sua gola,” disse il Coach, “come avete fatto con quel mostro gamberetto nell’Atlantico. Accendetelo dall’interno.” Frank si grattò la testa. “Potrebbe funzionare. Ma poi avremmo una carcassa di tartaruga da cinque milioni di chili che blocca l’entrata del canale. Se non possiamo volare con i remi rotti, come tiriamo fuori la nave?” “Aspettate e aggiustate i remi!” disse il Coach. “Oppure salpiamo nella direzione opposta, zoticone.” Frank sembrava confuso. “Zoticone?” “Ragazzi!” Nico li chiamò all’albero. “Parlavate di salpare nella direzione opposta? Non credo che funzionerà.” Indicò oltre la prua. A mezzo chilometro di distanza da loro, la lunga strisca di isola rocciosa curvava verso l’interno e incontrava le scogliere. Il canale finiva in una stretta V. “Non siamo in un canale,” disse Jason. “Siamo in un vicolo cieco.” Hazel avvertì una sensazione fredda alle dita delle mani e dei piedi. Sulla balaustra di babordo, la donnola Gale era seduta sulle zampe posteriori, intenta a fissarla con aspettativa. “E’ una trappola,” disse Hazel. Gli altri la guardarono. “Nah, va tutto bene,” disse Leo. “La cosa peggiore che succede, è che dobbiamo fare delle riparazioni. Potrebbe volerci tutta la notte, ma posso far tornare la nave a volare.” Alla bocca del canale, la tartaruga ruggì. Non sembrava interessata ad andare via. “Bè…” Piper scrollò le spalle. “Almeno la tartaruga non po’ raggiungerci. Qui siamo al sicuro.” Quella era una cosa che nessun semidio dovrebbe mai dire. Le parole avevano appena lasciato la bocca di Piper quando una freccia affondò nell’albero maestro, a dieci centimetri dalla sua faccia. *** Il gruppo si sparpagliò per trovare riparo, ad eccezione di Piper, che rimase pietrificata al suo posto, fissando stordita la freccia che le aveva quasi trapassato il naso. “Piper, giù!” sussurrò Jason con voce dura. Ma non arrivò nessun altro missile. Frank studiò l’angolo della freccia nell’albero e indicò verso la cima delle scogliere. “Lassù.” disse. “Tiratore singolo. Lo vedete?” Hazel aveva il sole negli occhi, ma intravide una figura minuscola in piedi sulla cima di una sporgenza. La sua armatura di bronzo brillava al sole. “Chi diamine è?” chiese Leo. “Perché ci spara addosso?” “Ragazzi,” La voce di Piper era piccola e debole. “C’è un biglietto.” Hazel non l’aveva visto prima, ma un rotolo di pergamena era legato all’asta della freccia. Non sapeva il perché, ma la cosa la fece arrabbiare. Si precipitò verso l’albero e slegò il rotolo. “Uh, Hazel?” disse Leo. “Sei certa che è sicuro?” Lesse il biglietto ad alta voce. “Prima riga: In piedi e consegnate.” “Che vuol dire?” si lamentò il Coach Hedge. “Stiamo già in piedi. Bè, acquattati. Se quel tipo si aspetta una pizza come consegna, se lo può scordare!” “C’è dell’altro,” disse Hazel. “Questa è una rapina. Mandate due del vostro gruppo sulla cima della scogliera con tutti i vostri averi. Non più di due. Lasciate sulla nave il cavallo magico. Non volate. Niente trucchi. Scalate e basta.” “Scalare cosa?” chiese Piper. Nico puntò il dito. “Là.” Una stretta fila di scalini era stata scavata nella scogliera, e portava fino alla cima. La tartaruga, il canale senza uscita, la scogliera… Hazel aveva la sensazione che quella non era la prima volta che l’autore della lettera aveva fatto un’imboscata alle navi in quel posto. Si schiarì la gola e continuò a leggere: “Intendo proprio tutti i vostri averi. Altrimenti io e la mia tartaruga vi distruggeremo. Avete cinque minuti.” “Usiamo le catapulte!” gridò il coach. “P.S” lesse Hazel. “Non pensate nemmeno di usare le vostre catapulte.” “Maledetto!” disse il coach. “Il tipo è in gamba.” “Il biglietto è firmato?” chiese Nico. Hazel scosse la testa. Aveva sentito una storia al Campo Giove, qualcosa che riguarda un ladro che lavorava con una tartaruga gigante; ma come al solito, non appena aveva bisogno dell’informazione, questa rimaneva in maniera irritante in fondo alla sua mente, appena fuori portata. La donnola Gale la guardava, in attesa di vedere cosa avrebbe fatto. La prova non c’era ancora stata, pensò Hazel. Distrarre la tartaruga non era stato abbastanza. Hazel non aveva dimostrato nulla su come fosse in grado di manipolate la foschia… soprattutto perché lei non sapeva manipolare la Foschia. Leo studiò la cima della scogliera e borbottò tra se e se. “Non è una buona traiettoria. Anche se riuscissi a caricare le catapulte prima che il tipo ci trafigga con le sue frecce, non credo che sarei in grado di fare il lancio. Sono centinaia di metri, quasi in linea dritta verso l’alto.” “Sì,” borbottò Frank. “Anche il mio arco è inutile. Ha un vantaggio enorme, stando così in alto rispetto a noi. Non potrei raggiungerlo.” “E, um…” Piper indicò la freccia che era incastrata nell’albero. “Ho la sensazione che sia un buon tiratore. Non credo che volesse colpirmi. Ma se l’avesse voluto…” Non aveva bisogno di finire la frase. Chiunque fosse quel ladro, era capace di colpire un obiettivo da centinaia di metri di distanza. Poteva sparare contro tutti prima che potessero reagire. “Andrò io,” disse Hazel. Detestava l’idea, ma era certa che Ecate avesse organizzato la cosa come qualche tipo di sfida contorta. Quello era il test di Hazel – il suo turno di salvare la nave. Come se avesse avuto bisogno di conferme, Gale corse lungo la ringhiera e le saltò sulla spalla, pronto per un passaggio. Gli altri la fissarono. Frank strinse il suo arco. “Hazel –“ “No, ascolta,” disse, “questo ladro vuole delle cose preziose. Io posso salire lassù, evocare oro, gioielli, tutto quello vuole.” Leo inarcò un sopracciglio. “Se lo paghiamo, credi che ci lascerà davvero andare?” “Non abbiamo molta scelta,” disse Nico. “Tra quel tipo e la tartaruga…” Jason alzò la mano. Gli altri fecero silenzio. “Andrò anche io,” disse. “La lettera dice due persone. Io porterò Hazel lassù e le coprirò le spalle. Inoltre, non mi piace l’aspetto di quelle scale. Se Hazel cadesse… bè, posso usare i venti per impedire a tutti e due di scendere per la via più dura.” Arion nitrì in protesta, come a dire, Vai senza di me? Stai scherzando, vero? “Devo, Arion,” disse Hazel. “Jason… sì. Credo che tu abbia ragione. E’ il piano migliore.” “Vorrei solo avere la mia spada.” Jason fissò il coach. “Si trova sul fondo del mare, e non abbiamo Percy per recuperarla.” Il nome Percy passò sopra tutti loro come una nuvola. L’umore sul ponte si fece ancora più cupo. Hazel tese il braccio. Non pensò a quello che stava facendo. Si limitò a concentrarsi sull’acqua ed evocò l’oro Imperiale. Un’idea stupida. La spada era troppo lontana, probabilmente a centinaia di metri di profondità. Ma avvertì una veloce spinta alle dita, come ci fosse legata una lenza da pesca con qualcosa che tirava all’altra estremità, e l’arma di Jason volò fuori dall’acqua e nella sua mano. “Ecco,” disse, porgendola. Gli occhi di Jason si allargarono. “Come… Era lontana mezzo chilometro!” “Ho fatto pratica,” disse, anche se non era vero. Sperava di non aver accidentalmente maledetto la spada di Jason evocandola in quel modo, così come malediceva i gioielli e i metalli preziosi. In qualche modo però le armi erano diverse, pensò. Dopotutto, aveva estratto un mucchio di attrezzatura d’oro Imperiale dalla Glacier Bay e l’aveva distribuita alla Quinta Coorte. Quello aveva funzionato senza problemi Decise di non preoccuparsi. Si sentiva così arrabbiata con Ecate e così stanca di essere manipolata dagli dei che non avrebbe permesso a nessun problema futile di ostacolarla. “Adesso, se non ci sono altre obbiezioni, abbiamo un ladro da incontrare.” XXVII HAZEL Ad Hazel piaceva stare all’aria aperta – ma arrampicarsi lungo una scogliera di sessanta metri su una scala senza ringhiera, con una donnola irritata sulla spalla? Quello non così tanto. Soprattutto quando avrebbe potuto cavalcare Arion fino alla cima in pochi secondi. Jason camminava dietro di lei così da poterla afferrare se fosse caduta. Hazel apprezzava la cosa, ma non rendeva il precipizio a picco affatto meno spaventoso. Si guardò sulla destra, il che fu un errore. Il suo piede mancò quasi lo scalino, mandando una pioggia di terriccio oltre il bordo. Gale squittì in allarme. “Stai bene?” chiese Jason. “Sì.” Il cuore di Hazel le batteva come un martello pneumatico contro le costole. “Bene.” Non aveva spazio per voltarsi a guardarlo. Doveva solo fidarsi del fatto che non l’avrebbe fatta precipitare verso la sua morte. Visto che lui poteva volare, era l’unica scelta logica come compagno. Tuttavia, desiderò che ci fosse stato Frank alle sue spalle, o Nico, o Piper, o Leo. O persino… bè, okay, forse il Coach Hedge no. Ma comunque, Hazel non riusciva a decifrare Jason Grace. Da quando era arrivata al Campo Giove, aveva sentito storie su di lui. I campeggiatori parlavano con riverenza del figlio di Giove che era salito dal rango inferiore della Quinta Coorte per poi diventare pretore, li aveva guidati alla vittoria nella Battaglia del Monte Tam, e poi era scomparso. Persino adesso, dopo tutti gli eventi delle ultime due settimane, Jason sembrava più una leggenda che una persona. Aveva difficoltà a trovarsi a suo agio con lui, con quei suoi occhi blu ghiaccio e quell’attenta riservatezza, come se stesse calcolando ogni parola prima di pronunciarla. Inoltre, non riusciva a dimenticare di come era stato pronto ad abbandonare suo fratello, Nico, quando avevano scoperto che era tenuto prigioniero a Roma. Jason aveva pensato che Nico fosse l’esca per una trappola. Aveva avuto ragione. E forse, adesso che Nico era salvo, Hazel poteva capire perché la cautela di Jason era stata una buona idea. Nonostante questo, non sapeva esattamente cosa pensare del ragazzo. Se si fossero trovati nei guai sulla cima della scogliera, e Jason avesse deciso che salvare Hazel non era nell’interesse migliore per l’impresa? Alzò lo sguardo. Non riusciva a vedere il ladro da quella distanza, ma avvertiva che lui era in attesa. Hazel era sicura che poteva far apparire abbastanza gemme e oro per impressionare anche il ladro più avido. Si chiese se i tesori che evocava avrebbero continuato a portare sfortuna. Non aveva mai saputo con certezza se quella maledizione fosse stata spezzata quando era morta la prima volta. Questa sembrava una buona occasione per scoprirlo. Chiunque derubasse dei semidei innocenti con una tartaruga gigante si meritava qualche brutta maledizione. La donnola Gale saltò giù dalla sua spalla e corse in avanti. Si guardò indietro e abbaiò impaziente. “Sto andando più veloce che posso,” borbottò Hazel. Non riusciva a scrollarsi la sensazione che la donnola fosse ansiosa di vederla fallire. “Questo, uh, controllare la Foschia,” disse Jason. “Hai avuto qualche fortuna?” “No,” ammise Hazel. Non le piaceva pensare ai suoi fallimenti – il gabbiano che non era riuscita a trasformare in un drago, la mazza da baseball del Coach Hedge che si era testardamente rifiutata di diventare un hot dog. Semplicemente, non riusciva a convincersi che nulla di tutto quello fosse possibile. “Ce la farai,” disse Jason. Il suo tono la sorprese. Non ti trattava di un commento di circostanza fatto solo per essere gentili. Suonava sinceramene convinto. Continuò a salire, ma si immaginò il ragazzo che la guardava con quei penetranti occhi blu, con la mascella stretta in un atteggiamento di sicurezza. “Come fai ad esserne sicuro?” chiese. “Lo sono e basta. Ho un buon istinto su quello che le persone possono fare – o comunque, per i semidei. Ecate non ti avrebbe scelta se non avesse creduto che hai i poteri.” Forse quello avrebbe dovuto far sentire Hazel meglio. Non lo fece. Anche lei aveva un buon insito per le persone. Capiva quello che motivava la maggior parte dei suoi amici – persino suo fratello, Nico, che non era facile da interpretare. Ma con Jason? Non ne aveva la più pallida idea. Tutti dicevano che era un leader naturale. Lei ci cedeva. Eccolo là, che la faceva sentire come un membro prezioso della squadra, dicendole che era in grado di fare qualsiasi cosa. Ma cosa era in grado di fare Jason? Non poteva parlare a nessuno dei suoi dubbi. Frank era innamorato del ragazzo. Piper, ovviamente, aveva perso la testa per lui. Leo era il suo migliore amico. Persino Nico sembrava seguire la sua guida senza fare domande. Ma Hazel non poteva dimenticarsi che Jason era stato la prima mossa di Era nella guerra contro i giganti. La Regina dell’Olimpo aveva portato Jason al Campo Mezzosangue, cosa che aveva dato inizio a tutta quell’intera catena di eventi per fermare Gea. Perché Jason per primo? Qualcosa diceva ad Hazel che lui era il fulcro. Jason sarebbe stato anche l’ultimo giocatore. Fuoco o tempesta il mondo cader faranno. Era quello che diceva la profezia. Per quanto Hazel temesse il fuoco, temeva maggiormente le tempeste. Jason Grace poteva causare delle tempeste abbastanza grandi. Alzò lo sguardo e vide che il bordo della scogliera era pochi metri di distanza. Raggiunse la cima, senza fiato e sudata. Una lunga vallata in pendenza si allungava verso l’entroterra, punteggiata da incolti alberi di olivo e massi di pietra calcarea. Non c’era nessun segno di civilizzazione. Le gambe di Hazel tremavano a causa della salita. Gale sembrava ansiosa di esplorare. La donnola abbaiò e rilasciò del gas e cominciò a correre tra i cespugli più vicini. Molto più in basso, l’Argo II assomigliava a una barca giocattolo nel canale. Hazel non riusciva a capire come chiunque potesse essere in grado di sparare accuratamente una freccia da quell’altezza, calcolando anche il vento e il riflesso del sole sull’acqua. Alla bocca del canale, l’enorme sagoma del guscio della tartaruga brillava come una moneta lucidata. Jason la raggiunse sulla cima, senza apparire provato dall’arrampicata. Iniziò a dire, “Dove –“ “Qui!” disse una voce. Hazel indietreggiò. A soli tre metri di distanza, apparve un uomo, con arco e faretra sulla spalla e due pistole da duello all’antica nelle mani. Indossava degli alti stivali di pelle, calzoni di pelle, e una maglietta stile pirata. I ricci capelli neri assomigliavano a quelli di un bambino e i suoi brillanti occhi verdi erano abbastanza amichevoli, ma una bandana rossa gli copriva la metà inferiore del volto. “Benvenuti!” gridò il bandito, puntando le pistole contro di loro. “I soldi o la vita!” Hazel era certa che non si era trovato là un secondo prima. Si era semplicemente materializzato, come se fosse sbucato da dietro una tenda invisibile. “Chi sei?” chiese Hazel. Il bandito rise. “Scirone, ovviamente!” “Chirone?” chiese Jason. “Come il centauro?” Il bandito alzò gli occhi al cielo. “Sci-rone, amico mio. Figlio di Poseidone! Eccelente ladro! Fantastico sotto tutti i punti di vista! Ma non è importante. Non vedo nessun oggetto prezioso!” gridò, come se fossero delle notizie fantastiche. “Immagino che questo voglia dire che volete morire?” “Aspetta,” disse Hazel. “Abbiamo cose preziose. Ma se le cediamo, come facciamo ad essere sicuri che ci lascerai andare?” “Oh, lo chiedono sempre,” disse Scirone. “Vi giuro, sul Fiume Stige, che non appena cederete ciò che voglio, io non vi sparerò. Vi manderò dritti giù dalla scogliera.” Hazel lanciò a Jason un’occhiata cauta. Fiume Stige o meno, il modo nel quale Scirone aveva formulato la sua promessa non la rassicurava. “Se ti sfidassimo?” chiese Jason. “Non puoi attaccare noi e tenere sotto tiro la nave nello stesso –“ BANG! BANG! Accadde così velocemente, che la mente di Hazel ci mise qualche secondo per elaborare. Del fumo si alzava dal lato della testa di Jason. Proprio sopra il suo orecchio sinistro, una striscia rasata correva tra i suoi capelli. Una delle pistole di Scirone era ancora puntata contro la sua faccia. L’altra era puntava verso il basso, oltre il bordo della scogliera, come se il secondo colpo di Scirone fosse stato sparato contro l’Argo II. Hazel si strozzò per la sorpresa arrivata in ritardo. “Cosa hai fatto?” “Oh, non preoccuparti!” rise Scirone. “Se potessi vedere da così lontano – cosa che non puoi fare – vedresti un foro nel ponte tra le scarpe del ragazzo grosso, quello con l’arco.” “Frank!” Scirone scrollò le spalle. “Se lo dici tu. Quella era solo una dimostrazione. Temo che avrebbe potuto essere molto più grave.” Fece girare le pistole. Le canne scattarono, e Hazel ebbe la sensazione che le pistole fossero appena state magicamente ricaricate. Scirone sollevò le sopracciglia rivolto verso Jason. “Quindi! Per rispondere alla tua domanda – sì, possoattaccare voi e tenere la nave sotto tiro allo stesso tempo. Proiettili di bronzo Celeste. Abbastanza mortali per i semidei. Voi due morireste per primi – bang, bang. Poi mi potrei prendere il mio tempo per far fuori i vostri amici su quella nave. Allenarsi sulla mira è molto più divertente con dei bersagli viventi che corrono e urlano!” Jason si toccò il nuovo solco che il proiettile gli aveva rasato sui capelli. Per una volta, non appariva così sicuro. Le caviglie di Hazel tremavano. Frank era il miglior tiratore con l’arco che conosceva, ma quel bandito Scirone era inumanamente bravo. “Sei un figlio di Poseidone?” tentò. “Avrei detto Apollo, visto come tiri.” Le rughe di sorriso intorno ai suoi occhi si fecero più profonde. “Bè, grazie! Ma si tratta solo di pratica. La tartaruga gigante – quella dipende dalla mia discendenza. Non puoi andare in giro ad addestrare tartarughe giganti senza essere un figlio di Poseidone! Potrei sommergere la vostra nave con un’onda anomala, ovviamente, ma è una cosa terribilmente difficile. Neanche lontanamente divertente come fare imboscate e sparare alle persone.” Hazel cercò di mettere ordine nella mente, di guadagnare tempo, ma era difficile mentre si avevano davanti agli occhi le canni fumanti di quelle pistole. “Uh… a cosa serve la bandana?” “Così nessuno mi riconosce!” disse Scirone. “Ma ti sei presentato,” disse Jason. “Sei Scirone.” Gli occhi del bandito si spalancarono. “Come hai – Oh. Sì, credo di averlo fatto.” Abbassò una pistola e si grattò la testa con l’altra. “Tremendamente stupido da parte mia. Scusate. Temo di essere un po’ arrugginito. Dopo essere tornato dai morti, e tutto il resto. Fatemi provare di nuovo.” Alzò le pistole. “Mani in alto! Sono un bandito anonimo, e voi non avete bisogno di conoscere il mio nome!” Un bandito anonimo. Qualcosa scattò nella mente di Hazel. “Teseo. Ti uccise una volta.” Le spalle di Scirone crollarono. “Ora, perché hai dovuto nominarlo? Stavamo andando così d’accordo!” Jason aggrottò le sopracciglia. “Hazel, conosci la sua storia?” Lei annuì, anche se i dettagli erano confusi. “Teseo lo incontrò sulla strada per Atene. Scirone era solito uccidere le sue vittime con, um…” Qualcosa che ha che fare con tartaruga. Hazel non riusciva a ricordarsi. “Teseo era un tale imbroglione!” gemette Scirone. “Non voglio parlare di lui. Adesso sono tornato dai morti. Gea mi ha promesso che posso rimanere sulla costa e derubare tutti i semidei che voglio, ed è quello che farò! Ora…dov’eravamo?” “Stavi per lasciarci andare,” azzardò Hazel. “Hmm…” disse Scirone. “No, sono piuttosto sicuro che non era quello. Ah, giusto! I soldi o la vita. Dove sono i vostri averi? Niente averi? Allora dovrò –“ “Aspetta,” disse Hazel. “Ho io i nostri averi preziosi. O comunque, posso procurarmerli.” Scirone puntò una pistola alla testa di Jason. “Bè, allora, mia cara, datti da fare, o il mio prossimo tiro taglierà più dei capelli del tuo amico!” Hazel dovette a stento concentrarsi. Era così in ansia, che la terra rombò sotto i suoi piedi e gettò immediatamente fuori un’abbondante mucchio di oggetti – metalli preziosi che spuntavano dalla superficie come se la terra fosse ansiosa di espellerli. Si ritrovò circondata da una montagna di tesori che le arriva alle ginocchia – denarii romani, dracme d’argento, antichi gioielli d’oro, diamanti brillanti, topazi e rubini – abbastanza da poter riempire diversi sacchi. Scirone rise estasiato. “Come diavolo hai fatto?” Hazel non rispose. Pensò a tutte le monete che erano apparse all’incrocio con Ecate. Lì ce n’erano persino di più – ricchezze nascoste risalenti a secoli prima appartenute a ogni impero che avesse mai governato su quella terra – Greci, Romani, Bizantini, e così tanti altri. Quegli imperi non c’erano più, avevano lasciato solo una terra sterile per il bandito Scirone. Quel pensiero la fece sentire piccola e debole. “Prendi il tesoro,” disse lei. “Lasciaci andare.” Scirone ridacchiò. “Oh, ma io ho detto tutte le vostre ricchezze. So che avete qualcosa di davvero speciale su quella nave… una certa statua d’oro e d’avorio alta, diciamo, dodici metri?” Il sudore iniziò ad asciugarsi sul collo di Hazel, causandole brividi sulla schiena. Jason si fece avanti. Nonostante la pistola puntata alla faccia, i suoi occhi erano duri come zaffiri. “La statua non è negoziabile.” “Hai ragione, non lo è” concordò Scirone. “Devo averla io!” “Te l’ha detto Gea,” indovinò Hazel. “Ti ha ordinato di prenderla.” Scirone scrollò le spalle. “Forse. Ma mi ha detto che avrei potuto tenerla per me. Difficile rifiutare un’offerta del genere! Non ho intenzione di morire di nuovo, amici miei. Intendo vivere una lunga vita come uomo ricco!” “La statua non ti servirà a nulla,” disse Hazel. “Non se Gea distrugge il mondo.” Le bocche delle pistole di Scirone vacillarono. “Pardon?” “Gea ti sta usando,” disse Hazel. “Se prendi quella statua, noi non saremo in grado di sconfiggerla. Sta progettando di spazzare via tutti i mortali e i semidei dalla faccia della terra, permettendo ai suoi giganti e ai mostri di prendere il controllo. Allora dove spenderai il tuo oro, Scirone? Presumendo che Gea ti lasci vivere.” Hazel gli lasciò qualche secondo per elaborare le sue parole. Immaginava che Scirone non avrebbe avuto problemi a credere ai doppi giochi, essendo un bandito e tutto il resto. Rimase in silenzio per dieci secondi. Alla fine il suo sorriso tornò. “Va bene!” disse. “Non sono irragionevole. Tenetevi la statua.” Jason sbatté le palpebre. “Possiamo andare?” “Solo un’altra cosa,” disse Scirone. “Chiedo sempre una dimostrazione di rispetto. Prima di lasciare andare le mie vittime, insisto perché mi lavino i piedi.” Hazel non era certa di aver sentito bene. Poi Scirone si tolse i suoi stivali di pelle, uno dopo l’altro. I suoi piedi nudi erano la cosa più disgustosa che Hazel avesse mai visto… e ne aveva viste di cose disgustose. Erano gonfi, rugosi, e bianchi come la farina, come se fossero stati immersi nella formaldeide per qualche secolo. Ciuffi di peli marroni spuntavano da ogni dito malformato. Le sue unghie frastagliate erano verdi e gialle, come il guscio di una tartaruga. Poi l’odore la colpì. Hazel non sapeva se il palazzo nell’Oltretomba di suo padre fosse dotato di un bar per zombie, ma se ce lo aveva, quel bar avrebbe avuto l’odore dei piedi di Scirone. “Allora!” Scirone agitò i suoi disgustosi pollici. “Chi vuole il sinistro, e chi il destro?” Il volto di Jason si fece bianco quasi quanto quei piedi. “Tu… tu stai scherzando.” “Affatto!” disse Scirone. “Lavatemi i piedi, e abbiamo fatto. Vi rimanderò giù dalla scogliera. Lo giuro sul Fiume Stige.” Fece quella promessa con tale leggerezza, che dei campanelli d’allarme iniziarono a suonare nella testa di Hazel. Piedi. Rimandarmi giù dalla scogliera. Guscio di tartaruga La storia le tornò alla mente, con tutti i pezzi mancanti che andavano al loro posto. Si ricordò di come Scirone uccideva le sue vittime. “Può darci un minuto?” chiese Hazel al bandito. Gli occhi di Scirone si strinsero. “Per fare cosa?” “Bè, è una grossa decisione,” disse lei. “Piede sinistro, piede destro. Dobbiamo discuterne.” Capiva che il bandito stava sorridendo sotto la sua bandana. “Certo,” disse. “Sono così generoso, che potete avere due minuti.” Hazel uscì dalla sua pila di tesori. Guidò Jason il più lontano possibile di quanto osasse andare – scendendo di circa quindici metri lungo la scogliera, che sperava fosse fuori portata d’orecchie. “Scirone spinge le sue vittime giù dalla scogliera con un calcio,” sussurrò. Jason si accigliò. “Cosa?” “Quando ti inginocchi per lavargli i piedi,” disse Hazel. “E’ così che ti uccide. Quando sei sbilanciato, stordito dall’odore dei suoi piedi, lui ti dà un calcio e ti manda giù dalla scogliera. Precipiti dritto nella bocca della sua tartaruga gigante.” Jason si prese un attimo per dirigerire quell’informazione, per così dire. Guardò oltre la scogliera, dove il guscio gigante della tartaruga luccicava appena sotto la superficie dell’acqua. “Allora dobbiamo combattere,” disse Jason. “Scirone è troppo veloce,” disse Hazel. “Ci ucciderà entrambi.” “Allora sarò pronto per volare. Quando mi darà il calcio, mi fermerò a mezz’aria. Poi quando spingerà te, ti prenderò.” Hazel scosse la testa. “Se ti da un calcio abbastanza forte e veloce, sarai troppo stordito per volare. E anche se potessi, Scirone ha gli occhi di un tiratore. Ti guarderà cadere. Se ti fai librare, lui si limiterà a spararti.” “Allora…” Jason strinse l’elsa della sua spada. “Spero che hai un’altra idea?” A qualche metro di distanza, la donnola Gale apparve dai cespugli. Digrignò i denti e scrutò Hazel come a dire, Ebbene? Ce l’hai? Hazel si calmò i nervi, cercando di evitare di far spuntare altro oro dal terreno. Si ricordò del sogno della voce di Plutone che aveva fatto: I morti vedono quello che credono vedranno. Così fanno i vivi. E’ questo il segreto. Capì quello che doveva fare. Detestava l’idea più di quanto detestasse le donnole con l’aria nella pancia, più di quanto detestasse i piedi di Scirone. “Sfortunatamente, sì,” disse Hazel. “Dobbiamo permettere a Scirone di vincere.” “Cosa?” chiese Jason. Hazel gli spiegò il piano. 28 HAZEL “Finalmente!” gridò Scirone. “Quelli erano molto più di due minuti!” “Ci dispiace,” disse Jason. “Si trattava di una grossa decisione… quale piede.” Hazel cercò di schiarirsi la mente e immaginare la scena attraverso gli occhi di Scirone – quello che desiderava, quello che si aspettava. Quella era la chiave per usare la Foschia. Non poteva obbligare qualcuno a vedere il mondo a modo suo. Non poteva far apparire la realtà di Scirone meno credibile. Ma se lei gli mostrava quello che lui voleva vedere… bè, era una figlia di Plutone. Aveva trascorso decenni con i morti, ad ascoltarli rimpiangere le loro vite passate che si ricordavano a stento, i loro ricordi distorti della nostalgia. I morti vedendo quello che credevano avrebbero visto. Così facevano i vivi. Plutone era il dio dell’Oltretomba, il dio delle ricchezze. Forse quelle due sfere di influenza erano più connesse di quando Hazel si fosse resa conto. Non c’era molta differenza tra desiderio e brama. Se era in grado di far apparire oro e diamanti, perché non far apparire un altro tipo di tesoro – una visione del mondo che le persone volevano vedere? Ovviamente poteva sbagliarsi, e in quel caso lei e Jason stavano per diventare cibo per tartarughe. Mise la mano sulla tasca del suo giacchetto, dove il legnetto magico di Frank sembrava essere più pesante del solito. In quel momento non stava solo trasportando la sua linea vitale. Stava trasportando le vite tutto il gruppo. Jason si fece avanti, con le mani aperte in segno di resa. “Andrò prima io, Scirone. Ti laverò il piede sinistro.” “Scelta eccellente!” Scirone agitò le sue pelose dita dei piedi simili a quelle di un cadavere. “Potrei aver calpestato qualcosa con quel piede. Lo sentivo un po’ scivoloso dentro lo stivale. Ma sono certo che lo laverai come si deve.” Le orecchie di Jason avvamparono. Dalla tensione che aveva nel collo, Hazel capiva che era tentato di abbandonare la farsa e di attaccare – un veloce affondo con la sua spada d’oro Imperiale. Ma Hazel sapeva che se avesse provato, avrebbe fallito. “Scirone,” si intromise, “hai dell’acqua? Sapone? Come facciamo a –“ “Così!” Scirone fece roteare la pistola di sinistra. Improvvisamente si trasformò in una bottiglietta spray con straccio. Li lanciò a Jason. Jason lesse l’etichetta. “Vuoi che ti lavi i piedi con detergente per vetri?” “Certo che no!” Scirone aggrottò le sopracciglia. “Dice pulitore multi superficie. I miei piedi si qualificano senza dubbio come multi superfici. Inoltre, è antibatterico. Ne ho bisogno. Credimi, l’acqua non funzionerebbe con questi piccolini.” Scirone agitò i piedi, e altro odore da bar di zombie si diffuse per la scogliera. Jason emise un verso strozzato. “Oh, dei, no…” Scirone scrollò le spalle. “Puoi sempre scegliere quello che ho nell’altra mano.” Sollevò la pistola di destra. “Lo farà,” disse Hazel. Jason la fissò con sguardo torvo, ma Hazel vinse la sfida di sguardi. “Bene,” borbottò. “Eccellente! Adesso…” Scirone saltellò verso il masso più vicino, che era della grandezza giusta da servire come sgabello. Si girò verso l’acqua e poggiò sopra il piede, così che appariva come qualche esploratore che aveva appena rivendicato un nuovo paese. “Guarderò l’orizzonte mentre tu mi strofini i calli. Sarà molto più piacevole.” “Sì,” disse Jason. “Ci scommetto.” Jason si inginocchiò davanti al bandito, al bordo della scogliera dove era un bersaglio semplice. Un calcio, e sarebbe precipitato. Hazel si concentrò. Immaginò si essere Scirone, il signore dei banditi. Stava guardando dall’alto in basso un patetico ragazzino biondo che non era affatto una minaccia – solo un altro semidio sconfitto che stava per diventare la sua vittima. Nella sua mente, vide quello che sarebbe accaduto. Chiamò la Foschia, invocandola dalle profondità della terra come faceva con l’oro, l’argento e i rubini. Jason schizzò il liquido detergente. I suoi occhi si fecero lucidi. Strofinò l’alluce di Scirone con lo straccio e si voltò di lato per tossire. Hazel riusciva a malapena guardare. Quando ci fu il calcio, per poco non lo mancò. Scirone sbatté il piede contro il petto di Jason. Jason inciampò all’indietro oltre il bordo, con le braccia che si agitavano in aria, urlando mentre cadeva. Quando stava per colpire l’acqua, la tartaruga emerse e lo inghiottì in un unico boccone, poi affondò di nuovo sotto la superficie. Le campane di allarme dell’Argo II si attivarono. Gli amici di Hazel corsero per il ponte, preparando le catapulte. Hazel poteva udire il pianto di Piper fin da lassù. Era così sofferto, che Hazel rischiò di perdere la concentrazione. Obbligò la sua mente a dividersi in due parti – una intensamente concentrata sul suo compito, una intenta a interpretare il ruolo che Scirone doveva vedere. Urlò oltraggiata. “Cosa hai fatto?” “Oh, cara…” Scirone sembrava triste, ma Hazel aveva l’impressione che stesse nascondendo un sorriso sotto la sua bandana. “E’ stato un incidente, te lo garantisco.” “Adesso i miei amici ti uccideranno!” “Possono provare,” disse Scirone. “Ma nel frattempo, credo che tu abbia il tempo di lavare l’altro piede! Credimi, mia cara. Adesso la mia tartaruga è piena. Non vuole anche te. Sarai totalmente al sicuro, a meno che tu non ti rifiuti.” Puntò la pistola contro la sua testa. Lei esitò, facendogli vedere la sua paura. Non poteva accettare troppo facilmente, o lui non avrebbe creduto che era stata sconfitta. “Non colpirmi,” disse sull’orlo delle lacrime. Gli occhi di Scirone luccicarono. Quello era esattamente ciò che si era aspettato. Hazel era distrutta e impotente. Scirone, il figlio di Poseidone, aveva vinto di nuovo. Hazel non riusciva a credere che quel tipo avesse lo stesso padre di Percy Jackson. Poi si ricordò che Poseidone aveva una personalità mutevole, come il mare. Forse i suoi figli riflettevano quell’aspetto. Percy era il figlio della natura migliore di Poseidone – potente, ma gentile e generosa, il tipo di mare che accompagnava le navi senza pericoli fino alle terre lontane. Scirone era il figlio dell’altro aspetto di Poseidone – il tipo di mare che si gettava senza tregua contro la costa finché non la sbriciolava, o che allontanava gli innocenti dalla riva e li faceva annegare, o che affondava le navi e uccideva ciurme intere senza pietà. Prese da terra lo spruzzino che Jason aveva fatto cadere. “Scirone,” ringhiò, “i tuoi piedi sono la cosa meno disgustosa di te.” I suoi occhi verdi si indurirono. “Lava e basta.” Si inginocchiò, cercando di ignorare l’odore. Si spostò da un lato, obbligando Scirone ad adattarsi alla sua posizione, ma immaginò che il mare fosse ancora alle sue spalle. Mantenne quella visione nella sua mente mentre si muoveva ancora di lato. “Vuoi iniziare!” disse Scirone. Hazel soffocò un sorriso. Era riuscita a far voltare Scirone di cento ottanta gradi, ma lui continuava a vedere l’acqua di fronte, con la terra ferma alle spalle. Iniziò a pulire. Hazel aveva fatto parecchi lavori sporchi in passato. Aveva pulito le stalle degli unicorni al Campo Giove. Aveva riempito e svuotato le latrine per le legioni. Questo non è nulla, si disse. Ma era così difficile non farsi assalire dai conati di vomito quando guardava i piedi di Scirone. Quando arrivò il calcio, lei volò all’indietro, ma non andò lontano. Atterrò sull’erba a pochi metri di distanza. Scirone la fissò. “Ma…” Improvvisamente il mondo mutò. L’illusione crollò, lasciando Scirone completamente confuso. Il mare si trovava dietro di lui. Era riuscito solo a fare allontanare Hazel dal bordo. Abbassò la sua pistola. “Come –“ “Mani in alto,” gli disse Hazel. Jason volò giù dal cielo, esattamente sopra la sua testa, e buttò il bandito oltre la scogliera con il peso del suo corpo. Scirone gridò mentre cadeva, sparando selvaggiamente con la sua pistola, ma per una volta non colpì nulla. Hazel si rimise in piedi. Raggiunse il bordo della scogliera in tempo per vedere la tartaruga balzare e afferrare Scirone al volo. Jason fece un grosso sorriso. “Hazel, è stato stupefacente. Davvero… Hazel? Hey, Hazel?” Hazel crollò sulle ginocchia, sentendosi improvvisamente stordita. In lontananza, poteva sentirei suoi amici che acclamavano dalla nave in basso. Jason era accanto a lei, ma si stava muovendo a rallentatore, i bordi della sua sagoma sfocati, con la voce muta. Del ghiaccio si diffuse sulle rocce e sull’erba attorno a lei. La montagna di ricchezze che aveva fatto comparire affondò di nuovo nella terra. La Foschia vorticò. Che cosa ho fatto? pensò nel panico. Qualcosa è andato storto. “No, Hazel,” disse una voce profonda alle sue spalle. “Sei stata brava.” Osava a malapena respirare. Aveva sentito quella voce solo un’altra volta, ma l’aveva riascoltata nella sua mente migliaia di volte. Si voltò e si trovò di fronte a suo padre. Era vestito secondo lo stile romano – i capelli scuri tagliati cortissimi, il volto pallido e spigoloso privo di barba. La sua tunica e la toga erano di lana nera, ricamante con fili d’oro. I volti delle anime tormentate si muovevano all’interno del tessuto. Il bordo dalla sua toga era foderato con il rosso cremisi di un senatore o di un pretore, ma le strisce ondulavano come fossero un fiume di sangue. Sull’anulare di Plutone c’era un enorme opale, come fosse un pezzo lucido e congelato di Foschia. Il suo anello di matrimonio, pensò Hazel. Ma Plutone non aveva mai spostato la madre di Hazel. Gli dei non sposavano i mortali. Quell’anello doveva rappresentare il suo matrimonio con Persefone. Il pensiero la fece arrabbiare così tanto, che scosse via il suo stordimento e si alzò in piedi. “Che cosa vuoi?” chiese. Sperava che il suo tono lo ferisse – che lo pugnalasse per tutto il dolore che le aveva causato. Ma sulla sua bocca apparve un debole sorriso. “Figlia mia,” disse. “Sono colpito. Sei diventata forte.” Non grazie a te, voleva dire. Non voleva provare nessun piacere nel suo complimento, ma malgrado ciò i suoi occhi cominciarono a pizzicare. “Pensavo che voi divinità maggiori foste fuori uso,” riuscì a dire. “Con le vostre personalità greche e romane l’una contro l’altra.” “Lo siamo,” concordò Plutone. “Ma tu mi hai invocato con così tanta forza che mi hai permesso di comparire… anche se solo per un momento.” “Non ti ho invocato.” Ma persino mentre lo diceva, sapeva che non era vero. Per la rima volta, spontaneamente, aveva abbracciato la sua discendenza come figlia di Plutone. Aveva cercato di capire i poteri di suo padre e li aveva usati alla loro massima possibilità. “Quando arriverete alla mia casa in Epiro,” disse Plutone, “devi essere preparata. I morti non vi accoglieranno. E la maga Pasifae –“ “Pace fai?” chiese Hazel. Poi capì che doveva trattarsi del nome della donna. “Lei non sarà ingannata tanto facilmente quanto Scirone.” Gli occhi di Plutone brillarono come pietra vulcanica. “Hai superato il tuo primo test, ma Pasifae ha intenzione di ricostruire il suo regno, cosa che metterà in pericolo tutti i semidei. A meno che tu non la fermi alla Casa di Ade…” La sua figura vacillò. Per un attimo gli apparve la barba, con vestiti greci e una corona d’alloro nei capelli. Intorno ai suoi piedi, delle mani di scheletro apparvero dalla terra. Il dio strinse i denti e aggrottò le sopracciglia. La sua forma romana si stabilizzò. Le mani scheletro si dissolsero nuovamente nella terra. “Non abbiamo molto tempo.” Appariva come un uomo che aveva da poco superato una brutta malattia. “Sappi che le Porte della Morte si trovano nel livello più basso del Necromanteion. Devi far vedere a Pasifae quello che lei vuole vedere. Hai ragione. E’ questo il segreto di tutta la magia. Ma non sarà facile quando ti troverai nel suo labirinto.” “Cosa vuoi dire? Quale labirinto?” “Capirai,” promise lui. “E, Hazel Levesque… non mi crederai, ma sono fiero della tua forza. A volte… a volte l’unico modo nel quale posso prendermi cura dei miei figli è mantenere le distanze.” Hazel si rimangiò un insulto. Plutone era soltanto un altro di quei pessimi padri divini che inventano deboli scuse. Ma il suo cuore martellò mentre ripeteva nella sua mente le sue parole: Sono fiero della tua forza. “Vai dai tuoi amici,” disse Plutone. “Saranno preoccupati. Il viaggio verso Epiro nasconde ancora molti pericoli.” “Aspetta,” disse Hazel. Plutone inarcò le sopracciglia. “Quando ho incontrato Tanato,” disse, “sai… Morte… mi ha detto che non ero sulla tua lista degli spiriti scappati da catturare. Ha detto che forse è per questo che stavi mantenendo le distanze. Se riconoscevi la mia presenza, avresti dovuto riportarmi nell’Oltretomba.” Plutone aspettò. “Qual è la tua domanda?” “Sei qui. Perché non mi porti nell’Oltretomba? Perché non mi restituisci ai morti?” La figura di Plutone iniziò a svanire. Sorrise, ma Hazel non riuscì a capire se fosse triste o compiaciuto. “Forse quello non è ciò che io voglio vedere, Hazel. Forse non sono mai stato qui.” 29 PERCY Percy si sentì sollevato quando le nonne demoni cominciarono ad avvicinarsi per attaccare. Certo, era terrorizzato. Non gli piacevano le possibilità che avevano loro tre contro diverse dozzine di mostri. Ma almeno sapeva cosa voleva dire combattere. Vagare nell’oscurità, in attesa di essere attaccato – la cosa lo stava facendo diventare pazzo. Inoltre, lui e Annabeth avevano combattuto insieme molto volte. E adesso avevano un Titano dalla loro parte. “Indietro.” Percy pugnalò la strega raggrinzita più vicina con Vortice, ma lei si limitò a ringhiare. Siamo arai, disse quella strana voce esterna, come se tutta la foresta stesse parlando. Non puoi distruggerci. Annabeth si strinse contro la sua spalla. “Non toccarle,” avvertì. “Sono gli spiriti delle maledizioni.” “A Bob non piacciono le maledizione,” decise Bob. Il gattino scheletro, Piccolo Bob, scomparve dentro la sua tuta. Gatto intelligente. Il Titano brandì la sua scopa disegnando un ampio arco, obbligando gli spiriti a indietreggiare, ma loro si riavvicinarono come un’onda. Noi serviamo gli accaniti e gli sconfitti, disse l’arai. Noi serviamo gli uccisi che hanno pregato per la vendetta con il loro ultimo respiro. Abbiamo molte maledizioni da condividere con voi. L’acqua di fuoco nella pancia di Percy cominciò a farsi strada lungo la sua gola. Desiderò che il Tartaro offrisse delle bibite migliori, o magari un albero che dispensasse frutta antiacido. “Apprezzo l’offerta,” disse. “Ma mia madre mi ha detto di non accettare maledizioni dagli sconosciuti.” Il demone più vicino si gettò contro di lui. I suoi artigli si estero come ossuti coltelli a serramanico. Percy la tagliò a metà, ma non appena il mostro si vaporizzò, il fianco del suo petto esplose di dolore. Inciampò all’indietro, stringendosi le mani contro la cassa toracica. Le dita si tinsero di rosso. “Percy, stai sanguinando!” gridò Annabeth, cosa che a quel punto gli era abbastanza chiara. “Oh, dei, datutte e due le parti.” Era vero. L’orlo destro e sinistro della sua maglietta a brandelli erano impregnati di sangue, come se un giavellotto l’avesse attraversato da parte a parte. Oppure una freccia… Un’ondata di nausea lo fece quasi cadere. Vendetta. Una maledizione dagli uccisi. Ritornò con la mente a un incontro in Texas due anni prima – un combattimento con un rancher mostruoso che poteva essere ucciso solo se tutti e tre i suoi corpi venivano colpiti contemporaneamente “Gerione,” disse Percy. “E’ così che l’ho ucciso….” Gli spiriti scoprirono le loro zanne. Altre arai balzarono giù dagli alberi neri, sbattendo le ali di pelle. Sì, concordarono. Prova il dolore che hai inflitto a Gerione. Così tante maledizioni sono state alzate contro di te, Percy Jackson. Per mano di quale morirai? Scegli, o ti faremo a pezzi! In qualche modo rimase in piedi. Il sangue smise di uscire, ma si sentiva ancora come se avesse un’asta di metallo incandescente infilzata tra le costole. Il braccio che reggeva la spada era pesante e debole. “Non capisco,” mormorò. La voce di Bob sembrava riecheggiare dalla fine di un lungo tunnel: “Se ne uccidi una, questa ti da una maledizione.” “Ma se non le uccidiamo…” disse Annabeth. “Loro ci uccideranno lo stesso,” indovinò Percy. Scegli! gridò l’arai. Sarai maledetto come Kampe? Oppure disintegrato come i giovani telchini che hai ucciso sotto il Monte Sant’Elena? Hai diffuso così tante morti e sofferenze, Percy Jackson. Lascia che ti ripaghiamo! Le streghe alate si fecero più vicine, con i fiati acidi, gli occhi brucianti di odio. Avevano l’aspetto delle Furie, ma Percy decise che quelle cose erano persino peggiori. Almeno le tre Furie erano sotto il controllo di Ade. Questi esseri erano selvaggi, e continuavano a moltiplicarsi. Se personificavano veramente le maledizioni fatte in punto di morte di ogni nemico che Percy avesse mai distrutto… allora Percy era in guai seri. Aveva affrontato un sacco di nemici. Una delle demoni si lanciò verso Annabeth. Istintivamente, lei la schivò. Abbassò la roccia che aveva in mano sulla testa della vecchia demone e la ridusse in polvere. Non è che Annabeth avesse avuto molta scelta. Percy avrebbe fatto la stessa cosa. Ma istantaneamente Annabeth lasciò cadere la roccia e gridò di paura. “Non riesco a vedere!” Si toccò la faccia, guardandosi selvaggiamente intorno. I suoi occhi erano completamente bianchi. Percy corse al suo fianco mentre le arai ridacchiavano. Polifemo ti ha maledetta quando l’hai ingannato con la tua invisibilità nel Mare dei Mostri. Ti sei fatta chiamare Nessuno. Lui non poteva vederti. Adesso tu non potrai vedere chi attacca te. “Ti proteggo io,” promise Percy. Le mise un braccio intorno alla vita, ma mentre le arai avanzavano, lui non sapeva come avrebbe fatto a proteggere entrambi. Una dozzina di demoni balzò da ogni direzione, ma Bob gridò, “SWISH!” La sua scopa sibilò sopra la testa di Percy. L’intera linea offensiva delle arai cadde all’indietro come fossero birilli. Altre si lanciarono in avanti. Bob ne colpì una sulla testa e ne impalò un’altra, riducendole in polvere. Le altre indietreggiarono. Percy trattenne il fiato, aspettando che il loro amico Titano venisse messo a terra da qualche terribile maledizione, ma Bob sembrava stare bene – un’enorme bodyguard d’argento che teneva la morte a bada con l’attrezzo da pulizia più terrificante del mondo. “Bob, stai bene?” chiese Percy. “Nessuna maledizione?” “Nessuna maledizione per Bob!” annuì Bob. Le arai ringhiarono e gli girarono intorno, guardando furtive la scopa. Il Titano è già maledetto. Perché dovremmo torturarlo più a lungo? Tu, Percy Jackson, hai già distrutto la sua memoria. La lancia di Bob si abbassò. “Bob, non ascoltarle,” disse Annabeth. “Sono malvagie!” Il tempo rallentò. Percy si chiese se lo spirito di Crono fosse da qualche parte là vicino, vorticante nel buio, godendosi così tanto quel momento che voleva durasse per sempre. Percy si sentì esattamente come si era sentito quando aveva avuto dodici anni, a combattere contro Ares su quella spiaggia a Los Angeles, quando l’ombra del signore dei Titani era passata sopra di lui per la prima volta. Bob si voltò. I suoi selvaggi capelli bianchi assomigliavano a un’aureola che era esplosa. “La mia memoria… se stato tu?” Maledicilo, Titano! lo incitarono le arai, con gli occhi rossi che brillavano. Aggiungilo alle nostre! Il cuore di Percy gli martellò contro le costole. “Bob, è una storia lunga. Non volevo che tu fossi mio nemico. Ho cercato di renderti un amico.” Rubandoti la tua vita, dissero le arai. Lasciandoti nel palazzo di Ade a pulire i pavimenti! Annabeth afferrò la mano di Percy. “Da che parte?” sussurrò. “Se dobbiamo scappare?” Lui capì. Se Bob non li avesse voluti proteggere, la loro unica possibilità era quella di scappare – ma non era affatto una possibilità fattibile. “Bob, ascolta,” cercò di nuovo, “le arai vogliono farti arrabbiare. Loro nascono dai pensieri cattivi. Non dare loro ciò che vogliono. Noi siamo tuoi amici.” Persino mentre lo diceva, Percy si sentì come un bugiardo. Aveva lasciato Bob nell’Oltretomba e non ci aveva più pensato da allora. Cosa li rendeva degli amici? Il fatto che adesso Percy avesse bisogno di lui? Percy aveva sempre detestato quando gli dei lo usavano per i loro interessi. Adesso lui stava trattando Bob nello stesso modo. Non vedi la sua faccia? ringhiarono le arai. Il ragazzo non sa neanche convincere se stesso. Ti è mai venuto a trovare, dopo averti rubato la memoria? “No,” mormorò Bob. Il suo labbro inferiore tremava. “L’ha fatto l’altro.” I pensieri di Percy si muovevano lentamente. “L’altro?” “Nico.” Bob lo guardò accigliato, con gli occhi carichi di dolore. “Nico mi è venuto a trovare. Mi raccontava di Percy. Diceva che Percy era buono. Diceva che era un amico. E’ per questo che Bob ha aiutato.” “Ma…” La voce di Percy si disintegrò come se qualcuno l’avesse colpito con una lama di bronzo Celeste. Non si era mai sentito così vile e disonorabile, così indegno di avere un amico. Le arai attaccarono, e questa volta Bob non le fermò. 30 PERCY “Sinistra!” Percy trascinò Annabeth, affondando Vortice contro le arai per aprirsi una strada. Probabilmente attrasse su di sé una dozzina di maledizioni, ma non le avvertì subito, quindi continuò a correre. Il dolore al petto bruciava ad ogni passo. Corse tra gli alberi, guidando Annabeth alla massima velocità nonostante la sua cecità. Percy si rese conto di quanto lei si fidasse di lui, del fatto l’avrebbe portata via da lì. Non poteva deluderla, ma come avrebbe fatto a salvarla? E se fosse rimasta permanentemente cieca… No. Soffocò un’ondata di panico. Avrebbe pensato dopo a come curarla. Prima dovevano scappare. Ali da pipistrello mossero l’aria sopra di loro. Sibili arrabbiati e il ticchettio di zampe artigliate gli dissero che i demoni erano alle loro spalle. Mentre correvano accanto a uno degli alberi neri, affondò Vortice nel suo tronco. Udì il rumore di qualcosa che cadeva, seguito dal soddisfacente scricchiolio di diverse dozzine di arai che venivano schiacciate a terra Se un albero cade nella foresta e schiaccia un demone, l’albero viene maledetto? Percy affettò un altro tronco, poi un altro. Li fece guadagnare qualche secondo, ma non era abbastanza. Improvvisamente l’oscurità davanti a loro si fece più densa. Percy si rese conto di quello che voleva dire appena in tempo. Afferrò Annabeth appena prima che entrambi si gettassero oltre il bordo del dirupo. “Cosa?” gridò lei. “Cosa c’è?” “Precipizio,” disse lui senza fiato. “Grosso precipizio.” “Da che parte allora?” Percy non riusciva a vedere quanto fosse profondo il dirupo. Potevano essere tre metri, oppure un migliaio. Non poteva sapere cosa ci fosse sul fondo. Potevano saltare e sperare nel meglio, ma dubitava che “il meglio” fosse qualcosa che si verificasse nel Tartaro. Quindi: due opzioni: destra o sinistra, seguendo il bordo. Stava per scegliere a caso quando un demone alato discese davanti a lui, librato sopra il vuoto mentre sbatteva le ali da pipistrello, appena fuori dalla portata della spada. Avete fatto una bella passeggiata? chiese la voce collettiva, riecheggiando tutto intorno. Percy si voltò. Le arai si riversarono fuori dalla foresta, formando un semicerchio intorno a loro. Una afferrò il braccio di Annabeth. Lei gemette di rabbia, gettò il mostro a terra facendoselo volare sopra la spalla e colpendolo sul collo, mettendo tutto il peso del suo corpo in un colpo di gomito che avrebbe reso orgoglioso qualsiasi lottatore professionista. Il demone si dissolse, ma quando Annabeth si rimise in piedi, apparve sconvolta e spaventata, oltre che cieca. “Percy?” chiamò con il panico che si faceva strada nella voce. “Sono qui.” Cercò di metterle una mano sulla spalla, ma lei non era dove aveva pensato. Provò di nuovo, solo per scoprire che si trovava diversi metri più avanti. Era come cercare di afferrare qualcosa in una vasca d’acqua, con la luce che spostava l’immagine in continuazione. “Percy!” La voce di Annabeth era incrinata. “Perché mi hai abbandonato?” “Non l’ho fatto!” Si voltò verso le arai, con le braccia che tremavano dalla rabbia. “Cosa le avete fatto?” Noi non abbiamo fatto nulla, dissero i demoni. La tua amata ha rilasciato una maledizione speciale – un pensiero vendicativo da qualcuno che hai abbandonato. Hai punito un’anima innocente lasciandola nella sua solitudine. Adesso il suo desiderio più carico d’odio si è avverato: Annabeth prova la sua disperazione. Anche lei morirà sola e abbandonata. “Percy?” Annabeth tese le braccia, cercando di trovarlo. Le arai indietreggiarono, lasciandola camminare cieca e incerta tra i loro ranghi. “Chi ho abbandonato?” chiese Percy. “Non ho mai –“ Improvvisamente si sentì come se il suo stomaco fosse precipitato in quel dirupo. Le parole risuonarono nella sua testa: Un’anima innocente. Sola e abbandonata. Si ricordò di un’isola, una caverna illuminata da fiochi cristalli brillanti, un tavolo da pranzo sulla spiaggia servito da spiriti dell’aria invisibili. “Non l’avrebbe fatto,” mormorò. “Non mi maledirebbe mai.” Gli occhi dei demoni si fusero insieme come le loro voci. I fianchi di Percy pulsavano. Il dolore nel suo petto era peggiore, come se qualcuno lo avesse infilzato con un pugnale, girandolo lentamente sempre più a fondo. Annabeth vagava tra i demoni, chiamando disperata il suo nome. Percy voleva correre da lei, ma sapeva che le arai non lo avrebbero permesso. L’unica ragione per cui non l’avevano ancora uccisa era che si stavano godendo la sua angoscia. Percy serrò la mascella. Non gli importava quante maledizioni avrebbe preso. Doveva tenere quelle vecchie streghe raggrinzite concentrate su di lui e proteggere Annabeth il più a lungo possibile. Urlò furioso e le attaccò tutte. 31 PERCY Per un eccitante minuto, Percy credette di vincere. Vortice affondava nelle arai come se fossero fatte di zucchero a velo. Una si fece prendere dal panico e andò a sbattere di faccia contro un albero. Un’altra gridò e cercò di volare via, ma Percy le tagliò le ali e la fece precipitare nell’abisso. Ogni volta che un demone si disintegrava, Percy avvertiva un senso sempre più pesante di angoscia mentre gli veniva inflitta un’altra maledizione. Alcune erano violente e dolorose: una pugnalata nello stomaco, una sensazione di bruciore come se fosse stato investito da una vampata di fuoco. Altre erano insidiose: il sangue che gli si gelava, un incontrollabile tic all’occhio destro. Seriamente, chi è che ti malediceva con il suo ultimo respiro e diceva: Spero che avrai un tic all’occhio! Percy sapeva di aver ucciso un sacco di mosti, ma non aveva mai pensato veramente alla cosa dal punto di vista dei mostri. Adesso tutto il loro dolore, rabbia e amarezza lo investivano, indebolendolo. Le arai non facevano altro che continuare ad arrivare. Per ognuna che ne abbatteva, altre sei sembravano comparire al posto suo. Il braccio che teneva Vortice si faceva sempre più stanco. Il suo corpo era indolenzito, e la sua vista era sfocata. Cercò di farsi strada verso Annabeth, ma era troppo lontana, e continuava a chiamare il suo nome mentre vagava tra i demoni. Mentre Percy avanzava lentamente verso di lei, un demone attaccò e gli affondò i denti nella coscia. Percy ruggì. Affettò il demone riducendolo in polvere, ma cadde immediatamente sulle ginocchia. La sua bocca bruciava più di quando aveva bevuto l’acqua infuocata del Felgetonte. Si ripiegò in due, tremando e scosso da conati di vomito, mentre una dozzina di serpenti infuocati sembravano farsi strada lungo il suo esofago. Hai scelto, disse la voce delle arai, la maledizione di Fineo… una bellissima morte dolorosa. Percy cercò di parlare. La sua lingua sembrava fosse stata messa nel microonde. Si ricordò del vecchio re cieco che aveva inseguito le arpie attraverso Portland con un tosaerba. Percy l’aveva sfidato, e il perdente aveva bevuto una fiala mortale di sangue di gorgoni. Percy non si ricordava di aver sentito l’anziano cieco mormorare una maledizione finale, ma mentre Fineo si dissolveva e tornava nell’Oltretomba, non credeva che gli avesse augurato una vita lunga e felice. Dopo la vittoria di Percy di allora, Gea l’aveva messo in guardia: Non forzare la tua fortuna. Quando arriverà la tua morte, ti prometto che sarà molto più dolorosa del sangue di gorgoni. Adesso si trovava nel Tartaro, morente a causa del sangue di gorgoni con in più un’altra dozzina di maledizioni strazianti, mentre guardava la sua ragazza vagare indifesa e cieca e convinta che lui l’avesse abbandonata. Strinse la sua spada. Le sue nocche iniziarono a fumare. Del fumo bianco si alzò dai suoi avambracci. Non morirò così, pensò. Non solo perché era doloroso e assolutamente penoso, ma perché Annabeth aveva bisogno di lui. Quando fosse morto, i demoni avrebbero rivolto la loro attenzione su di lei. Non poteva lasciarla da sola. Le arai si raggrupparono intorno a lui, ridacchiando e sibilando. Esploderà per prima la sua testa, ipotizzò la voce. No si rispose la voce da sola provenendo da un’altra direzione. Prenderà fuoco tutto insieme. Stavano facendo scommesse su come sarebbe morto… che tipo di segno di bruciatura avrebbe lasciato sul terreno. “Bob,” gracchiò. “Ho bisogno di te.” Un appello senza speranza. Riusciva a malapena a sentire la propria voce. Perché Bob avrebbe dovuto rispondere alla sua chiamata due volte? Adesso il Titano sapeva la verità – Percy non era un amico. Alzò lo sguardo un’ultima volta. L’ambiente circostante sembrò tremolare. Il cielo stava bollendo e la terra si coprì di vesciche. Percy si rese conto che ciò che vedeva del Tartaro era solo una versione diluita del suo vero orrore – solo ciò che la sua mente da semidio poteva sopportare. La parte peggiore di esso era nascosta, nello stesso modo nel quale la Foschia nascondeva i mostri alla vista mortale. Adesso che Percy stava morendo, iniziava a vedere la verità. L’aria era il respiro del Tartaro. Tutti quei mostri non erano altro che cellule del sangue che scorrevano nel suo corpo. Tutto ciò che Percy vedeva era un sogno nella mente dell’oscuro dio dell’abisso. Quello doveva essere il modo nel quale Nico aveva visto il Tartaro, e ciò aveva quasi distrutto la sua sanità. Nico… una delle tante persone che Percy non aveva trattato abbastanza bene. Lui e Annabeth erano riusciti ad arrivare fino lì nel Tartaro solo perché Nico di Angelo si era comportato come un vero amico con Bob. Vedi gli orrori dell’abisso? dissero le arai con voce delicata. Arrenditi, Percy Jackson. Non è meglio la morte che sopportare questo luogo? “Mi dispiace,” mormorò Percy. Si è scusato! gridarono le arai contente. Rimpiange la sua vita fallita, i suoi crimini contro i figli del Tartaro! “No,” disse Percy. “Mi dispiace, Bob. Avrei dovuto essere onesto con te. Ti prego… perdonami. Proteggi Annabeth.” Non si aspettava che Bob lo sentisse o che gli importasse, ma sembrava giusto pulirsi la coscienza. Non poteva dare la colpa a nessun altro per i suoi guai. Non agli dei. Non a Bob. Non poteva neanche dare la colpa a Calypso, la ragazza che aveva lasciato da sola su quell’isola. Forse era diventata vendicativa e aveva maledetto la ragazza di Percy presa dalla disperazione. Tuttavia… Percy avrebbe dovuto continuare a pensare a Calypso, assicurarsi che gli dei la liberassero dal suo esilio su Ogigia come avevano promesso. Non l’aveva trattata meglio di quanto avesse trattato Bob. Non ci aveva nemmeno pensato molto, anche se la sua pianta di trina di luna continuava a fiorire sul davanzale di sua madre. Ci vollero tutte le forze che gli erano rimaste, ma si mise in piedi. Il vapore si alzava da tutto il suo corpo. Le sue gambe tremavano. L’interno del suo corpo bolliva come un vulcano. Almeno Percy avrebbe potuto andarsene combattendo. Alzò Vortice. Ma prima che potesse colpire, tutte le arai davanti a lui esplosero riducendosi in polvere. 32 PERCY Bob sapeva davvero come usare una scopa. La agitò avanti e indietro, distruggendo i demoni uno dopo l’altro mentre il gattino Piccolo Bob sedeva sulla sua spalla, inarcando la schiena e soffiando. In pochi secondi, le arai sparirono. La maggior parte erano state vaporizzate. Quelle furbe erano volate via nel buio, strillando dal terrore. Percy voleva ringraziare il Titano, ma la sua voce non funzionava. Le sue gambe tremarono. Le orecchie gli fischiavano. Attraverso un brillio rosso di dolore, vide Annabeth a qualche metro di distanza, che vagava cieca verso il bordo del dirupo. “Uh!” grugnì Percy. Bob seguì il suo sguardo. Si lanciò verso Annabeth e la sollevò. Lei urlò e si dimenò, colpendo la pancia di Bob, ma a Bob non sembrava importare. La portò da Percy e la mise gentilmente a terra. Il Titano le toccò la fronte. “Bua.” Annabeth smise di lottare. I suoi occhi si schiarirono. “Dove – cosa – ?” Vide Percy e una serie di espressioni le attraversarono il volto – sollievo, gioia, shock, orrore. “Cos’ha che non va?” urlò. “Cosa è successo?” Lo avvolse attorno alle spalle e pianse con la testa contro la sua. Percy voleva dirle che andava tutto bene, ma ovviamente non era così. Non riusciva neanche a sentire più il suo corpo. La sua coscienza era come un piccolo palloncino pieno di elio, legato poco stretto sulla cima della sua testa. Non aveva peso, nessuna forza. Continuava solo ad espandersi, facendosi sempre più leggero. Sapeva che presto sarebbe semplicemente scoppiato o che il filo si sarebbe spezzato, e la sua vita sarebbe volata via. Annabeth li prese il volto nelle mani. Lo baciò e cercò di levargli la polvere e il sudore dagli occhi. Bob incombeva su di loro, con la scopa piantata a terra come una bandiera. Il suo volto era illeggibile, luminosamente bianco nell’oscurità. “Molte maledizioni,” disse Bob. “Pecy ha fatto delle cose brutte ai mostri.” “Puoi guarirlo?” implorò Annabeth. “Come hai fatto con la mia cecità? Cura Percy!” Bob si accigliò. Si toccò con le dita la targhetta del nome che aveva sulla sua uniforme come se fosse una crosta. Annabeth tentò di nuovo. “Bob –“ “Giapeto,” disse Bob, con la voce simile a un basso brontolio. “Prima di Bob. Ero Giapeto.” L’aria si fece perfettamente immobile. Percy si sentì impotente, a stento connesso con il mondo. “Bob mi piace di più.” La voce di Annabeth era sorprendentemente calma. “A te quale piace?” Il Titano la guardò con i suoi occhi d’argento puro. “Non lo so più.” Si inginocchiò accanto a lei e studiò Percy. Il volto di Bob appariva stanco e provato, come se improvvisamente sentisse il peso di tutti quei secoli. “Ho promesso,” mormorò. “Nico mi ha chiesto di aiutare. Non credo che a Giapeto o a Bob piaccia rompere le promesse.” Toccò la fronte di Percy. “Bua,” mormorò il Titano. “Bua molto grossa.” Percy tornò nel suo corpo. Il fischio nelle orecchie svanì. La sua vista si fece chiara. Si sentiva ancora come se avesse ingoiato una friggitrice. L’interno del suo corpo stava bollendo. Poteva avvertire che il veleno era solo stato rallentato, non rimosso. Ma era vivo. Cercò di incrociare gli occhi di Bob, di esprimere la sua gratitudine. La sua testa gli ciondolò sul petto. “Bob non può curarlo,” disse Bob. “Troppo veleno. Troppe maledizioni tutte insieme.” Annabeth strinse le spalle di Percy. Lui voleva dire: Adesso riesco a sentirlo. Ahia. Troppo stretto. “Cosa possiamo fare, Bob?” chiese Annabeth. “C’è dell’acqua da qualche parte? L’acqua potrebbe guarirlo.” “Niente acqua,” disse Bob. “Il Tartaro è cattivo.” L’ho notato, volva gridare Percy. Almeno il Titano si riferiva a se stesso come Bob. Anche se dava la colpa a Percy per avergli rubato la memoria, forse avrebbe aiutato Annabeth se Percy non ce l’avesse fatta. “No,” insistette Annabeth. “No, ci deve essere un modo. Qualcosa per guarirlo.” Bob mise la sua mano sul petto di Percy. Un formicolio freddo simile a olio di eucalipto gli si diffuse sullo sterno, ma non appena Bob sollevò la mano, il sollievo si fermò. I polmoni sembravano nuovamente lava bollente. “Il Tartaro uccide i semidei,” disse Bob. “Guarisce i mostri, ma voi non appartenete qui. Il Tartaro non curerà Percy. L’abisso odia la vostra specie.” “Non m’importa,” disse Annabeth. “Persino qui, ci deve essere un posto dove può riposarsi, qualche tipo di cura che può prendere. Forse tornando all’altare di Hermes, oppure –“ In lontananza, una voce profonda ruggì – una voce che Percy, sfortunatamente, riconobbe. “SENTO IL SUO ODORE!” ruggì il gigante. “PREPARATI, FIGLIO DI POSEIDONE! STO ARRIVANDO!” “Polibote,” disse Bob. “Odia Poseidone e i suoi figli. E’ molto vicino adesso.” Annabeth lottò per far alzare Percy. Detestava costringerla a fare così tanti sforzi, ma si sentiva come una sacca di palle da biliardo. Anche con Annabeth che reggeva quasi tutto il suo peso, riusciva a stento a stare i piedi. “Bob, io proseguirò, con o senza di te,” disse lei. “Ci aiuterai?” Piccolo Bob miagolò e iniziò a fare le fusa, strusciandosi contro il mento di Bob. Bob guardò Percy, e Percy desiderò poter leggere l’espressione del Titano. Era arrabbiato, o solo pensieroso? Stava pianificando una vendetta, o era solo ferito perché Percy aveva mentito sul fatto che fosse suo amico? “C’è un posto,” disse Bob alla fine. “C’è un gigante che potrebbe sapere cosa fare.” Annabeth lasciò quasi cadere Percy. “Un gigante. Uh, Bob, i giganti sono cattivi.” “Uno di loro è buono,” insistette Bob. “Fidati di me, e vi ci porterò… a meno che Polibote e gli altri non ci catturino prima.” 33 JASON Jason si addormentò sul lavoro. Il che fu un male, visto che si trovava a trecento metri di altezza in aria. Avrebbe dovuto stare più attento. Era la mattina dopo il loro incontro con il bandito Scirone, e Jason aveva il turno di guardia, intento a combattere alcuni venti selvaggi che stavano minacciando la nave. Quando pugnalò l’ultimo, si dimenticò di trattenere il fiato. Uno sbaglio stupido. Quando uno spirito del vento si disintegra, questo crea un risucchio. A meno che non si trattiene il fiato, ti viene risucchiata l’aria nei polmoni. La pressione interna delle orecchie si abbassa così velocemente, che svieni. Questo fu quello che accadde a Jason. Cosa persino peggiore, si ritrovò istantaneamente immerso in un sogno. Con una piccola parte della sua mente, pensò: Sul serio? Adesso? Doveva svegliarsi, o sarebbe morto; ma non fu in grado di seguire quel pensiero. Nel sogno, si ritrovò sul tetto di un alto edificio, con il profilo notturno di Manhattan che si estendeva sotto di lui. Un vento freddo gli frustava i vestiti. A qualche isolato di distanza, delle nuvole si erano raggruppate sulla cima dell’Empire State Building – l’entrata del Monte Olimpo. Saettarono dei lampi. L’aria era metallica e trasportava l’odore della pioggia in arrivo. La cima del grattacielo era illuminata come al solito, ma le luci sembravano essere difettose. Tremolavano passando dal viola all’arancione come se i colori stessero combattendo per il dominio. Sul tetto dell’edificio di Jason si trovavano i suoi vecchi compagni del Campo Giove: una schiera di semidei in armatura da combattimento, con le loro armi e scudi d’oro Imperiale che brillavano nel buio. Vide Dakota e Nathan, Leila e Marcus. Octavian si trovava da una parte, magro e pallido, con gli occhi cerchiati di rosso dalla mancanza di sonno o forse dalla rabbia, con una fila di peluche di animali sacrificali legati intorno alla vita. Le sue vesti bianche da augure erano drappeggiate sopra la maglietta viola e dei pantaloni mimetici. Al centro della schiera si trovava Reyna, con i suoi cani di metallo, Aurum e Argentum al fianco. Vedendola, Jason avvertì un’incredibile fitta di colpevolezza. Le aveva lasciato credere che avessero un futuro insieme. Non era mai stato innamorato di lei e non l’aveva esattamente incoraggiata… ma non l’aveva neanche respinta. Era scomparso, lasciandola a governare il campo da sola. (Okay, quella non era stata esattamente un’idea di Jason, ma comunque…) Poi era tornato al Campo Giove con la sua nuova ragazza Piper e un intero gruppo di amici Greci dentro una nave da guerra. Avevano attaccato il Foro ed erano fuggiti, lasciando Reyna con una guerra per le mani. Nel suo sogno lei appariva stanca. Altri avrebbero potuto non notarlo, ma lui aveva lavorato con lei abbastanza a lungo da riconoscere la stanchezza nei suoi occhi, la tensione che aveva nelle spalle sotto le cinghie della sua armatura. I suoi capelli neri erano bagnati, come se si fosse fatta una doccia veloce. I romani stavano fissando la porta di accesso al tetto come se fossero in attesa di qualcuno. Quando la porta si aprì, ne uscirono fuori due persone. Una era un fauno – no, pensò Jason – un satiro. Aveva imparato la differenza al Campo Mezzosangue, e il Coach Hedge lo correggeva sempre se commetteva quell’errore. I fauni romani tendevano a vagabondare, chiedendo elemosina e mangiando. I satiri erano più attivi, più impegnati negli affari dei semidei. Jason non credeva di aver visto quel satiro in particolare prima d’ora, ma era certo che il ragazzo appartenesse alla parte greca. Nessun fauno sarebbe apparso così deciso andando davanti a un gruppo di romani armati nel bel mezzo della notte. Indossava una maglietta verde di qualche riserva naturale con immagini di animali a rischio di estinzione come tigri e balene. Nulla gli copriva le gambe pelose e gli zoccoli. Aveva un pizzetto irsuto, dei ricci capelli castani infilati dentro un cappello stile rasta, e un flauto di canne intorno al collo. Le sue mani giocherellavano con l’orlo della maglietta, ma considerato il modo nel quale studiava i romani, facendo attenzione alle loro posizione e alle loro armi, Jason immaginò che quel satiro fosse già stato in battaglia. Al suo fianco c’era una ragazza dai capelli rossi che Jason riconosceva dal Campo Mezzosangue – il loro oracolo, Rachel Elizabeth Dare. Aveva dei lunghi capelli ricci, una camicetta bianca, e dei jeans ricoperti di disegni fatti con i pennarelli. Aveva una spazzola di plastica blu che picchiettava nervosamente contro la sua coscia come fosse un portafortuna. Jason la ricordava al falò, quando aveva recitato i versi di una profezia che aveva mandato lui, Piper e Leo nella loro prima impresa insieme. Era una normale adolescente mortale – non un semidio – ma per delle ragioni che Jason non aveva mai capito, lo spirito di Delfi l’aveva scelta come corpo ospitante. La vera domanda era: Cosa ci stava facendo con i romani? Si fece avanti, con gli occhi fissi su Reyna. “Hai ricevuto il mio messaggio.” Octavian sbuffò. “E’ l’unica ragione per la quale sei arrivata fino a questo punto viva, Graecus. Spero che siate venuti per discutere i termini della vostra resa.” “Octavian…” lo avvertì Reyna. “Almeno perquisiscili!” protestò Octavian. “Non ce n’è bisogno,” disse Reyna, studiando Rachel Dare. “Avete delle armi?” Rachel scrollò le spalle. “Ho colpito Crono nell’occhio con questa spazzola una volta. A parte questo, no.” I romani sembravano non sapere come reagire a quello. Non sembrava che la mortale stesse scherzando. “E il tuo amico?” Reyna fece un cenno della testa verso il satiro. “Pensavo che saresti venuta da sola.” “Lui è Grover Underwood,” disse Rachel. “E’ un capo del Concilio.” “Quale concilio?” chiese Octavian. “Dei Satiri Anziani, amico.” La voce di Grover era sottile e acuta, come se fosse terrorizzato, ma Jason sospettava che il satiro avesse più forza di quanta ne lasciasse vedere. “Davvero, voi romani non avete natura, alberi e cose così? Ho delle notizie che dovete sentire. Inoltre, sono un protettore certificato. Sono qui per, sapete, proteggere Rachel.” Sembrava che Reyna stesse cercando di non sorridere. “Ma niente armi?” “Solo il flauto.” L’espressione di Grover si fece pensierosa. “Percy ha sempre detto che la mia versione di “Born to be Wild” dovrebbe essere considerata un’arma pericolosa, ma non credo che sia così male.” Octavian fece un verso di scherno. “Un altro amico di Percy Jackson. E’ tutto quello che mi basta.” Reyna alzò la mano per chiedere silenzio. I suoi cani d’oro e d’argento annusarono l’aria, ma rimasero calmi e in guardia al suo fianco. “Fin’ora, i nostri ospiti hanno detto la verità,” disse Reyna. “Siate avvertiti, Rachel e Grover, se comincerete a mentire, questa conversazione non andrà bene per voi. Dite quello per cui siete venuti.” Dalla tasca dei suoi jeans, Rachel tirò fuori un pezzo di carta simile a un tovagliolo. “Un messaggio. Da Annabeth.” Jason non era certo di aver sentito bene. Annabeth si trovava nel Tartaro. Non poteva mandare nessun biglietto scritto su un tovagliolo. Forse ho colpito l’acqua e sono morto, disse il suo subconscio. Questa non è una visione reale. E’ un qualche tipo di allucinazione post-morte. Ma il sogno sembrava molto reale. Poteva sentire il vento che soffiava in cima al tetto. Poteva avvertire l’odore della tempesta. I lampi brillavano sull’Empire State Building, facendo accendere le armature dei romani. Reyna prese il biglietto. Mentre lo leggeva, le sue sopracciglia si inarcarono sempre di più. La sua bocca si aprì dallo stupore. Alla fine, alzò lo sguardo verso Rachel. “E’ uno scherzo?” “Lo vorrei,” disse Rachel. “Sono davvero nel Tartaro.” “Ma come –“ “Non lo so,” disse Rachel. “Il biglietto è apparso nel braciere sacrificale nel nostro padiglione della cena. Quella è la scrittura di Annabeth. Ha chiesto di te per nome.” Octavian si agitò. “Tartaro? Cosa vuoi dire?” Reyna gli passò la lettera. Octavian borbottava mentre leggeva: “Roma, Aracne, Atena – Atena Partenone?” Si guardò intorno oltraggiato, come in attesa di qualcuno che lo contraddicesse su quello che aveva letto. “Un trucco greco! I greci sono infami per i loro trucchi!” Reyna riprese il biglietto. “Perché chiedere di me?” Rachel sorrise. “Perché Annabeth è intelligente. Crede che tu possa farlo, Reyna Avila Ramirez-Arellano.” Jason ebbe la sensazione che qualcuno l’avesse schiaffeggiato. Nessun usava mai il nome completo di Reyna. Lei odiava dirlo a chiunque. L’unica volta nella quale Jason l’aveva pronunciato ad alta voce, solo nel tentativo di pronunciarlo nel modo giusto, lei gli aveva lanciato un’occhiata assassina. Quello era il nome di una bambina a San Juan, gli aveva detto. L’ho lasciato indietro quando ho lasciato Puerto Rico. Reyna si accigliò. “Come fai a –“ “Uh,” interruppe Grover Underwood. “Vuoi dire che le tue iniziali sono RA-RA?” La mano di Reyna si spostò verso il suo pugnale. “Ma non ha importanza!” disse velocemente il satiro. “Ascolta, non avrebbe rischiato di venire qui se non ci fidassimo dell’istinto di Annabeth. Un leader romano che riporta la statua greca più importante in assoluto al Campo Mezzosangue – lei sa che ciò potrebbe impedire una guerra.” “Questo non è un trucco,” aggiunse Rachel. “Non stiamo mentendo. Chiedi ai tuoi cani.” I levrieri di metallo non reagirono. Reyna accarezzò la testa di Aurum pensierosa. “L’Atena Partenone… quindi la leggenda è vera.” “Reyna!” gridò Octavian. “Non puoi seriamente considerare la cosa! Anche se la statua esiste ancora, puoi vedere quello che stanno facendo. Siamo in procinto di attaccarli – di distruggere gli stupidi greci una volta per tutte – e loro ordiscono questo stupido piano per distogliere la tua attenzione. Vogliono spedirti verso la tua morte!” Gli altri romani mormorarono, fissando con astio i loro visitatori. Jason si ricordava quanto potesse essere persuasivo Octavian, e stava portando gli ufficiali dalla sua parte. Rachel Dare si voltò verso l’augure. “Octavian, figlio di Apollo, dovresti prendere la cosa più seriamente. Persino i romani rispettano l’Oracolo di Delfi di tuo padre.” “Ha!” disse Octavian. “Tu sei l’Oracolo di Delfi? Giusto. E io sono l’Imperatore Nerone!” “Almeno Nerone sapeva suonare,” mormorò Grover. Octavin strinse i pugni. Improvvisamente il vento cambiò. Vorticò attorno ai romani con un sibilo, come un nido di serpenti. Rachel Dare brillò con un’aura verde, come se fosse illuminata da un riflettore di un delicato verde smeraldo. Poi il vento diminuì e l’aura scomparve. Il ghigno sul volto di Octavian si fuse. I romani si mossero agitati. “E’ la tua decisione,” disse Rachel, come se non fosse successo nulla. “Non ho nessuna profezia precisa da darti, ma posso vedere accenni di futuro. Vedo l’Atena Partenone sulla Collina Mezzosangue. Vedo lei che la porta lì.” Indicò Reyna. “Inoltre, ultimamente Ella ha pronunciato dei versi dai Libri Sibillini –“ “Cosa?” la interruppe Reyna. “I Libri Sibillini furono distrutti secoli fa.” “Lo sapevo!” Octavian si batté il pugno nel palmo della mano. “Quell’arpia che hanno riportato dalla loro impresa – Ella. Sapevo che stava recitando delle profezie! Adesso capisco. Ha – ha memorizzato in qualche modo una copia dei Libri Sibillini.” Reyna scosse la testa incredula. “Com’è possibile?” “Non lo sappiamo,” ammise Rachel. “Ma, sì, sembra che sia così. Ella ha una memoria perfetta. Ama i libri. Da qualche parte, in qualche modo, ha letto il vostro libro romano di profezie. Adesso è l’unica fonte.” “I vostri amici hanno mentito,” disse Octavian. “Hanno detto che l’arpia stava borbottando cose senza senso. L’hanno rubata!” Grover soffiò indignato. “Ella non è vostra proprietà! E’ una creatura libera. Inoltre, vuole stare al Campo Mezzosangue. Sta uscendo con un mio amico, Tyson.” “Il Ciclope,” ricordò Reyna. “Un’arpia che esce con un Ciclope…” “Non ha importanza!” disse Octavian. “L’arpia ha delle preziose profezie romane. Se i greci non la restituiranno, noi dovremmo prendere il loro Oracolo come ostaggio! Guardie!” Due centurioni si fecero avanti, con le pila alzate. Grover si portò il flauto alla bocca, suonò una veloce melodia, e le loro lance si trasformarono in alberi di Natale. Le guardie li fecero cadere sorpresi. “Basta così!” gridò Reyna. Non alzava spesso la voce. Quando lo faceva, ascoltavano tutti. “Ci siamo allontanati dal punto,” disse. “Rachel Dare, mi stai dicendo che Annabeth si trova nel Tartaro, tuttavia ha trovato un modo per mandare questo messaggio. Vuole che io porti questa statua dalle Terre Antiche al vostro campo.” Rachel annuì. “Solo un romano può restituirla e riportare la pace.” “E perché i romani dovrebbero volere la pace,” chiese Reyna, “dopo che la vostra nave ha attaccato la nostra città?” “Lo sai perché,” disse Rachel. “Per evitare questa guerra. Per riconciliare le personalità greche e romane degli dei. Dobbiamo lavorare insieme per sconfiggere Gea.” Octavian si fece avanti per parlare, ma Reyna li lanciò un’occhiata fulminante. “Secondo Percy Jackson,” disse Reyna, “la battaglia con Gea sarà combattuta nelle Terre Antiche. In Grecia.” “E’ dove si trovano i giganti,” concordò Rachel. “Qualsiasi magia, qualsiasi rituale stiano pianificando i giganti per svegliare Madre Terra, sento che accadrà in Grecia. Ma… bè, i nostri problemi non sono limitati alle Terre Antiche. E’ per questo che ho portato Grover per parlare con te.” Il satiro giocherellò con il suo pizzetto. “Sì… vedi, negli ultimi mesi, ho parlato con i satiri e gli spiriti della natura dello stato. Dicono tutti le stesse cose. Gea si sta svegliando – voglio dire, è proprio sull’orlo di svegliarsi. Sta sussurrando nelle menti delle naiadi, cercando di trasformarle. Sta causando terremoti, sradicando gli alberi delle driadi. Solo la scorsa settimana, è apparsa in forma umana in una dozzina di posti diversi, spaventando a morte alcuni miei amici. In Colorado un pugno gigante fatto di pietra è spuntato da una montagna e ha schiacciato alcuni Party Pony come zanzare.” Reyna aggrottò le sopracciglia. “Party Pony?” “Lunga storia,” disse Rachel. “Il punto è che: Gea si sveglierà ovunque. Si sta già agitando. Nessun luogo sarà al sicuro dalla battaglia. E sappiamo che i suoi primi obiettivi saranno i campi dei semidei. Vuole distruggerci.” “Speculazioni,” disse Octavian. “Una distrazione. I greci temono il nostro attacco. Stanno cercando di confonderci. E’ la storia del Cavallo di Troia che si ripete!” Reyna si rigirò l’anello d’argento che indossava sempre, con la spada e la torcia, simboli di sua madre Bellona. “Marcus,” disse, “vai a prendere Scipio alle stalle.” “Reyna, no!” protestò Octavian. Lei guardò i greci. “Lo farò per Annabeth, per la speranza di pace tra i nostri campi, ma non crediate che abbia dimenticato gli insulti al Campo Giove. La vostra nave ha sparato sulla nostra città. Voi avete dichiarato guerra – non noi. Adesso, andate.” Grover pestò lo zoccolo a terra. “Percy non farebbe mai –“ “Grover,” disse Rachel, “dovremmo andare.” Il suo tono diceva: Prima che sia troppo tardi. Dopo essere spariti lungo le scale, Octavian si scagliò contro Reyna. “Sei pazza?” “Sono il pretore della legione,” disse Reyna, “Reputo che ciò sia nei migliori interessi di Roma.” “Di farti uccidere? Di infrangere le nostre leggi più antiche e viaggiare nelle Terre Antiche? Come farai a trovare la loro nave, presumendo che sopravvivrai al viaggio?” “Li troverò,” disse Reyna. “Se sono diretti verso la Grecia, conosco un luogo nel quale Jason si fermerà. Per affrontare i fantasmi nella Casa di Ade, avrà bisogno di un esercito. C’è solo un posto dove può trovare quel tipo di aiuto.” Nel sogno di Jason, l’edificio sembrò inclinarsi sotto i suoi piedi. Si ricordò di una conversazione avuta con Reyna anni prima, una promessa che si erano fatti a vicenda. Sapeva quello di cui stava parlando. “Questa è una follia,” borbottò Octavian. “Siamo già sotto attacco. Dobbiamo prendere l’offensiva! Quei nani pelosi ci hanno rubato le provviste, hanno sabotato le nostre squadre di ricognizione – tu sai che sono stati i greci a mandarli.” “Forse,” disse Reyna. “Ma non lancerai un attacco senza i miei ordini. Continuate a perlustrare il campo del nemico. Fissate le vostre posizioni. Radunate tutti gli alleati che potete, e se catturate quei nani, avete la mia benedizione di rimandarli al Tartaro. Ma non attaccate il Campo Mezzosangue fino a che non torno.” Octavian strinse gli occhi. “Mentre sarai via, l’augure è l’ufficiale anziano. Sarò io in carica.” “Lo so.” Reyna non ne sembrava entusiasta. “Ma hai i miei ordini. Li avete sentiti tutti.” Studiò i volti dei centurioni, sfidandoli a opporsi. Si allontanò velocemente, con il mantello viola che le si gonfiava alle spalle e i cani al seguito. Quando se ne fu andata. Octavian si voltò verso i centurioni. “Radunate tutti gli ufficiali anziani. Voglio una riunione non appena Reyna è partita per la sua stupida impresa. Ci sarà qualche cambiamento nei piani della legione.” Uno dei centurioni aprì la bocca per rispondere, ma per qualche ragione parlò con la voce di Piper: “SVEGLIATI!” Gli occhi di Jason si spalancarono, e vide la superficie dell’oceano dirigersi velocemente verso di lui. 34 JASON Jason riuscì a sopravvivere – a malapena. In seguito, i suoi amici gli spiegarono che non lo avevano visto cadere dal cielo fino all’ultimo istante. Non c’era stato tempo per Frank di trasformarsi in un’aquila e prenderlo al v olo; niente tempo per formulare un piano di salvataggio. Solo i riflessi rapidi di Piper e la sua lingua ammaliatrice gli avevano salvato la vita. Aveva urlato SVEGLIATI! con tale forza che Jason si sentiva come se fosse stato colpito da un defibrillatore. Con un millisecondo di tempo, aveva invocato i venti ed evitato di diventare una galleggiante chiazza di semidio spiaccicato sulla superficie dell’Adriatico. Di nuovo a bordo, aveva preso Leo da parte e gli aveva suggerito un cambiamento di rotta. Fortunatamente, Leo si fidava abbastanza di lui da non fare domande. “Strano luogo di vacanza.” Leo fece un grosso sorriso. “Ma, hey, sei tu il capo!” Adesso, seduto con i suoi amici nella sala da pranzo, Jason si sentiva così sveglio, che dubitava avrebbe dormito per una settimana. Le sue mani erano frenetiche. Non riusciva a smettere di picchiettare i piedi sul pavimento. Immaginò che quello doveva essere come si sentiva Leo tutto il tempo, con l’eccezione che Leo aveva anche senso dell’umorismo. Dopo quello che Jason aveva visto nel suo sogno, non si sentiva molto in vena di scherzi. Mentre pranzavano, Jason raccontò la sua visione a mezz’aria. I suoi amici rimasero in silenzio abbastanza a lungo perché il Coach Hedge finisse un panino al burro di arachidi e banana, insieme a tutto il piatto di ceramica. La nave scricchiolava mentre viaggiava attraverso l’Adriatico, con i remi rimasti ancora fuori allineamento a causa dell’attacco della tartaruga gigante. Di tanto in tanto Festus ronzava e cigolava attraverso gli interfoni, facendo rapporti sullo stato dell’autopilota attraverso quella strana lingua da macchina che solo Leo era in grado di capire. “Un messaggio da Annabeth.” Piper scosse la testa stupefatta. “Non vedo come possa essere possibile, ma se lo è – “ “E’ viva,” disse Leo. “Grazie agli dei e passa la salsa piccante.” Frank si accigliò. “Che vuol dire?” Leo si pulì le briciole di patatine dalla faccia. “Vuol dire passa la salsa piccante, Zhang. Ho ancora fame.” Frank fece scivolare il barattolo di salsa attraverso il tavolo. “Non riesco a credere che Reyna cercherà di trovarci. E’ un tabù, venire nelle Terre Antiche. Sarà rimossa dalla sua carica di pretore.” “Se sopravvivrà,” disse Hazel. “E’ stato abbastanza difficile per noi arrivare fin qui con sette semidei e una nave da guerra.” “E me.” Coach Hedge fece un rutto. “Non dimenticatevi, pasticcini, voi avete il vantaggio del satiro.” Jason fu costretto a sorridere. Il Coach Hedge poteva esser abbastanza ridicolo, ma Jason era contento che fosse venuto con loro. Pensò al satiro che aveva visto nel suo sogno – Grover Underwood. Non riusciva a immaginare un satiro più diverso dal Coach Hedge, ma entrambi sembravano essere coraggiosi a modo loro. Ciò fece riflettere Jason sui fauni al Campo Giove – se anche loro potessero essere così se i semidei romani si fossero aspettati di più da loro. Un’altra cosa da aggiungere alla sua lista…. La sua lista. Non si era accorto di averne una fino a quel momento, ma fin da quando aveva lasciato il Campo Mezzosangue, aveva pensato a modi nel rendere il Campo Giove più…Greco. Era cresciuto al Campo Giove. Aveva agito bene là. Ma era sempre stato un po’ anticonformista. Si era ritrovato oppresso dalle regole. Si era unito alla Quinta Coorte perché tutti gli avevano detto di non farlo. Lo avevano avvertito che era il gruppo peggiore. Così lui aveva pensato, Bene, io la renderò la migliore. Quando era diventato pretore, aveva sostenuto una campagna per rinominare la legione come Prima Legione invece della Dodicesima Legione, per simboleggiare un nuovo inizio per Roma. L’idea aveva quasi causato un ammutinamento. Nuova Roma era tutta basata sulle tradizioni e sulle eredità; le regole non cambiavano così facilmente. Jason aveva imparato a convivere con ciò ed era persino riuscito a salire in cima. Ma adesso che aveva visto tutti e due i campi, non poteva scrollarsi di dosso la sensazione che il Campo Mezzosangue potesse avergli insegnato qualcosa di più su se stesso. Se fosse sopravvissuto a quella guerra con Gea e fosse ritornato al Campo Giove come pretore, avrebbe potuto cambiare le cose in meglio? Quello era il suo dovere. Allora perché l’idea lo riempiva di paura? Si sentiva in colpa ad aver lasciato Reyna a governare senza di lui, tuttavia… parte di lui voleva tornare al Campo Mezzosangue con Piper e Leo. Immaginava che ciò facesse di lui un leader piuttosto terribile. “Jason?” chiese Leo. “L’Argo II chiama Jason. Andiamo.” Si rese conto che i suoi amici lo stavano aspettando con sguardi speranzosi. Avevano bisogno di essere rassicurati. Che fosse tornato o meno a Nuova Roma dopo la guerra, Jason doveva farsi avanti adesso e comportarsi da pretore. “Sì, scusate.” Toccò la riga rasata che il bandito Scirone gli aveva tagliato nei capelli. “Attraversare l’Atlantico è un viaggio difficile, senza dubbio. Ma non scommetterei mai contro Reyna. Se c’è qualcuno che può farcela, quella è lei.” Piper fece giare il suo cucchiaio nella zuppa. Jason era ancora un po’ nervoso all’idea che lei si ingelosisse di Reyna, ma quando lei alzò lo sguardo, gli rivolse un sorriso asciutto che sembrava più provocatorio che insicuro. “Bè, mi piacerebbe tantissimo vedere di nuovo Reyna,” disse lei. “Ma come farà a trovarci?” Frank alzò la mano. “Non puoi semplicemente mandarle un messaggio-Iride?” “Non funzionano bene,” esclamò Coach Hedge. “Segnale terribile. Ogni notte, lo giuro, prenderei quella dea degli arcobaleni a calci…” Esitò. La sua faccia si fece rosso acceso. “Coach?” sogghignò Leo. “Chi chiama tutte le notti, vecchia capra?” “Nessuno!” scattò Hedge. “Nulla. Volevo solo dire –“ “Vuol dire che abbiamo già provato,” intervenne Hazel, e il coach le rivolse un’occhiata riconoscente. “Qualche magia sta interferendo… forse Gea. Contattare i romani è persino più difficile. Credo che si stiano proteggendo.” Jason guardò da Hazel al coach, chiedendosi cosa stesse succedendo con il satiro, e come facesse Hazel a saperlo. Adesso che Jason ci pensava, il coach non parlava della sua ragazza Mellie, ninfa delle nuvole, da molto tempo… Frank picchettò le dita sul tavolo. “Suppongo che Reyna non abbia un cellulare…? Nah. Non importa. Probabilmente avrebbe un brutto segnale su un pegaso che vola sopra l’Atlantico.” Jason pensò al viaggio dell’Argo II sull’oceano, alle dozzine di incontri che li avevano quasi uccisi. Pensare a Reyna che affrontava quel viaggio da sola – non riusciva a decidere se fosse una cosa terrificante o che induceva rispetto. “Ci troverà,” disse. “Ha parlato di una cosa nel sogno – si aspetta che vada in un certo luogo mentre siamo diretti verso la Casa di Ade. Mi – me ne ero dimenticato, in realtà, ma ha ragione. E’ un luogo che dobbiamo visitare.” Piper si sporse verso di lui, la treccia color caramello poggiata su una spalla. I suoi occhi multicolore gli rendevano difficile pensare lucidamente. “E dove si trova questo posto?” chiese. “A… uh, una città chiamata Spalato.” “Spalato.” Aveva un odore davvero buono – come caprifoglio in fiore. “Um, sì.” Jason si chiese se Piper stese usando qualche magia da Afrodite su di lui – come per esempio, ogni volta che diceva il nome di Reyna, lei lo stordiva così tanto che lui non poteva pensare a nulla eccetto Piper. Pensava che non fosse la vendetta peggiore di tutte. “Infatti, dovremmo essere vicini. Leo?” Leo spinse il bottone dell’interfono. “Come va lassù, amico?” La polena Festus ronzò e fischiò vapore. “Dice che mancano circa dieci minuti al porto,” tradusse Leo. “Anche se continuo a non capire perché tu voglia andare in Croazia, soprattutto in una città chiamata Spalato. Cioè, se chiami la tua città Spalato, è un po’ come se chiamassi la tua città Andate via!” “Aspetta,” disse Hazel. “Perché stiamo andando in Croazia?” Jason notò che gli altri erano riluttanti a incrociare il suo sguardo. Dal suo trucco con la Foschia contro Scirone, persino Jason si sentiva un po’ nervoso accanto a lei. Sapeva non era giusto nei confronti di Hazel. Era già abbastanza difficile essere una figlia di Plutone, ma lei aveva tirato fuori della magia seria su quella scogliera. E dopo, secondo Hazel, Plutone in persona le era apparso. Quella era una cosa che i romani chiamavano tipicamente brutto presagio. Leo spinse da parte le sue patatine con salsa piccante. “Bè, tecnicamente ci troviamo in territorio croato da un giorno o giù di lì. Tutta la costa che abbiamo affiancato fin’ora è la Croazia, ma credo che ai tempi romani era chiamata… cosa avevi detto, Jason? Topazia?” “Dalmazia,” disse Nico, facendo trasalire Jason. Santo Romolo… Jason desiderava poter mettere una campanella intorno al collo di Nico di Angelo per ricordarsi che il ragazzo si trovava lì. Nico aveva quell’inquietante abitudine di rimanere silenzioso nell’angolo, fondendosi con le ombre. Si fece avanti, con gli occhi scuri fissi su Jason. Sa quando l’avevano salvato dalla giara di bronzo a Roma, Nico aveva dormito molto poco e mangiato persino meno, come se si stesse ancora sostenendo con quei semi di melograno d’emergenza dell’Oltretomba. A Jason ricordava un po’ troppo quel fantasma carnivoro che aveva combattuto una volta a San Bernardino. “La Croazia in passato era la Dalmazia,” disse Nico. “Un’importanze provincia romana. Vuoi visitare il palazzo di Diocleziano, non è così?” Coach Hedge fece un altro eroico rutto. “Il palazzo di chi? E la Dalmazia è da dove vengono quei cani dalmata? Quel cartone della Carica dei 101 – ho ancora gli incubi.” Frank si grattò la testa. “Perché dovrebbe avere degli incubi su quello?” Coach Hedge aveva l’aspetto di uno che stava per lanciarsi in un’importante discorso sulle malvagità dei Dalmata disegnati, ma Jason decise che non voleva sapere. “Nico ha ragione,” disse. “Devo di andare al Palazzo di Diocleziano. E’ il primo posto in cui andrà Reyna, perché lei sai che io ci andrò.” Piper inarcò le sopracciglia. “E perché Reyna lo dovrebbe pensare? Perché hai sempre avuto un folle fascino per la cultura croata?” Jason fissò il suo panino intatto. Era difficile parlare della sua vita prima che Giunone gli cancellasse la memoria. I suoi anni al Campo Giove sembravano una finzione, come un film nel quale aveva recitato anni prima. “Io e Reyna eravamo soliti parlare di Diocleziano,” disse. “Entrambi idolatravano il tipo come leader. Parlavamo di come ci sarebbe piaciuto andare a vedere il Palazzo di Diocleziano. Ovviamente sapevamo che era impossibile. Nessuno poteva andare nelle Terre Antiche. Tuttavia, facemmo questo patto che se ci fossimo mai andati, ci saremmo diretti là.” “Diocleziano…” Leo pensò al nome, poi scosse la testa. “Non mi viene in mente nulla. Perché era così importante?” Frank sembrava offeso. “Fu l’ultimo grande imperatore pagano!” Leo mandò gli occhi al cielo. “Perché non sono sorpreso dal fatto che tu lo sappia, Zhang?” “Perché non dovrei? Fu l’ultimo a venerare gli dei dell’Olimpo, prima che arrivasse Costantino e adottasse il Cristianesimo.” Hazel annuì. “Mi ricordo qualcosa. Le suore alla St. Agnes ci insegnarono che Diocleziano era un grande cattivo, insieme a Nerone e Caligola.” Guardò sospettosa Jason. “Perché lo idolatrizzi?” “Non era un totale cattivo,” disse Jason. “Sì, perseguitò i Cristiani, ma altrimenti era un buon governatore. Si fece strada partendo dal basso, unendosi alla legione. I suoi genitori erano degli ex schiavi… o almeno lo era sua madre. I semidei sanno che era un figlio di Giove – l’ultimo semidio a governare Roma. Fu anche il primo imperatore ad essersi mai congedato, del tipo, pacificamente, e ad aver rinunciato al suo potere. Veniva dalla Dalmazia, così tornò là e costruì un palazzo di ritiro. La città di Spalato gli crebbe intorno…” Esitò quando guardò Leo, che stava facendo finta di prendere appunti con una penna immaginaria. “Vai avanti, Professor Grace!” disse, con gli occhi spalancati. “Voglio prendere una A al compito.” “Stai zitto, Leo.” Piper prese un’altra cucchiaiata di zuppa. “Quindi, perché il Palazzo di Diocleziano è così speciale?” Nico si sporse in avanti e prese un acino d’uva. Quella probabilmente era l’intera dieta del ragazzo per tutto il giorno. “Si dice che sia infestato dal fantasma di Diocleziano.” “Che era un figlio di Giove, come me,” disse Jason. “La sua tomba fu distrutta secoli fa, ma io e Reyna ci chiedevamo sempre se avremmo potuto trovare il fantasma di Diocleziano e chiederli dove fosse stato seppellito… bè, secondo la leggenda, il suo scettro fu sepolto con lui.” Nico gli rivolse un sottile sorriso inquietante. “Ah… quella leggenda.” “Quale leggenda?” chiese Hazel. Nico si voltò verso sua sorella. “Apparentemente lo scettro di Diocleziano era in grado di invocare i fantasmi delle legioni romane, chiunque di loro venerasse le antiche divinità.” Leo fischiò. “Okay, adesso sono interessato. Sarebbe carino avere un esercito di zombie pagani che picchia duro dalla nostra parte quando entreremo nella Casa di Ade.” “Non sono certo che la metterei in quel modo,” mormorò Jason, “ma sì.” “Non abbiamo molto tempo,” avvertì Frank. “E’ già il nove luglio. Dobbiamo raggiungere Epiro, chiudere le Porte della Morte – “ “Che sono sorvegliate,” mormorò Hazel, “da un gigante di fumo e una strega che vuole…” Esitò. “Bè, non ne sono certa. Ma secondo Plutone, sta pianificando di ‘ricostruire il suo dominio’. Qualunque cosa voglia dire, è abbastanza brutta che mio padre ha sentito il bisogno di mettermi in guardia di persona.” Frank grugnì. “E se sopravviviamo a tutto quello, ci rimaner ancora da scoprire il luogo in cui i giganti pianificano di svegliare Gea e arrivare là entro il primo Agosto. Inoltre, più tempo Percy e Annabeth passano nel Tartaro –“ “Lo so,” disse Jason. “Non staremo a lungo a Spalato. Ma vale la pena tentare di trovare lo scettro. Mentre siamo al palazzo, posso lasciare un messaggio per Reyna, farle sapere la strada che stiamo prendendo per Epiro.” Nico annuì. “Lo scettro di Diocleziano potrebbe fare un’enorme differenza. Ti servirà il mio aiuto.” Jason cercò di non mostrare il suo disagio, ma la sua pelle pizzicò al pensiero di andare da qualche parte con Nico di Angelo. Percy aveva raccontato delle storie preoccupanti su Nico. La sua lealtà non era sempre chiara. Passava più tempo con i morti che con i vivi. Una volta, aveva adescato Percy in una trappola nel palazzo di Ade. Forse Nico aveva pareggiato la cosa aiutando i greci contro i Titani, tuttavia… Piper gli strinse la mano. “Hey, sembra divertente. Verrò anche io.” Jason voleva urlare: Grazie agli dei! Ma Nico scosse la testa. “Non puoi, Piper. Dobbiamo essere solo io e Jason. Il fantasma di Diocleziano potrebbe apparire per un figlio di Giove, ma qualsiasi altro semidio lo farebbe molto probabilmente… ah,spaventare. E io sono l’unico che può parlare con il suo spirito. Persino Hazel non sarebbe in grado di farlo.” Gli occhi di Nico avevano un luccichio di sfida. Sembrava curioso di vedere se Jason avrebbe protestato o meno. La campana della nave suonò. Festus cigolò e ronzò dall’interfono. “Siamo arrivati,” annunciò Leo. “Tempo di Spalato.” Frank gemette. “Possiamo lasciare Valdez in Croazia?” Jason si alzò. “Frank, tu hai l’incarico di difendere la nave. Leo, tu hai delle riparazioni da fare. Voi altri, aiutate ovunque possiate. Io e Nico…” Si voltò verso il figlio di Ade. “Noi abbiamo un fantasma da trovare.” 35 JASON Jason vide l’angelo per la prima volta accanto al camioncino del gelato. L’Argo II si era ancorata nella baia insieme a sei o sette navi da crociera. Come al solito, i mortali non prestarono alcuna attenzione al trireme; ma tanto per essere sicuri, Jason e Nico saltarono su una barca di una della navi turistiche così che sembrasse che facessero parte della folla una volta arrivati a riva. Al primo sguardo, Spalato sembrava un bel posto. Intorno al porto si sviluppava una lunga passeggiata affiancata da palme. I bar all’aperto erano affollati dagli adolescenti europei, che chiacchieravano in una dozzina di lingue diverse e si godevano il pomeriggio soleggiato. L’aria odorava di carne alla brace e fiori appena raccolti. Oltre il viale principale, la città era un guazzabuglio di torri medievali, muri romani, edifici di pietra bianca con tetti dalle tegole rosse, e uffici moderni tutti stipati insieme. In lontananza, delle colline grigio-verdi marciavano verso un’altura, il che rese Jason un po’ nervoso. Continuava a guardare la scarpata rocciosa, aspettandosi di vedere il volto di Gea apparire tra le ombre. Lui e Nico stavano camminando lungo la passeggiata quando Jason individuò il ragazzo con ali che comprava un gelato da un camioncino ambulante. La donna dietro al bancone appariva annoiata mentre contava il resto del ragazzo. I turisti navigavano intorno alle enormi ali dell’angelo senza dargli una seconda occhiata. Jason diede una piccola spinta a Nico. “Vedi quello che vedo io?” “Sì,” annuì Nico. “Forse dovremmo comprare del gelato.” Mentre si facevano strada verso il camioncino ambulante, Jason temette che quel tipo alato potesse essere un figlio di Borea, il Vento del Nord. Al fianco, l’angelo aveva lo stesso tipo di spada di bronzo seghettata che avevano i Boreadi, e l’ultimo incontro di Jason con loro non era andato molto bene. Ma quel tipo sembrava più distaccato che freddo. Indossava una canottiera rossa, dei pantaloncini bermuda, e dei sandali di pelle. Le sue ali erano una combinazione di colori rossastri, simili a quelli di un gallo o di un tramonto pigro. Aveva una profonda abbronzatura e dei capelli neri ricci quasi come quelli di Leo. “Non è uno spirito risorto,” mormorò Nico. “O una creatura dell’Oltretomba.” “No,” concordò Jason. “Dubito che quelle mangerebbero gelato al cioccolato.” “Allora cos’è?” chiese Nico. Arrivarono a nove metri da lui, e il tipo alato li guardò direttamente. Sorrise, indicò un punto oltre la sua spalla con il suo gelato, e si dissolse nell’aria. Jason non riusciva esattamente a vederlo, ma aveva fatto abbastanza esperienza nel controllare il vento che era in grado di seguire il percorso dell’angelo – una piccola calda folata di vento rossa e oro che zigzagava per le strade, scendendo dai marciapiedi con delle giravolte, e facendo volare le cartoline dagli espositori davanti ai negozi da turisti. Il vento si diresse verso la fine del viale principale, dove incombeva una grossa struttura simile a una fortezza. “Scommetto che quello è il palazzo,” disse Jason. “Andiamo.” Anche dopo due millenni, il Palazzo di Diocleziano era ancora impressionante. I muri esterni erano ormai solo un guscio di granito rosa, con colonne cadenti e delle finestre arcate aperte al cielo, ma per la maggior parte era intatto, lungo mezzo chilometro e alto venti o venticinque metri, andando a rimpicciolire i negozi moderni e le case che erano affollate sotto di lui. Jason immaginò come doveva apparire il palazzo quando era stato appena costruito, con le guardie imperiali che camminavano sui bastioni di difesa e le aquile dorate di Roma che brillavano sui parapetti. L’angelo del vento – o qualunque cosa fosse – saettò fuori e dentro le finestre di granito rosa, poi scomparve dall’altra parte. Jason studiò la facciata del palazzo in cerca di un’apertura. L’unica che vide era a diversi isolati di distanza, con dei turisti in fila per comprare i biglietti. Non c’era tempo per quello. “Dobbiamo raggiungerlo,” disse Jason. “Reggiti.” “Ma –“ Jason afferrò Nico e fece sollevare entrambi in aria. Nico produsse uno strozzato suono di protesta mentre si libravano sopra i muri ed entravano nel cortile, dove altri turisti stavano passeggiando e scattando fotografie. Un bambino apparve sorpreso quando atterrarono. Poi il suo sguardo si spostò e lui scossa la testa, come se avesse deciso che si era trattato solo di un’allucinazione indotta dal succo di frutta. Sulla parte sinistra del cortile c’era una fila di colonne che sostenevano degli archi grigi consumati dal tempo. Sul lato destro si trovava un edificio di marmo bianco con file di alte finestre. “Il peristilio,” disse Nico. “Questa era l’entrata della residenza privata di Diocleziano.” Guardò corrucciato verso Jason. “E per favore, non mi piace essere toccato. Non afferrarmi mai più.” Le spalle di Jason si fecero tese. Pensò di avvertire un accenno di minaccia, del tipo: a meno che non voglia ritrovarti una spada di ferro di Stige nel naso. “Uh, okay. Scusa. Come fai a sapere il nome di questo posto?” Nico studiò l’atrio. Si concentrò su alcuni scalini nell’angolo più lontano, che portavano verso il basso. “Sono già stato qui.” I suoi occhi erano scuri come la sua spada. “Con mia madre e Bianca. Un viaggio di un fine settimana lontani da Venezia. Avevo, forse… sei anni?” “Questo è stato, quando… negli anni Trenta?” “Trentotto o giù di lì,” disse Nico assente. “Perché t’importa? Vedi quel tipo alato da qualche parte?” “No…” Jason stava ancora cercando di abituarsi all’idea del passato di Nico. Lui aveva sempre cercato di costruire un buon rapporto con le persone della sua squadra. Aveva imparato con una dura lezione che se qualcuno ti doveva guardare le spalle in un combattimento, era meglio se trovavi un terreno in comune e se ci si fidava l’uno dell’altro. Ma Nico non era facile da capire. “Solo…non riesco a immaginare quando debba essere strano, venire da un altro periodo storico.” “No, non puoi.” Nico fissò il pavimento di pietra. Fece un respiro profondo. “Senti… non mi piace parlarne. Onestamente, credo che ad Hazel sia andata peggio. Lei si ricorda di più di quando era piccola. E’ dovuta tornare dal mondo dei morti e adattarsi al mondo moderno. Io… io e Bianca, noi eravamo bloccati al Lotus Hotel. Il tempo è passato così velocemente. Stranamente, quello ha reso il passaggio più facile.” “Percy mi ha raccontato di quel posto,” disse Jason. “Settant’anni, ma è sembrato solo un mese?” Nico strinse i pugni fino a che le sue dita non divennero bianche. “Sì. Sono certo che Percy ti abbia raccontato tutto di me.” La sua voce era carica di amarezza – più di quella che Jason riusciva a capire. Sapeva che Nico aveva dato la colpa a Percy per aver fatto uccidere sua sorella Bianca, ma sembrava che avevano superato la cosa, almeno secondo Percy. Piper aveva anche parlato di una voce secondo cui Nico aveva una cotta per Annabeth. Forse quello era parte del motivo. Tuttavia… Jason non capiva perché Nico allontanasse le persone, perché non aveva mai trascorso molto tempo in nessun dei due campi, perché preferiva i morti ai vivi. Davvero non capiva perché Nico aveva promesso di condurre l’Argo II a Epiro se odiava così tanto Percy Jackson. Gli occhi di Nico studiarono le finestre sopra di loro. “I morti romani sono ovunque qui… Lari. Lemuri. Stanno guardando. Sono arrabbiati.” “Con noi?” La mano di Jason andò alla sua spada. “Con tutto.” Nico indicò un piccolo edificio di pietra sull’estremità ovest del cortile. “Quello un tempo era un tempio a Giove. I Cristiani lo hanno mutato in un battistero. Ai fantasmi romani non piace.” Jason fissò l’entrata scura. Non aveva mai incontrato Giove, ma pensava a suo padre come a una persona vivente – l’uomo che si era innamorato di sua madre. Ovviamente sapeva che suo padre era immortale, ma in qualche modo il vero significato di ciò non l’aveva mai colpito fino a quel momento, mentre fissava una porta attraverso la quale erano passati dei romani, migliaia di anni prima, per venerare suo padre. L’idea fece venire a Jason un lancinante mal di testa. “E laggiù…” Nico indicò a est verso un edificio esagonale circondato da colonne libere. “Quello era il mausoleo dell’imperatore.” “Ma la sua tomba non è più là,” indovinò Jason. “Non lo è da secoli,” disse Nico. “Quando l’impero crollò, l’edificio venne trasformato in una cattedrale cristiana.” Jason deglutì. “Quindi se il fantasma di Diocleziano è ancora da queste parti –“ “Probabilmente non sarà felice.” Il vento soffiò, facendo volare foglie e incarti di merendine attraverso il peristilio. Con la coda dell’occhio, Jason catturò il guizzo di un movimento – una macchia sfocata di rosso e oro. Quando si voltò, un’unica piuma color ruggine si stava posando sugli scalini della rampa che portava in basso. “Quella parte.” Jason indicò. “Il tizio alato. Dove credi che portino quelle scale?” Nico sguainò la sua spada. Il suo sorriso era persino più inquietante di quando era imbronciato. “Sottoterra,” disse. “Il mio posto preferito.” Sottoterra non era il posto preferito di Jason. Fin dal suo ultimo viaggio nei sotterranei di Roma con Piper e Percy, a combattere quei giganti gemelli nell’ipogeo sotto il Colosseo, la maggior parte dei suoi incubi aveva riguardato cantine, botole, e grosse ruote da criceto. Avere Nico con lui non era una cosa rassicurante. La sua spada di ferro di Stige sembrava rendere le ombre persino più tenebrose, come se il metallo infernale stesse assorbendo la luce e il calore nell’aria. Strisciarono attraverso un’ampia cantina con spesse colonne di supporto che reggevano un soffitto a volta. I blocchi di pietra calcarea erano così antichi che si erano fusi insieme dopo secoli di umidità, facendo quasi assomigliare il posto a una caverna naturale. Nessuno dei turisti si era avventurato là sotto. Ovviamente, loro erano più svegli dei semidei. Jason sguainò il suo gladius. Procedettero passando sotto le basse arcate, con i loro passi che riecheggiavano sul pavimento di pietra. Delle finestre sbarrate erano allineate sulla parte superiore di una delle pareti, affacciandosi sul livello della strada, ma ciò non faceva altro che rendere la stanza più claustrofobica. I raggi di sole assomigliavano a delle contorte sbarre di prigione, che vorticavano di polvere antica. Jason superò una trave di supporto, guardò alla sua sinistra, e per poco non ebbe un attacco di cuore. A fissarlo dritto negli occhi c‘era un busto di marmo di Diocleziano, con il volto di pietra chiara che brillava di disapprovazione. Jason cercò di controllare il suo respiro. Quello sembrava un buon posto dove lasciare il biglietto che aveva scritto per Reyna, dicendole della loro rotta verso Epiro. Era lontano dalle folle, ma si fidava del fatto che Reyna l’avrebbe trovato. Aveva gli istinti di una cacciatrice. Fece scivolare la nota tra il busto e il suo piedistallo, e fece qualche passo indietro. Gli occhi di marmo di Diocleziano lo rendevano nervoso. Jason non riusciva a fare a meno di pensare a Termine, la statua del dio parlante che si trovava in Nuova Roma. Sperava che Diocleziano non gli urlasse contro o che cominciasse improvvisamente a cantare. “Salve!” Prima che Jason potesse registrare il fatto che la voce proveniva da qualche altra parte, tagliò di netto la testa dell’imperatore. Il busto cadde e si frantumò sul pavimento. “Non è stato molto carino,” disse la voce alle sue spalle. Jason si voltò. L’uomo alato del camioncino dei gelati era appoggiato contro una colonna vicina, intento a giocherellare con aria indifferente con un piccolo cerchio di bronzo che continuava a lanciare in aria. Ai suoi piedi c’era un cestino da picnic di vimini pieno di frutta. “Voglio dire,” disse l’uomo, “cosa ti avrà mai fatto Diocleziano?” L’aria vorticò intorno ai piedi di Jason. I frammenti di marmo si riunirono formando un piccolo tornado, volarono a spirale tornando sul piedistallo, e si riassemblarono formando un busto completo, con il biglietto ancora infilato sotto. “Uh –“ Jason abbassò la spada. “E’ stato un incidente. Mi hai spaventato.” Il tipo alato ridacchiò. “Jason Grace, il Vento dell’Ovest è stato chiamato in molti modi… caldo, gentile, donatore di vita, e maledettamente attraente. Ma non sono mai stato considerato spaventoso. Lascio quel comportamento volgare ai miei burrascosi fratelli del nord.” Nico indietreggiò. “Il Vento dell’Ovest? Vuoi dire che tu sei –“ “Favonio,” capì Jason. “Dio del Vento dell’Ovest.” Favonio sorrise e si inchinò, chiaramente felice di essere stato riconosciuto. “Sicuramente potete chiamarmi con il mio nome romano, oppure Zefiro, se siete greci. Non sono pignolo al riguardo.” Nico appariva essere piuttosto puntiglioso al riguardo. “Perché la tua personalità greca e romana non sono in conflitto, come per gli altri dei?” “Oh, ho i mal di testa occasionali.” Favonio scrollò le spalle. “Alcune mattine mi sveglio vestito con unchitone greco quando sono certo di essere andato a dormire nel mio pigiama SPQR. Ma per la maggior parte la guerra non mi da fastidio. Io sono un dio minore, sapete – non sono mai stato davvero nelle luci della ribalta. Le continue battaglie tra voi semidei non mi influenzano così tanto.” “Quindi…” Jason non era completamente sicuro di dover rinfoderare la sua spada. “Cosa ci fai qui?” “Molte cose!” disse Favonio. “Me ne vado in giro con il mio cestino di frutta. Porto sempre un cestino di frutta con me. Ti andrebbe una pera?” “Sto bene così. Grazie.” “Vediamo… prima stavo mangiando un gelato. In questo momento sto lanciando in aria questo anello di bronzo.” Favonio girò il cerchio di metallo con il dito medio. Jason non aveva idea di cosa fosse quell’anello, ma cercò di rimanere concentrato. “Voglio dire, perché ci sei apparso? Perché ci hai portato qua sotto?” “Oh!” Favonio annuì. “Il sarcofago di Diocleziano. Sì. Questa fu la sua tomba. I Cristiani la spostarono fuori dal mausoleo. Poi alcuni barbari distrussero la bara. Volevo solo mostrarvi” – allargò tristemente le braccia – “che ciò che state cercando non è qui. L’ha preso il mio padrone.” “Il tuo padrone?” Jason ebbe un flashback del palazzo galleggiante sopra il Pike’s Peak in Colorado, dove aveva fatto visita (ed era a stento sopravvissuto) agli studi televisivi di un folle annunciatore meteorologico che sosteneva di essere il dio di tutti i venti. “Ti prego dimmi che il tuo padrone non è Eolo.” “Quella testa vuota?” Favonio fece un verso di scherno. “No, certo che no.” “Intende Eros.” La voce di Nico si fece tagliente. “Cupido, in Latino.” Favonio sorrise. “Molto bene, Nico di Angelo. Sono lieto di vederti di nuovo, comunque. E’ passato tanto tempo.” Nico aggrottò le sopracciglia. “Non ti ho mai incontrato.” “Non mi hai mai visto,” lo corresse il dio. “Ma ti ho tenuto d’occhio. Quando venisti qui da bambino, e le molte altre volto dopo quella. Sapevo che alla fine saresti tornato per guardare in faccia il volto del mio padrone.” Nico si fece persino più pallido del solito. I suoi occhi saettarono per la stanza sotterranea come se stesse iniziando a sentirsi in trappola. “Nico?” disse Jason. “Di che cosa sta parlando?” “Non lo so. Niente.” “Niente?” gridò Favonio. “La persona a cui tieni di più… gettata nel Tartaro, e tuttavia continui a non accettare la verità?” Improvvisamente Jason si sentì come se stesse origliando una conversazione privata. La persona a cui tieni di più. Si ricordò quello che gli aveva detto Piper sulla presunta cotta di Nico per Annabeth. Apparentemente i sentimenti di Nico erano molto più profondi di una semplice cotta. “Siamo venuti solo per lo scettro di Diocleziano,” disse Nico, chiaramente ansioso di cambiare argomento. “Dove si trova?” “Ah…” Favonio annuì tristemente. “Pensavi che sarebbe stato semplice come affrontare il fantasma di Diocleziano? Temo di no, Nico. La tua prova sarà molto più difficile. Sai, molto prima che questo diventasse il Palazzo di Diocleziano, era il passaggio per la corte del mio padrone. Ho vissuto qui per secoli, portando coloro che cercavano l’amore alla presenza di Cupido.” A Jason non piaceva sentir parlare di prove difficili. Non si fidava di quello strano dio con il cerchio e le ali e il cestino di frutta. Ma un’antica storia affiorò nella sua mente – qualcosa che aveva sentito al Campo Giove. “Come Psiche, la moglie di Cupido. La portasti in questo palazzo.” Gli occhi di Favonio luccicarono. “Molto bene, Jason Grace. Da questo punto esatto, ho trasportato Psiche con i venti e l’ho portata alle camere del mio padrone. Infatti, è per questo che Diocleziano costruì il suo palazzo qui. Questo luogo è sempre stato onorato dal gentile Vento dell’Ovest.” Allargò le braccia. “E’ un punto di tranquillità e amore in un mondo turbolento. Quando il Palazzo di Diocleziano venne saccheggiato – “ “Tu prendesti lo scettro,” indovinò Jason. “Per tenerlo al sicuro,” annuì Favonio. “E’ uno dei molti tesori di Cupido, un ricordo di tempi migliori. Se lo volete…” Favonio si voltò verso Nico. “Tu dovrai affrontare il dio dell’amore.” Nico fissò la luce del sole che entrava dalle finestre, come desiderando di poter fuggire attraverso quelle strette aperture. Jason non era certo di quello che volesse Favonio, ma se affrontare il dio dell’amore significava obbligare Nico a fare qualche tipo di confessione su quale ragazza gli piacesse, non sembrava così male. “Nico, puoi farlo,” disse Jason. “Potrà essere imbarazzante, ma è per lo scettro.” Nico non sembrava convinto. Infatti, sembrava che stesse per vomitare. Ma raddrizzò le spalle e annuì. “Hai ragione. Non – non ho paura di un dio dell’amore.” Favonio fece un sorriso raggiante. “Eccellente! Vi andrebbe uno snack prima di andare?” Pescò una mela verde dal suo cestino e la guardò accigliato. “Oh, cavoli. Continuo a dimenticarmi che il mio simbolo è un cesto di frutta acerba. Perché il vento della primavera non riceve più crediti? L’estate si prende tutto il divertimento.” “Non fa niente,” disse Nico velocemente. “Portaci solo da Cupido.” Favonio fece roteare l’anello che aveva al dito, e il corpo di Jason si dissolse nell’aria. 36 JASON Jason aveva cavalcato i venti molte volte. Essere vento non era la stessa cosa. Si sentiva fuori controllo, con i pensieri sparsi, senza confini tra il suo corpo e il resto del mondo. Si chiese se fosse così che si sentivano i mostri quando venivano sconfitti – esplosi in polvere, indifesi e privi di forma. Jason poteva avvertire la presenza di Nico vicina. Il Vento dell’Ovest li trasportò nel cielo sopra Spalato. Insieme corsero sopra le colline, oltre gli acquedotti romani, le autostrade, e le vigne. Mentre si avvicinavano alle montagne, Jason vide le rovine di una città romana sparse nella valle sotto di loro – muri cadenti, fondamenta quadrate, e strade crepate, il tutto coperto da erba incolta – così che sembrava un gigante ed erboso tavolo da gioco. Favonio li fece scendere al centro delle rovine, accanto a una colonna distrutta grande come una sequoia. Il corpo di Jason si riformò. Per un attimo si sentì persino peggio di quando era vento, come fosse stato improvvisamente avvolto con un cappotto di piombo. “Sì, i corpi dei mortali sono terribilmente ingombranti,” disse Favonio, come se gli stesse leggendo i pensieri. Il dio del vento si sistemò su un muro vicino insieme al suo cesto di frutta e allargò le ali color ruggine al sole. “Onestamente, non so come posiate sopportarlo, tutti i giorni sempre così.” Jason studiò il paesaggio circostante. La città doveva essere stata enorme un tempo. Poteva riconoscere le strutture dei templi e delle terme, un anfiteatro mezzo sepolto, e dei piedistalli vuoti che una volta dovevano aver ospitato delle statue. File di colonne spuntavano da tutte le parti. Le antiche mura della città serpeggiavano dentro e fuori il fianco della collina come un filo di pietra in un tessuto verde. Alcune aree sembravano essere state scavate, ma la maggior parte della città sembrava semplicemente abbandonata, come se fosse stata lasciata in balia degli elementi per gli ultimi duemila anni. “Benvenuto a Salona,” disse Favonio. “La Capitale della Dalmazia! Il luogo di nascita di Diocleziano! Ma prima di quello, molto prima, era la casa di Cupido.” Il nome riecheggiò, come se delle voci stessero sussurrando attraverso le rovine. Qualcosa riguardo quel posto sembrava persino più inquietante della stanza sotterranea nel palazzo di Spalato. Jason non aveva mai pensato molto a Cupido. Sicuramente non ci aveva mai pensato come a un essere spaventoso. Persino per i semidei romani, il nome portava alla mente l’immagine di un buffo bimbetto alato con arco e frecce giocattolo, che volava in giro vestito con un pannolino durante il giorno di San Valentino. “Oh, non è così,” disse Favonio. Jason sussultò. “Sai leggere il pensiero?” “Non ne ho bisogno.” Favonio lanciò il suo cerchio di bronzo in aria. “Tutti hanno l’idea sbagliata su Cupido… finché non lo incontrano.” Nico si appoggiò contro una colonna, con le gambe che gli tremavano visibilmente. “Hey, amico…” Jason fece un passo verso di lui, ma Nico lo allontanò con un gesto della mano. Ai piedi di Nico, l’erba si fece marrone e appassita. La macchia di erba morta si allargò, come se del veleno stesse filtrando dalle suole delle sue scarpe. “Ah…” Favonio annuì con compassione. “Non ti biasimo per essere nervoso, Nico di Angelo. Tu sai come iosono finito a servire Cupido?” “Io non servo nessuno,” borbottò Nico. “Soprattutto non Cupido.” Favonio proseguì come se non avesse sentito. “Mi sono innamorato di un mortale chiamato Giacinto. Eraassolutamente straordinario.” “Un mortale…?” La mente di Jason era ancora confusa a causa del suo viaggio nel vento, quindi gli ci volle qualche secondo per metabolizzare la cosa. “Oh…” “Sì, Jason Grace.” Favonio inarcò un sopracciglio. “Mi sono innamorato di un ragazzo. La cosa ti sconvolge?” Onestamente, Jason non lo sapeva. Cercava di non pensare ai dettagli delle vite romantiche degli dei, non importava di chi si innamorassero. Dopotutto, suo padre, Giove, non era esattamente un modello di comportamento. Paragonato ad alcuni degli scandali amorosi dell’Olimpo che aveva sentito, il Vento dell’Ovest che si innamorava di un ragazzo mortale non sembrava così sconvolgente. “Immagino di no. Quindi… Cupido ti ha colpito con la sua freccia, e tu ti sei innamorato.” Favonio fece un verso di scherno. “Lo fai sembrare così semplice. Purtroppo, l’amore non è mai semplice. Vedi, anche al dio Apollo piaceva Giacinto. Lui sosteneva che erano solo amici. Non lo so. Ma un giorno li ho incontrati mentre stavano insieme, intenti a giocare al gioco dei cerchi –“ Ecco che si parlava di nuovo di cerchi. “Quale gioco?” “Un gioco che si fa con quegli anelli,” spiegò Nico, anche se la sua voce era instabile. “Come ferri di cavallo.” “Più o meno,” disse Favonio. “Ad ogni modo, divenni geloso. Invece di confrontarli e scoprire la verità, feci cambiare il vento e mandai un pesante anello di metallo dritto contro la testa di Giacinto e… bè.” Il dio del vento inspirò. “Mentre Giacinto moriva, Apollo lo trasformò in un fiore, il giacinto. Sono certo che Apollo si sarebbe vendicato in maniera terribile su di me, ma Cupido mi offrì la sua protezione. Avevo fatto una cosa terribile, ma ero impazzito a causa dell’amore, così mi risparmiò, con la condizione che lavorassi per sempre per lui.” CUPIDO. Quel nome riecheggiò nuovamente tra le rovine. “Quello sarebbe il mio segnale.” Favonio si alzò in piedi. “Pensa a lungo e duramente a come procederai, Nico di Angelo. Non puoi mentire a Cupido. Se lasci che la tua rabbia ti guidi… bè, il tuo destino sarà persino più triste del mio.” Jason ebbe la sensazione che la sua mente si stesse trasformando nuovamente in vento. Non capiva quello di cui stava parlando Favonio, o perché Nico sembrasse così scosso, ma non aveva tempo di pensarci. Il dio del vento scomparve in un vortice rosso e oro. L’aria estiva si fece improvvisamente opprimente. Il terreno tremò, e Jason e Nico sguainarono le loro spade. *** Allora. La voce attraversò le orecchie di Jason come un proiettile. Quando si voltò, dietro di lui non c’era nessuno. Siete venuti per prendere lo scettro. Nico si trovava dietro di lui, e per una volta Jason era grato di avere la compagnia del ragazzo. “Cupido,” esclamò Jason, “dove sei?” La voce rise. Senza dubbio non suonava come la voce di un tenero angioletto. Appariva profonda e ricca, ma anche minacciosa – come un tremore che precede un grosso terremoto. Dove meno vi aspettate, rispose Cupido. Dove si trova sempre l’Amore. Qualcosa si scagliò contro Jason e lo trasportò lungo la strada. Cadde lungo una serie di scale e si ritrovò sdraiato sul pavimento di una cantina romana aperta. Credevo che fossi più saggio, Jason Grace. La voce di Cupido vorticava intorno a lui. Dopotutto, tu hai trovato il vero amore. O dubiti ancora di te? Nico corse lungo le scale. “Stai bene?” Jason accettò la sua mano e si rimise in piedi. “Sì. Solo una botta nello stomaco.” Oh, pensavi che avrei giocato seguendo le regole? rise Cupido. Io sono il dio dell’amore. Non sono mai giusto. Questa volta, i sensi di Jason erano in allerta. Avvertì l’aria muoversi proprio quando si materializzò una freccia, che correva rapida verso il petto di Nico. Jason la intercettò con la spada e la fece deviare. La freccia esplose contro la parete più vicina, cospargendoli di frammenti di pietra. Corsero lungo le scale. Jason tirò Nico da una parte mentre un’altra raffica di vento faceva cadere una colonna che stava per schiacciarlo. “Questo tipo è l’Amore o la Morte?” ringhiò Jason. Chiedi ai tuoi amici, disse Cupido. Frank, Hazel, e Percy hanno incontrato la mia controparte, Tanato. Non siamo così diversi. Con l’eccezione che ogni tanto Morte è più gentile. “Vogliamo solo lo scettro!” urlò Nico. “Stiamo cercando di fermare Gea. Sei dalla parte degli dei o no?” Una seconda freccia colpì il terreno tra i piedi di Nico e brillò di un intenso bianco. Nico indietreggiò velocemente mentre la freccia esplodeva in un geyser di fuoco. L’Amore è da tutte le parti, disse Cupido. E da quella di nessuno. Non chiedere quello che l’Amore può fare per te. “Fantastico,” disse Jason. “Adesso lancia frasi da cartolina.” Un movimento alle sue spalle: Jason si voltò, abbassando la sua spada nell’aria. La sua lama colpì qualcosa di solido. Udì un grugnito e attaccò di nuovo, ma il dio invisibile non c’era più. Sul pavimento di pietra, luccicava una traccia di icore dorato – il sangue degli dei. Molto bene, Jason, disse Cupido. Almeno sei in grado avvertire la mia presenza. Persino un casuale colpo al vero amore è più di quello che riescono a fare la maggior parte degli eroi. “Quindi adesso posso avere lo scettro?” chiese Jason. Cupido rise. Sfortunatamente, tu non puoi brandirlo. Solo un figlio dell’Oltretomba può invocare una legione di morti. E solo un ufficiale di Roma può guidarli. “Ma…” Jason esitò. Lui era un ufficiale. Era un pretore. Poi si ricordò di tutti i suoi dubbi su dove appartenesse. A Nuova Roma, aveva offerto di rinunciare alla sua posizione in favore di Percy Jackson. Quello lo aveva reso indegno di guidare una legione di fantasmi romani? Decise di affrontare il problema quando si fosse presentato. “Lasciacela e basta,” disse. “Nico può invocare –“ La terza freccia sfrecciò accanto alla spalla di Jason. Non poté fermarla in tempo. Nico boccheggiò mentre questa affondava nel suo braccio. “Nico!” Il figlio di Ade barcollò. La freccia si dissolse, senza lasciare sangue e nessuna ferita visibile, ma il volto di Nico era contratto dalla rabbia e dal dolore. “Basta con i giochi!” gridò Nico. “Fatti vedere!” E’ una cosa costosa, disse Cupido, guardare il vero volto dell’Amore. Un’altra colonna crollò. Jason si spostò velocemente. Mia moglie Psiche imparò quella lezione, disse Cupido. Fu portata qui secoli fa, quando questo era il luogo del mio palazzo. Ci incontravamo solo al buio. Era stata avvertita di non guardarmi mai, e tuttavia non riusciva a sopportare il mistero. Temeva che fossi un mostro. Una notte, accese una candela, e vide il mio volto mentre dormivo. “Eri così brutto?” Jason credeva di aver individuato la voce di Cupido – al bordo dell’anfiteatro, a circa venti metri di distanza – ma voleva esserne certo. Il dio rise. Temo che fossi troppo bello. Un mortale non può guardare il vero aspetto di un dio senza soffrirne le conseguenze. Mia madre, Afrodite, maledisse Psiche per la sua sfiducia. La mia povera amante fu tormentata, obbligata all’esilio, le vennero affidate delle prove orribili per dimostrare il suo valore. Fu persino mandata nell’Oltretomba in un’impresa per provare la sua dedizione. Si guadagnò la strada per tornare al mio fianco, ma soffrì enormemente. Adesso ti ho preso, pensò Jason. Alzò la spada verso il cielo e dei tuoni scossero la valle. Dei lampi fecero esplodere un cratere nel punto da cui proveniva la voce. Silenzio. Jason aveva appena iniziato a pensare, accidenti, ha davvero funzionato, quando una forza invisibile lo gettò a terra. La sua spada scivolò lungo la strada. Una bella prova, disse Cupido, con la voce già distante. Ma l’Amore non può essere individuato così facilmente. Accanto a lui, crollò una parte. Jason riuscì a stento a rotolare via. “Smettila!” urlò Nico. “E’ me che vuoi. Lascialo da solo!” Le orecchie di Jason fischiavano. Era confuso a causa delle cadute. In bocca aveva il sapore della roccia calcarea. Non capiva perché Nico pensava di essere l’obiettivo principale, ma Cupido sembrava essere d’accordo. Povero Nico di Angelo. Nella voce del dio c’era una traccia di disappunto. Sai quello che tu vuoi, molto meno di quello che voglio io? La mia amata Psiche ha rischiato tutto nel nome dell’Amore. Era l’unico modo per scontare la sua mancanza di fiducia. E tu – cosa hai rischiato nel mio nome? “Sono stato nel Tartaro e sono tornato,” ringhiò Nico. “Non mi fai paura.” Ti faccio molta, molta paura. Affrontami. Sii onesto. Jason si alzò in piedi. Tutto intorno a Nico, il terreno tremò. L’erba appassì, e tutte le rocce si spaccarono come se qualcosa si stesse muovendo sottoterra, cercando di emergere. “Dacci lo scettro di Diocleziano,” disse Nico. “Non abbiamo tempo per i giochi.” Giochi? Cupido attaccò, mandando Nico a sbattere contro un piedistallo di granito. L’Amore non è un gioco! Non è una cosa dolce e delicata! E’ duro lavoro – un’impresa che non ha mai fine. Richiede tutto da una persona – soprattutto la verità. Solo allora concederà la ricompensa. Jason recuperò la sua spada. Se quel tizio invisibile era Amore, Jason stava cominciando a pensare che l’Amore fosse sopravvalutato. Gli piaceva di più la versione di Piper – premuroso, gentile e bello. Poteva capire Afrodite. Cupido sembrava più un criminale, un vigilante delle regole. “Nico,” esclamò, “che cosa vuole da te?” Diglielo, Nico di Angelo, disse Cupido. Digli che sei un codardo, spaventato da te stesso e dai tuoi sentimenti. Digli la vera ragione per la quale sei scappato dal Campo Mezzosangue, e perché sei sempre da solo. Nico lasciò andare un urlo gutturale. Il terreno ai suoi piedi si spaccò lasciando uscire fuori degli scheletri – romani morti con mani mancanti e teschi deformati, costole rotte, e mascelle staccate. Alcuni erano vestiti con i resti delle toghe. Altri avevano dei luccicanti pezzi di armatura appesi al petto. Ti nasconderai tra i morti, come fai sempre? lo provocò Cupido. Ondate di oscurità si riversarono dal figlio di Ade. Quando colpirono Jason, il ragazzo perse quasi i sensi – sopraffatto dall’odio, dalla paura e dalla vergogna… Nella sua mente apparvero delle immagini. Vide Nico e sua sorella su una rupe nevosa nel Maine, con Percy Jackson che li stava proteggendo dall’attacco di una manticora. La spada di Percy brillava nel buio. Era stato il primo semidio che Nico avesse mai visto in azione. Più tardi, al Campo Mezzosangue, Percy prese Nico per il braccio, promettendogli di tenere al sicuro sua sorella Bianca. Nico gli credette. Aveva guardato nei suoi occhi verde mare e pensato, Come potrebbe mai fallire? Questo è un vero eroe. Era come il gioco preferito di Nico, la Mitomagia, nella vita reale. Jason vide quando Percy era tornato e gli aveva detto che Bianca era morta. Nico aveva urlato e lo aveva chiamato bugiardo. Si era sentito tradito, ma… quando i guerrieri scheletro avevano attaccato, non aveva potuto permetterli di fare del male a Percy. Nico aveva invocato la terra perché li ingoiasse, e poi era scappato – terrorizzato dai suoi stessi poteri, e dalle sue emozioni. Jason vide un’altra dozzina di scene del genere dal punto di vista di Nico… E queste lo lasciarono sconvolto, incapace di muoversi o di parlare. Nel frattempo, gli scheletri romani di Nico si lanciarono in avanti e afferrarono qualcosa di invisibile. Il dio lottò gettando i morti di lato, rompendo costole e teschi, ma gli scheletri continuavano ad arrivare, afferrando le braccia del dio. Interessante, disse Cupido. Hai la forza, dopotutto? “Ho lasciato il Campo Mezzosangue per amore,” disse Nico. “Annabeth… lei –“ Continui a nasconderti, disse Cupido, riducendo un altro scheletro in pezzi. Non ne hai la forza. “Nico,” riuscì a dire Jason, “va tutto bene. Ho capito.” Nico guardò verso di lui, il volto carico di dolore e tristezza. “No, non capisci.” disse. “Non c’è modo nel quale tu possa capire.” E così scappi di nuovo, lo rimproverò Cupido. Dai tuoi amici, da te stesso. “Io non ho amici!” urlò Nico. “Ho lasciato il Campo Mezzosangue perché non appartengo là! Non ne farò mai parte!” Gli scheletri avevano bloccato Cupido, ma il dio invisibile rise così crudelmente che Jason ebbe l’impulso di invocare un altro lampo. Sfortunatamente, non credeva di averne la forza. “Lascialo stare, Cupido,” disse Jason con voce strozzata. “Non sono…” La voce lo abbandonò. Aveva voluto dire che non erano affari di Cupido, ma si rese conto che quelli eranoesattamente affari di Cupido. Qualcosa che Favonio aveva detto continuava a risuonargli nelle orecchie: La cosa ti sconvolge? Finalmente la storia di Psiche divenne chiara – perché una ragazza mortale avrebbe dovuto essere così spaventata. Perché avrebbe dovuto rischiare di infrangere le regole per guardare il dio dell’amore in faccia, temendo che potesse essere un mostro. Psiche aveva avuto ragione. Cupido era un mostro. L’Amore era il mostro più selvaggio di tutti. La voce di Nico sembrava vetro infranto. “Non – non ero innamorato di Annabeth.” “Eri gelso di lei,” disse Jason. “E’ per questo che non volevi starle accanto. Soprattutto perché non volevi stare accanto a… lui. Ha perfettamente senso.” Tutta la lotta e le negazioni sembrarono abbandonare Nico all’improvviso. L’oscurità cessò. I morti romani crollarono in una pila di ossa e si ridussero in polvere. “Ho odiato me stesso,” disse Nico. “Ho odiato Percy Jackson.” Cupido divenne visibile – un giovane uomo alto, slanciato e muscoloso con bianche ali immacolate, lisci capelli neri, un semplice completo bianco. L’arco e la freccia che aveva sulla schiena non erano giocattoli – erano armi da guerra. I suoi occhi erano rossi come il sangue, come se tutti i cuori di San Valentino del mondo fossero stati spremuti, distillati in un’unica miscela velenosa. Il suo volto era bello, ma anche duro – difficile da guardare direttamente, come un riflettore. Guardò Nico soddisfatto, come se avesse identificato il prossimo punto dove puntare la sua freccia per un’uccisione rapida. “Avevo una cotta per Percy,” sputò fuori Nico. “Questa è la verità. Questo è il grande segreto.” Fissò Cupido con rabbia. “Contento adesso?” Per la prima volta, lo sguardo di Cupido sembrava addolcito. “Oh, non direi che l’Amore renda sempre felici.” La sua voce suonava più piccola, molto più umana. “A volte rende incredibilmente tristi. Ma almeno adesso l’hai affrontato. Questo è l’unico modo per conquistarmi.” Cupido si dissolse nel vento. Sul terreno al suo posto giaceva un bastone d’avorio di un metro, con all’estremità uno scuro globo di marmo lucido grande come una palla da baseball, annidato sulle schiene di tre aquile romane dorate. Lo scettro di Diocleziano. Nico si inginocchiò e lo raccolse. Guardò Jason, come in attesa di un attacco. “Se gli altri lo scoprono –“ “Se gli altri lo scoprono,” disse Jason, “avresti tutte quelle persone in più pronte a spalleggiarti, e a sguinzagliare la furia degli dei su chiunque ti crei problemi.” Nico si accigliò. Jason avvertiva ancora il risentimento e la rabbia che si riversavano dal ragazzo. “Ma è una tua scelta,” aggiunse Jason. “Tu devi decidere se dirlo o meno. Io posso solo dirti –“ “Non lo sono più,” borbottò Nico. “Voglio dire… ho rinunciato a Percy. Ero piccolo e facilmente impressionabile, e io – io non…” La sua voce tremò, e Jason poteva capire che al ragazzo stavano per salire le lacrime agli occhi. Che Nico avesse davvero rinunciato a Percy o meno, Jason non riusciva a immaginare come doveva essere stato per Nico tutti quegli anni, mantenendo un segreto che sarebbe stato impensabile da condividere negli anni quaranta, negando chi era, sentendosi completamente solo – persino più isolato degli altri semidei. “Nico,” disse gentilmente, “ho visto un sacco di cose coraggiose. Ma quello che hai appena fatto? Quella è stata forse la più coraggiosa di tutte.” Nico alzò lo sguardo incerto. “Dovremmo tornare alla nave.” “Sì. Possiamo volare –“ “No,” annunciò Nico. “Questa volta useremo il viaggio-ombra. Per adesso ne ho avuto abbastanza dei venti.” 37 ANNABETH Perdere la vista era già stato abbastanza brutto. Essere isolata da Percy era stato orribile. Ma adesso che poteva vedere di nuovo, vederlo morire lentamente a causa del veleno nel sangue delle gorgoni ed essere incapace di fare qualsiasi cosa – quella era la maledizione peggiore di tutte. Bob si issò Percy sulla spalla come fosse una sacca della palestra mentre il gatto scheletro, Piccolo Bob, si raggomitolava sulla schiena di Percy facendo le fusa. Bob cominciò ad avanzare con passo pesante e veloce, persino per un Titano, il che rese quasi impossibile per Annabeth riuscire a stargli dietro. Le bruciavano i polmoni. La sua pelle aveva ricominciato a riempirsi di bolle. Probabilmente aveva bisogno di un altro sorso di acqua infuocata, ma si erano lasciati il Fiume Flegetonte alle spalle. Il suo corpo era così malconcio e dolorante che si era dimenticata come ci si sentiva a non provare dolore. “Quanto manca ancora?” ansimò. “Quasi troppo,” rispose Bob. “Ma forse no.” Molto d’aiuto, pensò Annabeth, ma era troppo esausta per dirlo ad alta voce. Il paesaggio cambiò di nuovo. Stavano ancora procedendo in discesa, cosa che avrebbe dovuto rendere il loro viaggio più facile; ma il terreno era inclinato con la pendenza sbagliata – troppo ripido per correre, troppo insidioso da permetterle di abbassare la guardia anche solo per un momento. La superficie era a volte ricoperta da sabbia, a volte da macchie di melma. Annabeth passava intorno a delle punte di pietra che sporgevano dal terreno, abbastanza affilate da poterle impalare il piede, e mucchi di… bè, non erano esattamente rocce. Erano più simili a delle verruche grosse come angurie. Se Annabeth doveva indovinare (cosa che non voleva fare) pensò che Bob la stesse guidando lungo il grande intestino di Tartaro. L’aria si fece più densa e odorava di fogna. Forse il buio non era altrettanto intenso, ma riusciva a vedere Bob solo grazie al luccichio dei suoi capelli bianchi e della punta della sua lancia. Notò che non aveva ritratto l’arma della sua scopa dalla loro battaglia con le arai. La cosa non la rassicurò. Percy sobbalzò, costringendo a far spostare il gattino che si risistemò nella parte inferiore della schiena di Percy. Di tanto in tanto Percy emetteva dei versi di dolore, e Annabeth si sentiva come se un pugno le stesse stritolando il cuore. Ritornò con la mente al tè che aveva avuto con Piper, Hazel e Afrodite a Charleston. Dei, sembrava essere passato così tanto tempo. Afrodite aveva sospirato e si era fatta nostalgica ripensando ai bei vecchi tempi della Guerra Civile – a come l’amore e la guerra andavano sempre tenendosi per mano. Afrodite aveva indicato con orgoglio Annabeth, usandola come esempio per le altre ragazze: Una volta ho promesso di rendere la sua vita amorosa interessante. E non l’ho fatto? Annabeth aveva voluto strozzare la dea dell’amore. Aveva ricevuto molto di più della sua parte di coseinteressanti. Adesso Annabeth stava resistendo in attesa di un lieto fine. Di certo era possibile, non importava quello che dicevano le leggende sugli eroi tragici. Ci dovevano essere delle eccezioni, giusto? Se soffrire portava alla ricompensa, allora lei e Percy si meritavano il premio più grande. Pensò all’idea di Percy di andare a vivere a Nuova Roma – loro due che si sistemavano là, andavano insieme al college. All’inizio, l’idea di vivere tra i romani l’aveva inorridita. Provava risentimento nei loro confronti per averle portato via Percy. Adesso avrebbe accettato l’offerta con piacere. Se solo fossero sopravvissuti a quello. Se solo Reyna avesse ricevuto il suo messaggio. Se solo un altro milione di eventi azzardati si fosse risolto nel modo giusto. Smettila, si rimproverò. Doveva concentrarsi sul presente, mettere un piede davanti all’altro, affrontare quella scalata in discesa intestinale una vescica gigante per volta. Le sue ginocchia erano calde e instabili, come una stampella di metallo piegata quasi fino al punto di rottura. Percy gemette e borbottò qualcosa che non riuscì a capire. Bon si fermò improvvisamente. “Guarda.” Davanti a loro nel buio, il terreno tornava in piano con una palude nera. Della foschia giallo-zolfo era sospesa nell’aria. Persino senza la luce del sole, c’erano delle vere piante – gruppi di canne, scheletrici alberi senza foglie, persino alcuni fiori dall’aspetto malato che sbucavano dalla melma. Dei muschiosi sentieri tagliavano attraverso delle ribollenti fosse di catrame. Direttamente davanti ad Annabeth, affondato nel pantano, c’erano delle impronte grandi come i coperchi dei cassonetti dell’immondizia, con lunghe dita appuntite. Purtroppo, Annabeth era piuttosto sicura di sapere cosa le avesse provocate. “Dragoni?” “Sì.” Bob le rivolse un grosso sorriso. “E’ una bella cosa!” “Uh… perché?” “Perché siamo vicini.” Bob marciò nella palude. Annabeth voleva urlare. Detestava dover dipendere da un Titano – soprattutto da uno che stava lentamente riacquistando la sua memoria e che li stava portando a trovare un gigante ‘buono’. Detestava farsi strada attraverso una palude che era ovviamente il territorio di un dragone. Ma Bob aveva Percy. Se esitava, li avrebbe persi nel buio. Corse dietro di lui, saltellando da una chiazza di muschio all’altra e pregando Atena di non farla cadere in una fossa. Almeno il terreno obbligò Bob ad andare più lento. Quando Annabeth lo recuperò, fu in grado di camminare dietro di lui e tenere d’occhio Percy, che stava borbottando delirante, con la fronte pericolosamente calda. Diverse volte borbottò Annabeth, e lei dovette trattenere i singhiozzi. Il gatto si limitò a fare le fusa più forte e si raggomitolò. Alla fine la foschia gialla si diradò, rivelando una radura infangata come un’isola nella palude. Il terreno era punteggiato da alberi scheletrici e cumuli di vesciche. Al centro incombeva una grossa capanna ricoperta da una cupola fatta di ossa e pelle verdastra. Del fumo usciva da un buco sul tetto. L’entrata era ricoperta da tende fatte di squamosa pelle di rettile, e affiancate all’entrata, due torce fatte di enormi ossa di femore bruciavano di un giallo acceso. Quello che davvero catturò l’attenzione di Annabeth fu il teschio di dragone. A cinquanta metri nella radura, a circa metà strada verso la capanna, un gigantesco albero di quercia spuntava dal terreno, piegato a quarantacinque gradi rispetto alla terra. Le mascelle del teschio di dragone circondavano il tronco dell’albero, come se la quercia fosse la lingua del mostro morto. “Sì,” mormorò Bob. “Va molto bene.” Niente di quel posto sembrava andare bene ad Annabeth. Prima che potesse protestare, Piccolo Bob inarcò la schiena e soffiò. Dietro di loro, un potente ruggito riecheggiò attraverso la palude – un suono che Annabeth aveva sentito l’ultima volta durante la Battaglia di Manhattan. Si voltò e vide il dragone caricare verso di loro. 38 ANNABETH L’insulto più grande? Il dragone era senza problemi la cosa più bella che Annabeth avesse visto da quando era precipitata nel Tartaro. La sua pelle era chiazzata di verde e giallo, come luce del sole che filtrava tra le chiome degli alberi di una foresta. I suoi occhi da rettile erano della sfumatura di verde preferita di Annabeth (proprio come quelli di Percy). Quando il collare che aveva intorno al collo gli si aprì intorno alla testa, Annabeth non poté fare a meno di pensare a come fosse regale e stupendo il mostro che stava per ucciderla. Era lungo come il treno di una metropolitana. I suoi enormi artigli scavavano nel fango mentre li usava per tirarsi in avanti, con la coda che frustava da una parte all’altra. Il dragone sibilò, sputando getti di acido verde che fumavano sul terreno muschioso e che davano fuoco alle fosse di catrame, riempiendo l’aria con il profumo di pino fresco e zenzero. Il mostro aveva persino un odore buono. Come la maggior parte dei dragoni, era privo di ali, più lungo e più serpentino di un drago, e sembrava affamato. “Bob,” disse Annabeth, “cosa stiamo affrontando qui?” “Dragone Meoniano,” disse Bob. “Dalla Meonia.” Altre informazioni utili. Annabeth avrebbe colpito Bob sulla testa con la sua stessa scopa se fosse riuscita a sollevarla. “C’è qualche modo nel quale possiamo ucciderlo?” “Noi?” disse Bob. “No.” Il dragone ruggì come per sottolineare il concetto, riempiendo l’aria con altro veleno al pino-zenzero, che sarebbe stato un’eccellente profumo per macchine. “Porta Percy al sicuro,” disse Annabeth. “Io lo distrarrò.” Non aveva idea di come l’avrebbe fatto, ma era la sua unica scelta. Non poteva permettere che Percy morisse – non se lei aveva ancora la forza di stare in piedi. “Non devi farlo,” disse Bob. “In qualsiasi momento –“ “ROOOOOAAAR!” Annabeth si voltò mentre il gigante emergeva dalla sua capanna. Era alto circa sei metri – tipica altezza da gigante – con la parte superiore del corpo umanoide, e delle squamate gambe da rettile, come un dinosauro bipede. Non aveva nessuna arma. Al posto dell’armatura, indossava solo una maglietta formata da un mantello di pecora e della elle chiazzata di verde cucite insieme. La sua pelle era rosso ciliegia; la sua barba e i suoi capelli avevano il colore del ferro arrugginito, intrecciato con ciuffi di erba, foglie e fiori di palude. Gridò in segno di sfida, ma fortunatamente non stava guardando Annabeth. Bob la tirò via dalla strada mentre il gigante scattava verso il dragone. Si scontrarono come uno strano tipo di combattimento natalizio – rosso contro verde. Il dragone sputò veleno. Il gigante balzò da una parte. Afferrò la quercia e la tirò fuori dal terreno, radici e tutto il resto. Il vecchio teschio si ridusse in polvere mentre il gigante sollevava l’albero come una mazza da baseball. La coda del dragone si avvolse attorno alla vita del gigante, trascinandolo più vicino ai suoi denti digrignati. Ma non appena il gigante si fu avvicinato abbastanza, ficcò l’albero dritto dentro la gola del mostro. Annabeth sperò di non dover assistere mai più ad una scena così raccapricciante. L’albero trafisse la gola del dragone e lo impalò al terreno. Le radici iniziarono a muoversi, scavando sempre più in profondità non appena toccavano terra, ancorando la quercia finché non sembrò che si trovasse in quel punto da secoli. Il dragone tremò e si agitò, ma era bloccato strettamente. Il gigante abbassò il suo pugno sul collo del dragone. CRACK. Il mostro divenne inerte. Iniziò a dissolversi, lasciando solo avanzi di ossa, carne, pelle e un nuovo teschio di dragone le cui mascelle circondavano la quercia. Bob borbottò. “Bella mossa.” Il gattino fece le fusa in assenso e iniziò a leccarsi le zampe. Il gigante diede dei calci ai resti del dragone, esaminandoli con aria critica. “Nessun osso buono,” si lamentò. “Volevo un nuovo bastone da passeggio. Hmpf. Però c’era un po’ di pelle buona per il bagno.” Strappò un po’ di pelle morbida dal collare del dragone e se la infilò nella cintura. “Uh…” Annabeth voleva chiedere se il gigante usasse davvero la pelle di dragone come carta igienica, ma decise che era meglio non farlo1. “Bob, vuoi presentarci?” “Annabeth…” Bob diede delle pacche sulle gambe di Percy. “Questo è Percy.” Annabeth sperava che il Titano la stesse solo prendendo in giro, anche se il volto di Bob non rivelava nulla. Strinse i denti. “Intendevo il gigante. Hai promesso che poteva aiutare.” “Promesso?” Il gigante distolse lo sguardo dal suo lavoro. I suoi occhi si strinsero sotto le cespugliose sopracciglia rosse. “Una cosa grossa, una promessa. Perché Bob dovrebbe promettere il mio aiuto?” Bob spostò il peso del suo copro da un piede all’altro. I Titani facevano paura, ma Annabeth non ne aveva mai visto uno accanto a un gigante prima. Paragonato all’uccisore di dragoni, Bob appariva come un perfetto nanerottolo. “Damasene è un gigante buono,” disse Bob. “Lui è pacifico. Lui può curare i veleni.” Annabeth guardò il gigante Damasene, che adesso stava strappando pezzi di carne sanguinante dalla carcassa del dragone a mani nude. “Pacifico,” disse. “Sì, lo vedo.” “Carne buona per la cena.” Damasene si raddrizzò e studiò Annabeth, come se fosse un’altra potenziale fonte di proteine. “Venite dentro. Mangeremo stufato. Poi penseremo a questa promessa.” 39 ANNABETH Accogliente. Annabeth non avrebbe mai pensato di usare quell’aggettivo per qualcosa nel Tartaro, ma nonostante il fatto che la capanna del gigante fosse grande come un planetario e costruita di ossa, fango e pelle di dragone, era senza dubbio accogliente. Al centro brillava un falò fatto con ossa e catrame; tuttavia il fumo era bianco e privo di odore, e usciva dal foro al centro del soffitto. Il pavimento era ricoperto di erba di palude secca e tappeti grigi di pelliccia. Ad un’estremità si trovava un’enorme letto fatto di pelliccia di pecora e pelle di dragone. All’altra estremità, appesi a degli stendini da terra c’erano piante essiccate, pelle trattata, e quelle che sembravano strisce di carne di dragone essiccata. L’intero posto odorava di stufato, fumo, basilico e timo. L’unica cosa che preoccupava Annabeth era il gregge di pecore stipate in un recinto sul retro della capanna. Annabeth si ricordava della caverna del Ciclope Polifemo, che mangiava i semidei e le pecore indiscriminatamente. Si chiese se il gigante avesse dei gusti simili. Parte di lei era tentata di scappare, ma Bob aveva già steso Percy sul letto del gigante, dove fu quasi completamente sommerso tra la lana e la pelle. Piccolo Bob saltò giù dalla schiena di Percy e grattò le coperte preparandosi la cuccia, facendo le fusa in maniera così rumorosa che il letto tremò come una poltrona massaggiatrice. Damasene arrancò fino al falò. Lanciò la sua carne di dragone in una pentola appesa che sembrava essere stata ricavata da un vecchio teschio di mostro, poi prese un mestolo e iniziò a girare. Annabeth non voleva essere il prossimo ingrediente nel suo stufato, ma era andata là per una ragione. Fece un respiro profondo e si avvicinò a Damasene. “Il mio amico sta morendo. Puoi curarlo oppure no?” La sua voce vacillò alla parola amico. Percy era molto di più. Persino ragazzo non sarebbe stato adatto. Ne avevano passate talmente tante insieme, che ormai Percy era parte di lei – certo, qualche volta una parte irritante, ma senza dubbio una parte senza la quale non poteva vivere. Damasene abbassò lo sguardo su di lei, con gli occhi che luccicavano sotto le sue folte sopracciglia. Annabeth aveva incontrato dei grossi umanoidi spaventosi in passato, ma Damasene la innervosiva in modo diverso. Non sembrava ostile. Irradiava dolore e amarezza, come se fosse così avvolto dalla sua stessa tristezza che era arrabbiato con Annabeth per aver cercato di farlo concentrare su qualcosa di diverso. “Non sento parole del genere nel Tartaro,” ruggì il gigante. “Amico. Promessa.” Annabeth incrociò le braccia. “E invece che mi dici della parola sangue di gorgoni? Puoi curarlo, oppure Bob ha esagerato sui tuoi talenti?” Far irritare un uccisore di dragoni di sei metri non era probabilmente una strategia saggia, ma Percy stava morendo. Non aveva tempo per la diplomazia. Damasene la guardò accigliato. “Metti in dubbio le mie capacità? Una mortale mezza morta che vaga per la mia palude e mette in dubbio le mie capacità?” “Sì,” disse lei. “Hmph.” Damasene passò il mestolo a Bob. “Gira.” Mentre Bob si occupava dello stufato, Damasene esaminò i suoi appendiabiti, cogliendo diverse foglie e radici. Si buttò un pugno di piante varie in bocca, lo masticò, poi lo sputò in una palla di lana. “Una tazza di brodo,” ordinò Damasene. Bob versò un po’ del brodo dello stufato in una zucca vuota. La passò a Damasene, che inzuppò la palla masticata di sostanza viscida e la rigirò nella zucca con le dita. “Sangue di gorgoni,” borbottò. “Non è neanche una sfida per le mie abilità.” Camminò con passo pesante fino al letto e mise Percy in posizione seduta con una mano. Piccolo Bob annusò il brodo e sibilò. Scavò nelle coperte con le zampe come se volesse seppellirlo. “Li darai da mangiare quella cosa?” chiese Annabeth. Il gigante la fissò. “Chi è il guaritore qui? Tu?” Annabeth chiuse la bocca. Guardò mentre il gigante faceva sorseggiare il brodo a Percy. Damasene lo trattò con sorprendente gentilezza, mormorando parole di incoraggiamento che lei non riusciva a capire. Con ogni sorsata, il colore di Percy migliorava. Prosciugò la tazza, e i suoi occhi si spalancarono. Si guardò intorno con un’espressione confusa, vide Annabeth, e le rivolse un sorriso da ubriaco. “Mi sento benissimo.” Gli occhi gli si rigirarono nella testa. Ricadde nel letto e iniziò a russare. “Qualche ora di sonno,” annunciò Damasene. “Sarà come nuovo.” Annabeth singhiozzò dal sollievo. “Grazie,” disse. Damasene la guardò con aria triste. “Oh, non ringraziarmi. Siete sempre condannati. E richiedo un pagamento per i miei servizi.” La bocca di Annabeth si seccò. “Uh… che tipo di pagamento?” “Una storia.” Gli occhi del gigante luccicarono. “Ci si annoia nel Tartaro. Puoi raccontarmi la tua storia mentre mangiamo, eh?” Annabeth era nervosa nel raccontare al gigante dei loro piani. Tuttavia, Damasene era un buon ospite. Aveva salvato Percy. Il suo stufato di carne di dragone era eccellente (soprattutto se paragonato all’acqua di fuoco). La sua capanna era calda e comoda, e per la prima volta da quando era caduta nel Tartaro, Annabeth si sentiva in grado di rilassarsi. Il che era ironico, visto che stava cenando con un Titano e un gigante. Raccontò a Damasene della sua vita e delle sue avventure con Percy. Spiegò come Percy aveva incontrato Bob, gli aveva cancellato la memoria nel Fiume Lete, e lo aveva lasciato alle cure di Ade. “Percy stava cercando di fare qualcosa di buono,” assicurò rivolta verso Bob. “Non sapeva che Ade sarebbe stato un tale verme.” Persino alle sue orecchie, non suonò convincente. Ade era sempre un verme. Pensò a quello che avevano detto le arai – come Nico di Angelo fosse stata l’unica persona a fare visita a Bob nel palazzo dell’Oltretomba. Nico era uno dei semidei meno estroversi, meno amichevoli che Annabeth conoscesse. E tuttavia era stato gentile con Bob. Convincendo Bob che Percy era un amico, Nico aveva inavvertitamente salvato le loro vite. Annabeth si chiese se sarebbe mai riuscita a capire quel ragazzo. Bob pulì la sua ciotola con lo spruzzino e lo straccio. Damasene agitò il suo cucchiaio in aria. “Continua la tua storia, Annabeth Chase.” Spiegò della loro impresa con l’Argo II. Quando arrivò alla parte che riguardava l’impedire a Gea si svegliarsi, esitò. “Lei è, um… lei è tua madre, giusto?” Damasene ripulì la sua ciotola. La sua faccia era ricoperta da vecchie bruciature di veleno, graffi e cicatrici, quindi assomigliava alla superficie di un asteroide. “Sì,” disse. “E Tartaro è mio padre.” Fece un gesto indicando la sua capanna. “Come puoi vedere, sono stato una delusione per i miei genitori. Si aspettavano… di più da me.” Annabeth non riusciva ancora a metabolizzare il fatto che stesse mangiando una zuppa con un uomo di sei metri dalle zampe di lucertola i cui genitori erano la Terra e l’Abisso di Oscurità. Gli dei dell’Olimpo erano già abbastanza difficili da vedere come genitori, ma almeno loro erano simili agli umani. Le antiche divinità primordiali come Gea e Tartaro… Come si poteva lasciare casa ed essere indipendenti dai propri genitori, quando loro circondavano letteralmente tutto il mondo? “Quindi…” disse. “Non ti dispiace che noi combattiamo contro tua madre?” Damasene sbuffò come un toro. “Buona fortuna. Al momento, è di mio padre che vi dovreste preoccupare. Con lui contro, non avete nessuna possibilità di sopravvivere.” Improvvisamente Annabeth non si sentì più così affamata. Posò la sua ciotola sul pavimento. Piccolo Bob si avvicinò e l’annusò. “Contro di noi in che modo?” chiese. “Tutto questo.” Damasene spezzò un osso di dragone e ne usò una scheggia come stuzzicadenti. “Tutto quello che vedi è il corpo di Tartaro, o comunque una sua manifestazione. Lui sa che voi siete qui. Cerca di contrastare i vostri progressi ad ogni passo. I miei fratelli vi danno la caccia. È notevole il fatto che siate sopravvissuti così a lungo, persino con l’aiuto di Giapeto.” Bob si imbronciò quando sentì il suo nome. “Quelli sconfitti ci danno la caccia, sì. Adesso saranno vicini.” Damasene sputò il suo stuzzicadenti. “Posso oscurare il vostro cammino per un po’, abbastanza per permettervi di riposarvi. Ho dei poteri su questa palude. Ma alla fine, vi prenderanno.” “I miei amici devono raggiungere le Porte della Morte,” disse Bob. “Quella è la via d’uscita.” “Impossibile,” mormorò Damasene. “Le Porte sono sorvegliate troppo bene.” Annabeth si sporse in avanti. “Ma tu sai dove si trovano?” “Certo. Tutto il Tartaro scorre verso un unico posto: il suo cuore. Le Porte della Morte si trovano lì. Ma non potete raggiungerle vivi solo con l’aiuto di Giapeto.” “Allora vieni con noi,” disse Annabeth. “Aiutaci.” “HA!” Annabeth sobbalzò. Nel letto, Pery borbottò delirando nel sonno, “Ha, ha, ha.” “Figlia di Atena,” disse il gigante, “io non sono vostro amico. Aiutavo i mortali una volta, e puoi vedere dove mi ha portato la cosa.” “Hai aiutato i mortali?” Annabeth conosceva molto di leggende greche, ma aveva un vuoto totale intorno al nome di Damasene. “Non – non capisco.” “Brutta storia,” spiegò Bob. “I giganti buoni hanno delle brutte storie. Damasene fu creato per opporsi ad Ares.” “Sì,” annuì il gigante. “Come tutti i miei fratelli, io nacqui per rispondere a un dio in particolare. Il mio nemico era Ares. Ma Ares era il dio della guerra. E così, quando sono nato –“ “Tu eri il suo opposto,” indovinò Annabeth. “Eri pacifico.” “Pacifico per un gigante, almeno.” Damasene sospirò. “Ho vagato per i campi della Meonia, nella terra che oggi chiamate Turchia. Mi prendevo cura delle mie pecore e raccoglievo erbe. Era una bella vita. Ma non combattevo gli dei. Mia madre e mio padre mi maledirono per questo. L’insulto finale: un giorno il dragone Meoniano uccise un pastore umano, un mio amico, così io diedi la caccia alla creatura e la uccisi, infilandole un albero nella bocca. Usai i poteri della terra per far ricrescere le radici dell’albero, piantando il dragone al terreno. Mi assicurai che non avrebbe mai più terrorizzato i mortali. Quella fu un’azione che Gea non poté perdonare.” “Perché aiutasti qualcuno?” “Sì.” Damasene appariva imbarazzato. “Gea aprì la terra, ed io fui consumato, esiliato qui nella pancia di mio padre Tartaro, dove si raccolgono tutti i relitti inutili – tutte le parti della creazione delle quali non gli importa.” Il gitante prese un fiore dai suoi capelli e lo guardò con aria assente. “Mi hanno lasciato vivere, a prendermi cura delle mie pecore, a raccogliere le mie erbe, così che avrei riconosciuto l’inutilità della vita che ho scelto. Ogni giorno – o quello che sembra un giorno in questo posto senza luce – il dragone Meoniano si riforma e mi attacca. Ucciderlo è il mio compito senza fine.” Annabeth guardò la capanna, cercando di immaginare per quanti secoli Damasene fosse stato esiliato là – uccidendo il dragone, raccogliendo le sue ossa, la sua pelle e la sua carne, sapendo che avrebbe attaccato di nuovo il giorno seguente. Lei poteva a malapena pensare di sopravvivere una settimana nel Tartaro. Esiliare il proprio figlio lì, per secoli – quello andava oltre la crudeltà. “Spezza la maledizione,” disse lei d’impulso. “Vieni con noi.” Damasene ridacchiò amaramente. “Così semplice. Non credi che abbia provato a lasciare questo posto? E’ impossibile. Non importa verso quale direzione vado, mi ritrovo di nuovo qui. La palude è l’unica cosa che conosco – l’unica destinazione che riesco a immaginare. No, piccolo semidio. La mia maledizione mi ha sopraffatto. Non ho più nessuna speranza.” “Nessuna speranza,” fece eco Bob. “Ci deve essere un modo.” Annabeth non riusciva a sopportare l’espressione sul volto del gigante. Le ricordava suo padre, quelle poche volte nelle quali le aveva confessato che amava ancora Atena. Era apparso così triste e sconfitto, desideroso di qualcosa che sapeva essere impossibile. “Bob ha un piano per raggiungere le Porte della Morte,” insistette. “Ha detto che avremmo potuto nasconderci in una specie di Foschia di Morte.” “Foschia di Morte?” Damasene guardò Bob accigliato. “Li vuoi portare da Achlys?” “E’ l’unico modo,” disse Bob. “Morirete,” disse Damasene. “Dolorosamente. Nel buio. Achlys non si fida di nessuno e non aiuta nessuno.” Bob sembrava sul punto di controbattere, ma strinse le labbra e rimase in silenzio. “C’è un altro modo?” chiese Annabeth. “No,” disse Damasene. “La Foschia di Morte… quello è il piano migliore. Sfortunatamente, è un piano terribile.” Annabeth aveva la sensazione di essere di nuovo sull’orlo del precipizio, incapace di tirarsi in salvo, incapace di mantenere la presa – senza nessuna buona alternativa. “Ma non vale la pena provare?” chiese. “Potresti tornare nel mondo mortale. Potresti vedere di nuovo il sole.” Gli occhi di Damasene erano come le orbite del teschio di dragone – scuri e profondi, privi di speranza. Lanciò un osso rotto nel falò e si alzò in piedi – un’enorme guerriero rosso vestito di pelle di pecora e dragone, con fiori ed erba secchi tra i capelli. Annabeth riusciva a capire in che modo fosse l’anti-Ares. Ares era il dio peggiore, minaccioso e violento. Damasene era il gigante migliore, gentile e pronto ad aiutare…e per quello, era stato maledetto a un tormento eterno. “Dormi un po’,” disse il gigante. “Preparerò delle scorte per il vostro viaggio. Mi dispiace, ma non posso fare di più.” Annabeth voleva discutere, ma non appena lui disse la parola dormire, il suo corpo la tradì, nonostante la sua risoluzione nel non voler dormire mai più nel Tartaro. La sua pancia era piena. Il fuoco produceva un piacevole rumore scoppiettante. Le erbe nell’aria le ricordavano delle colline intorno al Campo Mezzosangue durante l’estate, quando i satiri e le naiadi raccoglievano le erbe selvatiche nei pomeriggi di ozio. “Forse dormirò un po’,” accettò. Bob la sollevò come fosse una bambola di pezza. Lei non protestò. La mise accanto a Percy sul letto del gigante, e lei chiuse gli occhi. 40 ANNABETH Annabeth si svegliò fissando le ombre che danzavano sul soffitto della capanna. Non aveva fatto un singolo sogno. Era una cosa così insolita, che non era certa di essersi davvero svegliata. Mentre era sdraiata là, con Percy che le russava accanto e Piccolo Bob che le faceva le fusa sulla pancia, udì Bob e Damasene intenti ad avere quella che sembrava un’intensa conversazione. “Non gliel’hai detto,” disse Damasene. “No,” ammise Bob. “E’ già spaventata.” Il gigante grugnì. “Dovrebbe esserlo. E se non riesci a guidarli oltre Notte?” Damasene disse la parola Notte come se fosse un nome oprio – un nome malvagio. “evo farlo,” disse Bob. “Perché?” chiese Damasene. “Cosa hanno fatto i semidei per te? Hanno cancellato la tua vecchia memoria, tutto quello che eri prima. Titani e giganti… noi dovremmo essere nemici degli dei e dei loro figli. Non lo siamo?” “Allora perché tu hai curato il ragazzo?” Damasene sospirò. “Me lo sono chiesto anche io. Forse perché la ragazza mi ha sfidato, o forse… trovo questi due semidei intriganti. Sono resistenti per essere arrivati fin qui. E’ ammirevole. Tuttavia, come possiamo aiutarli ancora? Non è il nostro destino.” “Forse,” disse Bob, a disagio. “Ma…ti piace il nostro destino?” “Che domanda. C’è qualcuno a cui piace il suo destino?” “Mi piaceva essere Bob,” mormorò Bob. “Prima che cominciassi a ricordare…” “Huh.” Ci fu un fruscio, come se Damasene stesse riempiendo una borsa “Damasene,” chiese il Titano, “ti ricordi il sole?” di pelle. Il fruscio si fermò. Annabeth udì il gigante esalare attraverso le narici. “Sì. Era giallo. Quando toccava l’orizzonte, colorava il cielo di colori bellissimi.” “Mi manca il sole,” disse Bob. “Anche le stelle. Mi piacerebbe poter salutare di nuovo le stelle.” “Stelle…” Damasene disse la parola come se si fosse scordato del suo significato. “Sì. Creavano dei disegni argentati nel cielo notturno.” Lanciò qualcosa che atterrò con un tonfo sul pavimento. “Bah. Queste sono chiacchiere inutili. Non possiamo –“ In lontananza, il dragone Meoniano ruggì. Percy si mise a sedere di scatto. “Cosa? Cosa – dove – cosa?” “Va tutto bene.” Annabeth gli prese il braccio. Quando lui registrò che si trovavano insieme nel letto di un gigante con un gatto scheletro, apparve più confuso che mai. “Quel rumore… dove siamo?” “Cosa ti ricordi?” chiese lei. Percy aggrottò le sopracciglia. I suoi occhi sembravano attenti. Tutte le sue ferite erano sparite. Fatta eccezione per i suoi vestiti a brandelli e qualche strato di polvere e sporcizia, sembrava che non fosse mai precipitato nel Tartaro. “Io – le nonne demoni – e poi… non molto.” Damasene apparve accanto al letto. “Non c’è tempo, piccoli mortali. Il dragone sta tornando. Temo che il suo ruggito attirerà gli altri – i miei fratelli, che vi danno la caccia. Saranno qua nel giro di pochi minuti.” Il battito di Annabeth accelerò. “Cosa li dirai quando arriveranno qui?” La bocca di Damasene si contrasse. “Cosa c’è da dire? Nulla di rilevante, se ve ne sarete andati.” Lanciò loro due borse di pelle di drago. “Vestiti, cibo, bevande.” Bob aveva una borsa simile ma più grande. Era appoggiato sulla sua scopa, guardando Annabeth pensieroso come se stesse ancora pensando alle parole di Damasene: Cosa hanno fatto i semidei per te? Noi dovremmo essere nemici degli dei e dei loro figli. Improvvisamente Annabeth venne colpita da un pensiero così affilato e chiaro, che era come una lama mandata da Atena in persona. “La Profezia dei Sette,” disse. Percy era già sceso dal letto e si stava mettendo lo zaino in spalla. La guardò confuso. “Cosa c’entra?” Annabeth afferrò la mano di Damasene, sorprendendo il gigante. Lui aggrottò la fronte. La sua pelle era ruvida come pietra arenaria. “Devi venire con noi,” implorò lei. “La profezia dice alle Porte della Morte i nemici armati si dovran temere. Pensavo che significasse greci e romani, ma non è così. I versi indicano noi – semidei, un Titano, un gigante. Abbiamo bisogno di te per chiudere le Porte!” Il dragone ruggì all’esterno, questa volta più vicino. Damasene le spinse gentilmente via la mano. “No, bambina,” mormorò. “La mia maledizione è qui. Non posso sfuggirle.” “Sì, puoi,” disse Annabeth. “Non combattere il dragone. Trova un modo per spezzare il cerchio! Trova un altro destino.” Damasene scosse la testa. “Anche se potessi, non posso lasciare questa palude. E’ l’unica destinazione che riesco a immaginarmi.” La mentre di Annabeth stava correndo. “C’è un’altra destinazione. Guarda me! Ricorda la mia faccia. Quando sei pronto, vieni a cercarmi. Ti porteremo nel mondo mortale con noi, potrai vedere la luce del sole e le stelle.” Il terreno tremò. Il dragone era vicino adesso, avanzava attraverso la palude, facendo esplodere erba e alberi con il suo getto acido. Più lontano di lui, Annabeth udì la voce del gigante Polibote, che spronava i suoi fratelli a seguirlo. “IL FIGLIO DEL DIO DEL MARE! E’ VICINO!” “Annabeth,” disse Percy con urgenza, “è il nostro segnale per andare via.” Damasene prese qualcosa dalla sua cintura. Nelle sue mani enormi, il frammento bianco assomigliava a un altro stuzzicadenti; ma quando lo offrì ad Annabeth, lei si rese conto che si trattava di una spada – una lama fatta di osso di drago, affilata per creare un’arma mortale, con una semplice impugnatura di pelle. “Un ultimo regalo per la figlia di Atena,” rombò il gigante. “Non posso farti affrontare la tua morte disarmata. Adesso, vai! Prima che sia troppo tardi.” Annabeth voleva piangere. Prese la spada, ma non riuscì neanche a dire grazie. Sapeva che il gigante era destinato a combattere al loro fianco. Quella era la risposta – ma Damasene si voltò dall’altra parte. “Dobbiamo andare,” incitò Bob mentre il suo gatto si arrampicava sulla sua spalla. “Ha ragione, Annabeth,” disse Percy. Corsero verso la porta. Annabeth non si guardò indietro mentre seguiva Percy e Bob nella palude, ma udì Damasene alle loro spalle, che urlava il suo grido di battaglia contro il dragone che avanzava, con la voce rotta dalla disperazione mentre affrontava il suo vecchio nemico ancora una volta. 41 PIPER Piper non sapeva molto del Mediterraneo, ma era abbastanza sicura che non si sarebbe dovuto congelare a Luglio. Dopo essersi lasciati Spalato alle spalle due giorni prima, delle nuvole grigie avevano inghiottito il cielo. Le onde avevano cominciato ad agitarsi. Una fredda pioggerella bagnava il ponte, formando del ghiaccio sulle balaustre e sulle corde. “E’ lo scettro,” mormorò Nico, soppesando l’antico bastone. “Deve esserlo.” Piper non ne era certa. Da quando Jason e Nico erano tornati dal Palazzo di Diocleziano, erano stati nervosi e circospetti. Qualcosa di grosso era accaduto là – qualcosa che Jason non voleva dirle. Aveva senso pensare che lo scettro potesse aver causato quel cambiamento climatico. La sfera nera sulla cima sembrava prosciugare il colore dall’aria. L’aquila dorata alla sua base brillava di luce fredda. Lo scettro doveva controllare i morti, e senza dubbio irradiava delle onde negative. Il Coach Hedge aveva lanciato un’occhiata alla cosa, si era fatto pallido, e aveva annunciato che sarebbe andato nella sua stanza per confortarsi con i video di Chuck Norris. (Anche se Piper sospettava che in realtà si stesse scambiando dei messaggi-Iride con la sua ragazza rimasta a casa, Mellie; il coach era sembrato molto agitato sull’argomento ultimamente, tuttavia non voleva dire a Piper cosa stava succedendo.) Quindi, sì… forse lo scettro avrebbe potuto causare una strana tempesta di ghiaccio. Ma Piper non credeva che si trattasse di quello. Temeva che stesse accadendo qualcos’altro – qualcosa di persino peggiore. “Non possiamo parlare quassù,” decise Jason. “Rimandiamo la riunione.” Si erano riuniti tutti sul ponte rialzato per discutere delle strategie mentre si avvicinavano sempre di più ad Epiro. Adesso, quello non era chiaramente un luogo adatto per chiacchierare. Il vento soffiava sul ponte. Il mare si agitava sotto di loro. A Piper le onde non davano molto fastidio. Il dondolio e le oscillazioni le ricordavano di quando andava a surfare con suo padre lungo la costa della California. Ma riusciva a capire che Hazel non se la stava passando bene. La povera ragazza soffriva di mal di mare persino con il mare calmo. Aveva l’aspetto di una che stava cercando di ingoiare una palla da biliardo. “Devo –“ Hazel fece un verso soffocato e indicò verso il basso. “Sì, vai.” Nico le diede un bacio sulla guancia, cosa che Piper trovò sorprendente. Il ragazzo faceva a malapena gesti di affetto, persino verso sua sorella. Sembrava odiare il contatto fisico. Baciare Hazel…era quasi come se le stesse dicendo addio. “Ti accompagno di sotto.” Frank mise il braccio intorno alla vita di Hazel e la aiutò a raggiungere le scale. Piper sperò che Hazel si sarebbe ripresa. Nelle ultime notti, dallo scontro con Scirone, avevano fatto delle belle chiacchierate insieme. Essere le uniche due ragazze a bordo era piuttosto difficile. Si erano raccontare delle storie, lamentate delle abitudini disgustose dei ragazzi, e versato qualche lacrima insieme pensando ad Annabeth. Hazel le aveva raccontato cosa si provava a controllare la Foschia, e Piper era stata sorpresa nel sentire quanto suonasse simile alla sua lingua ammaliatrice. Piper le aveva offerto di aiutarla se poteva. In cambio, Hazel le aveva promesso di allenarla nel combattimento con la spada – un’abilità alla quale Piper face a epicamente schifo. Piper si era sentita come se avesse trovato una nuova amica, il che era grandioso… assumendo che sarebbero vissuti abbastanza a lungo per godersi la loro amicizia. Nico si spazzolò via del ghiaccio dai capelli. Si accigliò guardando lo scettro di Diocleziano. “Dovrei mettere via questa cosa. Se sta davvero causando questo tempo, forse portarlo sottocoperta aiuterà…” “Certo,” disse Jason. Nico lanciò uno sguardo a Piper e Leo, come se fosse preoccupato di quello che avrebbero potuto dire una volta andato via. Piper avvertì le sue difese che salivano, come se si stesse raggomitolando in una palla psicologica, come quando era entrato nella trance di morte quando si era trovato all’interno della giara di bronzo. Quando se ne fu andato, Piper studiò il volto di Jason. I suoi occhi erano carichi di preoccupazione. Cosa erasuccesso in Croazia? Leo tirò fuori un cacciavite dalla cintura. “Tanto perché dovevamo fare la grande riunione di gruppo. Sembra che siamo di nuovo solo noi tre.” Di nuovo solo noi tre. Piper si ricordò di un giorno invernale dello scorso Dicembre, a Chicago, quando loro tre erano atterrati nel Millennial Park durante la loro prima impresa. Leo non era cambiato molto da allora, a parte il fatto che sembrava essere più a suo agio nel suo ruolo di figlio di Efesto. Aveva sempre avuto troppa energia nervosa. Adesso sapeva come usarla. Le sue mani erano costantemente in movimento, tiravano fuori attrezzi dalla cintura, lavoravano ai controlli, giocherellavano con la sua amata sfera di Archimede. Quel giorno l’aveva rimossa dal pannello di controllo e aveva disattivato Festus per manutenzione – qualcosa riguardo un nuovo cablaggio al suo processore per un potenziamento del controllo motore con la sfera, qualsiasi cosa volesse dire tutto quello. Per quanto riguardava Jason, appariva più magro, più alto e più stanco. I suoi capelli erano passati dal taglio militare stile romano ad essere più lunghi e disordinati. Anche la riga rasata che gli aveva fatto Scirone con la pistola sulla parte sinistra della testa era interessante – quasi come una striscia della ribellione. Gli occhi blu ghiaccio apparivano in qualche modo più vecchi – carichi di preoccupazioni e responsabilità. Piper sapeva quello che mormoravano i suoi amici su Jason – era troppo perfetto, troppo rigido. Se la cosa era mai stata davvero così, adesso non lo era più. Era provato da quel viaggio, e non solo fisicamente. Le sue fatiche non l’avevano indebolito, ma l’avevano consumato e ammorbidito come con il cuoio – come se stese diventando una versione più comoda di se stesso. E Piper? Poteva solo immaginare quello che Leo e Jason pensavano quando la guardavano. Lei senza dubbio non si sentiva la stessa persona che era lo scorso inverno. Quella prima impresa per salvare Era sembrava risalire a secoli fa. Così tanto era cambiato in sette mesi…si chiese come facessero gli dei a sopportare di essere vivi per migliaia di anni. Quanti cambiamenti avevano visto loro? Forse non doveva sorprendere che gli dei dell’Olimpo sembrassero un po’ folli. Se Piper avesse vissuto tre millenni, sarebbe impazzita. Vagò con lo sguardo nella pioggia fredda. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere di nuovo al Campo Mezzosangue, dove il tempo era controllato persino d’inverno. Le immagini che aveva visto nel suo pugnale ultimamente… bè, non le davano molto da sperare. Jason le strinse la spalla. “Hey, andrà tutto bene. Adesso siamo vicini ad Epiro. Un altro giorno, se le indicazioni di Nico sono corrette.” “Già.” Leo giocherellò con la sfera, picchiettando e spingendo uno dei gioielli sulla sua superficie. “Entro domani mattina, raggiungeremo la costa occidentale della Grecia. Poi un’altra ora nell’entroterra, e bang – la Casa di Ade! Mi comprerò la maglietta!” “Yay,” mormorò Piper. Non era ansiosa di immergersi nuovamente nel buio. Aveva ancora gli incubi sul ninfeo e l’ipogeo sotto Roma. Nella lama di Katoptris, aveva visto delle immagini simili a quelle che Leo e Hazel avevano descritto dai loro sogni – una strega pallida con un vestito dorato, le mani che tessevano della luce dorata nell’aria come se fosse seta in un telaio; un gigante avvolto dalle ombre, che avanza per un lungo corridoio affiancato da torce. Ogni volta che passava accanto ad una delle torce, le fiamme morivano. Vedeva un’enorme caverna piena di mostri – Ciclopi, Figli della Terra, e cose ancora più strane – circondavano lei e i suoi amici, superandoli di numero, lasciandoli senza speranza. Ogni volta che vedeva quelle immagini, una voce nella sua testa continuava a ripetere un verso senza sosta. “Ragazzi,” disse, “ho pensato alla Profezia dei Sette.” Ci voleva un sacco per far spostare l’attenzione di Leo dal suo lavoro, ma quello funzionò. “Cioè?” chiese. “Tipo… cose belle, spero?” Lei si aggiustò la cinghia della cornucopia che aveva legata in spalla. Ogni tanto il corno dell’abbondanza sembrava così leggero che si dimenticava di averlo. Altre volte sembrava un’incudine, come se il dio del fiume Acheloo stesse inviando dei cattivi pensieri, cercando di punirla per avergli preso il suo corno. “Su Katoptris,” iniziò, “continuo a vedere quel gigante Clitio – il tipo che è avvolto dalle ombre. So che la sua debolezza è il fuoco, ma nelle mie visioni, lui spegne le fiamme ovunque vada. Qualsiasi tipo di luce viene semplicemente risucchiata nella sua nuvola di oscurità.” “Sembra Nico,” disse Leo. “Credi che siano imparentati?” Jason si imbronciò. “Hey, amico, dai a Nico un po’ di tregua. Quindi, Piper, che stavi dicendo di questo gigante? Cosa pensi?” Lei e Leo si scambiarono un’occhiata interrogativa, come a dire: Da quando in qua Jason difende Nico diAngelo? Decise di non commentare. “Continuo a pensare al fuoco,” disse Piper. “A come ci aspettiamo tutti che Leo sconfigga questo gigante perché lui è…” “Focoso?” suggerì Leo con un sogghigno. “Um, diciamo infiammabile. Comunque, quel verso della profezia mi inquieta: Fuoco o tempesta, il mondo cader faranno.” “Sì, lo sappiamo già,” le assicurò Leo. “Stai per dire che io sono il fuoco. E Jason qui è la tempesta.” Piper annuì con riluttanza. Sapeva che a nessuno di loro piaceva parlarne, ma tutti dovevano aver avvertitoche quella era la verità. La nave si inclinò a tribordo. Jason si aggrappò alla ringhiera ghiacciata. “Quindi sei preoccupata che uno di noi possa compromettere l’impresa, magari distruggendo accidentalmente il mondo?” “No,” disse Piper. “Credo che abbiamo interpretato quel verso nel modo sbagliato. Il mondo… la Terra. In greco, la parola per dire terra sarebbe…” Esitò, non volendo dire il nome ad alta voce, persino in mezzo al mare. “Gea.” Gli occhi di Jason brillavano con dell’interesse improvviso. “Vuoi dire, fuoco o tempesta, Gea cader faranno?” “Oh…” Il sogghigno di Leo si fece persino più ampio. “Sai, la tua versione mi piace molto di più. Perché se io, Signor Fuoco, farò cadere Gea, la cosa è assolutamente accettabile.” “Oppure io… tempesta.” Jason la baciò. “Piper, è geniale! Se hai ragione, è una splendida notizia. Dobbiamo solo capire chi di noi due distruggerà Gea.” “Forse.” Si sentiva ansiosa a sollevare in quel modo le loro speranze. “Ma, vedete, dice fuoco o tempesta…” Sguainò Katoptris e lo posò sulla console. Immediatamente, la lama si illuminò mostrando la sagoma scura del gigante Clitio che si muoveva lungo un corridoio, spegnendo le torce. “Sono preoccupata per Leo e questa lotta con Clitio,” disse. “Quel verso della profezia lo fa suonare come se solo uno di voi può avere successo. E se la parte che riguarda il fuoco o tempesta è connessa al terzo verso,con l’ultimo fiato un giuramento si dovrà mantenere…” Non concluse la frase, ma dalle espressioni di Jason e Leo, vide che avevano capito. Se stava leggendo la profezia nel modo giusto, solo Leo o Jason avrebbe sconfitto Gea. L’altro sarebbe morto. 42 PIPER Leo fissò il pugnale. “Okay… allora la tua idea non mi piace così tanto come pensavo. Credi che uno di noi sconfiggerà Gea e l’altro morirà? O forse uno di noi morirà mentre sta lottando contro Gea? Oppure –“ “Ragazzi,” disse Jason, “diventeremo pazzi ossessionandoci con questo verso. Sapete come sono le profezie. Gli eroi finiscono sempre nei guai quando cercano di prevenirle.” “Già,” borbottò Leo. “Sarebbe bruttissimo finire nei guai. Siamo andati così bene fin’ora.” “Sai cosa voglio dire,” disse Jason. “L’ultimo fiato potrebbe non essere connesso alla parte del fuoco e della tempesta. Per quanto ne sappiamo, magari noi due non siamo nemmeno il fuoco e la tempesta. Percy può creare degli uragani.” “Ed io potrei sempre dare fuoco a Coach Hedge,” offrì Leo. “Allora lui può essere il fuoco.” Il pensiero di un satiro in fiamme che urlava, “A morte, feccia!” mentre attaccava Gea era quasi abbastanza da far ridere Piper – quasi. “Spero di stare sbagliando,” disse con cautela. “Ma tutta l’impresa è iniziata con noi alla ricerca di Era e il risveglio di quel re dei giganti, Porfirione. Ho la sensazione che anche la conclusione della guerra sarà con noi tre. Comunque finirà.” “Hey,” disse Jason, “personalmente, mi piace il noi.” “Sono d’accordo,” disse Leo. “Noi sono le mie persone preferite.” Piper abbozzò un sorriso. Adorava davvero quei ragazzi. Desiderò poter usare la sua lingua ammaliatrice sulle Parche, descrivere loro un lieto fine, e obbligarle a farlo avverare. Sfortunatamente, era difficile immaginare un lieto fine con tutti i pensieri oscuri che aveva nella testa. Era preoccupata che il gigante Clitio fosse stato messo sul loro cammino per eliminare la minaccia di Leo. Se era così, ciò voleva dire che Gea avrebbe anche cercato di eliminare Jason. Senza fuoco e tempesta, la loro impresa sarebbe fallita. E anche quel tempo invernale la innervosiva… Era sicura che fosse causato da qualcosa di più dello scettro di Diocleziano. Il vento freddo, la pioggia e il ghiaccio sembravano essere coscientemente ostili, e in qualche modo familiari. Quell’odore nell’aria, il denso profumo di… Piper avrebbe dovuto capire prima quello che stava accadendo, ma aveva trascorso la maggior parte della sua vita nella California Meridionale dove non c’erano grossi cambiamenti stagionali. Non era cresciuta con quell’odore… l’odore della neve in arrivo. Ogni muscolo del suo corpo si fece teso. “Leo, suona l’allarme.” Piper non si era resa conto di stare usando la lingua ammaliatrice, ma Leo lasciò immediatamente cadere il suo cacciavite e spinse il bottone di allarme. Poi si accigliò quando non accadde nulla. “Uh, è disconnesso,” ricordò. “Festus è scollegato. Dammi un minuto per riallacciare il sistema.” “Non abbiamo un minuto! Fuoco – abbiamo bisogno di fiale di fuoco Greco. Jason, chiama i venti. Calore, venti meridionali.” “Aspetta, che?” Jason la fissò confuso. “Piper, cosa c’è che non va?” “E’ lei!” Piper afferrò il suo pugnale. “E’ tornata! Dobbiamo –“ Prima che potesse finire, la barca si inclinò verso babordo. La temperatura precipitò così velocemente, che le vele scricchiolarono ricoprendosi di ghiaccio. Gli scudi di bronzo lungo le balaustre scoppiarono come lattine di coca cola sottoposte a troppa pressione. Jason sguainò la sua spada, ma era troppo tardi. Un’ondata di particelle di ghiaccio lo inondarono, ricoprendolo come una ciambella glassata e congelandolo sul posto. Sotto uno strato di ghiaccio, i suoi occhi erano spalancati dalla sorpresa. “Leo! Fiamme! Adesso!” gridò Piper. La mano destra di Leo si accese, ma il vento vorticò intorno a lui e soffocò le fiamme. Leo afferrò la sua sfera di Archimede mentre una tromba d’aria di nevischio lo sollevava da terra. “Hey!” gridò. “Hey! Lasciami andare!” Piper corse verso di lui, ma una voce nella tempesta disse, “Oh, sì, Leo Valdez. Ti lascerò andarepermanentemente.” Leo venne sparato verso il cielo, come se fosse stato lanciato con una catapulta. Scomparve tra le nuvole. “No!” Piper sollevò il suo pugnale, ma non c’era nulla da attaccare. Guardò disperatamente verso le scale, sperando di vedere i suoi amici arrivare in suo soccorso, ma un blocco di ghiaccio aveva sigillato il boccaporto. L’intero ponte inferiore poteva essere completamente congelato. Aveva bisogno di un’arma migliore con la quale combattere – qualcosa di più della sua voce, uno stupido pugnale che prevedeva il futuro, e una cornucopia che sparava prosciutto e frutta fresca. Si chiese se avesse potuto raggiungere le baliste. Poi i suoi nemici apparvero, e si rese conto che nessuna arma sarebbe stata sufficiente. Al centro della nave c’era una ragazza con un vestito fluente di seta bianca, la sua chioma di capelli neri tirata indietro da un cerchietto di diamanti. I suoi occhi erano color caffè, ma senza il suo calore. Dietro di lei c’erano i suoi fratelli – due giovani uomini con ali viola, disordinati capelli bianchi, e spade seghettate di bronzo Celeste. “E’ così’ bello vederti di nuovo, ma chère,” disse Chione, la dea della neve. “E’ tempo di fare una riunione molto fredda.” 43 PIPER Piper non aveva pianificato di sparare muffin ai mirtilli. La cornucopia doveva aver avvertito la sua paura e pensato che a lei e ai suoi visitatori avrebbe fatto piacere qualche pasta calda. Una mezza dozzina di muffin fumanti volò fuori dal corno dell’abbondanza come pallottole. Non fu uno degli attacchi d’apertura più efficaci. Chione si limitò a inclinarsi di lato, la maggior parte dei muffin volò oltre la balaustra. I suoi fratelli, i Boreadi, ne presero entrambi uno al volo e iniziarono a mangiare. “Muffin,” disse quello più grosso. Cal, ricordò Piper: l’abbreviazione di Calais. Era vestito esattamente come lo era stato nel Quebec – scarpette chiodate, tuta, e un giacchetto rosso da hockey – e aveva due occhi neri e diversi denti rotti. “I muffin sono buoni.” “Ah, merci,” disse il fratello magro – Zete, ricordò – che si trovava sulla piattaforma della catapulta, con le ali viola allargate. I capelli bianchi erano ancora conciati con quell’orribile pettinatura da discoteca. Il colletto della sua camicia di seta spuntava dalla corazza. I suoi pantaloni verde chiaro di poliestere erano grottescamente stretti, e la sua acne era solo peggiorata. Malgrado ciò, inarcò le sopracciglia e sorrise come se fosse il semidio della seduzione. “Sapevo che sarei mancato alla ragazza carina.” Parlò nel francese del Quebec, che Piper tradusse senza fatica. Grazie a sua madre, Afrodite, la lingua dell’amore era configurata dentro di lei, anche se lei non voleva parlarla con Zete. “Cosa state facendo?” chiese Piper. Poi, usando la lingua ammaliatrice: “Lasciate andare i miei amici.” Zete sbatté le palpebre. “Dovremmo lasciare andare i tuoi amici.” “Sì,” concordò Cal. “No, idioti!” scattò Chione. “Sta usando la lingua ammaliatrice. Usate il cervello.” “Cervello…” Cal aggrottò le sopracciglia come se non fosse certo di cosa fosse un cervello. “I muffin sono meglio.” Si ficcò tutto il dolce in bocca e iniziò a masticare. Zete prese un mirtillo dal suo muffin e iniziò a mordicchiarlo delicatamente. “Ah, mia bellissima Piper…ho aspettato così tanto per vederti di nuovo. Purtroppo, mia sorella ha ragione. Non posiamo lasciare andare i tuoi amici. Infatti dobbiamo portarli nel Quebec, dove saranno derisi per l’eternità. Mi dispiace così tanto, ma questi sono i nostri ordini.” “Ordini…?” Fin dallo scorso inverno, Piper si era spettata che prima o poi Chione mostrasse di nuovo la sua faccia ghiacciata. Quando l’avevano sconfitta alla Casa del Lupo a Sonoma, la dea della neve aveva giurato vendetta. Ma perché Zete e Cal erano là? Nel Quebec, i Boreadi erano sembrati quasi amichevoli – almeno paragonati alla loro sorella sotto-zero. “Ragazzi, ascoltate,” disse Piper. “Vostra sorella ha disobbedito a Borea. Sta lavorando con i giganti, cercando di far sorgere Gea. Sta pianificando di impossessarsi del trono di vostro padre.” Chione rise, una risata morbida e fredda. “Cara Piper McLean. Manipoleresti i miei fratelli dalla volontà debole con i tuoi incantesimi, come una vera figlia della dea dell’amore farebbe. Una bugiarda così abile.” “Bugiarda?” gridò Piper. “Hai cercato di ucciderci! Zete, sta lavorando per Gea!” Zete trasalì. “Purtroppo è così, bella ragazza. Stiamo tutti lavorando per Gea adesso. Temo che questi ordini vengano da nostro padre, Borea in persona.” “Cosa?” Piper non voleva crederci, ma il sorriso compiaciuto di Chione le disse che era la verità. “Alla fine mio padre ha visto la saggezza nei miei consigli,” disse Chione con voce dolce, “o almeno lo ha fatto prima che la sua parte romana iniziasse a lottare con quella greca. Temo che al momento sia fuori suo, ma ha lasciato me al comando. Ha ordinato che le forze del Vento del Nord vengano usate al servizio del Re Porfirione, e ovviamente… di Madre Terra.” Piper deglutì. “Come fate ad essere qui?” Fece un gesto verso il ghiaccio che ricopriva la nave. “E’ estate!” Chione scrollò le spalle. “I nostri poteri crescono. Le regole della natura sono state capovolte. Quando Madre Terra si sveglierà, ricreeremo il mondo come volgiamo noi!” “Con l’hockey,” disse Cal con la bocca ancora piena. “E la pizza. E i muffin.” “Sì, sì,” ghignò Chione. “Ho dovuto promettere qualche cosa al grande sempliciotto. E a Zete –“ “Oh, i miei bisogni sono semplici.” Zete si tirò indietro i capelli e strizzò l’occhio verso Piper. “Avrei dovuto tenerti al nostro palazzo la prima volta che ci siamo incoranti, mia cara Piper. Ma presto torneremo lì, insieme, e avremo una storia incredibilmente romantica.” “Grazie, ma no grazie,” disse Piper. “Adesso, lascia andare Jason.” Mise tutto il suo potere nelle sue parole, e Zete obbedì. Schioccò le dita. Jason si scongelò istantaneamente. Cadde a terra, boccheggiante e fumante; ma almeno era vivo. “Imbecille!” Chione tese la mano davanti a lei, e Jason si ricongelò, adesso sdraiato sul pavimento come un tappeto di pelle di orso. Si girò verso Zete. “Se vuoi la ragazza come premio, devi dimostrare di saperla controllare. Non deve essere il contrario!” “Sì, certo.” Zete sembrava umiliato. “Per quanto riguarda Jason Grace…” Gli occhi castani di Chione brillarono. “Lui e il resto dei tuoi amici si unirà alla nostra corte di statue di ghiaccio nel Quebec. Jason renderà grazia alla mia sala del trono.” “Sveglia,” borbottò Piper. “Ti ci è voluto tutto il giorno per pensare a quella battuta?” Almeno adesso sapeva che Jason era ancora vivo, il che fece sentire Piper un po’ meno nel panico. Il congelamento totale poteva essere annullato. Ciò voleva dire che i suoi amici erano probabilmente ancora vivi sotto coperta. Aveva soltanto bisogno di un piano per liberarli. Sfortunatamente, lei non era Annabeth. Non era così brava nell’escogitare piani sul momento. Aveva bisogno di tempo per pensare. “Che ne è stato di Leo?” disse improvvisamente. “Dove lo hai spedito?” La dea della neve camminò con passo leggero intorno a Jason, esaminandolo come fosse arte da marciapiede. “Leo Valdez si merita una punizione speciale,” disse. “L’ho mandato in un posto dal quale non potrà mai più tornare.” Piper non riusciva a respirare. Povero Leo. L’idea di non vederlo mai più per poco non la distrusse. Chione doveva averlo visto nel suo volto. “Mi dispiace, mia cara Piper!” Sorrise trionfante. “Ma è la cosa migliore. Leo non poteva essere tollerato, persino come statua di ghiaccio… non dopo avermi insultata. Lo sciocco si è rifiutato di governare al mio fianco! E il suo potere sul fuoco…” Scosse la testa. “Non potevamo permettergli di raggiungere la Casa di Ade. Temo che a Lord Clitio piaccia il fuoco persino meno di quanto piaccia a me.” Piper strinse il suo pugnale. Fuoco, pensò. Grazie per avermelo fatto ricordare, strega. Studiò il ponte. Come poteva creare un fuoco? Una cassa di fiale di fuoco Greco era fissata accanto alle baliste di prua, ma era troppo lontana. Anche se l’avesse raggiunta senza essere congelata, il fuoco Greco avrebbe bruciato tutto, inclusa la nave e tutti i suoi amici. Ci doveva essere un altro modo. I suoi occhi si spostarono sulla prua. Oh. La polena Festus era in grado di sputare delle belle fiamme. Sfortunatamente, Leo l’aveva scollegato. Piper non aveva idea di come fare per riattivarlo. Non avrebbe mai avuto il tempo necessario per capire quali erano i controlli giusti sulla console della nave. Aveva dei vaghi ricordi di Leo che sfaccendava all’interno della testa di bronzo del drago, borbottando qualcosa riguardo ai dischi di controllo; ma anche se Piper fosse riuscita a raggiungere la prua, non avrebbe avuto la minima idea di cosa stava facendo. Tuttavia, qualche istinto le diceva che Festus era la sua migliore possibilità, se solo fosse riuscita a capire come fare a convincere i suoi invasori a lasciarla avvicinare abbastanza… “Bene!” Chione interruppe i suoi pensieri. “Temo che il nostro tempo insieme stia per scadere. Zete, se vuoi –“ “Aspetta!” disse Piper. Un comando semplice, e funzionò. I Boreadi e Chione si accigliarono, aspettando. Piper era abbastanza sicura di poter controllare i fratelli con la lingua ammaliatrice, ma Chione era un problema. L’incanto funzionava a stento se la persona non era attratta da te. Funzionava a stento su un essere potente come un dio. E funzionava a stento quando la tua vittima sapeva della lingua ammaliatrice e stava attivamente in guardia per combatterla. Tutte quelle caratteristiche si applicavano a Chione. Cosa farebbe Annabeth? Ritarda, pensò Piper. Quando sei in dubbio, parla un po’ di più. “Avete paura dei miei amici,” disse. “Quindi perché non li uccidete e basta?” Chione rise. “Non sei una dea, o capiresti. La morte è così breve, così… insoddisfacente. Le vostre piccole anime mortali volano nell’Oltretomba, e cosa succede poi? Il meglio che posso sperare è che andiate nei Campi della Punizione o in quelli dell’Asfodelio, ma voi semidei siete insopportabilmente nobili. Molto più probabilmente finireste nell’Elisio – o tornereste in una nuova vita. Perché dovrei voler premiare i tuoi amici in quel modo? Perché… quando posso punirli per l’eternità?” “Ed io?” Piper detestava chiedere. “Perché io sono ancora viva e scongelata?” Chione lanciò un’occhiata irritata ai suoi fratelli. “Zete ti ha chiesta, tanto per cominciare.” “Bacio in maniera magnifica,” assicurò Zete. “Vedrai, bellissima.” L’idea fece rivoltare lo stomaco di Piper. “Ma non è l’unica ragione,” disse Chione. “E’ perché ti odio, Piper. Sinceramente e profondamente. Senza di te, Jason sarebbe rimasto con me nel Quebec.” “Ti illudi molto?” Gli occhi di Chione si fecero duri come i diamanti che aveva nel cerchietto. “Sei una ficcanaso, la figlia di una dea inutile. Cosa puoi fare da sola? Nulla. Di tutti i sette semidei, tu non hai nessuno scopo, nessun potere. Voglio che tu rimanga su questa nave, alla deriva e senza aiuto, mentre Gea si sveglia e il mono finisce. E tanto per essere sicura che tu rimanga fuori dai piedi…” Fece un gesto verso Zete, che raccolse qualcosa dall’aria – una sfera ghiacciata grande come una pallina da tennis, ricoperta da punte di ghiaccio. “Una bomba,” spiegò Zete, “fatta specialmente per te, mio tesoro.” “Bombe!” rise Cal. “Un bel giorno! Bombe e muffin!” “Uh…” Piper abbassò il suo pugnale, che sembrava persino più inutile del solito. “Dei fiori sarebbero andati bene.” “Oh, non ucciderà la ragazza carina.” Zete si accigliò. “Bè… ne sono abbastanza sicuro. Ma quando il fragile contenitore si romperà, nel giro di… ah, circa non molto tempo… rilascerà la piena forza dei venti settentrionali. Questa nave verrà spinta molto fuori rotta. Molto, molto lontano.” “E’ così.” La voce di Chione aveva una punta di falsa compassione. “Prenderemo i tuoi amici per la nostra collezione di statue, poi rilasceremo i venti e ti saluteremo! Potrai guardare la fine del mondo da…. Bè, dalla fine del mondo! Magari potrai incantare i pesci, e nutrirti con la tua sciocca cornucopia. Potrai fare su e giù sul ponte di questa nave vuota e assistere alla nostra vittoria guardando la lama del tuo pugnale. Quando Gea sarà risorta e il mondo che conosci sarà morto, allora Zete potrà tornare a recuperarti per fari sua sposa. Cosa farai per fermarci, Piper? Un eroe? Ha! Tu sei uno scherzo.” Le sue parole pungevano come pioggia fitta, soprattutto perché Piper aveva pensato lei stessa quelle cose. Cosa poteva fare lei? Come poteva salvare i suoi amici con quello che aveva? Arrivò vicina al punto di rottura – era sull’orlo di lanciarsi contro i suoi nemici presa dalla rabbia e farsi uccidere. Guardò l’espressione compiaciuta di Chione e si rese conto che la dea stava sperando che lo facesse. Voleva che Piper si spezzasse. Voleva divertirsi. La schiena di Piper diventò di acciaio. Si ricordò delle ragazze che erano solite prendersi gioco di lei alla Scuola della Natura. Si ricordò di Drew, la crudele consigliera anziana che lei aveva sostituito nella cabina di Afrodite; e Medea, che aveva incantato Jason e Leo a Chicago; e Jessica, la vecchia assistente di suo padre, che l’aveva sempre trattata come fosse un’inutile mocciosa. Per tutta la sua vita, le persone avevano guardato Piper dall’alto in basso, dicendole che era inutile. Non è mai stato vero, sussurrò un’altra voce – una voce che somigliava a quella di sua madre. Ognuno di loro ti maltrattava perché ti temevano e ti invidiavano. Così vale per Chione. Sfrutta la cosa! Piper non si sentiva in vena di farlo, ma cercò di ridere. Provò un’altra volta, e la risata arrivò più facilmente. In poco tempo si ritrovò piegata in due, sghignazzante e scossa dalle risate. Calais si unì a lei, fino a che Zete non gli diede una gomitata. Il sorriso di Chione vacillò. “Cosa? Cosa c’è di così divertente? Ti ho condannata!” “Condannata!” Piper rise di nuovo. “Oh, dei… scusa.” Fece un respiro tremante e cercò di smettere di ridacchiare. “Oh, accidenti… okay. Credi davvero che sia priva di poteri? Credi davvero che io sia inutile? Dei dell’Olimpo, il tuo cervello deve essersi congelato. Non conosci il mio segreto, non è così?” Gli occhi di Chione si strinsero. “Non hai nessun segreto,” disse. “Stai mentendo.” “Okay, come ti pare,” disse Piper. “Sì, fai pure e prendi i miei amici. Lasciami qui… inutile.” Fece una risata di scherno. “Già. Gea sarà davvero contenta con te.” Della neve vorticò intorno alla dea. Zete e Calais si scambiarono delle occhiate nervose. “Sorella,” disse Zete, “se ha davvero qualche segreto –“ “Pizza?” meditò Cal. “Hockey?” “ – allora dobbiamo sapere,” continuò Zete. Chione non ne era ovviamente convinta. Piper cercò di mantenere un’espressione neutra, ma fece sì che i suoi occhi danzassero con malizia e ironia. Vai avanti, la sfidò. Chiedimi una dimostrazione. “Quale segreto?” chiese Chione. “Rivelacelo!” Piper scrollò le spalle. “Accomodatevi.” Indicò con fare indifferente verso la prua. “Seguitemi, persone di ghiaccio.” 44 PIPER Passò tra i due Boreadi, che era come camminare in un freezer per la carne. L’aria intorno a loro era così fredda, che le bruciava la faccia. Si sentiva come se stesse respirando neve pura. Piper cercò di non guardare il corpo congelato di Jason mentre gli passava accanto. Cercò di non pensare ai suoi amici sotto ponte, o a Leo che era stato sparato nel cielo verso un luogo senza ritorno. E più di tutti cercò di non pensare ai Boreadi e alla dea della neve, che la stavano seguendo. Fissò i suoi occhi sulla polena. La nave dondolava sotto i suoi piedi. Un’unica folata d’aria estiva attraversò il freddo, e Piper la respirò, prendendola come un buon auspicio. Era ancora estate là fuori. Chione e i suoi fratelli non appartenevano a quel posto. Piper sapeva che non poteva vincere una lotta diretta contro Chione e due tipi alati con le spade. Non era intelligente come Annabeth, o brava a risolvere i problemi come Leo. Ma aveva dei poteri. E aveva intenzione di usarli. La scorsa notte, durante la sua chiacchierata con Hazel, Piper si era accorta che il segreto della lingua ammaliatrice era molto simile a usare la Foschia. In passato, Piper aveva avuto un sacco di problemi nel far funzionare il suo incanto, perché aveva sempre ordinato ai suoi nemici di fare quello che lei voleva. UrlavaNon ucciderci quando il desiderio più profondo del mostro era proprio quello di ucciderli. Metteva tutto il suo potere nella sua voce e sperava che fosse abbastanza per sopraffare la volontà del suo nemico. A volte funzionava, ma era spossante e non ci si poteva affidare in modo sicuro. Afrodite non usava lo scontro frontale. Afrodite usava la sottigliezza, la scaltrezza e l’incanto. Piper aveva deciso che non si sarebbe concentrata sul far fare alle persone quello che lei voleva. Doveva spingerli a fare le cose che lorovolevano. Una teoria fantastica, se solo fosse riuscita a farla funzionare… Si fermò all’albero di trinchetto e si girò verso Chione. “Wow, mi sono appena resa conto del perché ci odi così tanto,” disse, riempiendo la sua voce di pietà. “Ti abbiamo completamente umiliata a Sonoma.” Gli occhi di Chione luccicarono come un caffè espresso ghiacciato. Lanciò un’occhiata nervosa ai suoi fratelli. Piper rise. “Oh, non gliel’hai raccontato!” indovinò. “Non ti biasimo. Avevi un re dei giganti dalla tua parte, più un esercito di lupi e di Figli della Terra, e non sei comunque riuscita a sconfiggerci.” “Silenzio!” sibilò la dea. L’aria si fece nebbiosa. Piper sentì il ghiaccio che le si solidificava sulle sopracciglia e che le congelava le orecchie, ma finse un sorriso. “Come vuoi.” Fece l’occhiolino a Zete. “Ma è stato piuttosto divertente.” “La bella ragazza sta mentendo,” disse Zete. “Chione non è stata sconfitta alla Casa del Lupo. Ha detto che è stato un… ah, qual’era il termine? Una ritirata tattica.” “Parata?” chiese Cal. “Le parate sono belle.” Piper diede una spinta giocosa al petto del ragazzo grosso. “No, Cal. Intende dire che tua sorella è scappata.” “Non sono scappata!” gridò Chione. “Come ti aveva definita Era?” rifletté Piper. “Giusto – una dea di terza categoria!” Scoppiò nuovamente a ridere, e il suo divertimento era così genuino, che anche Zete e Cal iniziarono a ridere. “Questa è très bon!” disse Zete. “Una dea di terza di categoria. Ha!” “Ha!” disse Cal. “Sorella scappa! Ha!” Il vestito bianco di Chione iniziò a fumare. Del ghiaccio si formò sulle bocche di Zete e Cal, imbavagliandoli. “Mostraci questo tuo segreto, Piper McLean,” ringhiò Chione. “Poi prega che ti lasci su questa nave tutta intera. Se ci stai prendendo in giro, ti mostrerò gli orrori del congelamento da ghiaccio. Dubito che Zete ti vorrà ancora se non hai più dita delle mani o dei piedi… magari senza naso o orecchie.” Zete e Cal sputarono i loro tappi di ghiaccio. “La ragazza carina sarebbe meno carina senza un naso,” ammise Zete. Piper aveva visto delle immagini di persone vittime del congelamento. La minaccia la terrorizzava, ma non lo lasciò vedere. “Andiamo, allora.” Fece strada verso la prua, mormorando una delle canzoni preferite di suo padre – “Summertime”. Quando raggiunse la polena, mise la mano sul collo di Festus. Le sue scaglie di bronzo erano fredde. Non c’era nessun ronzio di macchinari. Gli occhi di rubino erano opachi e scuri. “Ti ricordi del nostro drago?” chiese Piper. Chione fece un verso di scherno. “Questo non può essere il tuo segreto. Il drago è rotto. Il suo fuoco è andato.” “Bè, sì…” Piper accarezzò il muso del drago. Non aveva i poteri di Leo per far ruotare gli ingranaggi o attivare i circuiti. Non riusciva ad avvertire nulla sul funzionamento di una macchina. Tutto quello che poteva fare era parlare con il cuore e dire al drago quello che lui voleva sentire più di ogni altra cosa. “Ma Festus è più di una macchina. Lui è una creatura vivente.” “Ridicolo,” sputò la dea. “Zete, Cal – riunite i semidei ghiacciati sottocoperta. Poi romperemo la sfera dei venti.” “Potreste farlo, ragazzi,” concordò Piper. “Ma poi non vedreste Chione che viene umiliata. So che vi piacerebbe.” I Boreadi esitarono. “Hockey?” chiese Cal. “Quasi altrettanto bello,” gli assicurò Piper. “Avete combattuto al fianco di Jason e gli Argonauti, giusto? Su una nave come questa, la prima Argo.” “Sì,” annuì Zete. “L’Argo. Molto simile a questa, ma non avevamo un drago.” “Non ascoltatela!” scattò Chione. Piper avvertì del ghiaccio che le si formava sulle labbra. “Puoi zittirmi,” disse velocemente. “Ma vuoi sapere il mio potere segreto – come distruggerò te, Gea, e i giganti.” L’odio ribolliva negli occhi di Chione, ma bloccò il ghiaccio. “Tu – non – hai – poteri,” insistette. “Parli come una dea di terza categoria,” disse Piper. “Una che non viene mai presa seriamente, che vuolesempre altro potere.” Si voltò verso Festus e fece scorrere la mano dietro alle due orecchie di metallo. “Tu sei un buon amico Festus. Nessuno può disattivarti completamente. Tu sei più di una macchina. Chione non lo capisce.” Si voltò verso i Boreadi. “Non stima neanche voi, sapete. Crede di potervi comandare perché voi siete semidei, non divinità complete. Non capisce che voi siete una squadra potente.” “Una squadra,” grugnì Cal. “Come i Ca-na-di-ens.” Dovette lottare con la parola dal momento che aveva più di due sillabe. Fece un grosso sorriso e apparve molto compiaciuto di se stesso. “Esattamente,” disse Piper. “Proprio come una squadra di hockey. L’intero è più forte delle parti.” “Come una pizza,” aggiunse Cal. Piper rise. “Tu sei intelligente, Cal! Persino io ti ho sottovalutato.” “Adesso, aspetta un attimo,” protestò Zete. “Anche io sono intelligente. E anche bello.” “Molto intelligente,” annuì Piper, ignorando la parte del bello. “Quindi posa la bomba dei venti, e guarda Chione che viene umiliata.” Zete fece un grosso sorriso. Si accucciò e fece rotolare la sfera di ghiaccio lungo il ponte. “Stupido!” urlò Chione. Prima che la dea potesse inseguire la sfera, Piper gridò, “La nostra arma segreta, Chione! Noi non siamo solo un mucchio di semidei. Noi siamo una squadra. Proprio come Festus non è solo un insieme di parti. Lui è vivo. E’ mio amico. E quando i suoi amici si trovano nei guai, soprattutto Leo, può svegliarsi da solo.” Incanalò tutta la sua sicurezza nella voce – tutto il suo amore per il drago di metallo e tutto quello che aveva fatto per loro. La parte razionale di lei sapeva che era una situazione senza speranza. Come si poteva attivare una macchina con le emozioni? Ma Afrodite non era razionale. Lei governava attraverso le emozioni. Lei era la più antica e più primordiale degli dei dell’Olimpo, nata dal sangue di Urano mescolato al mare. Il suo potere era più antico di quello di Efesto, o di Atena, o persino di Zeus. Per un momento orribile, non accadde nulla. Chione la fissò con rabbia. I Boreadi iniziarono a risvegliarsi dalla loro confusione, con espressioni deluse. “Lasciate stare il nostro piano,” ringhiò Chione. “Uccidetela!” Mentre i Boreadi sollevavano le loro spade, la pelle di metallo del drago cominciò a scaldarsi sotto la mano di Piper. Lei si spostò dalla traiettoria, placcando la dea della neve, mentre Festus voltava la sua testa di centottanta gradi e colpiva in pieno i Boreadi, vaporizzandoli al loro posto. Per qualche ragione, la spada di Zete venne risparmiata. Cadde sul ponte, ancora fumante. Piper si rimise velocemente in piedi. Vide la sfera di vento alla base dell’albero di trinchetto. Corse verso di essa, ma prima che potesse avvicinarsi, Chione si materializzò davanti a lei in un turbinio di ghiaccio. La sua pelle brillava abbastanza luminosa da accecarla. “Ragazzina miserabile,” sibilò. “Credi di poter sconfiggere me – una dea?” Alle spalle di Piper, Festus ruggiva e fumava, ma Piper sapeva che non poteva sputare nuovamente il fuoco senza colpire anche lei. A circa sei metri alle spalle della dea, la sfera di ghiaccio iniziò a creparsi e fischiare. Piper era a corto di tempo per le sottigliezze. Gridò e sollevò il suo pugnale, attaccando la dea. Chione le afferrò il polso. Il ghiaccio di diffuse lungo il braccio di Piper. La lama di Katoptris divenne bianca. Il volto della dea era a soli dieci centimetri di distanza dal suo. Chione sorrise, sapendo di aver vinto. “Una figlia di Afrodite,” la rimproverò. “Non sei nulla.” Festus cigolò di nuovo. Piper poteva giurare che stava cercando di urlare degli incoraggiamenti. Improvvisamente il suo petto si riscaldò – non con rabbia o paura, ma con l’amore che provava per quel drago; e per Jason, che dipendeva da lei; e per i suoi amici intrappolati di sotto; e per Leo, che era perso e avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Forse l’amore non era all’altezza del ghiaccio… ma Piper l’aveva usato per svegliare un drago di metallo. I mortali compivano continuamente degli atti supereroici in nome dell’amore. Le madri sollevavano le macchine per salvare i loro figli. E Piper era più di una mortale. Lei era un semidio. Un eroe. Il ghiaccio sulla sua lama si sciolse. Il suo braccio fumò sotto la presa di Chione. “Continui a sottovalutarmi,” disse Piper alla dea. “Devi davvero lavorare sulla cosa.” L’espressione compiaciuta di Chione vacillò mentre Piper abbassava con sicurezza il pugnale. La lama toccò il petto di Chione, e la dea esplose in una tormenta in miniatura. Piper crollò, stordita dal freddo. Sentiva Festus che cigolava e ronzava, le campane d’allarme, di nuovo in funzione, che suonavano. La bomba. Piper lottò per alzarsi in piedi. La sfera era a tre metri di distanza, stava ruotando su se stessa e rilasciando fumo mentre i venti al suo interno iniziarono ad agitarsi. Piper si gettò verso di essa. Le sue dita si chiusero intorno alla bomba proprio mentre il ghiaccio si frantumava e i venti esplodevano. 45 PERCY Percy sentiva la mancanza della palude. Non avrebbe mai pensato che gli sarebbe mancato dormire nel letto di pelle di un gigante in una capanna fatta di ossa di dragone in una fogna inquinata, ma in quel momento sembrava l’Elisio. Lui, Annabeth e Bob avanzavano incerti nel buio, l’aria densa e fredda, il terreno che si alternava tra chiazze di rocce appuntite e piscine di sostanza viscida. Il terreno sembrava essere stato progettato così che Percy non potesse mai abbassare la guardia. Persino camminare per tre metri era spossante. Percy era partito dalla capanna del gigante sentendosi di nuovo in forze, la mente chiara, la pancia piena di spezzatino di dragone grazie al loro zaino di provviste. Adesso aveva le gambe indolenzite. Gli faceva male ogni muscolo del corpo. Si mise una tunica improvvisata fatta di pelle di dragone sopra la maglietta a brandelli, ma non servì a nulla contro i brividi. La sua concentrazione si focalizzò sul terreno davanti a lui. Non esisteva nient’altro eccetto quello e Annabeth al suo fianco. Ogni volta che sentiva che stava per mollare, lasciarsi andare e morire (cosa che accadeva, all’incirca, ogni dieci minuti), allungava il braccio e le prendeva la mano, solo per ricordarsi che c’era ancora calore nel mondo. Dopo la chiacchierata di Annabeth con Damasene, Percy era preoccupato per lei. Annabeth non si lasciava andare alla disperazione facilmente, ma mentre camminavano, si asciugava le lacrime dagli occhi, cercando di non farsi vedere da Percy. Lui sapeva che lei detestava quando i suoi piani non funzionavano come aveva previsto. Era convita che avessero bisogno dell’aiuto di Damasene, ma il gigante li aveva scaricati. Una parte di Percy era sollevata. Era già abbastanza preoccupato che Bob rimanesse dalla loro parte quando avessero raggiunto le Porte della Morte. Non era certo di volere un gigante come spalla, anche se quel gigante era in grado di cucinare un’eccellente spezzatino. Si chiese cosa fosse successo dopo che avevano lasciato la capanna di Damasene. Non sentiva i suoi inseguitori da ore, ma poteva avvertire il loro odio… soprattutto quello di Polibote. Quel gigante si trovava dietro di loro da qualche parte, intento a seguirli, spingendoli più in profondità nel Tartaro. Percy cercò di pensare a delle cose belle per tenersi su di morale – il lago al Campo Mezzosangue, la volta in cui aveva baciato Annabeth sottacqua. Cercò di immaginare loro due insieme a Nuova Roma, a passeggiare tra le colline tenendosi nella mano. Ma il Campo Giove e il Campo Mezzosangue sembravano entrambi dei sogni. Si sentiva come se esistesse solo il Tartaro. Quello era il mondo reale – morte, oscurità, freddo, dolore. Si era immaginato tutto il resto. Tremò. No. Quello era l’abisso che parlava a lui, indebolendo la sua sicurezza. Si chiese come avesse fatto Nico a sopravvivere là sotto da solo senza impazzire. Quel ragazzo aveva più forza di quella che Percy pensava. Più andavano in profondità, più diventava difficile rimanere concentrati. “Questo posto è peggio del Fiume Cocito,” borbottò. “Sì,” esclamò Bob allegramente. “Molto peggio! Significa che siamo vicini.” Vicini a cosa? Si chiese Percy. Ma non aveva la forza di chiedere. Notò che Piccolo Bob si era nascosto nuovamente dentro al colletto di Bob, cosa che rafforzò l’opinione di Percy sul fatto che il gatto fosse il più intelligente del loro gruppo. Annabeth incrociò le dita con quelle di lui. Nella luce della sua spada di bronzo, il suo volto era bellissimo. “Siamo insieme,” gli ricordò. “Ce la faremo.” Era stato così preoccupato all’idea di risollevarle il morale, ed eccola lì che rassicurava lui. “Sì,” annuì. “Come bere un bicchiere d’acqua.” “Ma la prossima volta,” disse, “voglio andare da qualche altra parte come appuntamento.” “Parigi è stata carina,” ricordò lui. Lei abbozzò un sorriso. Mesi fa, prima che Percy perdesse la memoria, avevano cenato a Parigi una notte, un omaggio da Hermes. Sembrava appartenere a un’altra vita. “Mi accontenterei di Nuova Roma,” offrì lei. “Finché sarai lì con me.” Cavoli, Annabeth era fantastica. Per un attimo, Percy ricordò davvero cosa voleva dire essere felici. Aveva una ragazza eccezionale. Potevano avere un futuro insieme. Poi l’oscurità si diffuse con un enorme sospiro, come l’ultimo fiato di un dio morente. Davanti a loro si trovava una radura – un campo deserto fatto di polvere e rocce. Al centro, a circa venti metri di distanza, era inginocchiata la macabra sagoma di una donna, con i vestiti a brandelli, gli arti emaciati, la pelle di un verde coriaceo. Aveva la testa piegata mentre singhiozzava silenziosamente, e il suono infranse tutte le speranze di Percy. Si rese conto che la sua vita era inutile. Tutte le sue lotte non servivano a nulla. Quella donna piangeva come se fosse in lutto per la morte di tutto il mondo. “Siamo arrivati,” annunciò Bob. “Achlys può aiutarci.” 46 PERCY Se il fantasma piangente consisteva nell’idea di aiuto di Bob, Percy era abbastanza sicuro di non volerlo. Ciò nonostante, Bob arrancò in avanti. Percy si sentì obbligato a seguirlo. Se non altro, quella zona era meno scura – non esattamente illuminata, ma con una densa foschia bianca. “Achlys!” chiamò Bob. La creatura sollevò la testa, e lo stomaco di Percy gridò, Aiutami! Il suo corpo era già abbastanza brutto. Assomigliava a una vittima della carestia – arti simili a bastoncini, ginocchia gonfie e gomiti nodosi, stracci al posto degli abiti, unghie delle mani e dei piedi rotte. La polvere le ricopriva la pelle e le si era impilata sulle spalle come se si fosse fatta una doccia sotto una clessidra. Il suo volto era una desolazione completa. I suoi occhi erano incavati e catarrali, dai quali venivano versate lacrime continue. Il suo naso gocciolava come una cascata. I suoi grigi capelli fibrosi erano spiaccicati contro la testa in ciocche unte, e le sue guancie erano graffiate e sanguinanti come se si fosse artigliata da sola. Percy non riusciva a sopportare il suo sguardo, così abbassò gli occhi. Sulle sue ginocchia giaceva uno scudo antico – un cerchio malconcio fatto di legno e bronzo, dipinto con le fattezze di Achlys in persona che teneva uno scudo sulle ginocchia, così l’immagine sembrava andare avanti all’infinito, sempre più piccola. “Quello scudo,” mormorò Annabeth. “E’ il suo. Pensavo che fosse solo una storia.” “Oh, no,” gemette la vecchia strega. “Lo scudo di Ercole. Mi dipinse sulla sua superficie, così i suoi nemici avrebbero visto me nei loro ultimi istanti di vita – la dea della miseria.” Tossì così forte, che Percy provò una fitta di dolore al petto. “Come se Ercole conoscesse la vera miseria. Non mi somiglia neanche!” Percy deglutì. Quando lui e i suoi amici avevano incontrato Ercole allo Stretto di Gibilterra, non era andata bene. L’incontro aveva compreso un sacco di urla, minacce di morte, e degli ananas lanciati ad alta velocità. “Cosa ci fa qui il suo scudo?” chiese Percy. La dea lo fissò con i suoi umidi occhi lattiginosi. Dalle guancie le gocciolava del sangue, creando dei puntini rossi sul suo vestito a brandelli. “Non gli serve più, no? Arrivò qui quando il suo corpo mortale venne bruciato. Un ricordo, suppongo, del fatto che nessuno scudo è sufficiente. Alla fine, la miseria raggiunge tutti. Persino Ercole.” Percy si avvicinò di più ad Annabeth. Cercò di ricordarsi perché si trovassero lì, ma il senso di disperazione rendeva difficile pensare. Ascoltando Achlys che parlava, non trovava più strano che si fosse graffiata le sue stesse guancie. La dea irradiava sofferenza pura. “Bob,” disse Percy, “non saremmo dovuti venire qui.” Da qualche parte all’interno della divisa di Bob, il gatto scheletro miagolò d’accordo. Il Titano si mosse a disagio e fece una smorfia, come se Piccolo Bob gli stesse graffiando l’ascella. “Achlys controlla la Foschia di Morte,” insistette. “Lei può nascondervi.” “Nasconderli?” Achlys fece un verso gorgogliante. Forse stava ridendo, oppure si stava strozzando. “Perché dovrei farlo?” “Devono raggiungere le Porte della Morte,” disse Bob. “Per tornare nel mondo mortale.” “Impossibile!” disse Achlys. “Gli eserciti del Tartaro vi troveranno. Vi uccideranno.” Annabeth girò la lama della sua spada di osso di drago, cosa che Percy dovette ammettere la faceva apparire piuttosto intimidante e sexy in uno stile da “Principessa Barbara”. “Allora immagino che la tua Foschia di Morte sia abbastanza inutile,” disse lei. La dea scoprì i suoi gialli denti spezzati. “Inutile? Chi sei tu?” “Una figlia di Atena.” La voce di Annabeth suonava coraggiosa – anche se Percy non sapeva come facesse. “Non ho attraversato metà Tartaro per sentirmi dire cosa è impossibile da qualche dea minore.” La polvere tremò ai loro piedi. La nebbia vorticò intorno a loro con un suono simile a dei lamenti agonizzanti. “Dea minore?” Le unghie nodose di Achlys scavarono nello scudo di Ercole, perforando il metallo. “Ero vecchia prima che nascessero i Titani, ragazzina ignorante. Ero vecchia quando Gea si svegliò per la prima volta. La miseria è eterna. L’esistenza è miseria. Sono nata dai più antichi – dal Caos e dalla Notte. Io –“ “Sì, sì,” disse Annabeth. “Tristezza e miseria, blah, blah, blah. Ma non hai comunque abbastanza potere per nascondere due semidei con la tua Foschia di Morte. Come ho detto: inutile.” Percy si schiarì la gola. “Uh, Annabeth –“ Lei gli lanciò uno sguardo di avvertimento: Aiutami. Si rese conto di quanto fosse terrorizzata, ma non aveva scelta. Quella era la loro miglior possibilità per spingere la dea ad agire. “Voglio dire… Annabeth ha ragione!” tentò Percy. “Bob ci ha portato fino qui perché pensava che potessi aiutare. Ma immagino che tu sia troppo occupata a fissare quello scudo e a piangere. Non posso biasimarti. Ti somiglia proprio.” Achlys gemette e fissò il Titano. “Perché mi ha inflitto questi mocciosi irritanti?” Bob emise un suono che era a metà strada da un rombo e un gemito. “Pensavo – pensavo – “ “La Foschia di Morte non è fatta per aiutare!” gridò Achlys. “Avvolge i mortali nella sofferenza mentre le loro anime passano nell’Oltretomba. E’ il respiro stesso di Tartaro, della morte, della disperazione!” “Fantastico,” disse Percy. “Potremmo averne due?” Achlys sibilò. “Chiedetemi un dono più sensato, sono anche la dea dei veleni. Potrei darvi la morte – migliaia di modi per morire meno dolorosi di quello che avete scelto recandovi nel cuore dell’abisso.” Intorno alla dea, dei fiori sbocciarono tra la polvere – boccioli viola scuro, arancione e rosso che avevano un dolce odore nauseante. La testa di Percy girò. “Morella,” offrì Achlys. “Cicuta. Belladonna, giusquiamo o stricnina. Posso dissolvervi le budella, bollire il vostro sangue.” “E’ moro carino da parte tua,” disse Percy. “Ma ho già avuto abbastanza veleni da bastarmi per un viaggio intero. Adesso, puoi nasconderci nella tua Foschia di Morte, oppure no?” “Sì, sarà divertente,” disse Annabeth. Gli occhi della dea si strinsero. “Divertente?” “Certo,” assicurò Annabeth. “Se falliamo, pensa a quanto sarà grandioso per te, a gongolare sui nostri spiriti mentre noi moriamo in agonia. Avrai la possibilità di dire Ve l’avevo detto per tutta l’eternità.” “Oppure, se avremo successo,” aggiunse Percy, “pensa a tutta la sofferenza che porterai ai mostri là sotto. Abbiamo intenzione di sigillare le Porte della Morte. Questo causerà un sacco di gemiti e lamenti.” Achlys pensò alla cosa. “Mi piace la sofferenza. Anche i lamenti sono belli.” “Allora è deciso,” disse Percy. “Rendici invisibili.” Achlys si mise in piedi con fatica, lo scudo di Ercole rotolò lontano e dondolò fino a fermarsi in una macchia di fiori velenosi. “Non è così semplice,” disse la dea. “La Foschia di Morte arriva nell’attimo in cui siete più vicini alla vostra fine. I vostri occhi saranno annebbiati soltanto allora. Il mondo si dissolverà.” Percy si sentì la bocca asciutta. “Okay. Ma… saremo coperti agli occhi dei mostri?” “Oh, sì,” disse Achlys. “Se sopravvivrete al processo, sarete in grado di passare inosservati tra gli eserciti di Tartaro. E’ senza speranza, ovviamente, ma se siete determinati, allora venite. Vi mostrerò la strada.” “La strada per dove, esattamente?” chiese Annabeth. La dea si stava già trascinando verso il buio. Percy si voltò per guardare Bob, ma il Titano non c’era più. Come faceva un essere d’argento di tre metri con un gatto molto rumoroso a sparire? “Hey!” gridò Percy verso Achlys. “Dov’è il nostro amico?” “Lui non può prendere questo percorso,” ripose la dea. “Lui non è mortale. Venite, piccoli sciocchi. Venite a provare la Foschia di Morte.” Annabeth fece un respiro profondo e gli prese la mano. “Bè… quanto potrà essere brutto?” La domanda era così ridicola che Percy rise, anche se gli facevano male i polmoni. “Già. Al prossimo appuntamento però – cena a Nuova Roma.” Seguirono le impronte polverose della dea attraverso i fiori velenosi, avanzando sempre di più nella nebbia. 47 PERCY A Percy mancava Bob. Si era abituato ad avere il Titano al suo fianco, che illuminava loro la strada con i suoi capelli argentati e la sua temibile scopa da guerra. Adesso la loro unica guida era un’emaciata donna cadavere con seri problemi di fiducia in se stessa. Mentre procedevano a fatica attraverso la radura polverosa, la nebbia si fece così fitta che Percy dovette resistere all’impulso di diradarla agitando le mani. L’unica ragione per la quale era in grado di seguire il cammino di Achlys era perché ovunque camminasse, crescevano delle piante velenose. Se si trovavano ancora sul corpo di Tartaro, Percy immaginava che si dovessero trovare sulla parte inferiore del suo piede – una ruvida distesa callosa dove crescevano solo le piante più disgustose. Finalmente arrivarono alla fine dell’alluce. Almeno era quello che sembrava a Percy. La nebbia si diradò, e loro si ritrovarono su una penisola che sporgeva sopra un abisso nero pece. “Ci siamo.” Achlys si voltò e li guardò con sguardo malizioso. Dalle guancie le uscì del sangue che le cadde sul vestito. I suoi occhi pallidi apparivano umidi e gonfi ma in qualche modo emozionati. La Miseria poteva apparire emozionata? “Uh… fantastico,” disse Percy. “Qui dove?” “Sull’orlo della morte finale,” disse Achlys. “Dove Notte incontra l’abisso al di sotto di Tartaro.” Annabeth si fece avanti e guardò oltre il dirupo. “Credevo che non ci fosse nulla al di sotto del Tartaro.” “Oh, c’è senza dubbio…” Achlys tossì. “Persino il Tartaro deve sorgere da qualcosa. Questo è l’orlo della prima oscurità, che fu mia madre. Sotto giace il regno di Caos, mio padre. Qui, siete più vicini al nulla di quanto lo sia mai stato qualsiasi mortale. Non riuscite ad avvertirlo?” Percy sapeva quello che voleva dire. L’abisso sembrava attrarlo, dissolvendo il respiro dai suoi polmoni e l’ossigeno dal suo sangue. Guardò Annabeth e vide che aveva le labbra blu. “Non possiamo rimanere qui,” disse. “No, infatti!” disse Achlys. “Non avvertire la Foschia di Morte? Persino adesso, siete in mezzo. Guardate!” Del fumo bianco si unì intorno ai piedi di Percy. Mentre si alzava avvolgendosi intorno alle sue gambe, si rese conto che il fumo non lo stava circondando. Proveniva da lui. Tutto il suo corpo si stava dissolvendo. Sollevò le mani e vide che erano confuse e indistinte. Non riusciva nemmeno a dire quante dita avesse. Sperava che fossero ancora dieci. Si voltò verso Annabeth e soffocò un grido. “Sei – uh – “ Non riusciva a dirlo. Sembrava morta. La sua pelle era terrea, gli occhi scuri e infossati. I suoi bellissimi capelli si erano seccati diventando una matassa di ragnatele. Sembrava che fosse stata bloccata in uno scuro e freddo mausoleo per decenni, appassendo lentamente fino a diventare un guscio vuoto essiccato. Quando lei si voltò per guardarlo, i suoi tratti sfocarono momentaneamente diventando foschia. Il sangue di Percy scorreva come sciroppo nelle sue vene. Per anni, si era preoccupato che Annabeth morisse. Quando si è un semidio, è una cosa normale. La maggior parte dei mezzosangue non vive a lungo. Sapevi sempre che il prossimo mostro che avresti affrontato sarebbe potuto essere l’ultimo. Ma vedere Annabeth in quel modo era troppo doloroso. Avrebbe preferito essere immerso nel Fiume Flegetonte, o essere attaccato dalle arai, o essere calpestato dai giganti. “Oh, dei,” singhiozzò Annabeth. “Percy, il tuo aspetto…” Percy si studiò le braccia. Tutto quello che vide erano macchie di foschia bianca, ma immaginò che agli occhi di Annabeth apparisse come un cadavere. Fece qualche passo, anche se era difficile. Il suo corpo sembrava essere inconsistente, come se fosse fatto di elio e zucchero filato. “Ho avuto un aspetto migliore,” decise. “Non riesco a muovermi molto bene. Ma sto bene.” Achlys ridacchiò. “Oh, senza dubbio non stai bene.” Percy aggrottò le sopracciglia. “Ma adesso saremo invisibili? Possiamo raggiungere le Porte della Morte?” “Bè, forse potreste,” disse la dea, “se vivreste così a lungo, cosa che non farete.” Achlys allargò le sue dita nodose. Altre piante sbocciarono lungo il bordo dell’abisso – cicuta, morella e oleandri si allargarono verso i piedi di Percy come un tappeto mortale. “La Foschia di Morte non è un semplice camuffamento, vedete. È uno stato. Non avrei potuto portarvi questo dono a meno che la morte non vi avesse seguiti – la morte vera.” “E’ una trappola,” disse Annabeth. La dea ridacchiò. “Non vi aspettavate che vi avrei traditi?” “Sì,” dissero Annabeth e Percy all’unisono. “Bè, in questo caso, non è stata una vera trappola! Più come una cosa inevitabile. La Miseria è inevitabile. Il Dolore è –“ “Sì, sì,” ringhiò Percy. “Passiamo alla parte dove si combatte.” Sguainò Vortice, ma la lama era fatta di fumo. Quando la abbassò contro Achlys, la spada si limitò a passarle attraverso come una brezza gentile. La bocca rovinata della dea si aprì in un sogghigno. “Non ve l’ho detto? Adesso siete solo foschia – un’ombra prima della morte. Magari se aveste tempo, potreste imparare a controllare la vostra nuova forma. Ma nonavete tempo. Dal momento che non potete toccarmi, temo che qualsiasi lotta contro Miseria sarà praticamente una lotta con un solo attaccante.” Le sue unghie si allungarono diventando degli artigli. La sua mascella si staccò, e i suoi denti gialli si allungarono trasformandosi in zanne. 48 PERCY Achlys si lanciò verso Percy, e per una frazione di secondo lui pensò: Bè, hey, sono fatto solo di fumo. Non può toccarmi, giusto? Immaginò le Parche su nell’Olimpo, che ridevano ai suoi pensieri speranzosi: LOL, NO! Gli artigli della dea scavarono nel suo petto provocando un bruciore simile ad acqua bollente. Percy inciampò all’indietro, ma non era abituato all’essere fatto di fumo. Le sue gambe si muovevano troppo lentamente. Le braccia sembravano essere dei fazzolettini di carta. Preso dalla disperazione, le lanciò contro lo zaino, pensando che magari sarebbe tornato solido una volta lasciata la sua mano, ma non ebbe una tale fortuna. Cadde con un tonfo attutito. Achlys ringhiò, acquattandosi pronta a saltare. Avrebbe staccato via la faccia di Percy se Annabeth non l’avesse attaccata urlando, “HEY!” dritta nelle orecchie della dea. Achlys indietreggiò, voltandosi verso il rumore. Si lanciò contro Annabeth, ma Annabeth era più brava di Percy nel muoversi. Forse lei non si sentiva altrettanto fumosa, o magari aveva soltanto avuto più addestramento. Era stata al Campo Mezzosangue da quando aveva sette anni. Probabilmente aveva partecipato a delle lezioni che Percy non aveva mai fatto, del tipo Come Combattere Mentre Si E’ Parzialmente Fatti di Fumo. Annabeth si tuffò dritta tra le gambe della dea e fece una capriola per rimettersi in piedi. Achlys si girò e attaccò, ma Annabeth la schivò nuovamente, come un matador. Percy era così sconvolto, che perse alcuni secondi preziosi. Fissò l’Annabeth cadavere, avvolta dalla foschia ma che si muoveva veloce e sicura come sempre. Poi gli venne in mente il motivo per cui lo stava facendo: per farli guadagnare del tempo. Il che voleva dire che Percy doveva aiutarla. Pensò selvaggiamente, cercando di trovare un modo per sconfiggere Miseria. Come poteva combattere quando non era in grado di toccare nulla? Al terzo attacco di Achlys, Annabeth non fu altrettanto fortunata. Cercò di schivare lateralmente, ma la dea afferrò il polso di Annabeth e la tirò con forza, gettandola a terra. Prima che la dea potesse piombarle addosso, Percy avanzò, urlando e agitando la sua spada. Si sentiva ancora solido come un Kleenex, ma la sua rabbia sembrava aiutarlo a muoversi più velocemente. “Hey, Allegra!” urlò. Achlys si voltò velocemente, lasciando il braccio di Annabeth. “Allegra?” chiese. “Già!” Lui si abbassò mentre lei attaccava verso la sua testa. “Sei assolutamente gioiosa!” “Arggh!” Lei attaccò di nuovo, ma era fuori equilibrio. Percy si mosse di lato e indietreggiò, guidando la dea più lontano da Annabeth. “Piacevole!” esclamò. “Deliziosa!” La dea ringhiò e fremette. Avanzò incerta verso Percy. Ogni complimento sembrava colpirla come sabbia in faccia. “Ti ucciderò lentamente!” ringhiò, con gli occhi e il naso gocciolanti, il sangue che le scendeva dalle guancie. “Ti farò a pezzi come sacrificio per Notte!” Annabeth riuscì a rimettersi in piedi. Cominciò a frugare nella sua borsa, senza dubbio in cerca di qualcosa che potesse aiutare. Percy voleva darle più tempo. Lei era il cervello. Era meglio che lui venisse attaccato mentre lei pensava a un piano brillante. “Tenera!” gridò Percy. “Calda, affettuosa, fai venire voglia di abbracciarti!” Achlys emise un suono ringhiante e strozzato, come un gatto con un attacco epilettico. “Una morte lenta!” urlò lei. “Una morte con mille veleni!” Tutto intorno a lei, crescevano ed esplodevano piante velenose, come fossero palloncini troppo pieni. Della linfa verde e bianca gocciolò fuori, raccogliendosi in delle pozzanghere, e iniziò a scorrere sul terreno verso Percy. I vapori dall’odore dolciastro lo stordivano. “Percy!” La voce di Annabeth suonava molto lontana. “Uh, hey, Miss Meraviglia! Allegra! Tutta sorrisi! Da questa parte!” Ma la dea della miseria adesso era concentrata su Percy. Lui cercò di ritirarsi di nuovo. Sfortunatamente adesso l’icore velenoso stava scorrendo tutto intorno a lui, facendo fumare il terreno e bruciare l’aria. Percy si ritrovò bloccato su un’isola di polvere non molto più grande di uno scudo. A qualche metro di distanza, il suo zaino fumava e si dissolveva in una pozza di sostanza viscida. Percy non poteva scappare da nessuna parte. Cadde su un ginocchio. Voleva dire ad Annabeth di scappare, ma non riusciva a parlare. La sua gola era secca come foglie morte. Desiderò che ci fosse dell’acqua nel Tartaro – qualche bella pozza nella quale potesse saltare per guarirsi, o magari un fiume da controllare. Gli sarebbe andata bene una bottiglietta d’acqua. “Nutrirai l’oscurità eterna,” disse Achlys. “Morirai tra le braccia della Notte!” Era solo in parte consapevole di Annabeth che stava urlando, lanciando parti a caso di carne di dragone contro la dea. Il veleno bianco-verdastro continuava a raccogliersi nelle pozze, piccoli rivoli gocciolavano dalle piante mentre il lago velenoso attorno a lui si faceva sempre più largo. Lago, pensò. Rivoli. Acqua. Probabilmente si trattava solo della sua mente che si stava stancando a causa dei fumi velenosi, ma lasciò andare una risata gracchiante. Il veleno era liquido. Se si muoveva come l’acqua, doveva essere parzialmente fatto d’acqua. Ricordò alcune lezioni di scienze in cui avevano detto che il corpo umano era composto per la maggior parte da acqua. Ricordò di come aveva fatto uscire l’acqua dai polmoni di Jason a Roma… Se era in grado di controllare quello, allora perché non provare con altri liquidi? Era un’idea folle. Poseidone era il dio del mare, non di qualsiasi liquido esistente. Tuttavia, il Tartaro seguiva le sue regole personali. Il fuoco si poteva bere. Il terreno era il corpo di un dio oscuro. L’aria era acida, e i semidei potevano essere trasformati in cadaveri di fumo. Allora perché non tentare? Non aveva niente da perdere. Fissò il torrente di veleno che arrivava da ogni parte. Si concentrò così duramente che qualcosa dentro di lui si spezzò – come se gli si fosse infranta una palla di vetro nello stomaco. Il calore lo avvolse. L’ondata di veleno si fermò. I fumi si allontanarono da lui – tornando verso la dea. Il lago di veleno scivolò verso di lei con minuscole onde e rivoli. Achlys gridò. “Cos’è questo?” “Veleno,” disse Percy. “E’ la tua specialità, giusto?” Si alzò in piedi, con la rabbia che cresceva sempre di più dentro di lui. Mentre il torrente di veleno scorreva verso la dea, i fumi iniziarono a farla tossire. I suoi occhi iniziarono a lacrimare persino più di prima. Oh, bene, pensò Percy. Altra acqua. Percy si immaginò il naso e la gola della dea che si riempivano delle sue stesse lacrime. Achlys fece un verso strozzato. “Io –“ L’ondata di veleno le raggiunse i piedi, sfrigolando come gocce d’acqua sul ferro bollente. Lei gemette e indietreggiò velocemente. “Percy!” esclamò Annabeth. Si era ritirata fino al bordo del dirupo, anche se il veleno non stava scorrendo verso di lei. Sembrava terrorizzata. A Percy ci volle un momento per rendersi conto che era terrorizzata da lui. “Basta…” implorò con la voce fioca. Lui non voleva fermarsi. Voleva soffocare quella dea. Voleva guardarla annegare nel suo stesso veleno. Voleva vedere quanta miseria potesse sopportare Miseria. “Percy, ti prego…” Il volto di Annabeth era ancora pallido e cadaverico, ma i suoi occhi erano quelli di sempre. La paura che c’era in loro fece dissolvere la rabbia di Percy. Si voltò verso la dea. Ordinò al veleno di ritirarsi, creando un piccolo sentiero di passaggio lungo il bordo del dirupo. “Vattene!” ruggì. Per essere un fantasma emaciato, Achlys era in grado di correre piuttosto velocemente quando voleva. Si lanciò lungo il passaggio libero, cadde di faccia, e si rialzò di nuovo, gemendo mentre scattava nell’oscurità. Non appena se ne fu andata, le piscine di veleno evaporarono. Le piante seccarono fino a diventare polvere e vennero spazzate via. Annabeth avanzò incerta verso di lui. Sembrava un cadavere avvolto dal fumo, ma la sentì completamente solida quando gli afferrò le braccia. “Percy, ti prego non…” La sua voce si spezzò in un singhiozzo. “Alcune cose non sono fatte per essere controllate. Ti prego.” Il suo corpo formicolava di potere, ma la rabbia stava diminuendo. Il vetro rotto dentro di lui stava cominciando a levigarsi sui bordi. “Sì,” disse. “Sì, va bene.” “Dobbiamo andarcene da questo dirupo,” disse Annabeth. “Se Achlys ci ha portati qui come qualche tipo di sacrificio…” Percy cercò di pensare. Si stava abituando a muoversi con la Foschia di Morte intorno a lui. Si sentiva più solido, più come se stesso. Ma la sua mente sembrava ancora essere piena di cotone. “Ha detto qualcosa riguardo al darci in pasto alla notte,” ricordò. “Che voleva dire?” La temperatura precipitò. L’abisso davanti a loro sembrò esalare un respiro. Percy afferrò Annabeth e si allontanò dal bordo mentre una presenza emergeva dal vuoto – una figura così vasta e ombrosa, che ebbe la sensazione di capire il concetto di buio per la prima volta in vita sua. “Immagino,” disse l’oscurità, con una voce femminile morbida come la seta d’imbottitura di una bara, “che voleva dire Notte, con la N maiuscola. Dopotutto, io sono l’unica.” 49 LEO Per come la vedeva Leo, aveva passato più tempo a precipitare che a volare sulla sua nave. Se ci fosse stata una carta premio per chi precipitava molto spesso, lui avrebbe avuto, tipo, il doppio livello platino. Riacquistò conoscenza mentre stava andando in caduta libera tra le nuvole. Aveva un ricordo confuso di Chione che lo derideva appena prima di essere lanciato nel cielo. Non l’aveva davvero vista, ma non si sarebbe mai potuto dimenticare la voce di quella strega della neve. Non aveva idea per quanto tempo avesse acquistato altezza, ma ad un certo punto doveva essere svenuto a causa del freddo e della mancanza di ossigeno. Adesso stava scendendo, diretto verso il suo schianto più grande di sempre. Le nuvole si aprivano intorno a lui. Vide il mare luccicante molto, molto più in basso. Nessun segno dell’Argo II. Nessun segno di terra, familiare e non, eccetto una minuscola isola all’orizzonte. Leo non sapeva volare. Aveva al massimo un paio di minuti prima di colpire l’acqua e spiaccicarsi. Decise che non gli piaceva quel finale per l’Epica Ballata di Leo. Stava ancora stringendo in mano la sfera di Archimede, cosa che non lo sorprese. Privo di sensi o meno, non avrebbe mai lasciato andare l’oggetto più prezioso che aveva. Con qualche piccola manovra, riuscì a tirare fuori dello scotch dalla sua cintura degli attrezzi e a fissarsi la sfera sul petto. Quello lo fece assomigliare a un Iron Man con una tuta economica, ma almeno adesso aveva le mani libere. Si mise al lavoro, agendo furiosamente con la sfera, tirando fuori dalla sua cintura magica qualsiasi cosa che pensava avrebbe potuto essergli d’aiuto: una tenda, degli estensori di metallo, qualche molla e piccoli occhielli di ferro. Lavorare mentre si precipitava era quasi impossibile. Il vento gli ruggiva nelle orecchie. Continuava a scalzargli attrezzi, viti, e tessuto dalle mani, ma alla fine riuscì a costruire un’intelaiatura improvvisata. Aprì uno sportelletto nella sfera, tirò fuori due cavi, e li collegò alla sua struttura. Quanto gli restava prima di colpire l’acqua? Forse un minuto? Girò i quadranti di controllo della sfera, e questa si azionò ronzando. Altri cavi di bronzo uscirono dalla sfera, avvertendo intuitivamente ciò di cui Leo aveva bisogno. Delle funi si avvolsero al tessuto da tenda. La struttura iniziò a spandersi autonomamente. Leo tirò fuori una lattina di cherosene e un tubo di gomma e li collegò al nuovo assetato motore che la sfera lo stava aiutando ad assemblare. Alla fine si costruì una briglia e la spostò così che la struttura ad X fosse legata sulla sua schiena. Il mare si stava avvicinando sempre di più – una distesa luccicante di morte. Emise un grido di sfida e premette l’interruttore della sfera. Il motore entrò incerto in azione. I rotori improvvisati ruotarono. Le lame della tela iniziarono a girare, ma troppo lentamente. La testa di Leo era indirizzata dritta verso il mare – a circa trenta secondi dall’impatto. Almeno non c’era nessuno in giro, pensò amaramente, o sarei diventato una barzelletta di semidei per l’eternità. Cosa è stata l’ultima cosa che è passata per la testa di Leo? Il Mediterraneo. Improvvisamente la sfera si fece più calda contro il suo petto. Le lame iniziarono a girare più velocemente, il motore tossì, e Leo si inclinò lateralmente, muovendosi contro l’aria. “SI’!” gridò. Aveva appena creato con successo l’elicottero personale più pericoloso del mondo. Si diresse sparato verso l’isola in lontananza, ma stava ancora precipitando troppo velocemente. Le lame tremarono. La tela gemette. La spiaggia si trovava a sole poche centinaia di metri di distanza quando la sfera si fece bollente come lava e l’elicottero esplose, sparando fiamme in tutte le direzioni. Se non fosse stato immune al fuoco, Leo sarebbe diventato un tizzone ardente. Per come si rivelò in seguito, l’esplosione a mezz’aria probabilmente gli salvò la via. Lo scoppio fece volare Leo di lato mentre la massa in fiamme del suo congegno si schiantò sulla riva a velocità massima con un enorme KA-BOOM! Leo aprì gli occhi, stupito di essere vivo. Si trovava all’interno di un cratere grande come una vasca da bagno scavato nella sabbia. A qualche metro di distanza, una colonna di denso fumo nero si alzava nel cielo da un cratere molto più grande. La spiaggia circostante era cosparsa da parti più piccole del relitto. “La mia sfera.” Leo si toccò il petto. La sfera non si trovava là. Il nastro adesivo e la briglia si erano disintegrati. Si alzò con fatica. Non sembrava avere nessun osso rotto, il che era una buona cosa; ma più che altro era preoccupato per la sua sfera di Archimede. Se aveva distrutto il suo artefatto inestimabile per creare un elicottero in fiamme che era durato trenta secondi, sarebbe andato a cercare quella stupida dea della neve di Chione e l’avrebbe colpita in testa con una chiave inglese. Avanzò incerto lungo la spiaggia, chiedendosi perché non ci fossero turisti o hotel o barche in vista. L’isola sembrava perfetta per un resort, con l’acqua azzurra e la soffice sabbia bianca. Forse non si trovava sulle mappe. Esistevano ancora delle isole non scoperte nel mondo? Forse Chione l’aveva direttamente sparato fuori dal Mediterraneo. Per quanto ne sapeva, poteva trovarsi a Bora Bora. Il cratere più grande era profondo circa due metri e mezzo. Sul fondo, le lame dell’elicottero stavano ancora girando. Il motore eruttava fumo. I rotori gracchiavano come rane ma accidenti – era piuttosto notevole per essere un lavoro fatto di fretta. L’elicottero si era apparentemente schiantato su qualcosa. Il cratere era cosparso di mobili di legno rotti, piatti di porcellana frantumati, qualche calice mezzo fuso, e dei tovagliolini di lino bruciati. Leo non sapeva perché tutte quelle cose eleganti si trovassero su una spiaggia, ma almeno ciò voleva dire che quel luogo era abitato, dopotutto. Alla fine individuò la sfera di Archimede – al centro del relitto, fumante e bruciacchiata ma ancora intatta, dalla quale provenivano dei preoccupanti rumori scattanti. “Sfera!” gridò. “Vieni da papà!” Scivolò sul fondo del cratere e raccolse la sfera. Crollò, si mise seduto a gambe incrociate, e si cullò il meccanismo nelle mani. La superficie di bronzo era bollente, ma a Leo non importava. Era ancora intera, il che voleva dire che poteva ancora usarla. Adesso, se solo fosse riuscito a capire dove si trovava, e come tornare dai suoi amici… Stava facendo una lista mentale degli attrezzi che gli sarebbero potuti servire quando la voce di una ragazza lo interruppe: “Cosa stai facendo? Hai fatto esplodere il mio tavolo da pranzo!” Immediatamente Leo pensò: Uh-oh. Aveva incontrato numerose divinità, ma la ragazza che lo stava fissando furiosa dal bordo del cratere aveva davvero l’aspetto di una divinità. Indossava un vestito bianco in stile greco senza maniche, con una cintura intrecciata d’oro. I suoi capelli erano lunghi, lisci, e di un castano dorato – quasi lo stesso color cannella di Hazel, ma le somiglianze con Hazel finivano lì. Il volto della ragazza era bianco latte, con scuri occhi a mandorla e labbra corrucciate. Aveva l’aspetto di una quindicenne, circa l’età di Leo, e, certo, era carina; ma con quell’espressione arrabbiata sulla faccia ricordava a Leo tutte le ragazze popolari di ogni scuola che aveva frequentato – quelle che si prendevano gioco di lui, spettegolavano un sacco, credevano di essere così superiori, e praticamente facevano tutto quello che potevano per rendere la sua vita miserabile. Leo la trovò istantaneamente antipatica. “Oh, mi dispiace!” disse. “Sono appena caduto dal cielo, ho costruito un elicottero a mezz’aria, ho preso fuoco mentre precipitavo, mi sono schiantato a terra, e sono a malapena sopravvissuto. Ma certo – parliamo del tuo tavolo da pranzo!” Afferrò da terra un calice mezzo fuso. “Chi mette un tavolo da pranzo sulla spiaggia dove dei semidei innocenti possono schiantarsi? Chi lo fa?” La ragazza strinse i pugni. Leo era abbastanza sicuro che sarebbe scesa nel cratere e lo avrebbe colpito in faccia. Invece alzò gli occhi al cielo. “DAVVERO?” urlò verso il blu vuoto. “Volete peggiorare ancora di più la mia maledizione? Zeus! Efesto! Hermes! Non provate vergogna?” “Uh…” Leo notò che aveva appena scelto tre divinità da incolpare e che una di queste era suo padre. Pensò che non fosse un buon segno. “Dubito che siano in ascolto. Sai, con tutta la faccenda delle personalità spaccate –“ “Mostratevi!” urlò la ragazza contro il cielo, ignorando completamente Leo. “Non è già brutto abbastanza che io sia esiliata? Non è già brutto abbastanza che portate via i pochi eroi buoni che ho il permesso di incontrare? Credete che sia divertente mandarmi questo – questo omuncolo carbonizzato per rovinare la mia tranquillità? Questo NON E’ DIVERTENTE! Riprendetelo!” “Hey, Raggio di Sole,” disse Leo. “Sono proprio qui, sai.” Lei ringhiò come un animale mezzo all’angolo. “Non chiamarmi Raggio di Sole! Esci da quel buco e vieni con me adesso così posso mandarti via dalla mia isola!” “Bè, visto che l’hai chiesto così gentilmente…” Leo non sapeva per cosa la ragazza folle fosse così infuriata, ma non gli importava davvero. Se poteva aiutarlo a lasciare l’isola, la cosa gli andava perfettamente bene. Strinse la sua sfera bruciata e uscì dal cratere. Quando raggiunse la superficie, la ragazza stava già marciando verso la costa. Lui corse per raggiungerla. Lei fece un verso di disgusto verso il relitto fumante. “Questa era una spiaggia incorrotta! Guardala adesso.” “Sì, colpa mia,” borbottò Leo. “Avrei dovuto schiantarmi su una delle altre isole. Oh, aspetta – non ce ne sono altre!” Lei ringhiò e continuò a camminare lungo il bordo dell’acqua. Leo avvertì un odore di cannella – forse era il suo profumo? Non che gli importasse. I suoi capelli le oscillavano sulla schiena con un movimento che incantava, cosa della quale, ovviamente, non gli importava allo stesso modo. Studiò il mare. Proprio come aveva visto durante la sua caduta, non c’erano terre o navi fino all’orizzonte. Guardando verso l’entroterra, vide delle colline erbose punteggiate da alberi. Un sentiero tagliava attraverso un boschetto di cedri. Leo si chiese dove portasse: probabilmente al covo segreto della ragazza, dove arrostiva i suoi nemici così li poteva mangiare sul suo tavolo da pranzo sulla spiaggia. Era così preso da quell’idea che non si accorse quando la ragazza si fermò. Le andò a sbattere contro. “Gah!” Le si voltò e gli afferrò le braccia per evitare di cadere sul bagnasciuga. Le sue mani erano forti, come se fosse abituata a fare dei lavori manuali. Al campo, le ragazze della cabina di Efesto avevano delle mani forti come quelle, ma lei non aveva l’aspetto di una figlia di Efesto. Lo fissò furiosa, con gli scuri occhi a mandorla a soli pochi centimetri di distanza dai suoi. Il suo odore di cannella gli ricordava l’appartamento della sua abeula. Cavoli, non aveva ripensato a quel posto da anni. La ragazza lo spinse via. “D’accordo. Questo punto va bene. Adesso dimmi che vuoi andartene.” “Cosa?” La mente di Leo era ancora confusa a causa dello schianto. Non era certo di aver sentito bene. “Vuoi andartene?” chiese lei. “Sicuramente avrai un posto dove andare!” “Uh… sì. I miei amici sono nei guai. Devo tornare alla mia nave e –“ “Bene,” tagliò corto lei. “Devi solo dire, Voglio lasciare Ogigia.” “Uh, okay.” Leo non sapeva il perché, ma il suo tono lo feriva… il che era stupido, dal momento che non gli importava quello che pensava quella ragazza. “Voglio lasciare – quello che hai detto tu.” “O-gi-gia.” La ragazza lo pronunciò lentamente, come se Leo avesse cinque anni. “Voglio lasciare O-gi-gia,” disse lui. Lei lasciò andare un sospiro, chiaramente sollevata. “Bene. Tra un attimo, dovrebbe apparire una zattera magica. Ti porterà ovunque tu voglia andare.” “Chi sei tu?” Sembrava sul punto di rispondere ma si fermò. “Non importa. Te ne andrai presto. Sei ovviamente uno sbaglio.” Questa era cattiva, pensò Leo. Aveva passato abbastanza tempo a pensare di essere un errore – come semidio, come parte di quell’impresa, nella vita in generale. Non aveva bisogno di una folle dea incontrata per caso che rinforzasse l’idea. Si ricordò di una leggenda greca che riguardava una ragazza su un’isola… forse ne aveva parlato uno dei suoi amici? Non importava. Bastava solo che lo lasciasse andare. “Arriverà a momenti…” La ragazza fissò l’acqua. Non apparve nessuna zattera magica. “Forse è bloccata nel traffico,” disse Leo. “E’ sbagliato.” Lei fissò il cielo. “E’ completamente sbagliato!” “Quindi… vai con il piano B?” chiese Leo. “Hai un cellulare, oppure –“ “Agh!” La ragazza si voltò e si diresse verso l’entroterra. Quando raggiunse il sentiero, si lanciò verso il boschetto di alberi e scomparve. “Okay,” disse Leo. “Oppure puoi semplicemente scappare via.” Dalla tasca della cintura degli attrezzi tirò fuori un po’ di corda e un moschettone, poi si legò la sfera di Archimede alla cintura. Guardò verso il mare. Ancora nessuna zattera magica. Sarebbe potuto rimanere lì e aspettare, ma aveva fame, sete ed era stanco. Era abbastanza provato dalla sua caduta. Non voleva seguire quella matta, non importava che buon odore avesse. D’altra parte, non aveva nessun altro posto dove andare. La ragazza aveva un tavolo da pranzo, quindi probabilmente aveva anche del cibo. E sembrava trovare la presenza di Leo irritante. “Irritarla è un vantaggio in più,” decise. La seguì tra le colline. 50 LEO “Santo Efesto,” disse Leo. Il sentiero si apriva nel giardino più bello che Leo avesse mai visto. Non che avesse passato un sacco di tempo nei giardini, ma accidenti. Sulla sinistra c’erano un frutteto e un vigneto – alberi di pesco con frutti rosso-dorati che avevano un odore fantastico al sole caldo, vigne diligentemente potate straripanti di grappoli di uva, pergolati fatti di gelsomini in fiore, e un sacco di altre piante delle quali Leo non sapeva il nome. Sulla destra c’erano delle ordinate file di verdure ed erbe, disposte come i raggi di una ruota intorno a una grande fontana luccicante, dove dei satiri di bronzo sputavano acqua in una bacinella centrale. All’estremità del giardino, dove finiva il sentiero, una caverna si apriva nel fianco di una collina erbosa. Paragonata al Bunker Nove del campo, l’entrata era minuscola, ma era notevole a modo suo. Su entrambi i lati, delle rocce cristalline erano state scavate nella forma di colonne greche. Le estremità superiori ospitavano un’asse di bronzo che reggeva delle tende bianche di seta. Il naso di Leo venne assalito da buoni odori – cedro, ginepro, gelsomino, pesche ed erba fresca. L’aroma che veniva dalla caverna catturò più di tutto la sua attenzione – come spezzatino di manzo sul fuoco. Iniziò a dirigersi verso l’entrata. Seriamente, come poteva non farlo? Si fermò quando notò la ragazza. Era inginocchiata nel suo giardino di verdure, e dava la schiena a Leo. Borbottava qualcosa tra se e se mentre scavava furiosamente con una paletta. Leo lei si avvicinò lateralmente così che lei potesse vederlo. Non se la sentiva di prenderla di sorpresa quando era armata con un affilato attrezzo da giardino. Lei continuava a imprecare in greco antico e a pugnalare la terra. Aveva macchie di terra sulle braccia, sulla faccia e sul vestito bianco, ma non sembrava importarle. Leo apprezzava la cosa. Aveva un aspetto migliore con un po’ di terra – assomigliava meno a una reginetta di bellezza e più a una persona alla quale piaceva sporcarsi le mani. “Credo che abbia punito quella terra abbastanza,” tentò lui. Lei lo guardò imbronciata, con gli occhi rossi e lucidi. “Va via.” “Stai piangendo,” disse lui, cosa che era stupidamente ovvia; ma vederla in quel modo tolse il vento alle lame del suo elicottero, tanto per dire. Era difficile rimanere arrabbiati con qualcuno che piangeva. “Non sono affari tuoi,” borbottò lei. “E’ un’isola grande. Trova… trovati un posto tuo. Lasciami da sola.” Agitò la mano senza interesse, indicando verso sud. “Magari puoi andare da quella parte.” “Quindi, nessuna zattera magica,” disse Leo. “Non c’è un altro modo per andarsene?” “A quanto pare no!” “Cosa dovrei fare, allora? Sedermi sulla sabbia finché non muoio?” “Quello andrebbe bene…” La ragazza lanciò per terra la sua paletta e imprecò verso il cielo. “Solo che immagino che lui non possa morire qui, non è così? Zeus! Non è divertente!” Non può morire qui? “Frena.” La testa di Leo girava come un’elica. Non riusciva a tradurre perfettamente quello che stava dicendo quella ragazza – come quando ascoltava gli spagnoli o i sudamericani parlare spagnolo. Sì, riusciva a capirli, più o meno; ma suonava così diverso, che sembrava quasi un’altra lingua. “Mi servirà qualche altra informazione,” disse. “Non vuoi avermi tra i piedi, va bene. Nemmeno io voglio essere qui. Ma non andrò in un angolo a morire. Devo andare via da quest’isola. Ci deve essere un modo. Ogni problema può essere risolto.” Lei fece una risata amara. “Non hai vissuto molto, se lo credi ancora.” Il tono con cui lo disse gli mandò un brivido lungo la schiena. Sembrava avere la sua stessa età, ma si chiese quanti anni avesse davvero. “Hai detto qualcosa riguardo una maledizione,” la incitò. Lei flesse le dita, come se si stesse allenando sulla sua tecnica di strangolamento. “Sì. Non posso lasciare Ogigia. Mio padre, Atlante, combatté contro gli dei, ed io lo sostenni.” “Atlante,” disse Leo. “Del tipo Atlante il Titano?” La ragazza mandò gli occhi al cielo. “Sì, impossibile, piccolo…” Qualsiasi cosa stesse per dire, se la rimangiò. “Fui imprigionata qui, dove non potevo creare guai agli dei dell’Olimpo. Circa un anno fa, dopo la Seconda Guerra dei Titani, gli dei giurarono di perdonare i loro nemici e di offrire l’amnistia. Apparentemente Percy gli fece promettere –“ “Percy,” disse Leo. “Percy Jackson?” Lei chiuse gli occhi. Una lacrima le corse sulla guancia. Oh, pensò Leo. “Percy è venuto qui,” disse. Lei scavò le dita nel terreno. “Pensavo – pensavo che sarei stata liberata. Ho osato sperare… ma sono ancora qui.” Adesso Leo si ricordava. La storia doveva essere un segreto, ma ovviamente ciò voleva dire che si era diffusa come un incendio in un campo. Percy l’aveva detto ad Annabeth. Mesi più tardi, quando Percy era sparito, Annabeth l’aveva detto a Piper. Piper l’aveva detto a Jason… Percy aveva parlato di essere stato su quell’isola. Aveva incontrato una dea che si era presa un’enorme cotta per lui e voleva che restasse, ma alla fine lo aveva lasciato andare. “Tu sei quella ragazza,” disse Leo. “Quella con il nome da musica Caraibica.” I suoi occhi luccicarono con sguardo assassino. “Musica Caraibica.” “Sì. Reggae?” Leo scosse la testa. “Merengue? Aspetta, ci sono.” Schioccò le dita. “Calypso! Ma Percy ha detto che eri fantastica. Ha detto che eri tutta dolce e disponibile, non, um…” Lei si alzò di scatto. “Sì?” “Uh, niente,” disse Leo. “Tu saresti dolce,” chiese, “se gli dei si dimenticassero della loro promessa di lasciarti andare? Tu saresti dolce se ti prendessero in giro mandandoti un altro eroe, ma un eroe che è come – come te?” “E’ una domanda a trabocchetto?” “Di Immortales!” Si voltò e marciò verso la sua grotta. “Hey!” Leo le corse dietro. Quando entrò, perse il filo dei pensieri. Le pareti erano fatte di pezzi di cristallo multicolore. Delle tende bianche dividevano la caverna in stanze diverse con comodi cuscini, tappeti intrecciati e vassoi di frutta fresca. Intravide un’arpa in un angolo, un telaio in un altro, e una grossa pentola dove stava bollendo lo spezzatino, riempiendo la caverna con un profumo delizioso. La cosa più strana di tutte? Le faccende si stavano facendo da sole. Degli asciugamani volavano in aria, piegandosi e impilandosi in pile ordinate. Le posate si lavavano da sole in un lavandino di rame. La scena ricordava a Leo gli spiriti del vento invisibili che gli avevano servito il pranzo al Campo Giove. Calypso si trovava accanto a un lavabo, intenta a levarsi la terra dalle braccia. Guardò imbronciata verso Leo, ma non gli urlò di andarsene. Sembrava che stesse perdendo l’energia per rimanere arrabbiata. Leo si schiarì la gola. Se voleva avere qualche tipo di aiuto da quella ragazza, doveva essere gentile. “Quindi… capisco perché sei arrabbiata. Probabilmente non vorrai vedere mai più un semidio. Immagino che non sia stato carino quando, uh, Percy ti ha lasciata –“ “Lui è stato solo l’ultimo,” ringhiò. “Prima di lui, ci fu quel pirata Drake. E prima di lui Odisseo. Erano tutti uguali! Gli dei mi mandano gli eroi più grandi, coloro dei quali non posso fare a meno di…” “Ti innamori di loro,” indovinò Leo. “E poi loro ti lasciano.” Il suo mento tremò. “Questa è la mia maledizione. Avevo sperato che ormai ne sarei stata liberata, ma eccomi qui, ancora bloccata su Ogigia dopo tremila anni.” “Tremila.” La bocca di Leo stava formicolando, come se avesse appena mangiato le caramelle frizzati. “Uh, hai un bell’aspetto per avere tremila anni.” “E adesso… l’insulto peggiore di tutti. Gli dei si prendono gioco di me mandandomi te.” La rabbia ribollì nella pancia di Leo. Sì, tipico. Se Jason fosse stato lì, Calypso si sarebbe immediatamente innamorata di lui. Lo avrebbe implorato di rimanere, ma lui avrebbe fatto tutto il nobile sul dover tornare alle sue responsabilità, e avrebbe lasciato Calypso con il cuore spezzato. Quella zattera magica per lui sarebbe arrivata di sicuro. Ma Leo? Lui era l’ospite irritante del quale non poteva sbarazzarsi. Non si sarebbe mai innamorata di lui, perché lei era totalmente fuori dalla sua portata. Non che la cosa gli importasse. Non era comunque il suo tipo. Era fin troppo seccante, e bella, e – bè, non importava. “Bene,” disse. “Ti lascerò da sola. Mi costruirò qualcosa per conto mio e me ne andrò da questa stupida isola senza il tuo aiuto.” Lei scosse la testa tristemente. “Non capisci, non è vero? Gli dei si stanno prendendo gioco di tutti e due. Se la zattera non compare, ciò vuol dire che hanno chiuso Ogigia. Sei bloccato qui proprio come me. Non potrai mai andartene.” 51 LEO I primi giorni furono i peggiori. Leo dormì all’aperto sotto le stelle, su un letto fatto di vestiti usati. Durante la notte faceva freddo, persino sulla spiaggia nel periodo estivo, così si accese un falò con i resti del tavolo da pranzo di Calypso. La cosa lo rallegrò un po’. Durante il giorno, camminava lungo il perimetro dell’isola e non trovò nulla di interessante – a meno che non ti piacessero le spiagge e il mare che si estendeva all’infinito in ogni direzione. Cercò di inviare un messaggio Iride negli arcobaleni che si formavano negli spruzzi del mare, ma senza nessun successo. Non aveva delle dracme per fare l’offerta, e apparentemente la dea Iride non era interessata in nocciole e viti. Non sognava nemmeno, cosa insolita per lui – o per qualsiasi semidio – quindi non aveva idea di quello che stesse succedendo nel mondo esterno. I suoi amici si erano sbarazzati di Chione? Lo stavano cercando, o erano salpati verso Epiro per completare l’impresa? Non era nemmeno certo per che cosa dovesse sperare. Il sogno che aveva fatto sull’Argo II finalmente aveva senso – quando la strega malvagia gli aveva detto di scegliere se saltare dal dirupo, o discendere in un buio tunnel da dove provenivano delle spettrali voci sussurranti. Quel tunnel doveva simboleggiare la Casa di Ade, che adesso Leo non avrebbe mai visto. Aveva preso la strada del dirupo al suo posto – cadendo dal cielo per atterrare su quella stupida isola. Ma nel suo sogno, Leo aveva avuto una scelta. Nella vita reale, non ne aveva avuta nessuna. Chione l’aveva semplicemente sollevato dalla sua nave e sparato in orbita. Completamente sleale. La parte peggiore dell’essere bloccato lì? Stava perdendo il conto dei giorni. Una mattina si era svegliato senza essere in grado di ricordarsi se si trovava su Ogigia da tre o quattro notti. Calypso non era di grande aiuto. Leo l’aveva affrontata nel giardino, ma lei si era limitata a scuotere la testa. “Il tempo qui è difficile.” Fantastico. Per quanto ne poteva sapere Leo, nel mondo reale era passato un secolo, e la guerra con Gea si era conclusa, in qualsiasi modo fosse finita. O magari si trovava su Ogigia solo da cinque minuti. Magari lì tutta la sua vita sarebbe potuta trascorrere nel tempo che i suoi amici sull’Argo II impiegavano a fare colazione. In ogni caso, doveva andare via da quell’isola. Calypso si impietosì di lui, in un certo senso. Mandò i suoi servi invisibili a lasciare delle ciotole di spezzatino e calici di sidro di mela al confine del giardino. Gli fece mandare persino qualche cambio di vestiti – semplici pantaloni e magliette bianche di cotone che doveva aver fatto lei con il suo telaio. Gli stavano così bene addosso, che Leo si chiese come avesse fatto a indovinare le sue misure. Forse aveva semplicemente usato le dimensioni standard per il MASCHIO PELLE E OSSA. Ad ogni modo, era contento di avere dei nuovi capi, visto che quelli vecchi erano abbastanza puzzolenti e ridotti in cenere. Solitamente Leo riusciva a impedire ai suoi vestiti di bruciare quando prendeva fuoco, ma ci voleva concentrazione. A volte, quando si trovava al campo, se non ci stava pensando, mentre lavorava su qualche progetto di metallo accanto alla fucina calda, abbassava lo sguardo e si ritrovava con i vestiti completamente bruciati, fatta eccezione per la sua cintura degli attrezzi magica e un fumante paio di mutande. Piuttosto imbarazzante. Nonostante i suoi doni, Calypso non lo voleva chiaramente vedere. Una volta aveva infilato la testa nella grotta e lei aveva dato in escandescenza, urlandogli e lanciandogli vasi contro la testa. Già, lei faceva senza dubbio parte del Team Leo. Finì con l’allestire un campo più permanente accanto al sentiero, dove la spiaggia incontrava le colline. In quel modo era abbastanza vicino da prendere i suoi pasti, ma Calypso non era costretta a vederlo ed entrare in modalità lancia-vasi. Si costruì da solo una tettoria fatta di legnetti e tela. Scavò una fossa per il falò. Riuscì persino a costruirsi una panchina e un tavolo da lavoro con qualche pezzo di legno e dei rami di cedro morti. Passava ora dopo ora ad aggiustare la sua sfera di Archimede, a pulirla e a riparare i suoi circuiti. Si creò una bussola, ma l’ago ruotava come un pazzo, non importava quello che provava lui. Leo indovinò che anche un GPS sarebbe stato inutile. Quell’isola era stata progettata per rimanere fuori dalle mappe, impossibile da lasciare. Si ricordò dell’antico astrolabio di bronzo che aveva preso a Bologna – quello che, gli avevano detto i nani, aveva creato Odisseo. Aveva uno strisciante sospetto che Odisseo stesse pensando a quell’isola quando l’aveva costruito, ma sfortunatamente Leo l’aveva lasciato sulla nave con Buford il Tavolo delle Meraviglie. Inoltre, i nani gli avevano detto che l’astrolabio non funzionava. C’era qualcosa riguardante dei cristalli mancanti… Passeggiò sulla spiaggia, chiedendosi perché Chione lo aveva spedito là – presumendo che il suo atterraggio lì non fosse stato una casualità. Perché non l’aveva semplicemente ucciso? Forse Chione voleva vederlo bloccato in un limbo per l’eternità. Magari lei sapeva che gli dei erano troppo distratti per prestare attenzione a Ogigia, e per questo la magia dell’isola era rotta. Quello poteva essere il motivo per cui Calypso era ancora bloccata là, e perché la zattera magica non fosse apparsa per portare via Leo. O forse la magia in quel luogo stava funzionando alla perfezione. Gli dei punivano Calypso mandandole muscolosi tipi coraggiosi che andavano via non appena lei si innamorava di loro. Forse era quello il problema, Calypso non si sarebbe mai innamorata di Leo. Lei voleva che lui se ne andasse. Quindi erano bloccati in un circolo vizioso. Se quello era il piano di Chione… wow. Subdola a livelli estremi. Poi una mattina fece una scoperta, e le cose si fecero ancora più complicate. Leo stava camminando tra le colline, seguendo un piccolo torrente che scorreva tra due grandi alberi di cedro. Gli piaceva quella zona – era l’unico posto su Ogigia da dove non riusciva a vedere il mare, così poteva fare finta di non essere bloccato su un’isola. All’ombra degli alberi, si sentiva quasi come se fosse di nuovo al Campo Mezzosangue, diretto nella foresta verso il Bunker Nove. Saltò oltre il piccolo fiume. Invece di atterrare sulla terra morbida, i suoi piedi colpirono qualcosa di molto più duro. CLANG. Metallo. Emozionato, Leo scavò nel terriccio fino a che non vide il luccichio del bronzo. “Oh, cavoli.” Ridacchiò come un matto mentre estraeva i pezzi. Non aveva idea del perché quella roba si trovasse lì. Efesto gettava sempre parti rotte dal suo laboratorio divino e cospargeva la terra di rottami di metallo, ma quante possibilità c’erano che qualche pezzo finisse su Ogigia? Leo trovò una manciata di cavi, qualche ingranaggio storto, un pistone che forse poteva ancora funzionare, e diversi fogli ammaccati di bronzo Celeste – il più piccolo grande come un sottobicchiere, il più grosso grande come uno scudo da guerra. Non era molto – non se paragonato al Bunker Nove, o persino alle sue scorte a bordo dell’Argo II. Ma era più di semplice sabbia e rocce. Alzò lo sguardo verso il sole, strizzando gli occhi attraverso i rami di cedro. “Papà? Se li hai mandati qui per me – grazie. Se non l’hai fatto… bè, grazie lo stesso.” Raggruppò i suoi tesori e li trasportò al suo rifugio. Dopo quello, i giorni trascorsero più velocemente, e con molto più rumore. Per prima cosa Leo si creò una fucina fatta di mattoni di fango, tutti cotti con il fuoco delle sue stesse mani ardenti. Trovò una grande roccia che poteva usare come incudine di base, ed evocò dalla cintura dei chiodi finché non ne ebbe abbastanza da scioglierli per creare un piatto di metallo per martellare. Una volta fatto questo, iniziò a ricomporre i pezzi di bronzo Celeste. Ogni giorno il suo martello risuonava sul bronzo finché la sua incudine di roccia non si rompeva, o non gli si piegavano le tenaglie, oppure si ritrovava a corto di legna. Ogni sera crollava, zuppo si sudore e ricoperto di fuliggine; ma si sentiva benissimo. Almeno stava lavorando, cercando di risolvere il suo problema. La prima volta che Calypso si presentò da lui, fu per lamentarsi del rumore. “Fumo e fuoco,” disse. “Batti sul metallo tutto il giorno. Stai facendo scappare gli uccelli!” “Oh, no, gli uccelli no!” brontolò Leo. “Cosa speri di ottenere?” Alzò lo sguardo e per poco non si frantumò il pollice con il martello. Fissava il metallo e il fuoco da così tanto tempo che si era dimenticato quanto fosse bella Calypso. Bella in maniera irritante. Se ne stava lì con la luce del sole tra i capelli, con la sua gonna bianca che le si gonfiava intorno alle gambe, un cesto di grappoli d’uva e del pane fresco sotto il braccio. Leo cercò di ignorare il suo stomaco brontolante. “Spero di andare via da quest’isola,” disse. “E’ quello che vuoi, giusto?” Calypso si imbronciò. Mise il cesto accanto alla sua coperta. “Non mangi nulla da due giorni. Prenditi una pausa e mangia.” “Due giorni?” Leo non se ne era nemmeno accorto, cosa che lo sorprese, perché a lui piaceva il cibo. Fu persino più sorpreso dal fatto che l’avesse notato Calypso. “Grazie,” borbottò. “Io, uh, cercherò di martellare più in silenzio.” “Huh.” Non sembrava colpita. Dopo quella volta, non si lamentò più del rumore o del fumo. La seconda volta che gli fece visita, Leo stava apportando i tocchi finali al suo primo progetto. Non si accorse che si stava avvicinando finché non parlo proprio alle sue spalle. “Ti ho portato –“ Leo fece un salto, facendo cadere i suoi cavi. “Per i tori di bronzo, ragazza! Non ti avvicinare di soppiatto così!” Era vestita di rosso quel giorno – il colore preferito di Leo. La cosa era completamente irrilevante. Il rosso le stava molto bene. Altra cosa irrilevante. “Non mi stavo avvicinando di soppiatto,” disse lei. “Ti stavo portando questi.” Gli mostrò i vestiti che aveva ripiegati sul braccio: un nuovo paio di jeans, una maglietta bianca, un giubbotto militare… un attimo, quelli erano i suoi vestiti, solo che non era possibile. Il suo giubbotto mimetico originale era bruciato mesi prima. Non lo stava indossando quando era atterrato su Ogigia. Ma i vestiti che Calypso aveva in mano apparivano esattamene uguali ai vestiti che aveva indossato il primo giorno in cui era arrivato al Campo Mezzosangue – solo che questi sembravano più grandi, ridimensionati per vestirlo meglio. “Come hai fatto?” chiese. Calypso poggiò i vestiti ai suoi piedi e indietreggiò come se fosse una bestia pericolosa. “Ho un po’ di magia, sai. Continui a bruciare tutti i vestiti che ti do, così ho pensato che avrei potuto cucire qualcosa di meno infiammabile.” “Questi non bruceranno?” Prese i jeans, ma sembravano fatti del tipico tessuto di denim. “Sono completamente a prova di fuoco,” assicurò Calypso. “Rimarranno puliti e si ingrandiranno per adattarsi a te, se mai dovessi diventare meno scheletrico.” “Grazie.” Voleva suonare sarcastico, ma era onestamente colpito. Leo poteva fare un sacco di cose, ma dei vestiti a prova di fuoco che si pulivano da soli non era una di quelle cose. “Quindi… hai ricreato una replica esatta dei miei vestiti preferiti. Mi hai, non so, cercato su Google o qualcosa del genere?” Lei si accigliò. “Non conosco quella parola.” “Hai fatto una ricerca su di me,” disse lui. “Quasi come se avessi qualche interesse per me.” Lei arricciò il naso. “Ho interesse nel doverti fare dei nuovi capi ogni giorno. Ho interesse nel non farti puzzare così tanto e farti camminare in giro per la mia isola con stracci fumanti.” “Oh, sì.” Leo sogghignò. “Ti stai davvero affezionando a me.” Il volto della ragazza si fece persino più rosso. “Sei la persona più insopportabile che abbia mai incontrato! Stavo solo restituendo un favore. Hai aggiustato la mia fontana.” “Quella?” Leo rise. Il problema era stato così semplice, che se ne era quasi dimenticato. Uno dei satiri di bronzo era stato girato di lato e la pressione dell’acqua era assente, così aveva iniziato a fare un irritante ticchettio, dondolando su e giù e versando l’acqua sul bordo della vasca. Aveva preso un paio di attrezzi e aggiustato il problema in circa due minuti. “Non è stata una cosa impegnativa. Non mi piace quando le cose non funzionano nel modo giusto.” “E le tende all’entrata della caverna?” “L’asta non era livellata.” “E i miei attrezzi da giardino?” “Senti, ho solo affilato le cesoie. Tagliare le erbacce con una lama smussata è pericoloso. E le forbici da giardino dovevano essere oliate sul perno, e –“ “Oh, sì,” disse Calypso, in un imitazione piuttosto buona della sua voce. “Ti stai davvero affezionando a me.” Per una volta, Leo era senza parole. Gli occhi di Calypso luccicarono. Sapeva che si stava prendendo gioco di lui, ma in qualche modo non sembrava una cosa cattiva. Lei indicò il suo tavolo da lavoro. “Cosa stai costruendo?” “Oh.” Guardò lo specchio di bronzo, che aveva appena finito di collegare alla sfera di Archimede. Sulla superficie lucida dello schermo, il suo riflesso lo sorprese. I suoi capelli si erano fatti più lunghi e ricci. La sua faccia era più magra e più incavata, forse perché non mangiava. I suoi occhi erano scuri e un po’ feroci quando non sorrideva – con un look un po’ alla Tarzan, se Tarzan esisteva anche in versione Spagnolo extra-small. Non poteva biasimare Calypso per essersi allontanata da lui. “Uh, è un dispositivo per vedere,” disse. “Ne abbiamo trovato uno del genere a Roma, nel laboratorio di Archimede. Se riesco a farlo funzionare, forse posso scoprire quello che sta succedendo ai miei amici.” Calypso scosse la testa. “E’ impossibile. Questa isola è nascosta, tagliata fuori dal mondo da magia potente. Il tempo qui non scorre nemmeno nello stesso modo.” “Bè, devi avere qualche tipo di contatto con l’esterno. Come hai scoperto che avevano un giubbotto militare?” Lei giocherellò con i capelli come se la domanda la mettesse a disagio. “Vedere il passato è una magia semplice. Vedere il presente o il futuro – quella non lo è.” “Sì, bè,” disse Leo. “Guarda e impara, Raggio di Sole. Devo solo collegare questi ultimi due cavi, e –“ Il piatto di bronzo mandò delle scintille. Del fumo si alzò dalla sfera. Una fiammata improvvisa salì lungo la manica di Leo. Lui si levò la maglietta, la gettò a terra, e ci saltò sopra. Capiva che Calypso stava cercando di non ridere, ma tremava dallo sforzo. “Non dire una parola,” avvertì Leo. Lei guardò il suo petto nudo, che era sudato, ossuto, e attraversato da antiche cicatrici causate da incidenti avvenuti durante la costruzione di varie armi. “Nulla sul quale valga la pena commentare,” lo assicurò lei. “Se vuoi che quel dispositivo funzioni, magari dovresti provare con un’invocazione musicale.” “Giusto,” disse lui. “Ogni volta che una macchina non funziona, mi piace ballarle il tip-tap intorno. Funziona ogni volta.” Lei fece un respiro profondo e iniziò a cantare. La sua voce lo colpì come una brezza fresca – come il primo fronte freddo in Texas quando il caldo dell’estate finalmente scendeva e tu iniziavi a credere che le cose sarebbe potute migliorare. Leo non riusciva a capire le parole, ma la canzone era malinconica e agrodolce, come se stesse descrivendo una casa alla quale non poteva tornare. Il suo canto era magico, nessun dubbio in merito. Ma non era come la voce incantatrice di Medea, o nemmeno come la lingua ammaliatrice di Piper. La musica non voleva nulla da lui. Gli ricordava semplicemente dei suoi ricordi più belli – costruire le cose con sua madre nel suo laboratorio; stare seduto al sole con i suoi amici al campo. Gli faceva sentire la mancanza di casa. Calypso smise di cantare. Leo si rese conto che la stava fissando come un’idiota. “Funziona?” chiese lei. “Uh…” Obbligò i suoi occhi a tornare sullo specchio di bronzo. “Nulla. Aspetta…” Lo schermo brillò. Nell’aria sopra di esso, delle immagini olografiche brillarono di vita. Leo riconobbe il Campo Mezzosangue. Non c’erano suoni, ma Clarisse LaRue della cabina di Ares stava gridando degli ordini ai campeggiatori, posizionandoli in file ordinate. I fratelli di Leo della Cabina Nove si affaccendavano tra i ranghi, distribuendo a tutti le armature e le armi. Persino il centauro Chirone era vestito per la battaglia. Trottava avanti e indietro di fronte ai ranghi, con l’elmo piumato che luccicava, le zampe coperte da gambali di bronzo. Il suo solito sorriso amichevole non c’era più, sostituito da una seria espressione determinata. In lontananza, alcune trireme greche galleggiavano sul Long Island Sound, allestite per la guerra. Lungo le colline, le catapulte stavano venendo caricate. I satiri pattugliavano i campi, e i cavalieri sui pegasi volavano in cerchio, in allerta contro gli attacchi aerei. “I tuoi amici?” chiese Calypso. Leo annuì. Si sentiva il volto inerte. “Si stanno preparando per la battaglia.” “Contro chi?” “Guarda,” disse Leo. La scena mutò. Una falange di semidei romani marciava attraverso una vigna illuminata dalla luna. Un cartellone illuminato in lontananza diceva: AZIENDA VINICOLA GOLDSMITH. “Ho già visto quell’insegna,” disse Leo. “Non è lontano dal Campo Mezzosangue.” Improvvisamente i ranghi dei romani deteriorarono nel caos. I semidei si sparpagliarono. Caddero gli scudi. I giavellotti venivano agitati selvaggiamente, come se l’intero gruppo fosse passato su un formicaio. Alla luce della luna sfrecciavano due piccole figure pelose vestite con capi spaiati e cappelli appariscenti. Sembravano essere ovunque contemporaneamente – a colpire i romani sulla testa, a rubare le loro armi, a tagliare loro le cinture così che si ritrovassero con i pantaloni alle caviglie. Leo non poté fare a meno di sogghignare. “Quei piccoli splendidi combina guai! Hanno mantenuto la loro promessa.” Calypso si avvicinò allo schermo, osservando i Cercopi. “Sono tuoi cugini?” “Ha, ha, ha, no,” disse Leo. “Sono un paio di nani che ho incontrato a Bologna. Li ho mandati a rallentare i romani, e lo stanno facendo.” “Ma per quanto ancora?” chiese Calypso. Bella domanda. La scena mutò di nuovo. Leo vide Octavian – quel biondo augure pelle e ossa buono a nulla. Si trovava nel parcheggio di un benzinaio, circondato da SUV neri e semidei romani. Teneva sollevata in alto una lunga asta avvolta da lenzuola. Quando la scoprì, un’aquila dorata brillò alla sua estremità. “Oh, non va bene,” disse Leo. “Uno stendardo romano,” notò Calypso. “Già. E questo spara saette, secondo quello che ha detto Percy.” Non appena pronunciò il nome di Percy, Leo se ne pentì. Lanciò un’occhiata a Calypso. Capiva dai suoi occhi quanto stesse lottando, cercando di ordinare le sue emozioni in chiare e ordinate file come le righe sul suo telaio. Quello che sorprese Leo più di tutto fu l’ondata di rabbia che provò. Non era semplice irritazione o gelosia. Lui era infuriato con Percy per aver ferito quella ragazza. Tornò a prestare attenzione alle immagini olografiche. Adesso vedeva un cavaliere solitario – Reyna, il pretore del Campo Giove – che volava attraverso una tempesta sulla schiena di un pegaso marrone chiaro. I capelli scuri di Reyna si agitavano nel vento. Il suo mantello viola si gonfiava dietro di lei, rivelando il luccichio della sua armatura. Stava sanguinando da vari tagli sul volto e sulle braccia. Gli occhi del suo pegaso erano selvaggi, la sua bocca spalancata per la dura cavalcata; ma Reyna procedeva con costanza attraverso la tempesta. Mentre Leo guardava, un grifone selvaggio si tuffò fuori dalle nuvole. Affondò i suoi artigli nelle costole del cavallo, facendo quasi cadere Reyna. Lei sguainò la sua spada e abbatté il mostro. Pochi secondi dopo, apparvero tre venti – scuri spiriti dell’aria che si agitavano come tornado in miniatura avvolti da saette. Reyna li attaccò, facendo un urlo di sfida. Poi lo specchio di bronzo si fece scuro. “No!” gridò Leo. “No, non adesso. Mostrami cosa è successo!” Sbatté la mano sullo specchio. “Calypso, puoi cantare di nuovo?” Lei lo fissò. “Immagino che quella sia la tua ragazza? La tua Penelope? La tua Elisabetta? La tua Annabeth?” “Cosa?” Leo non riusciva capire quella ragazza. La metà delle cose che diceva non aveva senso. “Quella è Reyna. Non è la mia ragazza! Ho bisogno di vedere altro! Ho bisogno –“ AVERE BISOGNO, rombò una voce dalla terra sotto i suoi piedi. Leo barcollò, sentendosi improvvisamente come in bilico sul bordo di un trampolino. AVERE BISOGNO è una parola abusata. Una vorticante figura umana eruttò dalla sabbia – la dea meno preferita di Leo, la Signora del Fango, la Principessa dei Liquidi di Scarico, Gea in persona. Leo le lanciò contro un paio di pinze. Sfortunatamente non era solida, e queste la attraversarono innocue. I suoi occhi erano chiusi, ma non sembrava esattamente addormentata. Aveva un sorriso sulla sua infernale faccia di polvere, come se stesse ascoltando attentamente la sua canzone preferita. I suoi vestiti sabbiosi si muovevano e l’avvolgevano, ricordando a Leo le pinne ondeggianti su quello stupido mostro gamberzilla che avevano combattuto nell’Atlantico. Secondo lui, però, Gea era più brutta. Vuoi vivere, disse Gea. Vuoi tornare dai tuoi amici. Ma non hai bisogno di questo, mio povero ragazzo. Non farebbe nessuna differenza, i tuoi amici moriranno, in qualsiasi caso. Le gambe di Leo tremavano. Detestava la cosa, ma ogni volta che quella strega gli compariva davanti, lui si sentiva come se avesse di nuovo otto anni, bloccato nell’ingresso dell’officina di sua madre, ad ascoltare la calmante voce malvagia di Gea mentre sua madre era intrappolata all’interno del magazzino in fiamme, a morire a causa del calore e del fumo. “Quello di cui non ho bisogno,” ringhiò lui, “sono altre bugie da parte tua, Faccia di Terra. Mi hai detto che il mio bisnonno era morto negli anni Sessanta. Sbagliato! Mi hai detto che non sarei riuscito a salvare i miei amici a Roma. Sbagliato! Mi hai detto un sacco di cose.” La risata di Gea era un morbido rumore frusciante, come terra che cadeva lungo una collina nei primi attimi di una valanga. Ho cercato di aiutarti a fare delle scelte migliori. Avresti potuto salvarti. Ma mi hai rifiutato ogni volta. Hai costruito la tua nave. Hai intrapreso quella sciocca impresa. Adesso sei intrappolato qui, senza aiuto, mentre il mondo mortale muore. Le mani di Leo presero fuoco. Voleva fondere il volto sabbioso di Gea fino a farlo diventare vetro. Poi sentì la mano di Calypso sulla sua spalla. “Gea.” La sua voce era dura e ferma. “Non sei la benvenuta.” Leo desiderò poter suonare sicuro come Calypso. Poi si ricordò che quell’irritante quindicenne era in realtà la figlia immortale di un Titano. Ah, Calypso. Gea alzò le braccia come se volesse abbracciarla. Ancora qui, vedo, nonostante le promesse degli dei. Perché credi che sia così, mia cara nipote? Gli dei dell’Olimpo ti hanno lasciata senza nessuna compagnia eccetto questo piccolo stupido perché sono malvagi? O ti hanno semplicemente dimenticata, perché non sei degna del loro tempo? Calypso fissò direttamente attraverso la faccia movente di Gea, verso l’orizzonte. Sì, mormorò Gea con compassione. Gli dei dell’Olimpo sono privi di fede. Loro non danno seconde possibilità, perché continui a sperare? Hai sostenuto tuo padre, Atlante, nella sua grande guerra. Sapevi che gli dei dovevano essere distrutti. Perché adesso esiti? Io ti offro una possibilità che Zeus non ti darebbe mai. “Dove sei stata per questi ultimi tremila anni?” chiese Calypso. “Se il mio destino ti sta così a cuore, perché mi fai visita soltanto adesso?” Gea girò i palmi delle mani verso l’alto. La terra è lenta svegliarsi. La guerra arriva con i suoi tempi. Ma non credere che ti ignorerà stando su Ogigia. Quando ricreerò il mondo, anche questa prigione sarà distrutta. “Ogigia distrutta?” Calypso scosse la testa, come se non riuscisse a immaginare quelle due parole insieme. Non devi essere qui quando accadrà, assicurò Gea. Unisciti a me adesso, uccidi questo ragazzo, versa il suo sangue sulla terra, e aiutami a svegliarmi. Io ti libererò ed esaudirò qualsiasi desiderio. Libertà. Vendetta contro gli dei. Persino un premio. Vorresti ancora avere il semidio Percy Jackson? Lo risparmierò per te. Lo porterò via dal Tartaro. Sarà tuo perché tu lo possa punire o amare, come desideri. Devi solo uccidere questo ragazzo che ha sconfinato nel tuo territorio. Dimostra la tua fiducia. Diversi scenari passarono nella mente di Leo – nessuno positivo. Era sicuro che Calypso l’avrebbe strangolato seduta stante, o ordinato ai suoi servi del vento invisibili di ridurlo in un puré alla Leo. Perché non avrebbe dovuto? Gea le stava offrendo il patto di una vita – uccidi un ragazzo irritante, nei ricevi uno stupendo in omaggio! Calypso tese la sua mano verso Gea, facendo un gesto con tre dita alzate che Leo riconobbe per averlo visto al Campo Mezzosangue: il gesto di protezione dell’antica Grecia contro il male. “Questa non è solo la mia prigione, Nonna. E’ casa mia. E sei tu quella che ha sconfinato nel mio territorio.” Il vento mosse la figura di Gea facendola dissolvere nell’aria, disperdendo la sabbia nel cielo blu. Leo deglutì. “Uh, non prenderla nel modo sbagliato, ma perché non mi hai ucciso? Sei matta?” Gli occhi di Calypso bruciavano di rabbia, ma per una volta Leo non credeva che quella rabbia fosse diretta a lui. “I tuoi amici devono avere bisogno di te, altrimenti Gea non avrebbe chiesto la tua morte.” “Io – uh, sì. Immagino di sì.” “In questo caso abbiamo del lavoro da fare,” disse lei. “Dobbiamo farti ritornare alla tua nave.” 52 LEO Leo pensava di aver lavorato sodo in passato. Quando Calypso decideva di fare qualcosa, era come una macchina. Nel giro di un giorno, aveva raggruppato abbastanza scorte per un viaggio di una settimana – cibo, borracce d’acqua, erbe medicinali prese dal suo giardino. Cucì una vela grande abbastanza per un piccolo yacht e realizzò cordami a sufficienza per tutti i nodi. Fu così efficiente che il secondo giorno chiese a Leo se aveva bisogno di una mano con il suo progetto. Lui alzò lo sguardo dalla piattaforma dei circuiti che stava lentamente assemblando insieme. “Se non sapessi la verità, direi quasi che non vedi l’ora di sbarazzarti di me.” “Questo è un vantaggio in più,” ammise lei. Era vestita in tenuta da lavoro, con un paio di jeans e una maglietta bianca sporca. Quando lui le chiese del cambio di guardaroba, lei sostenne che si era resa conto di quanto fossero pratici quei capi dopo averli cuciti per Leo. Con i jeans, non sembrava molto una dea. La sua maglietta era coperta da erba e macchie di terra, come se fosse appena andata addosso una Gea di terra vorticante. Aveva i piedi nudi. I capelli color cannella erano legati all’indietro, il che le faceva sembrare gli occhi mandorla persino più grandi e penetranti. Le mani erano ricoperte di calli e vesciche per aver lavorato con il cordame. Guardandola, Leo avvertì una sensazione pressante allo stomaco che non riuscì a spiegare. “Allora?” lo incitò lei. “Allora… cosa?” Lei annuì vero l’ammasso di fili. “Allora posso aiutare? Come sta andando?” “Oh, uh, va tutto bene. Credo. Se riesco a collegare questa cosa alla nave, dovrei essere in grado di tornare nel mondo.” “Adesso tutto quello di cui hai bisogno è una nave.” Cercò di leggere la sua espressione. Non era sicuro se fosse irritata dal fatto che fosse ancora là, o triste per il fatto che non stesse per partire anche lei. Poi guardò tutte le scorte che aveva accumulato – bastavano senza problemi per due persone e sarebbero durate diversi giorni. “Quello che ha detto Gea…” Esitò. “Del fatto che potevi andare via dall’isola. Vorresti provarci?” Lei si accigliò “Cosa vuoi dire?” “Bè… non sto dicendo che sarebbe divertente averti intorno, sempre a lamentarti e a fissarmi male e cose così. Ma suppongo che potrei sopportarlo, se volessi provare.” La sua espressione si ammorbidì appena. “Come sei nobile,” borbottò lei. “Ma no, Leo. Se provassi a venire con te, le tue minuscole possibilità di riuscire a fuggire si annullerebbero del tutto. Gli dei hanno messo dell’antica magia su quest’isola per tenermi qui. Un eroe può andarsene. Io non posso. La cosa più importante è liberare te così che tu possa fermare Gea. Non che mi importi qualcosa di quello che ti accade,” aggiunse velocemente. “Ma il destino del mondo è a rischio.” “Perché ti dovrebbe importare?” chiese. “Cioè, dopo essere stata lontana dal mondo per così tanto tempo?” Lei inarcò le sopracciglia, come se fosse sorpresa che lui avesse fatto una domanda così sensata. “Immagino che sia perché non mi piace quando mi dicono cosa devo fare – che si tratti di Gea o di qualsiasi altra persona. Per quanto io detesti gli dei qualche volta, durante gli ultimi tremila anni sono arrivata a vedere che sono migliori dei Titani. Sono senza dubbio migliori dei giganti. Almeno gli dei mantengono i contatti. Hermes è sempre stato gentile con me. E tuo padre, Efesto, mi ha fatto spesso visita. E’ una brava persona.” Leo non sapeva come comportarsi con il suo tono distante. Suonava quasi come se stesse riflettendo sul suo valore, non su quello di suo padre. Lei allungò un braccio e gli chiuse la bocca. Non si era accorto che la stava tenendo aperta. “Adesso,” disse Calypso, “come posso aiutare?” “Oh.” Fissò il suo progetto, ma quando parlò, buttò fuori un’idea che si era formata fin da quando Calypso gli aveva creato i suoi nuovi vestiti. “Sai quel tessuto a prova di fuoco? Credi di potermi fare un piccolo sacchettino fatto con quel tessuto?” Le descrisse le dimensioni. Calypso agitò la mano con fare impaziente. “Ci vorrà solo qualche minuto per quello. Aiuterà l’impresa?” “Sì. Potrebbe salvare una vita. E, um, potresti staccare un pezzetto di cristallo dalla tua grotta? Non me ne serve molto.” Lei aggrottò le sopracciglia. “Questa è una richiesta strana.” “Per favore.” “Va bene. Consideralo fatto. Farò il sacchetto a prova di fuoco questa sera con il telaio, quando mi sarò ripulita. Ma cosa posso fare adesso, mentre ho ancora le mani sporche?” Alzò le dita callose e ricoperte di terra. Leo non poté fare a meno di pensare che non ci fosse niente di più attraente di una ragazza a cui non importava di sporcarsi le mani. Ma ovviamente, quella era solo una considerazione generale. Non valeva per Calypso. Ovviamente. “Bè,” disse, “potresti piegare qualche altro rocchetto di bronzo. Ma è un lavoro piuttosto tecnico –“ Lei lo spinse per sedersi accanto a lui sulla panchina e si mise al lavoro, con le mani che intrecciavano i cavi di bronzo più veloce di quanto fosse capace lui. “E’ come tessere,” disse. “Non è così difficile.” “Huh,” disse Leo. “Bè, se andrai mai via da quest’isola e vorrai un lavoro, fammelo sapere. Non sei una tonta totale.” Lei fece un sorriso furbo. “Un lavoro, eh? Creare cose nella tua fucina?” “Nah, potremmo aprire il nostro negozio personale,” disse Leo, sorprendendo se stesso. Aprire un’officina era sempre stato uno dei suoi sogni, ma non l’aveva mai detto a nessuno. “Il Garage di Leo e Calypso: Riparazione di Auto e Mostri Meccanici.” “Frutta fresca e verdure,” propose Calypso. “Sidro e spezzatino,” aggiunse Leo. “Potremmo persino offrire dell’intrattenimento. Tu potresti cantare ed io potrei, tipo, prendere fuoco all’improvviso.” Calypso rise – un suono chiaro e felice che fece fare dei salti mortali al cuore di Leo. “Vedi,” disse lui, “sono divertente.” Lei riuscì a uccidere il suo sorriso. “Non sei divertente. Adesso, rimettiti al lavoro, o niente sidro e spezzatino.” “Sì, signora,” disse lui. Lavorarono in silenzio, uno affianco all’altra, per tutto il resto del pomeriggio. Due sere più tardi, la console di comando era terminata. Leo e Calypso si sedettero sulla spiaggia, accanto al punto in cui Leo aveva distrutto il tavolo da pranzo, e cenarono insieme facendo un picnic. La luna piena faceva diventare le onde d’argento. Il loro falò mandava scintille arancioni nel cielo. Calypso indossava una maglietta bianca pulita e i suoi jeans, dove apparentemente aveva deciso di vivere. Dietro di loro tra le dune, le scorte erano state attentamente raggruppate e pronte per essere caricate. “Tutto quello di cui abbiamo bisogno adesso è una nave,” disse Calypso. Leo annuì. Cercò di non soffermarsi sull’uso al plurale che aveva fatto del verbo. Calypso aveva fatto capire chiaramente che non sarebbe andata con lui. “Posso iniziare a tagliare il legno domani,” disse Leo. “Qualche giorno, e ne avremo abbastanza per un piccolo scafo.” “Hai già fatto una nave in passato,” ricordò Calypso. “La tua Argo II.” Leo annuì. Pensò a tutti quei mesi che aveva passato a costruire l’Argo II. In qualche modo, l’idea di fare una barca per andare via da Ogigia gli sembrava una prova molto più intimidente. “Quindi quanto ci vorrà prima che tu parta?” Il tono di Calypso era noncurante, ma lei non voleva incontrare il suo sguardo. “Uh, non ne sono sicuro. Un’altra settimana?” Per qualche ragione, dirlo faceva sentire Leo meno agitato. Quando era arrivato là, non vedeva l’ora di andarsene. Adesso, era contento di avere ancora qualche giorno di tempo. Strano. Calypso fece scorrere le dita sulla console di comando ultimata. “Ci è voluto così tanto per fare questo.” “Non si può mettere fretta alla perfezione.” Un sorriso si formò all’angolo della sua bocca. “Sì, ma funzionerà?” “Per andare via, nessun problema,” disse Leo. “Ma per tornare avrò bisogno i Festus e –“ “Cosa?” Leo sbatté le palpebre. “Festus. Il mio drago di bronzo. Quando avrò capito come fare a ricostruirlo, allora –“ “Mi hai raccontato di Festus,” disse Calypso. “Ma cosa vuoi dire tornare?” Leo fece un sorriso nervoso. “Bè… tornare qui, no? Sono certo che l’avevo detto.” “Sono certa che non l’hai fatto.” “Non ti lascerò qui! Dopo che tu mi hai aiutato e tutto il resto? Ovvio che tornerò. Quando avrò ricostruito Festus, lui sarà in grado di reggere un sistema di guida migliorato. C’è questo astrolabio che io, uh…” Si fermò, decidendo che era meglio non parlare del fatto che era stato costruito da una delle vecchie fiamme di Calypso. “… che ho trovato a Bologna. In ogni modo, credo che con quel cristallo che mi hai dato –“ “Non puoi tornare,” insistette Calypso. Il cuore di Leo sprofondò. “Perché non sono il benvenuto?” “Perché non puoi. E’ impossibile. Nessun uomo trova Ogigia due volte. E’ questa la regola.” Leo mandò gli occhi al cielo. “Sì, bè, avrai notato che non sono bravo a seguire le regole. Tornerò qui con il mio drago, e ti faremo evadere. Ti poteremo dovunque tu voglia andare. E’ giusto così.” “Giusto…” La voce di Calypso era a malapena udibile. Alla luce del fuoco, i suoi occhi apparivano così tristi, che Leo non riusciva a sopportarli. Credeva che le stesse mentendo solo per farla sentire meglio? Lui pensava che fosse una cosa dovuta tornare indietro e liberarla dalla sua isola. Come avrebbe potuto non farlo? “Non crederai davvero che possa aprire il Garage di Leo e Calypso senza Calypso, non è così?” chiese. “Non so fare il sidro e lo spezzatino, e di certo non so cantare.” Lei fissò la sabbia. “Bè, comunque,” disse Leo, “domani inizierò a lavorare la legna. E tra qualche giorno…” Guardò verso l’acqua. Qualcosa stava sobbalzando sulle onde. Leo guardò sbigottito mentre una grande zattera di legno fluttuava verso di loro sulla cresta di un’onda e scivolava fino a fermarsi sulla spiaggia. Leo era troppo stordito per muoversi, ma Calypso saltò in piedi. “Sbrigati!” Si lanciò sulla spiaggia, afferrò qualche sacca delle scorte, e corse per metterle sulla zattera. “Non so per quanto tempo rimarrà!” “Ma…” Leo si mise in piedi. Le sue gambe sembravano essere diventate di roccia. Si era appena convinto di avere un’altra settimana da passare su Ogigia. Adesso non aveva nemmeno il tempo di finire la cena. “Questa è la zattera magica?” “Ma va!” gridò Calypso. “Potrebbe funzionare come deve e portarti dove vuoi andare. Ma non possiamo esserne sicuri. La magia dell’isola è ovviamente instabile. Dovrai attivare il tuo dispositivo di guida per navigare.” Raccolse la console da terra e corse verso la zattera, cosa che smosse Leo. L’aiutò ad assicurarla alla zattera e fecero passare i cavi intorno al piccolo timone a poppa. La zattera era già dotata di un albero, quindi Leo e Calypso issarono la loro vela a bordo e iniziarono a lavorare sui cordami. Lavorarono fianco a fianco in perfetta armonia. Persino tra i campeggiatori di Efesto, Leo non aveva mai lavorato con qualcuno così intuitivo come quella ragazza giardiniera immortale. In pochissimo tempo, avevano sistemato la vela e portato a bordo tutte le scorte. Leo premette i bottoni sulla sfera di Archimede, borbottò una preghiera a suo padre, Efesto, e la console di bronzo Celeste si accese ronzando. I cordami si strinsero, la vela si girò. La zattera iniziò a grattare contro la rabbia, tesa nello sforzo di raggiungere le onde. “Vai,” disse Calypso. Leo si voltò. Era così vicina che lui non poteva sopportarlo. Odorava di cannella e fumo di legna, e lui pensò che non avrebbe sentito mai più un odore così buono. “La zattera è arrivata alla fine,” disse. Calypso sbuffò. Forse aveva gli occhi rossi, ma era difficile da capire alla luce della luna. “Te ne sei appena accorto?” “Ma se si presenta solo per i ragazzi che ti piacciono – “ “Non forzare la tua fortuna, Leo Valdez,” disse. “Ti detesto ancora.” “Okay.” “E non tornerai qui,” insistette lei. “Quindi non farmi nessuna promessa vuota.” “Che ne dici di una promessa piena?” disse lui. “Perché ho tutta l’intenzione –“ Lei gli prese il volto tra le mani e lo avvicinò per baciarlo, cosa che lo zittì con efficienza. Nonostante tutti i suoi scherzi e flirt, Leo non aveva mai baciato una ragazza prima. Bè, dei bacetti fraterni sulla guancia con Piper, ma quelli non contavano. Questo era un vero bacio, con contatto completo. Se Leo avesse avuto degli ingranaggi e dei cavi nella testa, sarebbero andati in corto circuito. Calypso lo spinse via. “Questo non è successo.” “Okay.” La sua voce suonava di un ottava più alta del normale. “Vai via da qui.” “Okay.” Lei si voltò, asciugandosi furiosamente gli occhi, e corse lungo la spiaggia, con la brezza che le arruffava i capelli. Leo voleva chiamarla, ma la vela catturò tutta la forza del vento, e la zattera si allontanò dalla spiaggia. Lui si affrettò per allineare la console di guida. Quando Leo si guardò indietro, l’isola di Ogigia era una linea scura in lontananza, con il loro falò che pulsava come un minuscolo cuore arancione. Le sue labbra stavano ancora formicolando per il bacio. Non è successo, si disse. Non posso essere innamorato di una ragazza immortale. Lei senza dubbio non può essere innamorata di me. Impossibile. Mentre la zattera scivolava sull’acqua, riportandolo nel mondo mortale, comprese meglio uno dei versi della Profezia – con l’ultimo fiato un giuramento si dovrà mantenere. Capiva quanto potessero essere pericolosi i giuramenti. Ma a Leo non importava. “Tonerò per te, Calypso,” disse al vento della notte. “Lo giuro sul Fiume Stige.” 53 ANNABETH Annabeth non aveva mai avuto paura del buio. Ma normalmente il buio non era alto dodici metri. Non aveva ali nere, una frusta fatta di stelle, e un carro ombroso trainato da cavalli vampiri. Nyx era quasi troppo per essere elaborata interamente. Incombeva sopra l’abisso, una figura fatta di vorticante cenere e fumo, grande come la statua dell’Atena Partenone, ma molto più viva. Il suo vestito era nero come il vuoto, mischiato con i colori di una nebulosa stellare, come se nel suo bustino stessero nascendo delle galassie. Il suo volto era difficile da vedere fatta eccezione per i punti dei suoi occhi, che brillavano come quasar. Quando sbatteva le ali, delle ondate di oscurità rotolavano sul precipizio, facendo sentire Annabeth pesante e assonnata, offuscandole la vista. Il carro della dea era fatto dello stesso materiale della spada di Nico di Angelo – ferro di Stige – trainato da due enormi cavalli, interamente neri fatta eccezione per le affilate zanne argentate. Le gambe delle creature fluttuavano sopra l’abisso, passando dal solido al fumo mentre si muovevano. I cavalli ringhiarono e scoprirono le zanne verso Annabeth. La dea agitò la sua frusta – un sottile filo di stelle simili a diamanti – e i cavalli si impennarono sulle zampe posteriori. “No, Buio,” disse la dea. “Giù, Ombra. Questi piccoli premi non sono per voi.” Percy guardò i cavalli mentre questi nitrivano. Era ancora avvolto dalla Foschia di Morte, quindi sembrava un cadavere sfocato – vista che spezzava il cuore di Annabeth ogni volta che lo vedeva. Inoltre non doveva nemmeno trattarsi di un camuffamento così buono, dal momento che Nyx poteva ovviamente vederli. Annabeth non riusciva a leggere molto bene l’espressione sul viso spettrale di Percy. Apparentemente non gli piaceva qualsiasi cosa stessero dicendo i cavalli. “Uh, così non li permetterai di mangiarci?” chiese lui alla dea. “Vogliono farlo davvero.” Gli occhi di quasar di Nyx bruciarono. “Certo che no. Non permetterò ai miei cavalli di mangiarvi, non più di quanto avrei permesso ad Achlys di uccidervi. Siete dei premi così pregiati, vi ucciderò io stessa!” Annabeth non si sentiva particolarmente astuta o coraggiosa, ma il suo istinto le diceva di prendere l’iniziativa, altrimenti quella sarebbe stata una conversazione molto breve. “Oh, non uccidere te stessa!” gridò Annabeth. “Non siamo così spaventosi.” La dea abbassò la sua frusta. “Cosa? Non, non intendevo –“ “Bè, spero di no!” Annabeth guardò Percy e fece una risata forzata. “Non volgiamo spaventarla, non è così?” “Ha, ha,” disse Percy debolmente. “No, non vogliamo.” I cavalli vampiri sembravano confusi. Si agitarono e sbuffarono sbattendo le loro teste scure una contro l’altra. Nyx tirò le redini per farli calmare. “Sapete chi sono?” chiese lei. “Bè, immagino che tu sia Notte,” disse Annabeth. “Voglio dire, posso capirlo perché sei scura e tutto il resto, ma la brochure non diceva molto su di te.” Gli occhi di Nyx lampeggiarono per un istante, carichi di confusione. “Quale brochure?” Annabeth si toccò le tasche. “Ne avevamo una, non è vero?” Percy si leccò le labbra. “Uh-huh.” Stava ancora guardando i cavalli, con la mano stretta sull’elsa della sua spada, ma era abbastanza intelligente da seguire il piano di Annabeth. Adesso doveva solo sperare di non stare peggiorando le cose…anche se in tutta onestà, non vedeva come le cose sarebbero potute peggiorare. “Ad ogni modo,” disse, “immagino che la brochure non dicesse molto, perché non eri evidenziata nel tour. Abbiamo visto il Fiume Flegetonte, il Cocito, le arai, la radura velenosa di Achlys, persino qualche Titano e gigante, ma Nyx… hmm, no, non eri indicata.” “Indicata? Evidenziata?” “Sì,” disse Percy, prendendo confidenza. “Siamo venuti qua sotto per il tour del Tartaro – del tipo, destinazioni esotiche, sai? L’Oltretomba è passato di moda. Il Monte Olimpo è una trappola per turisti –“ “Dei, assolutamente!” concordò Annabeth. “Così abbiamo prenotato l’escursione del Tartaro, ma nessuno ha mai accennato che ci saremmo imbattuti in Nyx. Huh. Oh, bè. Immagino che non pensavano che tu fossi importante.” “Non importante!” Nyx agitò la frusta. I suoi cavalli si agitarono e fecero scattare le zanne argentate. Ondate di oscurità si riversarono fuori dall’abisso, facendo diventare lo stomaco di Annabeth di gelatina, ma non poteva mostrare la sua paura. Spinse in basso il braccio di Percy che reggeva la spada, obbligandolo ad abbassare la sua arma. Quella era una dea che andava oltre tutto ciò che avessero mai affrontato. Nyx era più antica di qualsiasi dio dell’Olimpo, Titano o gigante, più anticha persino di Gea. Non poteva essere sconfitta da due semidei – almeno non da due semidei che usavano la forza. Annabeth si obbligò a guardare l’enorme volto scuro della dea. “Bè quanti altri semidei sono venuti a visitarti durante il tour?” chiese innocentemente. Le mani di Nyx si fecero inerti sulle redini. “Nessuno. Nemmeno uno. Questo è inaccettabile!” Annabeth scrollò le spalle. “Forse perché non hai mai fatto qualcosa per finire sulla brochure. Voglio dire, posso capire che Tartaro sia importante! Questo intero luogo porta il suo nome. Oppure, se potessimo incontrare Giorno –“ “Oh, sì,” si intromise Percy. “Giorno? Lei sarebbe notevole. Vorrei assolutamente incontrarla. Forse potrei avere il suo autografo.” “Giorno!” Nyx afferrò l’asta del suo carro nero. L’intero veicolo tremò. “Intendete Emera? Lei è mia figlia! Notte è molto più potente di Giorno!” “Eh,” disse Annabeth. “Mi sono piaciute di più le arai, o persino Achlys.” “Anche loro sono figli miei!” Percy trattenne uno sbadiglio. “Hai un sacco di figli, huh?” “Io sono la madre di tutti i terrori!” gridò Nyx. “Delle Parche in persona! Di Ecate! Vecchiaia! Dolore! Sonno! Morte! E di tutte le maledizioni! Guardate quanto sono degna di nota!” 54 ANNABETH Nyx fece scattare nuovamente la sua frusta. L’oscurità intorno a lei si congelò. Su entrambi i lati, apparve un esercito di ombre – altre arai dalle ali scure, che Annabeth non era emozionata di rivedere; una vecchia raggrinzita che doveva essere Gera, la dea della vecchiaia; e una donna più giovane con una toga nera, gli occhi brillanti e il sorriso di un serial killer – senza dubbio Eris, la dea della discordia. Ne continuavano a comparire sempre di più: dozzine di demoni e divinità minori, tutte progenie di Notte. Annabeth voleva scappare. Si trovava davanti a un branco di orrori che avrebbe spezzato la sanità mentale di chiunque. Ma se fosse scappata, sarebbe morta. Accanto a lei, il respiro di Percy si fece debole. Persino attraverso il suo camuffamento spettarle, Annabeth riusciva a capire che era sull’orlo del panico. Lei doveva mantenere la calma per entrambi. Sono una figlia di Atena, pensò. Controllo la mia testa. Immaginò una cornice mentale intorno a quello che stava vedendo. Si disse che si trattava solo di un film – un film dell’orrore, certo, ma non poteva farle del male. Aveva il controllo. “Sì, non male,” ammise. “Immagino che potremmo fare una foto per l’album fotografico, ma non lo so. Siete tutti così… scuri. Anche se usassi il flash, non sono certa che verrebbe bene.” “S-sì,” balbettò Percy. “Non siete fotogenici.” “Piccoli – miserabili – turisti!” sibilò Nyx. “Come osate non tremare di fronte a me! Come osate non piangere e implorare per un mio autografo e una foto per il vostro album! Volete qualcosa degno di nota? Mio figlio Hypnos una volta fece addormentare Zeus! Quando Zeus lo inseguì sulla terra in cerca di vendetta, Hypnos si nascose nel mio palazzo per protezione, e Zeus non lo seguì. Persino il re dell’Olimpo mi teme!” “Uh-huh.”Annabeth si voltò verso Percy. “Bè, si sta facendo tardi. Dovremmo probabilmente andare a pranzare in uno di quei ristoranti che consigliava la guida. Dopo possiamo andare a cercare le Porte della Morte.” “Aha!” gridò Nyx trionfante. Il suo branco di ombre si agitò e riecheggiò il suo grido: “Aha! Aha!” “Volete vedere le Porte della Morte?” chiese Nyx. “Si trovano nel cuore del Tartaro. I mortali come voi non potrebbero mai raggiungerle, se non attraverso le stanze del mio palazzo – il Palazzo di Notte!” Fece un gesto alle sue spalle. Fluttuante nell’abisso, circa cento metri più in basso, si trovava una porta di marmo nero, che portava in una grande stanza. Il cuore di Annabeth batteva così forte che se lo sentiva nelle dita dei piedi. Quella era la strada per andare avanti – ma si trovava troppo in basso, un salto impossibile. Se l’avessero mancato, sarebbero precipitati nel Caos e sarebbero stati ridotti nel nulla – una morte finale senza fuga. Anche se fossero riusciti a fare il salto, la dea della Notte e i suoi figli più spaventosi si trovavano sul loro cammino. Con un sobbalzo, Annabeth capì quello che doveva accadere. Come tutto quello che aveva sempre fatto, si trattava di una scommessa pericolosa. In un certo senso, la cosa la calmò. Un’idea folle in faccia alla morte? Okay, sembrava dire il suo corpo, rilassandosi. Questo è un territorio familiare. Finse uno sbadiglio annoiato. “Immagino che potremmo fare una foto, ma uno scatto di gruppo non funzionerebbe. Nyx, che ne dici di una foto con te con il tuo figlio preferito? Chi è?” Il gruppo si agitò. Dozzine di orribili occhi luccicanti si voltarono verso Nyx. La dea si mosse a disagio, come se il suo carro le si stesse riscaldando sotto i piedi. I suoi cavalli ombra sbuffarono e scalpitarono sopra l’abisso. “Il mio figlio preferito?” chiese. “Tutti i miei figli sono terrificanti!” Percy fece un verso di scherno. “Davvero? Ho incontrato le Parche, ho incontrato Tanato. Non erano così spaventosi. Devi avere qualcuno in questa folla peggiore di loro.” “Il più oscuro,” disse Annabeth. “Quello più simile a te.” “Sono io la più oscura,” sibilò Eris. “Guerra e liti! Ho causato ogni tipo di morte!” “Io sono la persona più oscura!” ringhiò Gera. “Offusco la vita e confondo la mente. Ogni mortale teme la vecchiaia!” “Sì, sì,” disse Annabeth, cercando di ignorare i denti che le battevano. “Non vedo abbastanza oscurità. Voglio dire, siete i figli della Notte! Mostratemi l’oscurità!” Il branco di arai gemette, sbattendo le ali e sollevando nuvole di buio. Geras allargò le mani rugose e oscurò l’intero abisso. Eris respirò un ombroso getto fatto di pallottole oltre il vuoto. “Sono io la più oscura!” sibilò uno dei demoni. “No, io!” “No! Ammirate la mia oscurità!” Se un migliaio di polipi giganti avessero spruzzato l’inchiostro allo stesso tempo, sul fondo dell’oceano più profondo e privo di luce, la cosa non sarebbe potuta essere più nera. Annabeth sarebbe potuta essere cieca. Afferrò la mano di Percy e si calmò i nervi. “Aspettate!” esclamò Nyx, improvvisamente nel panico. “Non riesco a vedere nulla.” “Sì!” gridò con orgoglio uno dei suoi figli. “Sono stato io!” “No, l’ho fatto io!” “Sciocchi, sono stato io!” Dozzine di voci litigarono al buio. I cavali nitrirono allarmati. “Smettetla!” gridò Nyx. “Di chi è quel piede?” “Eris mi sta colpendo!” gridò qualcuno. “Madre, dille di smetterla di colpirmi!” “Non lo sto facendo!” gridò Eris. “Ahia!” I suoni di azzuffamento si fecero più forti. Se possibile, il buio divenne ancora più profondo. Gli occhi di Annabeth si dilatarono così tanto, che aveva la sensazione che glieli stessero strappando via. Strinse la mano di Percy. “Pronto?” “Per cosa?” Dopo una pausa, fece un grugnito infelice. “Per le mutande di Poseidone, non puoi essere seria.” “Qualcuno mi faccia luce!” urlò Nyx. “Gah! Non posso credere di averlo detto!” “E’ un trucco!” gridò Eris. “I semidei stanno scappando!” “Li ho presi,” urlò un’arai. “No, quello è il mio collo!” disse Gera con voce strozzata. “Salta!” disse Annabeth a Percy. Si lanciarono nell’oscurità, puntando verso la porta molto, molto più in basso. 55 ANNABETH Dopo la loro caduta nel Tartaro, saltare per cento metri verso il Palazzo di Notte sarebbe dovuta sembrare una cosa veloce. Invece, il cuore di Annabeth sembrò rallentare. Tra i vari battiti del suo cuore ebbe tempo a sufficienza per scrivere il suo stesso necrologio. Annabeth Chase, morta all’età di 17 anni. BA-BOOM. (Assumendo che il suo compleanno, il 12 luglio, fosse passato mentre si trovava nel Tartaro; ma onestamente, non ne aveva idea.) BA-BOOM. Morta di ferite gravi mentre saltava come un’idiota nell’abisso del Caos e si spiaccicava sul pavimento della sala d’ingresso del palazzo di Nyx. BA-BOOM. Sopravvissuta da suo padre, la sua matrigna, e due fratellastri che la conoscevano a malapena. BA-BOOM. Al posto dei fiori, si prega di inviare delle donazioni al Campo Mezzosangue, assumendo che Gea non l’abbia già distrutto. I piedi colpirono il terreno solido. Le gambe le esplosero di dolore, ma inciampò in avanti e rimase in piedi correndo, trainando Percy dietro di lei. Sopra di loro, nel buio, Nyx e i suoi figli urlavano e si azzuffavano, “Li ho presi! Il mio piede! Smettila!” Annabeth continuò a correre. Non poteva vedere nulla in ogni caso, quindi chiuse gli occhi. Usò gli altri sensi – ascoltando in cerca dell’eco degli spazi aperti, in allerta per delle correnti di vento sul volto, odorando in caso di qualsiasi traccia di pericolo – fumo, veleno, oppure il puzzo dei demoni. Non era la prima volta che si lanciava nel buio. Immaginò di trovarsi di nuovo nei tunnel sotto Roma, in cerca dell’Atena Partenone. Guardando indietro, il suo viaggio verso la caverna di Aracne sembrava una vacanza a Disneyland. I rumori di liti tra i figli di Nyx si fecero sempre più lontani. Quella era una buona cosa. Percy stava ancora correndo al suo fianco, tenendole la mano. Altra cosa buona. In lontananza davanti a loro, Annabeth iniziò ad avvertire un rumore pulsante, come se il suo stesso battito del cuore stesse riecheggiando, amplificandosi con tale forza, che il pavimento le vibrò sotto i piedi. Il rumore la riempì di terrore, quindi immagino che quella dovesse essere la strada giusta. Corse verso di esso. Mentre il battito si faceva più forte, sentì odore di fumo e udì lo scoppiettio di torce accese intorno a lei. Immaginò che ci dovesse essere della luce, ma una sensazione strisciante sul collo l’avvertì che sarebbe stato un errore aprire gli occhi. “Non guardare,” disse a Percy. “Non avevo intenzione di farlo,” rispose lui. “Riesci ad avvertirlo, vero? Siamo ancora nel Palazzo di Notte.Non voglio vederlo.” Ragazzo intelligente, pensò Annabeth. Era solita prendere in giro Percy per essere uno sciocco, ma in verità i suoi istinti erano solitamente esatti. Qualsiasi orrore giacesse nel Palazzo di Notte, non erano pensati per gli occhi mortali. Vederli sarebbe stato peggio che fissare direttamente il volto di Medusa. Meglio correre al buio. La pulsazione si fece più forte, inviando vibrazioni attraverso la schiena di Annabeth. Sembrava che qualcuno stesse bussando sul fondo del mondo, chiedendo di poter entrare. Avvertì le pareti che si aprivano ai suoi lati. L’aria si fece più fresca – o comunque non così sulfurea. C’era anche un altro rumore, più vicino del martellio profondo… il suono di acqua che scorreva. Il cuore di Annabeth stava correndo. Sapeva che l’uscita era vicina. Se fossero riusciti a uscire dal Palazzo di Notte, forse si sarebbero potuti lasciare il gruppo di demoni oscuri alle spalle. Iniziò a correre più velocemente, cosa che avrebbe significato la sua morte se Percy non l’avesse fermata. 56 ANNABETH “Annabeth!” Percy la tirò indietro proprio mentre il suo piede toccava il bordo di un dislivello. Cadde quasi in avanti verso chi sa cosa, ma Percy l’afferrò e l’avvolse tra le sue braccia. “Va tutto bene,” le assicurò. Lei spinse il suo volto nella sua maglietta e tenne gli occhi stretti. Stava tremando, ma non solamente dalla paura. L’abbraccio di Percy era così caldo e consolatorio che voleva rimanere lì per sempre, protetta e al sicuro… ma non era la realtà. Non poteva permettersi di rilassarsi. Non poteva appoggiarsi a Percy più di quanto fosse necessario. Anche lui aveva bisogno di lei. “Grazie…” Si slacciò gentilmente dalle sue braccia. “Riesci a capire cosa c’è davanti a noi?” “Acqua,” disse lui. “Ho gli occhi chiusi. Non credo che sia ancora sicuro.” “Sono d’accordo.” “Posso avvertire la presenza di un fiume… o forse di tratta di un fossato. Ci blocca la strada, scorrendo da sinistra a destra attraverso un canale tagliato nella roccia, la riva opposta è a circa sei metri di distanza.” Annabeth si rimproverò mentalmente. Aveva sentito l’acqua che scorreva, ma non aveva preso in considerazione il fatto che le stesse correndo incontro. “C’è un ponte, o -?” “Non credo,” disse Percy. “E c’è qualcosa che non va con l’acqua. Ascolta.” Annabeth si concentrò. Attraverso il ruggito della corrente, migliaia di voci stavano gridando – urlando in agonia, implorando pietà. Aiuto! Gemevano. E’ stato un incidente! Il dolore! Piangevano le voci. Fatelo smettere! Annabeth non aveva bisogno degli occhi per immaginarsi il fiume – una nera corrente salata carica di anime torturate che venivano trascinate sempre più in profondità nel Tartaro. “Il Fiume Acheronte,” indovinò. “Il quinto fiume dell’Oltretomba.” “Preferivo il Flegetonte a questo,” borbottò Percy. “E’ il Fiume del Dolore. La punizione finale per le anime che sono dannate – soprattutto gli assassini.” Assassini! Gemette il fiume. Sì, come voi! Unitevi a noi, sussurrò un’altra voce. Non siete migliori di noi. La testa di Annabeth si riempì delle immagini di tutti i mostri che aveva ucciso nel corse degli anni. Quello non era omicidio, protestò lei. Mi stavo difendendo! La corrente del fiume mutò attraverso la sua mente – mostrandole Zoe Nightshade, che era stata uccisa sul Monte Tamalpais perché era andata a salvare Annabeth dai Titani. Vide la sorella di Nico, Bianca di Angelo, che moriva nel crollo del gigante di metallo Talos, perché anche lei aveva provato a salvare Annabeth. Michael Yew e Silena Beauregard… che erano morti nella Battaglia di Manhattan. Avresti potuto evitarlo, disse il fiume ad Annabeth. Avresti dovuto pensare a un piano migliore. Più doloroso di tutti: Luke Castellan. Annabeth ricordò il sangue di Luke sul suo pugnale dopo che lui si era sacrificato per impedire a Crono di distruggere l’Olimpo. Le tue mani sono sporche del suo sangue! Pianse il fiume. Ci sarebbe dovuto essere un altro modo! Annabeth aveva lottato con lo stesso pensiero molte volte. Aveva cercato di convincersi che la morte di Luke non fosse stata colpa sua. Luke aveva scelto il suo destino. Tuttavia…non sapeva se la sua anima avesse trovato pace nell’Oltretomba, o se era rinato, oppure se era stato gettato nel Tartaro a causa dei suoi crimini. Avrebbe potuto essere una delle voci torturate che stava scorrendo sotto di lei in quel momento. Tu l’hai ucciso! Gridò il fiume. Salta dentro e condividi la sua punizione! Percy le afferrò il braccio. “Non ascoltare.” “Ma –“ “Lo so.” La sua voce suonava fragile come il ghiaccio. “Mi stanno dicendo le stesse cose. Credo… credo che questo fossato debba essere il confine del territorio di Notte. Se lo attraversiamo, dovremmo essere salvi. Dovremo saltare.” “Hai detto che erano sei metri!” “Sì. Dovrai fidarti di me. Metti le braccia intorno al mio collo e tieniti forte.” “Come puoi riuscire a – “ “Laggiù!” gridò una voce dietro di loro. “Uccidete i turisti ingrati!” I figli di Nyx li avevano trovati. Annabeth avvolse le braccia intorno a Percy. “Vai!” Con gli occhi chiusi, poté solo immaginare come ci riuscì. Forse usò in qualche modo la forza del fiume. Forse era semplicemente terrorizzato e carico di adrenalina. Percy saltò con più forza di quanta lei credeva fosse possibile. Saltarono in aria mentre il fiume si agitava e gemeva sotto di loro, schizzando le caviglie nude di Annabeth con pungente acqua salata. Poi… CLUMP. Furono nuovamente sul terreno solido. “Puoi aprire gli occhi,” disse Percy, respirando a fatica. “Ma non ti piacerà quello che vedrai.” Annabeth sbatté le palpebre. Dopo il buio di Nyx, persino il debole brillio rosso del Tartaro sembrava abbagliante. Davanti a loro si estendeva una valle abbastanza grande da poter ospitare tutta la Baia di San Francisco. Il rumore pulsante proveniva da tutto il paesaggio, come se dei tuoni stessero riecheggiando da sottoterra. Sotto delle nuvole venefiche, il terreno luccicava di viola con linee simili a cicatrici rosso scuro e blu. “Sembra…” Annabeth combatté il disgusto. “Sembra un cuore gigante.” “Il cuore di Tartaro,” mormorò Percy. Il centro della vallata era ricoperto da una sottile peluria nera fatta di puntini agitati. Erano così lontani, che Annabeth ci mise un po’ a capire che stava guardando un esercito – migliaia, forse decine di migliaia di mostri, raccolti intorno a uno scuro puntino centrale. Era troppo lontano per poter distinguerne i dettagli, ma Annabeth non aveva nessun dubbio su cosa fosse il puntino. Persino dal bordo della vallata, Annabeth poteva avvertire il suo potere che le tirava l’anima. “Le Porte della Morte.” “Sì.” La voce di Percy era roca. Aveva ancora la pelle pallida e consumata di un cadavere… il che voleva dire che aveva un aspetto tanto buono quanto l’umore di Annabeth. Si rese conto di essersi completamente dimenticata dei lori inseguitori. “Cosa è successo a Nyx…?” Si voltò. In qualche modo erano atterrati a diverse centinaia di metri dalle rive dell’Acheronte, che scorreva attraverso un canale scavato tra scure colline vulcaniche. Oltre quello non c’era nulla eccetto oscurità. Nessun segno di qualcuno che li stava inseguendo. Apparentemente persino ai tirapiedi di Notte non piaceva attraversare l’Acheronte. Stava per chiedere a Percy come avesse fatto a saltare così lontano quando udì il rumore di rocce che cedevano dalle colline alla loro sinistra. Lei sguainò la sua spada di osso di dragone. Percy sollevò Vortice. Una macchia di brillanti capelli bianchi apparve oltre la cresta, poi un familiare volto sorridente con occhi di argento puro. “Bob?” Annabeth era così contenta che saltellò. “Oh miei dei!” “Amici!” Il Titano avanzò con passo pesante verso di loro. Le setole della sua scopa erano bruciate, la sua uniforme da custode era strappata con nuovi tagli di artigli, ma sembrava felicissimo. Sulla sua spalla, Piccolo Bob faceva delle fusa quasi altrettanto rumorose del cuore pulsante di Tartaro. “Vi ho trovati!” Bob li afferrò tutti e due in un braccio da spezzare le costole. “Avete l’aspetto di fumanti persone morte. Bene!” “Urf,” disse Percy. “Come sei arrivato qui? Attraverso il Palazzo di Notte?” “No, no.” Bob scosse la testa con decisione. “Quel posto è troppo spaventoso. Un’altra strada – va bene solo per i Titani e simili.” “Lasciami indovinare,” disse Annabeth. “Sei andato di lato.” Bob si grattò il mento, evidentemente a corto di parole. “Hmm. No. Più… in diagonale.” Annabeth rise. Si trovavano nel cuore di Tartaro, di fronte a un esercito impossibile – e lei avrebbe accettato qualsiasi consolazione potesse avere. Era felice in maniera ridicola di riavere con loro il Titano Bob. Gli diede un bacio sul naso, cosa che gli fece sbattere le palpebre. “Adesso rimaniamo insieme?” chiese lui. “Sì,” annuì Annabeth. “E’ arrivato il momento di vedere se questa Foschia di Morte funziona.” “E se non funziona…” Percy si fermò. Non c’era motivo di fermarsi a pensare a quella possibilità. Stavano per marciare verso un esercito nemico. Se venivano visti, erano morti. Malgrado quello, Annabeth abbozzò un sorriso. Il loro obiettivo era in vista, avevano un Titano con una scopa e un gattino molto rumoroso dalla loro parte. Quello doveva pur contare qualcosa. “Porte della Morte,” disse, “stiamo arrivando.” 57 JASON Jason non era certo di cosa sperare: fuoco o tempesta. Mentre aspettava per la sua conferenza giornaliera con il signore del Vento del Sud, cercò di decidere quale delle due personalità del dio, greca o romana, fosse la peggiore. Ma dopo cinque giorni nel palazzo, era solo certo di una cosa: era poco probabile che lui e il suo gruppo sarebbero usciti vivi da lì. Si appoggiò contro la ringhiera della balconata. L’aria era così calda e secca, che gli disidratava completamente i polmoni. Durante l’ultima settimana, la sua pelle si era scurita, i suoi capelli si erano fatti bianchi come il cotone. Ogni volta che guardava in uno specchio, era sconvolto dal selvaggio e vuoto sguardo che aveva negli occhi, come se fosse diventato cieco vagando per il deserto. Trenta metri più in basso, la baia brillava contro una spiaggia a mezzaluna di sabbia rossa. Si trovavano da qualche parte nella costa settentrionale dell’Africa. Quello era tutto ciò che gli spiriti selvaggi erano disposti a dirgli. Il palazzo stesso si allungava su entrambi i lati – un reticolato di sale e tunnel, terrazzi, colonnati, e stanze scavate nelle rocce delle scogliere, tutto progettato perché il vento potesse soffiarci dentro e creare quanto più rumore possibile. Il costante rumore da canna di organo ricordava a Jason del covo fluttuate di Eolo, in Colorado, con l’eccezione che lì i venti non sembravano avere fretta. Il che era parte del problema. Nelle loro giornate migliori, i venti settentrionali erano lenti e pigri. In quelle peggiori, erano tempestosi e arrabbiati. Inizialmente avevano accolto l’Argo II, dal momento che ogni nemico di Borea era un amico del Vento del Sud, ma sembravano essersi dimenticati che i semidei erano loro ospiti. I venti avevano perso velocemente interesse nell’aiutarli a riparare la nave. L’umore del re peggiorava di giorno in giorno. Sul ponte più in basso, gli amici di Jason stavano lavorando all’Argo II. La vela principale era stata riparata, il cordame sostituito. Adesso stavano riparando i remi. Senza Leo, nessuno di loro sapeva come aggiustare le parti più complicate della nave, persino con l’aiuto del tavolo Buford e di Festus (che adesso era permanentemente sveglio, grazie alla lingua ammaliatrice di Piper – e nessuno di loro capiva come fosse potuto succedere). Ma continuavano a provare. Hazel e Frank si trovavano al timone, intenti a litigare con i controlli. Piper comunicava i loro comandi al Coach Hedge, che era appeso oltre il fianco della nave, intento ad appiattire le ammaccature nei remi. Hedge era molto adatto a dare colpi alle cose. Non sembrava che stessero facendo grandi progressi, ma considerando quello che avevano passato, era un miracolo che la nave fosse ancora intatta. Jason tremava quando ripensava all’attacco di Chione. Era staro messo fuori combattimento – congelato nel ghiaccio solido non una ma due volte, mentre Leo veniva lanciato nel cielo e Piper era stata costretta a salvarli tutti da sola. Grazie agli dei c’era Piper. Lei si considerava un fallimento per non aver impedito alla bomba di vento di esplodere; ma la verità era che, lei aveva salvato l’intera ciurma dal diventare delle sculture di ghiaccio nel Quebec. Era anche riuscita a indirizzare l’esplosione della sfera di ghiaccio, così, anche se la nave era stata spinta per quasi tutto il Mediterraneo, aveva subito dei danni relativamente minori. Sul ponte, Hedge gridò, “Provate adesso!” Hazel e Frank tirarono qualche leva. I remi di babordo impazzirono, agitandosi su e giù e facendo l’onda. Il Coach Hedge cercò di schivarli, ma uno lo colpì sul sedere e lo lanciò in aria. Scese giù urlando e atterrò con un tuffo nella baia. Jason sospirò. Di quel passo, non sarebbero mai stati pronti per salpare, anche se i venti meridionali l’avessero permesso. Da qualche parte a nord, Reyna stava volando verso Epiro, presumendo che avesse trovato il suo biglietto nel Palazzo di Diocleziano. Leo era perso ed era nei guai. Percy e Annabeth… bè, lo scenario migliore era che fossero ancora vivi, diretti verso le Porte della Morte. Jason non poteva deluderli. Un fruscio lo fece girare. Nico di Angelo si trovava all’ombra della colonna più vicina. Si era tolto il suo giacchetto. Adesso indossava solo la sua maglietta con i jeans neri. La sua spada e lo scettro di Diocleziano erano legati alla cintura. Giorni passati sotto il sole caldo non avevano abbronzato la sua pelle. Se mai, sembrava ancora più pallido. I capelli scuri gli cadevano sugli occhi. Il suo volto era ancora scarno, ma aveva senza dubbio un aspetto migliore di quando avevano lasciato la Croazia. Aveva riacquistato abbastanza peso da non sembrare che stesse morendo di fame. Le sue braccia erano sorprendentemente muscolose, come se avesse passato l’ultima settimana a lottare con la spada. Per quello che ne sapeva Jason, poteva essersi dedicato a fare pratica nell’invocare gli spiriti con lo scettro di Diocleziano, per poi lottare contro di loro. Dopo la loro spedizione a Spalato, nulla l’avrebbe sorpreso. “Qualche novità dal re?” chiese Nico. Jason scosse la testa. “Ogni giorno mi chiama, rinviando sempre.” “Dobbiamo andarcene,” disse Nico. “Presto.” Jason aveva la stessa sensazione, ma sentirlo dire da Nico lo rese ancora più nervoso. “Avverti qualcosa?” “Percy è vicino alle Porte,” disse Nico. “Avrà bisogno di noi per attraversarle vivo.” Jason notò che non aveva nominato Annabeth. Decise di non parlarne. “Va bene,” disse Jason. “Ma se non riusciamo a riparare la nave –“ “Ho promesso che vi avrei guidati alla Casa di Ade,” disse Nico. “In un modo o nell’altro, lo farò.” “Non puoi fare dei viaggi ombra con tutti noi. E serviremo tutti per raggiungere le Porte della Morte.” La sfera all’estremità dello scettro di Diocleziano brillò di viola. Durante l’ultima settimana, sembrava essersi accordata all’umore di Nico. Jason non sapeva se fosse una cosa positiva. “Allora dovrai convincere il re del Vento del Sud ad aiutarci.” La voce di Nico ribolliva di rabbia. “Non ho fatto tutta questa strada, sofferto così tante umiliazioni…” Jason dovette fare uno sforzo cosciente per non portare la mano alla sua spada. Ogni volta che Nico si arrabbiava, tutti gli istinti di Jason gridavano Pericolo! “Nico, ascolta,” disse, “io sono qui per te se vuoi parlare di, lo sai, quello che è successo in Croazia. Capisco quando sia difficile –“ “Non capisci nulla.” “Nessuno ti giudicherà.” La bocca di Nico si distorse in un ghigno. “Davvero? Sarebbe la prima volta. Io sono il figlio di Ade, Jason. Potrei anche essere ricoperto di sangue o di liquame, per come mi trattano le persone. Non appartengo in nessun posto. Non appartengo nemmeno a questo secolo. Ma persino questo non basta ad allontanarmi da tutti. Devo essere – essere –“ “Amico! Non è che tu abbia una scelta. E’ semplicemente ciò che sei.” “Solo ciò che sono…” La terrazza tremò. Le decorazioni sul pavimento di pietra mutarono, come delle ossa che stavano emergendo in superficie. “Facile per te parlare. Tu sei il ragazzo d’oro di tutti, il figlio di Giove.L’unica persona che mi abbia mai accettato era Bianca, e lei è morta! Non ho scelto niente di tutto questo. Mio padre, i miei sentimenti…” Jason cercò di pensare a qualcosa da dire. Voleva essere amico di Nico. Sapeva che era l’unico modo per aiutarlo. Ma Nico non stava rendendo le cose facili. Alzò le mani in un gesto di resa. “Sì, okay. Ma, Nico, tu puoi scegliere come vivere la tua vita. Vuoi fidarti di qualcuno? Forse potresti correre il rischio sul fatto che io sia veramente tuo amico e che ti accetterò. E’ meglio che nascondersi.” Il pavimento tra i due si spaccò. Le crepe sibilarono. L’aria intorno a Nico brillò con una luce spettarle. “Nascondermi?” La voce di Nico era mortalmente calma. Le dita di Jason formicolavano dalla voglia di sguainare la spada. Aveva incontrato un sacco di semidei spaventosi, ma stava iniziando a rendersi conto che Nico di Angelo – per quanto pallido e scarno potesse apparire – poteva essere più di quello che era in grado di gestire. Nonostante quello, sostenne lo sguardo di Nico. “Sì, nasconderti. Sei scappato da tutti e due i campi. Hai così paura di essere rifiutato che non ci provi nemmeno. Forse è ora che tu esca dalle ombre.” Proprio quando la tensione si fece insostenibile, Nico abbassò lo sguardo. Le crepe sul pavimento della terrazza si rimarginarono. La luce spettrale svanì. “Farò onore alla mia promessa,” disse Nico, con un tono di voce poco più alto di un sussurro. “Vi porterò ad Epiro. Vi aiuterò a chiudere le Porte della Morte. Poi basta. Me ne andrò – per sempre.” Dietro di loro, le porte della sala del trono si spalancarono con un getto di aria cocente. Una voce priva di corpo disse: Lord Auster vi attende. Per quanto avesse temuto quell’incontro, Jason si sentì sollevato. Al momento, discutere con un dio del vento folle sembrava meno pericoloso dell’aiutare un figlio di Ade arrabbiato. Si voltò per salutare Nico, ma lui era scomparso – fondendosi nuovamente nel buio. 58 JASON Così, si trattava di una giornata tempestosa. Auster, la versione romana del Vento del Sud, era a corte. I due giorni precedenti, Jason aveva trattato con Notus. Anche se la versione greca del dio era impetuosa e si arrabbiava velocemente, almeno lui era veloce. Auster… bè, non altrettanto. Delle colonne di marmo bianche e rosse allineavano la sala del trono. Il ruvido pavimento di pietra arenaria fumava sotto le scarpe di Jason. Il vapore impregnava l’aria, come nelle terme del Campo Giove, con la differenza che le terme solitamente non avevano dei lampi che tuonavano sul soffitto, illuminando la stanza con flash di luce disorientante. I venti meridionali vorticavano attraverso la sala con nuvole di polvere rossa e aria bollente. Jason fu attento a rimanerli lontano. Durante il suo primo giorno lì, ne aveva accidentalmente sfiorato uno con la mano. Gli erano sputante così tante vesciche, che le due dita sembravano dei tentacoli. Alla fine della sala si trovava il trono più strano che Jason avesse mai visto – era fatto di parti uguali di fuoco e acqua. La pedana era formata da un falò. Fiamme e fumo si avvolgevano verso l’alto formando la seduta. Lo schienale della sedia era formato da una vorticante nuvola di tempesta. I braccioli sfrigolavano quando il vapore incontrava il fuoco. Non sembrava molto comoda, ma il dio Auster era seduto con aria oziosa come se fosse pronto per un tranquillo pomeriggio passato a guardare le partite di calcio. In piedi, sarebbe stato alto circa tre metri. Una corona di vapore gli avvolgeva gli irsuti capelli bianchi. La sua barba era fatta di nuvole, che esplodevano costantemente con lampi e pioggia lungo il petto del dio, inzuppandogli la toga color sabbia. Jason si chiese se si potesse rasare una barba fatta di tuoni. Pensò che poteva essere irritante, pioversi addosso in continuazione, ma ad Auster non sembrava importare. Ricordava a Jason un Babbo Natale zuppo, ma più pigro che allegro. “Allora…” La voce del dio rombò come una tempesta in arrivo. “Il figlio di Giove torna.” Auster lo fece sembrare come se Jason fosse in ritardo. Jason fu tentato di ricordare allo stupido dio del vento che aveva passato ore intere fuori dalla sala del trono, ogni giorno in attesa di essere convocato, ma si limitò a inchinarsi. “Mio signore,” disse. “Ha ricevuto qualche notizia del mio amico?” “Amico?” “Leo Valdez.” Jason cercò di rimanere paziente. “Quello che è stato portato via dai venti.” “Oh… sì. O meglio, no. Non abbiamo sentito nulla. Non è stato preso dai miei venti. Senza dubbio è stata opera di Borea o dei suoi figli.” “Uh, sì. Questo lo sapevamo.” “Quella è l’unica ragione per la quale vi ho fatti entrare, ovviamente.” Le sopracciglia di Auster si inarcarono fino alla corona di vapore. “Borea deve essere contrastato! I venti del nord devono essere spinti indietro!” “Sì, mio signore. Ma per contrastare Borea, abbiamo davvero bisogno di far uscire la nostra nave dal porto.” “Nave nel porto!” Il dio si inclinò all’indietro e ridacchiò, con la pioggia che si riversava dalla sua barba. “Sai l’ultima volta in cui delle navi mortali arrivarono nel mio porto? Un re di Libia…Psyollos era il suo nome. Diede la colpa a me per i venti caldi che gli bruciarono i raccolti. Riesci a crederci?” Jason strinse i denti. Aveva imparato che non si poteva mettere fretta ad Auster. Nella sua forma piovigginosa, era lento, caldo, e parlava a vanvera. “E lei aveva bruciato quei raccolti, mio signore?” “Certo!” Auster fece un sorriso naturale. “Ma cosa si aspettava Psyllos, piantando delle colture ai confini del Sahara? Lo sciocco inviò tutta la sua flotta contro di me. Aveva intenzione di distruggere la mia fortezza così che il vento del sud non potesse più soffiare. Io distrussi la sua flotta, ovviamente.” “Ovviamente.” Gli occhi di Auster si strinsero. “Tu non stai con Psyollos, vero?” “No, Lord Auster. “Io sono Jason Grace, figlio di –“ “Giove! Sì, certo. Mi piacciono i figli di Giove. Ma perché sei ancora nel mio porto?” Jason soffocò un sospiro. “Non abbiamo il suo permesso per partire, mio signore. Inoltre, la nostra nave è danneggiata. Abbiamo bisogno del nostro meccanico, Leo Valdez, per riparare il motore, a meno che lei non conosca un altro modo.” “Hmm.” Auster sollevò le dita e lasciò vorticare tra loro una nuvola di polvere rossa come fosse una bacchetta. “Sai, le persone mi accusano di essere incostante. Alcuni giorni sono il vento bollente, il distruttore di raccolti, lo scirocco dell’Africa! Altri giorni sono gentile, annunciatore delle calde piogge estive e delle nebbie rinfrescanti del Mediterraneo del sud. E fuori stagione, ho un palazzo adorabile a Cancun! Ad ogni modo, nei tempi antichi, i mortali mi temevano e mi amavano. Per un dio, l’imprevedibilità può essere forza.” “Allora lei è davvero forte,” disse Jason. “Grazie! Sì! Ma la stessa cosa non vale per i semidei.” Auster si sporse in avanti, abbastanza vicino che Jason poteva sentire l’odore di campi zuppi di pioggia e delle calde spiagge sabbiose. “Mi ricordi i miei figli, Jason Grace. Sei volato da un luogo a un altro. Sei indeciso. Cambi ogni giorno. Se potessi far cambiare il vento, da quale parte soffrirebbe?” Il sudore gocciolò sulla schiena di Jason. “Signore?” “Hai detto che hai bisogno di un navigatore. Hai bisogno del mio permesso. Io dico che non hai bisogno di nessuno dei due. E’ arrivato il momento che tu scelga una direzione, un vento che soffia senza scopo non serve a nessuno.” “Non… non capisco.” Persino mentre lo diceva, in realtà capiva. Nico aveva parlato del fatto che non apparteneva a nessun luogo. Almeno Nico era libero da qualsiasi legame. Lui poteva andare ovunque volesse. Per mesi, Jason aveva lottato con la decisione di dove appartenesse. Era sempre stato logorato dalle tradizioni del Campo Giove, dai giochi di potere, dalle lotte interne. Ma Reyna era una brava persona. Lei aveva bisogno del suo aiuto. Se le avesse voltato le spalle… qualcuno come Octavian avrebbe potuto prendere il controllo e rovinare tutto quello che Jason amava di Nuova Roma. Poteva essere così egoista da andarsene? La sola idea lo schiacciava dai sensi di colpa. Ma nel suo cuore, lui voleva trovarsi al Campo Mezzosangue. I mesi che aveva trascorso lì con Piper e Leo erano sembrati più soddisfacenti, più giusti di tutti i suoi anni passati al Campo Giove. Inoltre, al Campo Mezzosangue, c’era almeno una possibilità di incontrare suo padre. Gli dei si fermavano raramente al Campo Giove per salutare. Jason fece un respiro tremante. “Sì. So quale direzione voglio prendere.” “Bene! E?” “Uh, abbiamo comunque bisogno di un modo per aggiustare la nave. C’è -?” Auster alzò un dito. “Aspetti ancora di essere guidato dai signori del vento? Un figlio di Giove dovrebbe comportarsi diversamente.” Jason esitò. “Ce ne andiamo, Lord Auster. Oggi stesso.” Il dio del vento fece un grosso sorriso e allargò le braccia. “Finalmente dichiari le tue intenzioni! Allora avete il mio permesso di partire, anche se non ne avete bisogno. E come farete a salpare senza il vostro ingegnere, senza che il motore sia aggiustato?” Jason sentì i venti del sud che scattavano intorno a lui, che nitrivano in segno di sfida come fossero stalloni testardi che stavano mettendo alla prova la sua volontà. Per tutta la settimana aveva aspettato, nella speranza che Auster si decidesse ad aiutare. Per mesi si era preoccupato dei suoi obblighi nei confronti del Campo Giove, sperando che il suo cammino diventasse più chiaro. Adesso, si rese conto, doveva semplicemente prendersi quello che voleva. Lui doveva controllare i venti, non il contrario. “Lei ci aiuterà,” disse Jason. “I suoi venti possono assumere la forma di cavalli. Lei ci fornirà una squadra per trainare l’Argo II. Ci guideranno ovunque si trovi Leo.” “Meraviglioso!” Auster rise, con la barba che si illuminava di elettricità. “Adesso… saprai attuare quelle parole coraggiose? Saprai controllare quello che chiedi, o verrai fatto a pezzi?” Il dio sbatté le mani. I venti vorticarono intorno al suo trono e divennero dei cavalli. Non erano scuri e freddi come l’amico di Jason, Tempesta. I cavalli del Vento del Sud erano fatti di fuoco, sabbia, e tuoni. Quattro di loro schizzarono accanto a lui, con il loro calore che bruciava i peli delle braccia di Jason. Galopparono intorno alle colonne di marmo, sputando fiamme, nitrendo con un suono simile a un sabbiatore. Più correvano, più si facevano selvaggi. Iniziarono a lanciare occhiate verso Jason. Auster si lisciò la barba piovosa. “Sai perché i venti possono apparire sotto forma di cavalli, ragazzo mio? Di tanto in tanto, le divinità del vento viaggiano sulla terra sotto forma equina. A volte siamo stati conosciuti come i generatori dei cavalli più veloci del mondo.” “Grazie,” borbottò Jason, anche se stava sbattendo i denti dalla paura. “Troppe informazioni.” Uno dei venti corse verso Jason. Lui si abbassò, con i vestiti fumanti dallo scontro appena evitato. “A volte,” continuò Auster allegramente, “i mortali riconoscono il nostro sangue divino. Dicono, Quel cavallo corre come il vento. E c’è una buona ragione. Come gli stalloni più veloci, anche i venti sono nostri figli!” I cavalli di vento iniziarono a circondare Jason. “Come il mio amico Tempesta,” tentò. “Oh, bè…” Auster si accigliò. “Temo che quello sia un figlio di Borea. Come hai fatto ad addestrarlo, non lo capirò mai. Questi sono miei figli, una pregiata squadra di venti meridionali. Controllali, Jason Grace, e loro traineranno la vostra nave fuori dal porto.” Controllarli, pensò Jason. Sì, certo. Questi correvano avanti e indietro, creando confusione. Come il loro padrone, il Vento del Sud, anche loro erano contesi – per metà caldo, secco scirocco, per metà vento tempestoso. Ho bisogno di velocità, pensò Jason. Ho bisogno di uno scopo. Visualizzò nella sua testa Notus, la versione greca del Vento del Sud – incandescente, ma molto veloce. In quel momento, lui scelse i greci. Si mise dalla parte del Campo Mezzosangue – e i cavalli mutarono. Le nuvole tempestose all’interno della stanza bruciarono, lasciando solo la polvere rossa e il calore brillante, come un miraggio del Sahara. “Ben fatto,” disse il dio. Sul trono adesso si trovava Notus – un anziano uomo dalla pelle di bronzo con un ardente chitone greco, la testa incoronata da un anello di fumante orzo secco. “Cosa stai aspettando?” lo spronò il dio. Jason si voltò verso i fiammeggianti destrieri. Improvvisamente non ne ebbe più paura. Tese il braccio davanti a sé. Un turbinio di polvere scattò verso il cavallo più vicino. Un lasso – una corda fatta di vento, più densa e stretta di qualsiasi tornado – si avvolse intorno al collo del cavallo. Il vento creò una briglia e bloccò l’animale. Jason invocò un’altra corda di vento. Legò un secondo cavallo, imbrigliandolo secondo la sua volontà. In meno di un minuto, aveva legato tutti e quattro i venti. Tirò le redini, mentre questi continuavano ad agitarsi e a nitrire, ma non erano in grado di spezzare le corde di Jason. Sembrava come se stesse facendo volare quattro aquiloni in un vento forte – difficile, sì, ma non impossibile. “Molto bene, Jason Grace,” disse Notus. “Sei un figlio di Giove, e tuttavia hai scelto il tuo cammino – come hanno fatto prima di te tutti i semidei più grandi. Non puoi controllare la tua discendenza, ma puoi scegliere la tua eredità. Adesso, vai. Lega i cavalli alla prua e indirizzarli verso Malta. “Malta?” Jason cercò di concentrarsi, ma il calore dei cavalli gli stava rendendo la testa leggera. Non sapeva nulla di Malta, eccetto qualche vago racconto su un falcone Maltese. Era il luogo dove era stato inventato il malto? “Quando arriverai nella città di Valletta,” disse Notus, “non avrai più bisogno di questi cavalli.” “Vuoi dire… lì troveremo Leo?” Il dio brillò, dissolvendosi lentamente in onde di calore. “Il tuo destino si fa più chiaro, Jason Grace. Quando la scelta arriverà di nuovo – fuoco o tempesta – ricordati di me. E non disperare.” Le porte della sala del trono si spalancarono. I cavalli, avvertendo la libertà, si lanciarono verso l’uscita. 59 JASON A sedici anni, la maggior parte dei ragazzi si stresserebbe con i parcheggi in fila, l’esame per la patente, e potersi permettere una macchina. Jason si stressava per controllare una squadra di cavalli di fiamme con redini di vento. Dopo essersi assicurato che i suoi amici fossero a bordo e al sicuro sottocoperta, legò i venti alla prua dell’Argo II (cosa della quale Festus non fu contento), si mise a cavallo della polena, e gridò, “Yihia!” I venti scattarono sulle onde. Non erano veloci come il cavallo di Hazel, Arion, ma avevano molto più calore. Sollevavano una scia di vapore che rendeva a Jason quasi impossibile vedere dove stavano andando. La nave fu sparata fuori dalla baia. In pochissimo tempo l’Africa fu solo una confusa linea sull’orizzonte alle loro spalle. Mantenere le redini di vento richiese tutta la concentrazione di Jason. I cavalli tiravano per liberarsi. Solo la sua forza di volontà li mantenne in riga. Malta, ordinò. Dritti verso Malta. Quando la terra apparve finalmente in lontananza – un’isola collinosa ricoperta da bassi edifici di pietra – Jason era zuppo di sudore. Si sentiva le braccia di gomma, come se avesse tenuto un bilanciere alzato davanti a lui per tutto quel tempo. Sperava che avessero raggiunto il luogo giusto, perché non riusciva più a tenere i cavalli sotto controllo. Lasciò andare le redini di vento. I venti si dispersero sotto forma di particelle di sabbia e vapore. Esausto, Jason scese dalla prua. Si appoggiò contro il collo di Festus. Il drago si voltò e gli appoggiò il mento sulla schiena, come in un abbraccio. “Grazie, amico,” disse Jason. “Giornata dura, huh?” Dietro di loro, le assi del ponte scricchiolarono. “Jason?” esclamò Piper. “Oh, dei, le tue braccia…” Non l’aveva notato, ma la sua pelle era punteggiata da vesciche. Piper scartò un quadrato di ambrosia. “Mangialo.” Lui lo masticò. La sua bocca si caricò del sapore dei brownie freschi – il suo dolce preferito dalle pasticcerie di Nuova Roma. Le vesciche sulle braccia svanirono. Sentì le forze ritornare, ma l’ambrosia al brownie aveva un sapore più amaro del solito, come se in qualche modo sapesse che Jason stava voltando le spalle al Campo Giove. Quello non era più il sapore di casa. “Grazie, Pipes,” mormorò. “Per quanto -?” “Circa sei ore.” Wow, pensò Jason. Non c’è da stupirsi che mi senta affamato e indolenzito. “Gli altri?” “Stanno tutti bene. Sono stanchi di essere rinchiusi di sotto. Devo dire loro che possono salire sul ponte?” Jason si passò la lingua sulle labbra secche. Nonostante l’ambrosia, si sentiva scosso. Non voleva che gli altri lo vedessero in quello stato. “Dammi un secondo,” disse. “… riprendo fiato.” Piper si appoggiò accanto a lui. Con la sua canottiera verde, i pantaloncini beige, e gli scarponcini, sembrava pronta per scalare una montagna – e poi combattere un esercito sulla sua cima. Il suo pugnale era legato alla cintura. Aveva la cornucopia fissata su una spalla. Aveva iniziato a indossare la spada di bronzo seghettata che aveva preso da Zete, che era solo leggermente meno intimidatoria di una mitragliatrice d’assalto. Durante il periodo che avevano passato al palazzo di Auster, Jason aveva guardato Piper e Hazel passare ore intere a fare pratica con la spada – qualcosa in cui Piper non era mai stata interessata prima. Fin dal suo incontro con Chione, Piper sembrava più all’erta, tesa come una catapulta caricata, come se fosse decisa a non essere colta mai più alla sprovvista. Jason capiva quella sensazione, ma era preoccupato che fosse troppo dura con se stessa. Nessuno poteva essere costantemente pronto per qualsiasi cosa. Lui avrebbe dovuto saperlo. Aveva passato la loro ultima battaglia come un tappeto congelato. Doveva essersi fissato a guardarla, perché lei gli rivolse un sorriso furbo. “Hey, sto bene. Noi stiamo bene.” Si mise in punta di piedi e lo baciò, cosa che gli diede la stessa bella sensazione dell’ambrosia. I suoi occhi erano chiazzati da così tanti colori che Jason avrebbe potuto fissarli tutto il giorno, studiando i disegni mutevoli, nello stesso modo in cui le persone ammiravano l’aurora boreale. “Sono fortunato ad averti,” le disse. “Sì, lo sei.” Lei gli diede un pugno gentile sul petto. “Adesso, come portiamo questa nave fino ai moli?” Jason guardò accigliato l’acqua. Si trovavano ancora a un chilometro di distanza dall’isola. Non aveva idea se sarebbero riusciti a far funzionare il motore, o le vele… Fortunatamente, Festus era in ascolto. Si voltò in avanti e sputò una fiammata di fuoco. Il motore della nave ronzò e sferragliò. Suonava come un’enorme bicicletta con la catena staccata – ma la nave scattò in avanti. Lentamente, l’Argo II si diresse verso la riva. “Bravo drago.” Piper accarezzò il collo di Festus. Gli occhi di rubino del drago brillarono come se fosse soddisfatto di se stesso. “Sembra diverso da quando l’hai svegliato,” disse Jason. “Più… vivo.” “Come dovrebbe essere.” Piper sorrise. “Immagino che di tanto in tanto abbiamo tutti bisogno di una chiamata da qualcuno che ci ama.” Lì accanto a lei, Jason si sentiva così bene, che poteva quasi immaginarsi il loro futuro insieme al Campo Mezzosangue, quando la guerra fosse finita – presumendo che sarebbero sopravvissuti, presumendo che ci sarebbe ancora stato un campo al quale fare ritorno. Quando la scelta arriverà di nuovo, aveva detto Notus, fuoco o tempesta – ricordati di me. E non disperare. Più si avvicinavano alla Grecia, più terrore si sedimentava nel petto di Jason. Stava iniziando a credere che Piper avesse ragione sul verso del fuoco e della tempesta della profezia – uno di loro, Jason o Leo, non sarebbe tornato vivo da quel viaggio. Il che era il motivo per il quale dovevano trovare Leo. Per quanto Jason amasse la sua vita, non poteva permettere che il suo amico morisse al suo posto. Non sarebbe mai potuto sopravvivere con quel senso di colpa. Ovviamente sperava che si stesse sbagliando. Sperava che entrambi sopravvivessero a quell’impresa. Ma se non fosse stato così, Jason doveva essere pronto. Avrebbe protetto i suoi amici e fermato Gea – a qualunque costo. Non disperare. Già. Facile da dire per un dio del vento immortale. Mentre l’isola si faceva più vicina, Jason vide i pontili affollati di vele. Dalla costa rocciosa spuntavano delle dighe marittime simili a fortezze – alte quindici o venti metri. Sopra le pareti si distendeva una città dall’aspetto medievale fatta di guglie di chiese, cupole, ed edifici incastrati uno accanto all’altro, tutti fatti della stessa pietra dorata. Da dove si trovava Jason, sembrava che la città ricoprisse ogni centimetro dell’isola. Studiò le barche nel porto. A cento metri di distanza, legata all’estremità della banchina più lunga, c’era una zattera di fortuna dotata di un semplice albero e una vela quadrata di tela. Sulla parte posteriore, il timone era collegato a una specie di macchinario. Persino da quella distanza, Jason poteva vedere il luccichio del bronzo Celeste. Fece un grosso sorriso. Solo un semidio avrebbe fatto una barca del genere, e l’aveva parcheggiata più a largo possibile, dove l’Argo II non avrebbe potuto non vederla. “Vai a chiamare gli altri,” disse Jason a Piper. “Leo è qui.” 60 JASON Trovarono Leo sulla cima delle mura della città. Era seduto in un bar all’aperto, affacciato sul mare, bevendo una tazza di caffè e con addosso… wow. Viaggio nel tempo. I vestiti di Leo erano identici a quelli che aveva indossato il giorno in cui erano arrivati per la prima volta al Campo Mezzosangue – jeans, maglietta bianca, e un vecchio giacchetto militare. Solo che quel giacchetto era bruciato mesi prima. Piper lo fece quasi cadere dalla sedia con un abbraccio. “Leo! Dei, dove sei stato?” “Valdez!” Il Coach Hedge sorrise. Poi sembrò ricordarsi che aveva una reputazione da mantenere e si obbligò ad imbronciarsi. “Se scompari di nuovo in questo modo, piccolo teppistello, ti farò svenire per un mese!” Frank diede delle pacche così forti sulle spalle di Leo che lo fece sussultare. Persino Nico gli strinse la mano. Hazel baciò Leo sulla guancia. “Pensavamo che fossi morto!” Leo abbozzò un debole sorriso. “Hey, ragazzi. Nah, nah, sto bene.” Jason poteva capire che non stava bene. Leo non voleva incontrare i loro sguardi. Le sue mani erano perfettamente immobili sul tavolo. Le mani di Leo non stavano mai ferme. Tutta la sua energia nervosa si era prosciugata, rimpiazzata da una certa tristezza malinconica. Jason si chiese perché la sua espressione gli sembrasse familiare. Poi si rese conto che Nico di Angelo aveva avuto lo stesso aspetto dopo aver affrontato Cupido tra le rovine di Salona. Leo aveva il cuore spezzato. Mentre gli altri prendevano delle sedie dai tavoli accanto, Jason si avvicinò a lui e gli strinse la spalla. “Hey, amico,” disse, “cosa è successo?” Gli occhi di Leo si posarono sul gruppo. Il messaggio era chiaro: Non qui. Non davanti a tutti. “Sono stato abbandonato,” disse Leo. “Lunga storia. Che mi dite di voi? Cosa è successo con Chione?” Coach Hedge fece un verso di scherno. “Cosa è successo? Piper è successa! Te lo dico io, questa ragazza ha talento!” “Coach…” protestò Piper. Hedge iniziò a raccontare la storia, ma nella sua versione Piper era un’assassina kung fu e c’erano molti più Boreadi. Mentre il coach parlava, Jason studiò Leo preoccupato. Quel bar aveva una vista perfetta sul porto. Leo doveva aver visto l’Argo II che si avvicinava, tuttavia era rimasto lì a bere caffè – che non gli piacevanemmeno – aspettando che fossero loro a trovarlo. Quello non era affatto da Leo. La nave era la cosa più importante della sua vita. Quando l’aveva vista avvicinarsi, Leo avrebbe dovuto correre sulla banchina, esultando con tutta l’aria che aveva nei polmoni. Il Coach Hedge stava descrivendo come Piper avesse sconfitto Chione con un calcio rotante quando Piper lo interruppe. “Coach!” disse. “Non è andata affatto così. Non avrei potuto fare nulla senza Festus.” Leo inarcò le sopracciglia. “Ma Festus era disattivato.” “Um, riguardo quello,” disse Piper. “Diciamo che l’ho svegliato.” Piper raccontò la sua versione degli eventi – come aveva riattivato il drago di metallo con la lingua ammaliatrice. Leo picchiettò le dita sul tavolo, come se un po’ della sua vecchia energia stesse facendo ritorno. “Non dovrebbe essere possibile,” mormorò. “A meno che i potenziamenti non gli abbiano permesso di rispondere ai comandi vocali. Ma se è permanentemente attivo, questo vuol dire che il sistema di navigazione e il cristallo…” “Cristallo?” chiese Jason. Leo sussultò. “Um, niente. Ad ogni modo, cosa è successo dopo che è esplosa la bomba di vento?” A quel punto Hazel prese le redini della storia. Una cameriera si avvicinò al loro tavolo e diede loro i menu. In pochissimo tempo si ritrovarono a masticare dei panini e a bere coca cola, godendosi la giornata soleggiata quasi come un gruppo di normali adolescenti. Frank afferrò una brochure per turisti incastrata sotto il portatovaglioli. Iniziò a leggerla. Piper dava delle pacche gentili sul braccio di Leo, come se non riuscisse a credere che fosse davvero là. Nico si trovava al margine del gruppo, guardando i pedoni che passavano accanto a loro come se potessero essere nemici. Il Coach Hedge sgranocchiava la saliera e la pepiera. Nonostante il felice incontro, sembravano tutti più abbattuti del solito – come se fossero tutti influenzati dall’umore di Leo. Jason non aveva mai davvero pensato a quanto fosse importante per il gruppo il senso dell’umorismo di Leo. Persino quando le cose erano estremamente serie, potevano sempre contare su Leo per alleggerire la situazione. Adesso, sembrava come se l’intera squadra avesse gettato l’ancora. “Poi Jason ha imbrigliato i venti,” concluse Hazel. “Ed eccoci qui.” Leo fischiò. “Cavalli fatti di aria calda? Accidenti, Jason. Quindi, per riassumere, hai trattenuto del gas fino a Malta, e poi l’hai lasciato andare.” Jason si accigliò. “Sai, non suona così eroico descritto in questo modo.” “Sì, bè. Io sono un esperto di aria calda. Mi sto ancora chiedendo, perché Malta? Io sono finito qui su una zattera, ma si è trattato di una cosa casuale, oppure –“ “Forse è per questo.” Frank indicò la sua brochure. “Qui dice che Malta era dove viveva Calypso.” Il sangue abbandonò il volto di Leo. “C-cosa?” Frank scrollò le spalle. “Secondo questo, la sua casa originaria era un’isola chiamata Gozo, appena a nord da qui. Calypso è un mito greco, vero?” “Ah, un mito greco!” Il Coach Hedge si sfregò le mani. “Forse la combatteremo! Possiamo combatterla? Perché io sono pronto.” “No,” mormorò Leo. “No, non dobbiamo combatterla, Coach.” Piper si accigliò. “Leo, c’è qualcosa che non va? Sembri –“ “Non c’è nulla che non va!” Leo scattò in piedi. “Hey, dovremmo andare. Abbiamo del lavoro da sbrigare!” “Ma… tu dove sei stato?” chiese Hazel. “Dove hai preso quei vestiti? Come –“ “Cavoli, ragazze!” disse Leo. “Apprezzo l’interesse, ma non ho bisogno di due mamme extra!” Piper fece un sorriso incerto. “Okay, ma –“ “C’è una nave da aggiustare!” disse Leo. “Festus da controllare! Una dea della terra da colpire in faccia! Cosa stiamo aspettando? Leo è tornato!” Allargò le braccia e sogghignò. Stava facendo un coraggioso tentativo, ma Jason poteva vedere la tristezza che persisteva nei suoi occhi. Gli era accaduto qualcosa… qualcosa che aveva a che fare con Calypso. Jason cercò di ricordarsi la sua storia. Era una specie di maga, forse come Circe o Medea. Ma se Leo era fuggito dal covo di una strega malvagia, perché sembrava così triste? Jason avrebbe dovuto parlare con lui più tardi, assicurarsi che il suo amico stesse bene. Per il momento, Leo non voleva chiaramente essere interrogato. Jason si alzò e gli diede una pacca sulla spalla. “Leo ha ragione. Dovremmo andare.” Seguirono tutti il suo consiglio. Iniziarono ad avvolgere il cibo e a finire le bibite. Improvvisamente, Hazel boccheggiò. “Ragazzi…” Indicò l’orizzonte in direzione nordest. All’inizio, Jason non vide nulla eccetto il mare. Poi un raggio scuro apparve improvvisamente nel cielo come un lampo nero – come se la notte pura si stesse facendo strada nel giorno. “Non vedo nulla,” brontolò il Coach Hedge. “Neanche io,” disse Piper. Jason studiò i volti dei suoi amici. La maggior parte di loro sembrava semplicemente confusa. Nico sembrava essere l’unica altra persona ad aver notato il lampo nero. “Non può essere…” borbottò Nico. “La Grecia è ancora a centinaia di chilometri di distanza.” L’oscurità lampeggiò di nuovo, dissolvendo momentaneamente i colori dell’orizzonte. “Credi che sia Epiro?” Tutto lo scheletro di Jason formicolò, come si sentiva quando veniva colpito da un migliaio di volt. Non sapeva perché lui potesse vedere i lampi scuri. Non era un figlio dell’Oltretomba. Ma la cosa gli dava una sensazione davvero brutta. Nico annuì. “La Casa di Ade è aperta.” Qualche secondo più tardi, un suono rombante si riversò su di loro come il rumore di artiglieria distante. “E’ iniziata,” disse Hazel. “Cosa?” chiese Leo. Quando apparve il lampo successivo, gli occhi dorati di Hazel si scurirono come carta stagnola sul fuoco. “La spinta finale di Gea,” disse. “Le Porte della Morte stanno facendo gli straordinari. Le sue forze stanno entrando nel mondo mortale in massa.” “Non ce la faremo mai,” disse Nico. “Quando arriveremo, ci saranno troppi mostri da combattere.” Jason serrò la mascella. “Li sconfiggeremo. E ci arriveremo in fretta. Abbiamo di nuovo Leo. Lui ci darà la velocità che ci serve.” Si voltò verso il suo amico. “O si tratta solo di aria calda?” Leo abbozzò un sorriso storto. I suoi occhi sembravano dire: Grazie. “E’ tempo di volare, ragazzi e ragazze,” disse. “Zio Leo ha ancora qualche trucco nella manica!” 61 PERCY Percy non era ancora morto, ma era già stufo di essere un cadavere. Mentre si trascinavano attraverso il cuore di Tartaro, continuava ad abbassare lo sguardo sul suo corpo, chiedendosi come potesse appartenere a lui. Le sue braccia sembravano fatte di pelle sbiancata infilata dentro dei bastoncini. Le sue gambe di scheletro sembravano dissolversi in fumo ad ogni passo. Aveva imparato a muoversi normalmente nella Foschia di Morte, più o meno, ma il velo magico lo faceva ancora sentire come se fosse avvolto da un mantello di elio. Temeva che la Foschia di Morte potesse aderirli per sempre, anche se fossero riusciti in qualche modo a sopravvivere al Tartaro. Non voleva passare il resto della sua vita con l’aspetto di una comparsa di The Walking Dead. Percy cercò di concentrarsi su qualcos’altro, ma non c’era nessuna direzione sicura in cui guardare. Sotto i suoi piedi, il terreno brillava di un viola nauseante, pulsante con ragnatele di vene. Nella fioca luce rossa delle nuvole di sangue, l’Annabeth avvolta dalla Foschia di Morte sembrava uno zombie appena riesumato. Davanti a loro c’era la vista più deprimente di tutte. Distesa fino all’orizzonte si estendeva un esercito di mostri – stormi di arai alate, tribù di Ciclopi, gruppi di fluttuanti spiriti malvagi. Migliaia di cattivi, forse decine di migliaia, che si agitavano e si spingevano a vicenda, ringhiando e lottando per avere più spazio – come il corridoio di una scuola sovraffollata durante l’intervallo, se tutti gli studenti fossero stati violenti mutanti sotto steroidi con un odore davvero cattivo. Bob li guidò verso il margine dell’esercito. Non fece nessun tentativo di nascondersi, non che sarebbe servito a qualcosa. Essendo alto tre metri e avendo dei brillanti capelli argentati, Bob non era molto furtivo. A circa trenta metri dai mostri più vicini, Bob si voltò verso Percy. “Rimanete in silenzio dietro di me,” avvisò. “Non vi noteranno.” “Lo speriamo,” borbottò Percy. Sulla spalla del Titano, Piccolo Bob si svegliò dal suo sonnellino. Fece delle fusa simili a un terremoto e inarcò la schiena, diventando uno scheletro e poi tornando ad essere un gatto a macchie. Almeno lui non sembrava essere nervoso. Annabeth si esaminò le mani da zombie. “Bob, se siamo invisibili… come mai tu puoi vederci? Voglio dire, tecnicamente tu sei, lo sai…” “Sì,” disse Bob. “Ma noi siamo amici” “Nyx e i suoi figli potevano vederci,” disse Annabeth. Bob scrollò le spalle. “Quello era nel regno di Nyx. Questo è diverso.” “Uh… d’accordo.” Annabeth non suonava rassicurata, ma ormai si trovavano lì. Non avevano nessun’altra scelta se non quella di provare. Percy fissò la folla di mostri malvagi. “Bè, almeno non dobbiamo preoccuparci di incontrare altri amici in questa folla.” Bob sogghignò. “Sì, questa è una buona cosa! Adesso, andiamo. La Morte è vicina.” “Le Porte della Morte sono vicine,” lo corresse Annabeth. “Stiamo attenti alle parole.” Si spinsero all’interno della folla. Percy tremava così tanto, che aveva paura che si sarebbe scrollato di dosso la Foschia di Morte. Aveva già visto grossi gruppi di mostri in passato. Ne aveva combattuto un esercito durante la Battaglia di Manhattan. Ma quello era diverso. Ogni volta che combatteva contro un mostro nel mondo mortale, Percy almeno sapeva che stava difendendo la sua casa. Quello gli dava coraggio, non importava quanto fossero scarse le sue possibilità. Lì, l’invasore eraPercy. Non faceva parte di quella moltitudine di mostri più di quanto il Minotauro facesse parte della Stazione di New York durante l’ora di punta. A qualche metro di distanza, un gruppo di empousai faceva a pezzi la carcassa di un grifone mentre altri grifoni le volavano intorno, strillando oltraggiati. Un Figlio della Terra a sei braccia e un orco Lestrigone erano intrecciati tra di loro con delle rocce in mano, tuttavia Percy non capì se stessero combattendo o semplicemente divertendosi. Uno sbuffo di fumo nero – Percy pensò che dovesse trattarsi di un eidolon – si infiltrò in un Ciclope, obbligando il mostro a colpirsi in faccia da solo, poi volò via per andare a possedere un’altra vittima. Annabeth sussurrò, “Percy, guarda.” A pochi metri di distanza, un tipo vestito da cowboy stava usando la sua frusta contro dei cavalli sputa fuoco. Il ragazzo violento indossava un capello da cowboy sopra unti capelli grigi, un paio di jeans extralarge, e un paio di stivali di pelle nera. Di lato, sarebbe potuto passare per umano – fino a che non si girò, e Percy vide che la parte superiore del suo corpo si divideva in tre petti diversi, ognuno vestito con una maglietta da cowboy di colore diverso. Era senza dubbio Gerione, che aveva cercato di uccidere Percy due anni prima in Texas. Apparentemente il rancher malvagio era ansioso di iniziare una nuova mandria. L’idea che quel tipo potesse uscire dalle Porte della Morte fece riprovare a Percy tutto il dolore che aveva avuto ai fianchi. Le sue costole pulsarono nel punto in cui le arai avevano rilasciato la maledizione di Gerione nella foresta. Voleva marciare fino al rancher dai tre corpi, dargli un pugno in faccia e urlargli, Grazie tante, Tex! Purtroppo, non poteva. Quanti altri antichi nemici si trovavano in quella folla? Percy iniziò a rendersi conto del fatto che ogni battaglia che avesse mai vinto era stata solo una vittoria temporanea. Non importava quanto fosse forte o fortunato, non importava quanti mostri distruggeva, alla fine Percy avrebbe fallito. Lui era solo un mortale. Sarebbe diventato troppo anziano, troppo debole, o troppo lento. Sarebbe morto. Mentre quei mostri… loro esistevano per sempre. Tornavano in continuazione. Magari ci sarebbero voluti mesi o anni prima che si riformassero, forse persino secoli. Ma alla fine sarebbero rinati. Vedendoli assemblati nel Tartaro, Percy si sentì disperato come gli spiriti del Fiume Cocito. Che importava che lui fosse un eroe? Che importava se faceva qualcosa di coraggioso? Il male era sempre lì, pronto a rigenerarsi, a ribollire sotto la superficie. Percy non era altro che un piccolo fastidio per quegli esseri immortali. Dovevano solo aspettare che lui morisse. Un giorno, i figli di Percy avrebbero potuto doverli affrontare daccapo. Figli. Il pensiero lo colpì all’improvviso. Veloce come l’aveva sopraffatto all’inizio, la sua disperazione scomparve. Lanciò uno sguardo verso Annabeth. Aveva ancora l’aspetto di un cadavere di nebbia, ma lui immaginò il suo vero aspetto – gli occhi grigi pieni di determinazione, i capelli biondi legati indietro, il volto stanco e ricoperto di sporcizia, ma bello come sempre. Okay, magari i mostri continuavano a tornare per sempre. Ma così facevano anche i semidei. Generazione dopo generazione, il Campo Mezzosangue aveva resistito. E così aveva fatto il Campo Giove. Persino divisi, i due campi erano sopravvissuti. Adesso, se i greci e i romani fossero riusciti a unirsi, sarebbero stati persino più forti. C’era ancora speranza. Lui e Annabeth erano arrivati fin lì. Avevano quasi raggiunto le Porte della Morte. Figli. Un’idea ridicola. Una fantastica idea. Proprio nel bel mezzo del Tartaro, Percy fece un grosso sorriso. “Cosa c’è che non va?” sussurrò Annabeth. Con il suo camuffamento da zombie, probabilmente sembrava che stesse storcendo la bocca dal dolore. “Niente,” disse. “Stavo solo –“ Da qualche parte davanti a loro, una voce profonda ruggì: “GIAPETO!” 62 PERCY Un Titano galoppò verso di loro, prendendo a calci i mostri più piccoli che si trovavano sulla sua strada con noncuranza. Era più o meno della stessa altezza di Bob, con un’elaborata armatura di ferro di Stige, un singolo diamante che brillava al centro della sua corazza. I suoi occhi erano blu-bianco, come dei pezzi di un ghiacciaio, e altrettanto freddi. Aveva i capelli dello stesso colore, con un taglio alla militare. Un elmo da battaglia a forma di testa di orso era stretto sotto il suo braccio. Alla sua cintura era appesa una spada grande come una tavola da surf. Nonostante le sue cicatrici da battaglia, il volto del Titano era bello e stranamente familiare. Percy era abbastanza sicuro di non averlo mai visto prima, ma i suoi occhi e il suo sorriso ricordavano a Percy qualcuno… Il Titano si fermò davanti a Bob. Gli diede una pacca sulla spalla. “Giapeto! Non dirmi che non riconosci il tuo stesso fratello!” “No!” annuì Bob nervoso. “Non te lo dirò.” L’altro Titano gettò la testa all’indietro e rise. “Ho sentito che sei stato gettato nel Lete. Deve essere stato terribile! Sapevano tutti che alla fine saresti guarito. Sono Ceo! Ceo!” “Certo,” disse Bob. “Ceo, il Titano del…” “Del Nord!” disse Ceo. “Lo sapevo!” gridò Bob. Risero insieme e fecero a turni per darsi dei pugni sulle braccia. Apparentemente irritato da tutto il trambusto, Piccolo Bob si arrampicò sulla testa di Bob e iniziò a farsi un nido tra i capelli argentati del Titano. “Povero vecchio Giapeto,” disse Ceo. “Devono averti relegato davvero in basso. Guardati! Una scopa? Un’informe da servo? Un gatto tra i capelli? Dico davvero, Ade deve pagare per questi insulti. Chi era quel semidio che ti ha preso la memoria? Bah! Dobbiamo farlo a pezzi, io e te, eh?” “Ha-ha.” Bob deglutì. “Sì, infatti. Farlo a pezzi.” Le dita di Percy si chiusero intorno alla sua penna. Non aveva un’alta opinione del fratello di Bob, anche senza la minaccia del farlo – a – pezzi. Paragonato al semplice modo di parlare di Bob, Ceo sembrava che stesse recitando Shakespeare. E solo quello bastava per irritare Percy. Era pronto a levare il tappo a Vortice se avesse dovuto, ma per adesso Ceo non sembrava notarlo, e Bob non li aveva ancora traditi, anche se aveva avuto un sacco di opportunità. “Ah, è bello rivederti…” Ceo picchiettò le dita contro il suo elmo a forma di testa di orso. “Ti ricordi come ci divertivamo ai vecchi tempi?” “Certo!” trillò Bob. “Quando abbiamo, uh…” “Abbiamo tenuto a terra nostro padre Urano,” disse Ceo. “Sì! Adoravamo lottare con Papà…” “L’abbiamo bloccato.” “Era quello che volevo dire!” “Mentre Crono lo faceva a pezzi con la sua falce.” “Sì, ha-ha.” Bob appariva leggermente nauseato. “Che divertimento.” “Tu afferrasti il piede desto di nostro Padre, se ricordo bene,” disse Ceo. “E Urano ti diede un calcio sulla faccia mentre si dibatteva. Come ti prendevamo in giro per quello!” “Che sciocco che ero stato,” annuì Bob. “Purtroppo, nostro fratello Crono è stato distrutto da quegli impudenti di semidei.” Ceo sospirò. “Ci sono ancora piccole parti della sua essenza, ma niente che possa essere rimesso insieme. Immagino che alcune ferite non possano essere guarite nemmeno dal Tartaro.” “Che peccato!” “Ma noi altri abbiamo un’altra possibilità di brillare, eh?” Si piegò in avanti con fare cospiratorio. “Questi giganti possono credere che governeranno. Lascia che siano le nostre truppe di assalto e che distruggano l’Olimpo – ben vengano. Ma quando Madre Terra si sveglierà, lei si ricorderà che noi siamo i suoi figli più antichi. Ricorda le mie parole. I Titani alla fine domineranno il cosmo.” “Hmm,” disse Bob. “Ai giganti la cosa potrebbe non piacere.” “Al diavolo quello che piace a loro,” disse Ceo. “Sono già comunque passati attraverso le Porte della Morte, tornati nel mondo mortale. Polibote è stato l’ultimo, nemmeno mezz’ora fa, mentre ancora brontolava per aver perso la sua preda. A quanto pare qualche semidio che stava inseguendo è stato inghiottito da Nyx.Quelli non li rivedremo più, ci scommetto!” Annabeth afferrò il polso di Percy. Attraverso la Foschia di Morte, non riusciva a leggere molto bene la sua espressione, ma vide l’allarme che aveva negli occhi. Se i giganti erano già passati attraverso le Porte, allora almeno non si sarebbero trovati nel Tartaro in cerca di Percy e Annabeth. Sfortunatamente, ciò voleva anche dire che i loro amici nel mondo mortale si trovavano in un pericolo ancora maggiore. Tutte le lotte che avevano affrontato con i giganti erano state vane. I loro nemici sarebbero rinati forti come prima. “Bene!” Ceo sguainò l’enorme spada. La lama irradiava un freddo più profondo di quello del Ghiacciaio Hubbard. “Devo andare. Leto dovrebbe essersi rigenerata ormai. La convincerò a combattere.” “Certo,” mormorò Bob. “Leto.” Ceo rise. “Hai dimenticato anche mia figlia? Suppongo che sia passato troppo tempo dall’ultima volta che l’hai vista. Quelle pacifiche come lei impiegano sempre più tempo per rigenerarsi. Questa volta, però, sono certo che Leto combatterà per la vendetta. Il modo in cui la trattò Zeus, dopo che lei gli diede quei bei gemelli? Oltraggioso!” Per poco Percy non grugnì ad alta voce. I gemelli. Si ricordava il nome Leto: la madre di Apollo e Artemide. Quel Ceo aveva un aspetto vagamente familiare perché aveva gli occhi freddi di Artemide e il sorriso di Apollo. Il Titano era il loro nonno, il padre di Leto. L’idea gli fece venire il mal di testa. “Bene! Ci vediamo nel mondo mortale!” Ceo diede un pugno sul petto di Bob, facendo quasi cadere il gatto dalla sua testa. “Oh, e i nostri altri due fratelli sono di guardia alle Porte, quindi li vedrai presto!” “Li vedrò?” “Contaci!” Ceo si allontanò con passo pesante, quasi schiacciando Percy e Annaeth prima che loro due potessero scansarsi. Prima che la folla di mostri riempisse lo spazio vuoto, Percy fece segno a Bob di avvicinarsi. “Stai bene, ragazzone?” sussurrò Percy. Bob si accigliò. “Non lo so. In tutto questo” – fece un gesto intorno a lui – “che vuol dire stare bene?” Giusta osservazione, pensò Percy. Annabeth si sporse per guardare verso le Porte della Morte, anche se la folla di mostri le bloccava alla vista. “Ho sentito bene? Ci sono altri due Titani di guardia alla nostra uscita? Non va bene.” Percy guardò Bob. L’espressione distante del Titano lo preoccupava. “Ti ricordi di Ceo?” chiese gentilmente. “Tutte quelle cose di cui stava parlando?” Bob strinse la sua scopa. “Quando le ha dette, me le sono ricordate. Mi ha dato il mio passato come… come una lancia. Ma non so se dovrei prenderla. È ancora mio, se non lo voglio?” “No,” disse Annabeth con decisione. “Bob, sei diverso adesso. Sei migliore.” Il gatto saltò giù dalla testa di Bob. Girò intorno ai piedi del Titano, spingendo la testa contro i risvolti dei suoi pantaloni. Bob non sembrò accorgersene. Percy desiderò poter avere la stessa sicurezza di Annabeth. Desiderò poter dire a Bob con certezza assoluta di dimenticarsi del suo passato. Ma Percy capiva la confusione di Bob. Si ricordava del giorno in cui aveva aperto gli occhi nella Casa del Lupo in California, con la memoria ripulita da Era. Se qualcuno fosse stato lì per Percy quando si era svegliato, se l’avessero convinto che il suo nome era Bob, e che era un amico dei Titani e dei giganti… Percy ci avrebbe creduto? Si sarebbe sentito tradito quando avesse scoperto della sua vera identità? Questo è diverso, si disse. Noi siamo buoni. Ma lo erano davvero? Percy aveva lasciato Bob nel palazzo di Ade, alla mercé di un nuovo padrone che lo detestava. Percy non sentiva di avere qualche diritto nel dire a Bob cosa fare adesso – anche se le loro vite dipendevano da lui. “Credo che tu possa scegliere, Bob,” tentò Percy. “Prendi le parti del passato di Giapeto che vuoi tenere. Lascia il resto. E’ il tuo futuro che conta.” “Futuro…” disse Bob pensieroso. “Questo è un concetto mortale. Io non sono pensato per cambiare, Amico Percy.” Si guardò intorno, verso l’orda di mostri. “Noi rimaniamo gli stessi… per sempre.” “Se tu fossi stato lo stesso,” disse Percy, “io e Annabeth saremmo già morti. Forse non dovevamo essere amici, ma lo siamo. Sei stato il migliore amico che avrei mai potuto volere.” Gli occhi argentati di Bob apparivano più scuri del solito. Tese la sua mano, e Piccolo Bob ci saltò sopra. Il Titano si alzò in piedi. “Allora, andiamo, amici. Non manca molto.” Camminare sul cuore di Tartaro non era neanche lontanamente tanto divertente quanto suonava. Il terreno violaceo era scivoloso e pulsava costantemente. Sembrava piano visto in lontananza, ma da vicino era fatto di creste e cavità che si facevano sempre più difficili da superare mano a mano che camminavano. Nodosi blocchi di arterie rosse e vene blu funzionavano da prese quando Percy doveva arrampicarsi, ma stavano procedendo lentamente. E, ovviamente, i mostri erano ovunque. Branchi di segugi infernali si aggiravano per la distesa, abbaiando, ringhiando e attaccando qualsiasi mostro che abbassava la guardia. Le arai volavano in aria con le loro ali da pipistrello, creando scure sagome spettrali nelle nuvole nocive. Percy inciampò. Le sue mani toccarono un’arteria rossa, e un formicolio si diffuse lungo il suo braccio. “C’è dell’acqua qui,” disse. “Dell’acqua vera.” Bob grugnì. “Uno dei cinque fiumi. Il suo sangue.” “Il suo sangue?” Annabeth si allontanò dal blocco di vene più vicino. “Sapevo che i fiumi dell’Oltretomba sfociavano tutti nel Tartaro, ma –“ “Sì,” annuì Bob. “Scorrono tutti attraverso il suo cuore.” Percy fece correre la mano lungo la ragnatela di capillari. Era l’acqua del fiume Stige che stava scorrendo sotto le sue dita, o forse il Lete? Se una di quelle vene fosse scoppiata mentre ci camminava sopra… Percy rabbrividì. Si rese conto che si stava facendo una passeggiata sul sistema circolatorio più pericoloso dell’universo. “Dovremmo sbrigarci,” disse Annabeth. “Se non riusciamo…” La sua voce si spense. Davanti a loro, dei frastagliati raggi di oscurità attraversarono l’aria – come lampi, ma fatti di buio puro. “Le Porte,” disse Bob. “Ci deve essere passato un grosso gruppo.” Percy avvertì in bocca il sapore del sangue di gorgone. Anche sei i suoi amici dell’Argo II fossero riusciti a trovare l’altra parte delle Porte della Morte, come avrebbero fatto a combattere contro le ondate di mostri che stavano passando attraverso le Porte, soprattutto se tutti i giganti li stavano già aspettando? “Tutti i mostri passano dalla Casa di Ade?” chiese. “Quanto è grande quel posto?” Bob scrollò le spalle. “Forse vengono mandati da qualche altra parte quando ci passano attraverso. La Casa di Ade si trova nella terra, giusto? Questo è il regno di Gea. Può mandare i suoi servi ovunque voglia.” Lo spirito di Percy affondò. I mostri che passavano attraverso le Porte della Morte per minacciare i suoi amici ad Epiro – quello era già brutto abbastanza. Adesso immaginò la terra dalla parte mortale come un’unica grande rete metropolitana, che depositava i giganti e altri orrori ovunque Gea volesse – il Campo Mezzosangue, il Campo Giove, o sulla strada dell’Argo II prima che questa potesse raggiungere Epiro. “Se Gea ha tutto quel potere,” chiese Annabeth, “non potrebbe controllare dove andiamo noi?” Percy detestava davvero quella domanda. A volte desiderava che Annabeth non fosse così sveglia. Bob si grattò il mento. “Voi non siete mostri. Potrebbe essere diverso per voi.” Fantastico, pensò Percy. Non lo entusiasmava l’idea che Gea li potesse aspettare dall’altra parte, pronta per trasportarli in mezzo a una montagna; ma almeno le Porte erano una possibilità per uscire dal Tartaro. Non era che avessero un’alternativa migliore. Bob li aiutò a salire sulla cima di un’altra cresta. Improvvisamente le Porte della Morte furono in piena vista – un rettangolo di oscurità che stava in piedi da solo sulla cima della successiva collina di muscolo di cuore, a circa mezzo chilometro di distanza, circondato da un’orda di mostri malvagi così fitta che Percy avrebbe potuto raggiungere le Porte camminando sulle loro teste. Le Porte erano ancora troppo lontane per distinguerne i dettagli, ma i Titani che facevano la guardia sui lati erano abbastanza familiari. Quello sulla sinistra indossava una splendente armatura dorata che brillava di calore. “Iperione,” borbottò Percy. “Quel tipo non vuole proprio rimanere morto.” Quello sulla destra indossava un’armatura blu scuro, con delle corna di ariete che gli spuntavano dai lati dell’elmo. Percy l’aveva visto solo nei suoi sogni fino a quel momento, ma si trattava senza dubbio di Krios, il Titano che Jason aveva ucciso nella battaglia sul Monte Tam. “I fratelli di Bob,” disse Annabeth. La Foschia di Morte le scintillò intorno, trasformandole per un attimo il volto in un teschio sogghignante. “Bob, se dovrai combatterli, ce la farai?” Bob soppesò la sua scopa, come se fosse pronto per ripulire un grosso disastro. “Dobbiamo sbrigarci,” disse, cosa che, notò Percy, non era esattamente una risposta. “Seguitemi.” 63 PERCY Fino a quel momento, il loro piano di camuffamento con la Foschia di Morte sembrava funzionare. Quindi naturalmente, Percy si aspettava un enorme fallimento dell’ultimo minuto. A quindici metri dalle Porte della Morte, lui e Annabeth si bloccarono. “Oh, dei,” mormorò Annabeth. “Sono le stesse.” Percy sapeva quello che intendeva. Incorniciato da ferro di Stige, il portale magico era formato da una porta da ascensore – due pannelli nero e argento incisi con decorazioni art decò. Con la sola differenza che i colori erano invertiti, avevano esattamente lo stesso aspetto dell’ascensore nell’Empire State Building, l’entrata per l’Olimpo. Vedendole, Percy avvertì una tale nostalgia di casa che non riuscì a respirare. Non gli mancava solo il Monte Olimpo. Gli mancava tutto quello che aveva lasciato: New York, il Campo Mezzosangue, sua madre e il suo patrigno. Gli occhi gli pungevano. Non si fidava a parlare. Le Porte della Morte sembravano un insulto personale, progettate per ricordargli di tutto quello che non poteva avere. Mentre superava lo shock iniziale, notò altri dettagli: il ghiaccio che si stava diffondendo alla base delle Porte, il brillio violaceo nell’aria intorno, e le catene che le tenevano. Corde fatte di ferro nero correvano da entrambi i lati della struttura, come fili di sospensione in un ponte rialzato. Erano legate a degli uncini incastrati nel terreno carnoso. I due Titani, Krios e Iperione, stavano di guardia accanto ai punti di ancoraggio. Mentre Percy guardava, tutta la cornice delle Porte tremò. Lampi neri saettarono nel cielo. Le catene tremarono, e i Titani misero i piedi sugli uncini per tenerli fermi. Le Porte si aprirono, rivelando l’interno dorato di un vano d’ascensore. Percy si fece teso, pronto per lanciasi in avanti, ma Bob gli piantò una mano sulla spalla. “Aspetta,” lo avvertì. Iperione urlò verso la folla circostante. “Gruppo A-22! Sbrigatevi, pigroni!” Una dozzina di Ciclopi si lanciò in avanti, agitando piccoli biglietti rossi e urlando emozionati. Non sarebbero dovuti entrate tutti all’interno di quelle porte strutturate per gli umani, ma mentre i Ciclopi si avvicinavano, i loro corpi si distorsero e rimpicciolirono, e le Porte della Morte li risucchiarono all’interno. Il Titano Krios spinse il bottone dell’ascensore che portava in alto, sulla parte destra. Le Porte si chiusero. La struttura tremò di nuovo. I lampi di oscurità svanirono. “Dovete capire come funziona,” borbottò Bob. Si rivolse al gatto che aveva nel palmo, forse così che gli altri mostri non si chiedessero a chi stesse parlando. “Ogni volta che le Porte si aprono, cercano di teletrasportarsi in una nuova destinazione. Tanato le progettò in questo modo, così che potesse trovarle solo lui. Ma adesso sono incatenate. Le Porte non possono spostarsi.” “Allora spezziamo quelle catene,” sussurrò Annabeth. Percy guardò la sagoma ardente di Iperione. L’ultima volta che aveva combattuto contro il Turno, era servito ogni grammo della sua forza. Persino in quel caso Percy era quasi morto. Adesso c’erano due Titani, con altre diverse migliaia di mostri come riserve. “Il nostro camuffamento,” disse. “Scomparirà se facciamo qualcosa di aggressivo, come spezzare le catene?” “Non lo so,” disse Bob al gattino. “Mrow,” disse Piccolo Bob. “Bob, dovrai distrarli,” disse Annabeth. “Io e Percy passeremo alle spalle dei due Titani e taglieremo le catene da dietro.” “Sì, bene,” disse Bob. “Ma questo è solo un problema. Quando sarete all’interno delle Porte, qualcuno deve rimanere fuori per spingere il pulsante e difenderlo.” Percy cercò di deglutire. “Uh… difendere il pulsante?” Bob annuì, grattando il gatto sotto il collo. “Qualcuno deve tenere premuto il pulsante per dodici minuti, altrimenti il viaggio non può terminare.” Percy guardò verso le Porte. Come aveva detto Bob, Krios stava ancora spingendo il pulsante. Dodici minuti… In qualche avrebbero dovuto far allontanare i Titani da quelle porte. Poi Bob, Percy o Annabeth avrebbero dovuto tenere quel pulsante premuto per dodici lunghi minuti, nel bel mezzo di un esercito di mostri nel cuore del Tartaro, mentre gli altri due si dirigevano verso il mondo mortale. Era impossibile. “Perché dodici minuti?” chiese Percy. “Non lo so,” disse Bob. “Perché dodici dei dell’Olimpo, o dodici Titani?” “Giusto,” disse Percy, anche se avvertiva un sapore amaro in bocca. “Che vuol dire che il viaggio non può terminare,” chiese Annabeth “cosa succede ai passeggeri?” Bob non rispose. A giudicare dalla sua espressione addolorata, Percy decise che non voleva trovarsi in quell’ascensore se la cabina si fosse fermata tra il Tartaro e il mondo mortale. “Se riusciamo a premere il pulsante per dodici minuti,” disse Percy, “e le catene vengono spezzate –“ “Le Porte dovrebbero resettarsi,” disse Bob. “E’ quello che dovrebbero fare. Scompariranno dal Tartaro. Riappariranno da qualche altra parte, dove Gea non può usarle.” “Tanato potrà reclamarle,” disse Annabeth. “La Morte torna ad essere normale, e i mostri perdono la loro scorciatoia per il mondo mortale. Percy lasciò andare un sospiro. “Facile. Se non fosse per… bè, tutto.” Piccolo Bob fece le fusa. “Spingerò io il pulsante,” offrì Bob. Delle sensazioni mischiate ribollirono nello stomaco di Percy – dolore, tristezza, gratitudine e senso di colpa che si addensavano in un cemento di emozioni. “Bob, non possiamo chiederti di farlo. Anche tu vuoi attraversare le Porte. Vuoi vedere di nuovo il cielo, e le stelle, e -“ “Mi piacerebbe,” annuì Bob. “Ma qualcuno deve spingere il pulsante. E quando le catene saranno spezzate… i miei fratelli combatteranno per impedire il vostro passaggio. Non vorranno che le Porte scompaiano.” Percy guardò l’orda senza fine di mostri. Anche se avesse lasciato che Bob facesse quel sacrificio, come poteva un solo Titano difendere se stesso da così tanti mostri per dodici minuti, tutto mentre teneva il dito su un pulsante? Il cemento si sedimentò nello stomaco di Percy. Aveva sempre sospettato come sarebbe andata a finire. Sarebbe dovuto rimanere indietro. Mentre Bob tratteneva l’esercito, Percy avrebbe tenuto premuto il pulsante dell’ascensore e si sarebbe assicurato che Annabeth raggiungesse la salvezza. In qualche modo, doveva convincerla ad andare senza di lui. Finché lei fosse stata salva e le Porte fossero scomparse, lui sarebbe potuto morire sapendo di aver fatto qualcosa di giusto. “Percy…?” Annabeth lo stava fissando, con un tono sospettoso nella voce. Era troppo intelligente. Se avesse incontrato il suo sguardo, avrebbe capito esattamene cosa stava pensando. “Pensiamo prima alle cose importanti,” disse. “Andiamo a spezzare quelle catene.” 64 PERCY “Giapeto!” ruggì Iperione. “Bene, bene. Credevo che ti stessi nascondendo da qualche parte sotto un carrello delle pulizie.” Bob avanzò con passo pesante, imbronciato. “Non mi stavo nascondendo.” Percy striscò verso la parte destra delle Porte. Annabeth avanzò di soppiatto verso sinistra. I Titani non diedero segno di essersi accorti di loro, ma Percy non volle correre rischi. Tenne Vortice in forma di penna. Si accucciò basso, camminando il più silenziosamente possibile. I mostri minori mantenevano una distanza rispettosa dai Titani, quindi c’era abbastanza spazio vuoto per muoversi attorno alle Porte; ma Percy era perfettamente consapevole della folla ringhiante alle sue spalle. Annabeth aveva deciso di prendere il lato che stava sorvegliando Iperione, basandosi sulla teoria che quel Titano avrebbe avuto più possibilità di avvertire Percy. Dopotutto, Percy era stato l’ultimo ad averlo ucciso nel mondo mortale. La cosa a Percy andava bene. Dopo essere stato nel Tartaro così a lungo, era a stento in grado di guardare l’armatura splendente di Iperione senza cominciare ad avere dei pallini che gli danzavano davanti agli occhi. Sul lato delle Porte dove si trovava Percy, Krios stava silenzioso e scuro, con l’elmo dalle corna di ariete che gli copriva il volto. Teneva un piede piantato sull’uncino della catena e il pollice sul pulsante dell’ascensore. Bob affrontò i suoi fratelli. Piantò la sua lancia e cercò di apparire quanto più feroce potesse con un gattino sulla spalla. “Iperione e Krios. Mi ricordo di tutti e due.” “Ricordi, Giapeto?” Il Titano dorato rise, guardando Krios per invitarlo a unirsi alla battuta. “Bè, è bello a sapersi! Ho sentito che Percy Jackson ti aveva trasformato in una cameriera con il lavaggio del cervello. Come ti aveva chiamato… Betty?” “Bob,” ringhiò Bob. “Bè, era ora che ti presentassi, Bob. Io e Krios siamo stati bloccati qui per settimane –“ “Ore,” lo corresse Krios, con la voce proveniente dall’elmo simile a un profondo rombo. “Quello che è!” disse Iperione. “E’ un lavoro noioso, stare di guardia a queste porte, fare passare i mostri secondo gli ordini di Gea. Krios, chi è il nostro prossimo gruppo?” “Doppi Rossi,” disse Krios. Iperione fece un sospiro. Le fiamme sulle sue spalle si fecero più calde. “Doppi Rossi. Perché passiamo da A-22 a Doppi Rossi? Che razza di sistema è?” Guardò Bob con sguardo di fuoco. “Questo non è un lavoro per me – il Signore della Luce! Titano dell’Est! Padrone dell’Alba! Perché sono costretto ad aspettare nell’oscurità mentre i giganti vanno in battaglia e si prendono tutta la gloria? Adesso, posso capire Krios –“ “Io prendo sempre gli incarichi peggiori,” borbottò Krios, con il pollice ancora sul pulsante. “Ma io?” disse Iperione. “Ridicolo! Questo dovrebbe essere il tuo lavoro, Giapeto. Ecco, prendi il mio posto per un po’.” Bob fissò le Porte, ma il suo sguardo era distante – perso nel passato. “Noi quattro bloccammo nostro padre, Urano,” ricordò. “Ceo, io, e voi due. Crono ci promise di farci diventare i signori dei quattro angoli della terra per averlo aiutato con l’assassinio.” “Infatti,” disse Iperione. “E sono stato contento di farlo! Avrei maneggiato io stesso la falce se ne avessi avuta l’occasione! Ma tu, Bob… tu sei stato sempre in conflitto per quell’assassinio, non è così? Il tenero Titano dell’Ovest, tenero come il tramonto! Perché i nostri genitori ti chiamarono il Perforatore, non lo saprò mai. Direi più il Frignone.” Percy raggiunse l’attacco della catena. Tolse il cappuccio alla sua penna e Vortice gli apparve in mano. Krios non reagì. La sua attenzione era fermamente fissata su Bob, che aveva appena alzato la punta della sua lancia contro il petto di Iperione. “Posso ancora perforare,” disse Bob, con la voce bassa e salda. “Ti vanti troppo, Iperione. Sei luminoso e ardente, ma Percy Jackson ti sconfisse lo stesso. Ho sentito che eri diventato un bell’albero a Central Park.” Gli occhi di Iperione fumarono. “Attento, fratello.” “Almeno il lavoro di un custode è onesto,” disse Bob. “Io pulisco dopo gli altri. Lascio il palazzo meglio di come l’ho trovato. Ma tu… a te non importa di ciò che combini. Tu hai seguito Crono ciecamente. Adesso prendi ordini da Gea.” “E’ nostra madre!” ruggì Iperione. “Non si svegliò per la nostra guerra sull’Olimpo,” ricordò Bob. “Preferisce la sua seconda progenie, i giganti.” Krios grugnì. “Vero. I figli dell’abisso.” “Tenete a freno le lingue tutti e due!” La voce di Iperione aveva un accenno di paura. “Non potete sapere se sta ascoltando.” L’ascensore suonò. Tutti e tre i Titani sobbalzarono dalla sorpresa. Erano passati dodici minuti? Percy aveva perso la cognizione del tempo. Krios tolse il dito dal pulsante ed esclamò, “Doppi Rossi! Dove sono i Doppi Rossi?” Orde di mostri si agitarono e spintonarono, ma nessuno di loro si fece avanti. Krios lasciò andare un sospiro. “Gliel’avevo detto di tenersi stretti i biglietti. Doppi Rossi! Perderete il posto nella fila!” Annabeth era in posizione, esattamente alle spalle di Iperione. Sollevò la sua spada di osso di dragone sopra la base della catena. Nella luce ardente dell’armatura del Titano, il suo camuffamento di Foschia di Morte la faceva sembrare un fantasma in fiamme. Sollevò tre dita, pronta per il conto alla rovescia. Dovevano spezzare le catene prima che il prossimo gruppo cercasse di prendere l’ascensore, ma dovevano anche assicurarsi che i Titani fossero il più distratti possibile. Iperione borbottò un’imprecazione. “Meraviglioso. Questo manderà completamente a monte il nostro programma.” Sogghignò verso Bob. “Fai la tua scelta, fratello. Combatti contro di noi oppure aiutaci. Non ho tempo per le tue ramanzine.” Bob guardò verso Annabeth e Percy. Percy pensò che avrebbe iniziato a combattere, ma invece sollevò la punta della sua lancia. “Molto bene. Prenderò il turno di guardia. Chi di voi due vuole una pausa per primo?” “Io, ovviamente,” disse Iperione. “Io!” scattò Krios. “Ho tenuto premuto quel pulsante per così tanto tempo che mi sta per cadere il pollice.” “Io sono stato qui più a lungo,” brontolò Iperione. “Voi due sorvegliate le Porte mentre io salgo nel mondo mortale. Ho degli eroi greci sui quali devo abbattere la mia vendetta!” “Oh, no!” si lamentò Krios. “Quel ragazzo romano è diretto verso Epiro – quello che mi ha ucciso sul Monte Othrys. E’ stato solo fortunato. Adesso è il mio turno.” “Bah!” Iperione sguainò la sua spada. “Prima ti sventrerò io, Testa d’Ariete!” Krios sollevò la sua lama. “Puoi provarci, ma non resterò bloccato in questo abisso puzzolente un altro secondo!” Annabeth catturò lo sguardo di Percy. Mimò con le labbra: Uno, due – Prima che potesse colpire le catene, un acuto lamento gli perforò le orecchie, come il suono di un razzo in avvicinamento. Percy ebbe solo il tempo di pensare: Uhoh. Poi un’esplosione scosse il fianco della collina. Un’ondata di calore gettò Percy all’indietro. Delle scure granate volarono contro Krios e Iperione, riducendoli a pezzetti tanto facilmente quanto il legno in una trita legno. ABISSO PUZZOLENTE. Una voce profonda rotolò lungo la valle, scuotendo la terra calda. Bob si alzò incerto. In qualche modo l’esplosione non l’aveva toccato. Agitò la lancia davanti a lui, cercando di localizzare la fonte della voce. Piccolo Bob si raggomitolò nel suo colletto. Annabeth era atterrata a circa sei metri dalle Porte. Quando si alzò, Percy fu così sollevato dal fatto che fosse viva che ci mise un momento per rendersi conto che aveva di nuovo il suo aspetto. La Foschia di Morte era evaporata. Si guardò le mani. Anche il suo camuffamento era andato. TITANI, disse la voce con disprezzo. ESSERI INFERIORI. DEBOLI E IMPERFETTI. Davanti alle Porte della Morte, l’aria si fece più scura e si solidificò. L’essere che apparve era così enorme, irradiava una tale malvagità pura, che Percy voleva strisciare a terra e andarsi a nascondere. Invece, obbligò i suoi occhi a seguire la figura del dio, cominciando dai suoi stivali di ferro nero, ognuno grande come una bara. Le sue gambe erano ricoperte da gambali neri; la sua pelle era fatta da spessi muscoli viola, come il terreno. La sua maglietta armata era fatta di migliaia di ossa contorte e annerite, legate insieme come una maglia cotta medievale e tenute ferme da una cintura di mostruose braccia intrecciate. Sulla superficie della corazza del guerriero, dei volti oscuri apparivano e scomparivano – giganti, Ciclopi, gorgoni, e dragoni – tutti intenti a spingere contro l‘armatura come se stessero cercando di uscirne fuori. Le braccia del guerriero erano nude – muscolose, viola, e luccicanti – le mani erano grandi come pale da escavatrice. La parte peggiore di tutte era la sua testa: un elmetto fatto di roccia contorta e metallo senza una forma precisa – solo punte aguzze e macchie pulsanti di magma. Tutto il suo volto era un mulinello – una spirale interna di tenebre. Mentre Percy guardava, le ultime particelle di essenza di Titano di Iperione e Krios furono aspirate nelle fauci del guerriero. In qualche modo, Percy trovò la sua voce. “Tartaro.” Il guerriero produsse un suono simile a quello di una montagna che si spaccava a metà: un ruggito o una risata, Percy non lo sapeva. Questa forma è solo una piccola manifestazione del mio potere, disse il dio. Ma è abbastanza per occuparmi di voi. Non intervengo facilmente, piccolo semidio. Va al di sotto di me trattare con moscerini come voi. “Uh…” Le gambe di Percy minacciavano di cedere. “Non… sai… non ti scomodare.” Vi siete dimostrati sorprendentemente resistenti, disse Tartaro. Siete arrivati troppo lontano. Non posso più stare da parte e assistere ai vostri progressi. Tartaro allargò le braccia. Per tutta la valle, migliaia di mostri gemettero e ruggirono, sbattendo le armi e urlando in trionfo. Le Porte della Morte tremarono nelle loro catene. Siate onorati, piccoli semidei, disse il dio dell’abisso. Persino gli dei dell’Olimpo non sono mai stati degni della mia attenzione personale. Ma voi sarete distrutti da Tartaro in persona! 65 FRANK Frank sperava nei fuochi d’artificio. O almeno in una grande scritta che diceva: BENTORNATO A CASA! Più di tremila anni fa, il suo antenato greco – il buon vecchio Periclimeno il mutaforma – era salpato verso est con gli Argonauti. Secoli dopo, gli antenati di Periclimeno avevano servito le legioni romane orientali. Poi, attraverso una serie di disavventure, la famiglia era finita in Cina, alla fine emigrata in Canada nel ventesimo secolo. Adesso Frank si trovava di nuovo in Grecia, il che voleva dire che la famiglia Zhang aveva completamente circumnavigato il globo. Quello sembrava un evento da celebrare, ma l’unico comitato di accoglienza fu uno stormo di selvagge arpie affamate che attaccarono la nave. Frank si sentì un po’ in colpa mentre le abbatteva con il suo arco. Continuava a pensare ad Ella, la loro arpia amica mostruosamente intelligente di Portland. Ma quelle arpie non erano Ella. Loro avrebbero felicemente mangiato la faccia di Frank. Così le fece esplodere in nuvole di piume e polvere. Il paesaggio greco sotto di loro era altrettanto inospitale. Le colline erano disseminate di massi e cedri rachitici, splendenti nell’aria nebbiosa. Il sole batteva forte, come se stesse cercando di scolpire la campagna in uno scudo di bronzo Celeste. Persino da trenta metri di altezza, Frank poteva sentire il ronzio delle cicale che cantavano tra gli alberi – un sonnolento suono irreale che gli rendeva gli occhi pesanti. Persino le voci combattenti del dio della guerra nella sua testa sembravano essersi assopite. Lo avevano a malapena infastidito da quando il gruppo aveva attraversato il confine della Grecia. Il sudore gli colava lungo il collo. Dopo essere stato ghiacciato sottocoperta da quella folle dea della neve, Frank aveva pensato che non avrebbe mai più avuto caldo; ma adesso il retro della sua maglietta era zuppo di sudore. “Caldo e fumante!” Leo sogghignò dal timone. “Mi fa rimpiangere Houston! Che dici, Hazel? Tutto quello di cui abbiamo bisogno adesso è qualche zanzara gigante, e sarà proprio come la Gulf Coast!” “Grazie tante, Leo,” brontolò Hazel. “Adesso verremo probabilmente attaccati da zanzare mostro dell’Antica Grecia.” Frank studiò i due ragazzi, riflettendo stupito su come la tensione tra loro due fosse scomparsa. Qualsiasi cosa fosse accaduta a Leo durante i suoi cinque giorni di esilio, lo aveva cambiato. Continuava a scherzare, ma Frank avvertiva qualcosa di diverso in lui – come una nave con una nuova chiglia. Magari non si potevavedere la chiglia, ma capivi che era lì dal modo in cui la nave tagliava le onde. Leo non sembrava più così interessato nel prendere in giro Frank. Chiacchierava con più disinvoltura con Hazel – senza rubare quegli sguardi malinconici e sognanti che avevano sempre messo a disagio Frank. Hazel aveva diagnosticato il problema in privato con Frank. “Ha incontrato qualcuno.” Frank era stato incredulo. “Come? Dove? Come fai a saperlo?” Hazel aveva sorriso. “Lo so e basta.” Come se fosse stata una figlia di Venere piuttosto che di Plutone. Frank non lo capiva. Ovviamente era sollevato dal fatto che Leo non ci stesse più provando con la sua ragazza, ma Frank era anche un po’ preoccupato per lui. Certo, avevano le loro differenze; ma dopo tutto quello che avevano passato insieme, Frank non voleva vedere Leo con il cuore spezzato. “Là!” La voce di Nico lo scosse dai suoi pensieri. Come al solito, di Angelo era appollaiato sulla cima dell’albero maestro. Indicò verso un luccicante fiume verde che serpeggiava attraverso le colline a un chilometro di distanza. “Portaci in quella direzione. Siamo vicini al tempio. Molto vicini.” Come per dimostrarlo, dei lampi neri esplosero nel cielo, lasciando dei puntini scuri negli occhi di Frank e rizzandoli i peli sulle braccia. Jason si assicurò la spada alla cintura. “Tutti quanti, preparate le armi. Leo, facci avvicinare, ma non atterrare – nessun contatto con la terra più di quelli necessari. Piper, Hazel, prendete le corde di ormeggio.” “Ci sono!”disse Piper. Hazel diede a Frank un bacio sulla guancia e corse ad aiutare. “Frank,” esclamò Jason, “vai sotto a chiamare il Coach Hedge.” “Sì!” Scese le scale e si diresse verso la cabina di Hedge. Mentre si avvicinava alla porta, rallentò. Non voleva sorprendere il satiro con rumori forti. Il Coach Hedge aveva l’abitudine di saltare usando la sua mazza da baseball se pensava che ci fossero degli assalitori a bordo. Frank aveva quasi rischiato di perdere la testa un paio di volte mentre andava in bagno. Sollevò la mano per bussare. Poi si accorse che la porta era socchiusa. Sentì il Coach Hedge parlare all’interno. “Andiamo, piccola!” disse il satiro. “Sai che non è così!” Frank si gelò. Non aveva intenzione di origliare, ma non sapeva che fare. Hazel aveva accennato al fatto che fosse preoccupata per il coach. Aveva insistito sul fatto che ci fosse qualcosa che lo preoccupava, ma Frank non ci aveva pensato molto fino a quel momento. Non aveva mai sentito il coach parlare in modo così gentile. Solitamente gli unici rumori che Frank sentiva provenire dalla cabina del coach erano gli eventi sportivi alla tv, o il coach che urlava, “Sì! Mettilo al tappeto!” mentre guardava i suoi film di arti marziali preferiti. Frank era abbastanza sicuro che il coach non avrebbe chiamato Chuck Norris piccola. Un’altra voce parlò – femminile, ma a malapena udibile, come se provenisse da molto lontano. “Lo farò,” assicurò il Coach Hedge. “Ma, uh, stiamo per andare in battaglia” – si schiarì la voce – “e le cose potrebbero farsi serie. Tu pensa solo a rimanere al sicuro. Tornerò. Promesso.” Frank non poteva più sopportarlo. Bussò rumorosamente. “Hey, Coach?” Il vocio si fermò. Frank contò fino a sei. La porta si spalancò. Il Coach Hedge stava sulla soglia imbronciato, con gli occhi iniettati di sangue, come se avesse guardato troppa televisione. Indossava il suo solito cappellino da baseball e la tuta, con una corazza di pelle sopra la maglietta e un fischietto appeso al collo, forse nel caso avesse dovuto chiamare un fallo contro gli eserciti di mostri. “Zhang. Cosa vuoi?” “Uh, ci stiamo preparando per la battaglia. Abbiamo bisogno di lei sul ponte.” Il pizzetto del coach tremò. “Sì. Certo che avete bisogno di me.” Suonava stranamente apatico all’idea di una battaglia. “Non volevo – cioè, ho sentito che stava parlando,” balbettò Frank. “Stava inviando un messaggio-Iride?” Sembrava che Hedge stesse per dare uno schiaffo in faccia a Frank, o come minimo suonare il suo fischietto molto forte. Poi le sue spalle crollarono. Fece un sospiro profondo e si voltò per rientrare in camera, lasciando Frank in piedi impacciato sulla soglia. Il coach crollò sulla sua cuccetta. Posò il mento tra le mani e fissò imbronciato la cabina. Il posto somigliava al dormitorio di un college dopo un uragano – il pavimento era disseminato di biancheria (forse per essere usata come vestiti, forse come merendine; era difficile da dire con i satiri), DVD e piatti sporchi erano sparpagliati intorno alla televisione sul mobile. Ogni volta che la nave si inclinava, una folla male assortita di attrezzi sportivi rotolava lungo il pavimento – palloni da calcio, da basket, da baseball, e per qualche strana ragione, un unica palla da biliardo. Ciuffi di pelo di capra fluttuavano nell’aria e si raccoglievano sotto i mobili in piccoli gruppi. Polvere di capra? Batuffoli di capra? Sul comodino del coach c’era una ciotola d’acqua, una pila di dracme dorate, una torcia e un prisma di vetro per creare gli arcobaleni. Il coach era ovviamente venuto preparato per inviare un sacco di messaggi-Iride. Frank si ricordò di quello che gli aveva detto Piper sulla ragazza ninfa del coach, che lavorava per suo padre. Quel’era il nome della ragazza… Melinda? Millicent? No, Mellie. “Uh, la sua ragazza Mellie sta bene?” tentò Frank. “Non sono affari tuoi!” scattò il Coach. “Okay.” Hedge mandò gli occhi al cielo. “Bene! Se vuoi saperlo – sì, stavo parlando con Mellie. Ma non è più la mia ragazza.” “Oh…” Il cuore di Frank sprofondò. “Vi siete lasciati?” “No, zuccone! Ci siamo sposati! È mia moglie!” Frank sarebbe stato meno sorpreso se il coach l’avesse colpito. “Coach, è – è meraviglioso! Quando – come – ?” “Non sono affari tuoi!” urlò di nuovo. “Um… va bene.” “Alla fine di maggio,” disse il coach. “Appena prima che l’Argo II salpasse. Non volevamo farne una storia troppo grande.” Frank si sentì come se la nave si stesse inclinando di nuovo, ma doveva essere solo la sua mente. L’orda di attrezzi sportivi rimase ferma contro la parete opposta della stanza. Per tutto quel tempo il coach era stato sposato? Nonostante fosse uno sposino novello, aveva accettato di partecipare a quell’impresa. Non c’era da meravigliarsi che Hedge facesse così tante chiamate a casa. Nessuna sorpresa che fosse così instabile e bellicoso. Tuttavia… Frank aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di più. Dal tono del coach durante il messaggio-Iride, sembrava che i due stessero discutendo riguardo un problema. “Non volevo origliare,” disse Frank. “Ma… lei sta bene?” “Era una conversazione privata!” “Sì. Ha ragione.” “Bene! Te lo dirò.” Hedge si staccò un po’ di pelliccia dalla coscia e la lasciò fluttuare in aria. “Si è presa una pausa dal suo lavoro a Los Angeles, è andata al Campo Mezzosangue per l’estate, perché avevamo pensato – “ La sua voce si spezzò. “Avevamo pensato che sarebbe stato più scuro. Adesso è bloccata lì, con i romani in procinto di attaccare. E’… è molto spaventata.” Frank si fece improvvisamente consapevole della spilla da centurione sulla sua maglietta, del tatuaggio SPQR sull’avambraccio. “Mi dispiace,” mormorò. “Ma se è uno spirito delle nuvole, non potrebbe semplicemente… sa, volare via?” Il coach piegò le sue dita attorno al manico della sua mazza da baseball. “In una situazione normale, sì. Ma vedi… si trova in una condizione delicata. Non sarebbe sicuro.” “Una condizione…” Frank spalancò gli occhi. “Sta per avere un bambino? Lei sta per diventare padre?” “Urlalo un po’ più forte,” brontolò Hedge. “Non credo che ti abbiamo sentito in Croazia.” Frank non poté fare a meno di sorridere. “Ma, Coach, è meraviglioso! Un piccolo satiro? O magari una ninfa? Sarà un padre fantastico.” Frank non era certo del perché si sentisse così, considerando l’amore del coach per le mazze da baseball e i calci rotanti, ma ne era certo. Il broncio del Coach Hedge si fece persino più profondo. “La guerra sta arrivando, Zhang. Nessun posto è sicuro. Dovrei trovarmi là per Mellie. Se devo morire da qualche parte –“ “Hey, nessuno morirà,” disse Frank. Hedge incrociò il suo sguardo. Frank poteva capire che il coach non ci credeva. “Ho sempre avuto un debole per i figli di Ares,” borbottò Hedge. “O di Marte – quello che è. Forse è questo il motivo per cui non ti sto polverizzando per tutte le tue domande.” “Ma non stavo –“ “Bene, te lo dirò!” Hedge fece un altro sospiro. “Quando mi assegnarono il mio primo incarico come cercatore, mi trovano molto fuori, in Arizona. Portai questa ragazzina chiamata Clarisse.” “Clarisse?” “Una dei tuoi fratelli,” disse Hedge. “Una figlia di Ares. Violenta. Rude. Un sacco di potenziale. Ad ogni modo, mentre mi trovavo fuori, ebbi questo sogno su mia madre. Lei – lei era una ninfa delle nuvole come Mellie. Sognai che si trovava nei guai e che aveva immediatamente bisogno del mio aiuto. Ma mi dissi, Nah, è solo un sogno. Chi farebbe del male a una dolce anziana ninfa delle nuvole? Inoltre, devo portare questa mezzosangue al sicuro. Così conclusi la mia missione, portai Clarisse al Campo Mezzosangue. Dopo, andai in cerca di mia madre. Arrivai troppo tardi.” Frank guardò i ciuffi di peli di capra posarsi sopra la mazza da baseball. “Cosa le è accaduto?” Hedge scrollò le spalle. “Non ne ho idea. Non la rividi mai più. Forse se fossi stato là per lei, se fossi tornato prima…” Frank voleva dire qualcosa per confortarlo, ma non sapeva cosa. Lui aveva perso sua madre nella guerra in Afghanistan, e sapeva quanto potessero suonare vuote le parole Mi dispiace. “Stava facendo il suo lavoro,” tentò Frank. “Ha salvato la vita di un semidio.” Hedge grugnì. “Adesso mia moglie e mio figlio si trovano in pericolo, dall’altra parte del mondo, ed io non posso fare nulla per aiutare.” “Lei sta facendo qualcosa,” disse Frank. “Ci troviamo qui per impedire ai giganti di svegliare Gea. Questo è il modo migliore nel quale possiamo proteggere i nostri amici.” “Sì. Sì, immagino sia così.” Frank desiderò poter fare di più per sollevare il morale di Hedge, ma quella chiacchierata stava facendo preoccupare lui per tutti coloro che aveva lasciato alle spalle. Si chiese chi stesse difendo il Campo Giove adesso che la legione si trovava ad est, soprattutto con tutti i mostri che Gea stava sguinzagliano dalle Porte della Morte. Era preoccupato per i suoi amici della Quinta Coorte, e di come si dovevano sentire adesso che Octavian aveva ordinato di marciare contro il Campo Mezzosangue. Frank voleva trovarsi di nuovo là, anche solo per ficcare un orsacchiotto nella gola di quel viscido augure. La nave si inclinò in avanti. Il gruppo di attrezzi sportivi rotolò sotto la cuccetta del coach. “Stiamo atterrando,” disse Hedge “Faremo meglio a salire.” “Sì,” disse Frank, con la voce roca. “Sei un romano curioso, Zhang.” “Ma –“ “Andiamo,” disse Hedge. “E non una sola parola su questo agli altri, chiacchierone che non sei altro.” Mentre gli altri assicuravano gli ancoraggi arerei, Leo afferrò Frank e Hazel dalle braccia. Li trascinò alla balista di poppa. “Okay, ecco il piano.” Hazel strinse gli occhi. “Detesto i tuoi piani.” “Ho bisogno di quel legnetto magico,” disse Leo. “Adesso!” Frank rischiò quasi di strozzarsi con la sua stessa lingua. Hazel indietreggiò, coprendosi istintivamente la tasca del giacchetto. “Leo, non puoi –“ “Ho trovato una soluzione.” Leo si voltò verso Frank. “E’ una tua scelta, ragazzone, ma posso proteggerti.” Frank pensò a tutte le volte nelle quali aveva visto le dita di Leo prendere fuoco. Un movimento sbagliato, e Leo poteva incenerire il pezzo di legno che controllava la vita di Frank. Ma per qualche ragione, Frank non era terrorizzato. Da quando aveva affrontato i mostri mucca a Venezia, aveva a stento pensato alla sua delicata linea vitale. Sì, la più piccola fiamma avrebbe potuto ucciderlo. Ma era anche sopravvissuto a delle cose impossibili e aveva reso suo padre orgoglioso. Frank aveva deciso che qualunque fosse il suo destino, non se ne sarebbe preoccupato. Avrebbe semplicemente fatto il meglio che poteva per aiutare i suoi amici. Inoltre, Leo suonava serio. I suoi occhi erano ancora carici di quella strana malinconia, come se si trovasse in due posti contemporaneamente; ma nulla nella sua espressione indicava qualche tipo di scherzo. “Vai, Hazel,” disse Frank. “Ma…” Hazel fece un respiro profondo. “Okay.” Tirò fuori il legnetto e lo passò a Leo. Nelle mani di Leo, non era molto più grande di un cacciavite. Il legnetto era ancora bruciacchiato ad un’estremità, dove Frank l’aveva usato per bruciare le catene di ghiaccio che aveva imprigionato il dio Tanato in Alaska. Da una tasca della sua cintura degli attrezzi, Leo tirò fuori un pezzo di tessuto bianco. “Ammirate!” Frank si accigliò. “Un fazzoletto?” “Una bandiera bianca?” indovinò Hazel. “No, miscredenti!” disse Leo. “Questo è un sacchetto fatto con un tessuto davvero forte – un dono da una mia amica.” Leo fece scivolare il legnetto nel sacchettino e lo chiuse con un nodo fatto con un filo di bronzo. “Il cordoncino è stata una mia idea,” disse Leo con orgoglio. “Ci è voluto un po’ di lavoro per intrecciarlo nel tessuto, ma il sacchetto non si aprirà a meno che non lo voglia tu. Il tessuto traspira proprio come i vestiti normali, quindi il legno non è più sigillato di quanto non lo sarebbe nella tasca del giacchetto di Hazel.” “Uh…” disse Hazel. “Allora che miglioramento c’è?” “Tienilo tu, così non ti faccio venire un attacco di cuore.” Leo lanciò il sacchettino a Frank, che lo fece quasi cadere. Leo invocò una palla di fuoco bianco nella mano destra. Tenne l’avambraccio sinistro sulle fiamme, sogghignando mentre queste lambivano la manica del suo giacchetto. “Vedete?” disse. “Non brucia!” A Frank non piaceva dover discutere con qualcuno che aveva una palla di fuoco in mano, ma disse, “Uh… tu sei immune alle fiamme.” Leo mandò gli occhi al cielo. “Sì, ma devo concentrarmi se voglio che i miei vestiti non brucino. E ora non mi sto concentrando, vedete? Questo è un tessuto totalmente a prova di fuoco. Il che vuol dire che il tuo legnetto non brucerà in quel sacchetto.” Hazel non sembrava convinta. “Come fai ad esserne certo?” “Caspita, pubblico difficile.” Leo spense il fuoco. “Immagino che ci sia un solo modo per convincervi.” Tese la mano verso Frank. “Uh, no, no.” Frank indietreggiò. Improvvisamente tutti quei pensieri coraggiosi sull’accettare il suo destino sembravano molto lontani. “Va bene così, Leo. Grazie, ma non – non posso –“ “Amico, devi fidarti di me.” Il cuore di Frank stava correndo. Si fidava di Leo? Bè, certo… se si trattava di un motore. Se doveva fare una battuta. Ma se si trattava della sua vita? Si ricordò del giorno in cui era rimasto bloccato nel laboratorio sotterraneo a Roma. Gea aveva assicurato che sarebbero morti in quella stanza. Leo aveva promesso che avrebbe tirato Frank e Hazel fuori da quella trappola. E l’aveva fatto. Adesso Leo stava parlando con quella stessa sicurezza. “Okay.” Frank passò il sacchettino a Leo. “Cerca di non uccidermi.” La mano di Leo prese fuoco. Il sacchettino non si annerì né bruciò. Frank attese che qualcosa andasse orribilmente storto. Contò fino a venti, ma era ancora vivo. Si sentiva come se un blocco di ghiaccio si stesse sciogliendo appena dietro il suo sterno – un ammasso di paura congelata al quale aveva fatto così tanta abitudine che non ci aveva nemmeno pensato finché non ne se fu andato. Leo estinse le fiamme. Inarcò le sopracciglia verso Frank. “Chi è il migliore?” “Non rispondere,” fisse Hazel. “Ma, Leo, è stato incredibile.” “Lo è, vero?” concordò Leo. “Allora, chi vuole prendere questo nuovo legnetto ultraprotetto?” “Lo terrò io,” disse Frank. Hazel si morse le labbra. Abbassò lo sguardo, forse così che Frank non vedesse il dolore nei suoi occhi. Aveva protetto quel legnetto per lui attraverso numerose battaglie difficili. Era un segno della fiducia tra loro due, un simbolo della loro relazione. “Hazel, non sei tu,” disse Frank, nel modo più gentile possibile. “Non riesco a spiegarlo, ma ho – ho la sensazione che dovrò farmi avanti quando saremo nella Casa di Ade. Devo portare i miei stessi fardelli.” Gli occhi dorati di Hazel erano carichi di preoccupazione. “Capisco. Solo… mi preoccupo.” Leo lanciò il sacchettino a Frank. Lui se lo legò intorno alla cintura. Era strano portare la sua debolezza fatale così esposta, dopo mesi in cui era stata tenuta nascosta. “E, Leo,” disse, “grazie.” Sembrava inadeguato per il dono che gli aveva fatto, ma Leo sogghignò. “A cosa servono gli amici geniali?” “Hey, ragazzi!” chiamò Piper dalla prua. “E’ meglio se venite qui. Dovete vederlo.” Trovarono la fonte dei lampi neri. L’Argo II era librata direttamente sopra il fiume. A qualche centinaio di metri di distanza, sulla cima della collina più vicina, si trovava un gruppo di rovine. Non sembravano chissà cosa – solo qualche muro cadente che circondava il guscio di pietra calcarea di qualche edificio – ma da qualche parte all’interno delle rovine, dei lampi di luce si curvavano verso il cielo, come un calamaro di fumo che si affacciava dalla sua grotta. Mentre Frank guardava, un lampo di energia scura squarciò l’aria, facendo tremare la nave e inviando una fredda onda d’urto tutto intorno. “Il Necromanteion,” disse Nico. “La Casa di Ade.” Frank si resse alla ringhiera per mantenere l’equilibrio. Immaginava che fosse troppo tardi per suggerire di tornare indietro. Stava cominciando a sentire nostalgia dei mostri che aveva combattuto a Roma. Accidenti, inseguire delle mucche velenose era stato più allettante di quel posto. Piper si strinse le braccia attorno al corpo. “Mi sento vulnerabile quassù. Non potremmo atterrare nel fiume?” “Io non lo farei,” disse Hazel. “Quello è il Fiume Acheronte.” Jason strizzò gli occhi contro il sole. “Pensavo che l’Acheronte scorresse nell’Oltretomba.” “Infatti,” disse Hazel. “Ma la sua sorgente si trova nel mondo mortale. Il fiume qua sotto? Alla fine scorre sottoterra, dritto nel regno di Plutone – er, di Ade. Far atterrare una nave di semidei in quelle acque –“ “Sì, rimaniamo quassù,” decise Leo. “Non voglio nessuno zombie di acqua sul mio scafo.” A mezzo chilometro di distanza lungo il corso d’acqua, alcune barche di pescherecci stavano galleggiando pacificamente. Frank indovinò che non conoscessero, o che non li importasse la storia di quel fiume. Doveva essere bello, essere un normale mortale. Accanto a Frank, Nico di Angelo sollevò lo scettro di Diocleziano. La sua sfera brillò di luce viola, come fosse in armonia con la tempesta scura. Reliquia romana o meno, lo scettro rendeva Frank nervoso. Se aveva davvero il potere di invocare una legione di morti… bè, Frank non era certo che fosse un’idea così buona. Una volta Jason gli aveva detto che i figli di Marte avevano una capacità simile. A quanto sembrava, Frank poteva chiamare i fantasmi dei soldati che avevano fatto parte della schiera perdente di qualsiasi guerra per farsi servire. Non aveva mai avuto molta fortuna con quel potere, probabilmente perché lo terrorizzava troppo. Era preoccupato che potesse diventare uno di quei fantasmi se perdevano quella guerra – eternamente condannato a pagare per i suoi fallimenti, assumendo che ci fosse rimasto qualcuno per invocarlo. “Allora, uh, Nico…” Frank fece un gesto verso lo scettro. “Hai imparato a usare quella cosa?” “Lo scopriremo.” Nico fissò i lampi di buio che ondeggiavano dalle rovine. “Non ho intenzione di provarci finché non sarò costretto. Le Porte della Morte stanno già facendo gli straordinari per trasportare i mostri di Gea. Qualsiasi altra attività per risvegliare i morti, e le Porte potrebbero distruggersi definitivamente, lasciando uno squarcio nel mondo mortale che non può essere chiuso.” Il Coach Hedge grugnì. “Detesto gli squarci nel mondo. Andiamo a far esplodere qualche testa di mostro.” Frank guardò l’espressione seria del satiro. Improvvisamente gli venne un’idea. “Coach, lei dovrebbe rimanere a bordo, a coprirci con le baliste.” Hedge si accigliò. “Rimanere indietro? Io? Sono il vostro soldato migliore!” “Potremmo aver bisogno di supporto aereo,” disse Frank. “Come abbiamo fatto a Roma. Ci ha salvato lebraccae.” Non aggiunse: Inoltre, vorrei che tornasse vivo da sua moglie e da suo figlio. Apparentemente, Hedge afferrò il messaggio. Il suo cipiglio si rilassò. Il sollievo era evidente nei suoi occhi. “Bè…” brontolò, “immagino che qualcuno dovrà salvare le vostre braccae.” Jason diede delle pacche sulle spalle del coach. Poi annuì con apprezzamento verso Frank. “Allora è deciso. Tutti gli altri – andiamo alle rovine. È arrivato il momento di mandare a monte la festa di Gea.” 66 FRANK Nonostante il calore di mezzogiorno e la violenta tempesta di energia morta, un gruppo di turisti stava scalando verso le rovine. Fortunatamente non erano molti, e non degnarono i semidei di un’occhiata. Dopo le folle di Roma, Frank aveva smesso di preoccuparsi troppo di essere notato. Se potevano far volare la loro nave da guerra nel Colosseo romano con le baliste in azione e non provocare neanche un rallentamento nel traffico, immaginava che potessero cavarsela in qualsiasi situazione. Nico apriva la strada. Sulla cima della collina, si arrampicarono oltre un antico muro di difesa e scesero all’interno di un fossato scavato. Alla fine arrivarono a un arco di pietra che portava dritto nel fianco della collina. La tempesta di morte sembrava avere origine esattamente da sopra le loro teste. Guardando i vorticanti tentacoli di oscurità, Frank ebbe la sensazione di trovarsi intrappolato sul fondo di un gabinetto che veniva scaricato. La cosa non gli calmò affatto i nervi. Nico si rivolse verso l’intero gruppo. “Da qui in poi, si fa difficile.” “Bello,” disse Leo. “Perché finora ci siamo andati assolutamente leggeri.” Nico lo fissò. “Vedremo quanto durerà il tuo senso dell’umorismo. Ricordatevi, qui è dove si recavano i pellegrini per unirsi agli antenati morti. Sottoterra, potreste vedere cose che sono difficili da guardare, o sentire delle voci che cercano di attirarvi lontano dal percorso, facendovi smarrire tra i tunnel. Frank, hai le tortine di orzo?” “Cosa?” Frank stava pensando a sua nonna e a sua madre, chiedendosi se gli sarebbero apparse. Per la prima volta da giorni le voci di Ares e Marte avevano ricominciato a discutere nella sua mentre, dibattendo sui loro tipi di morte violenta preferiti. “Ho io le torte,” disse Hazel. Tirò fuori le sfoglie di farina di orzo magiche che avevano cucinato con il grano che Trittolemo li aveva dato a Venezia. “Mangiatele,” avvisò Nico. Frank masticò la sua sfoglia di morte e cercò di non soffocarsi. Gli ricordava un biscotto con la segatura al posto dello zucchero. “Yummy,” disse Piper. Persino la figlia di Afrodite non poté evitare di fare una smorfia. “Okay.” Nico ingoiò l’ultimo pezzo di sfoglia. “Questo dovrebbe proteggerci dal veleno.” “Veleno?” chiese Leo. “Mi sono perso il veleno? Perché io adoro il veleno.” “Presto,” assicurò Nico. “Dobbiamo rimanere uniti, e forse potremmo evitare di perderci o di impazzire.” E con quel pensiero allegro, Nico li guidò sottoterra. Il tunnel scendeva gradualmente verso il basso, con il soffitto sorretto da degli archi di pietra bianca che ricordavano a Frank la cassa toracica di una balena. Mentre camminavano, Hazel fece scivolare le mani sulla parete. “Questo non era parte di un tempio,” sussurrò. “Questo era… la cantina di una villa nobile, costruita successivamente, durante il periodo greco.” Frank trovava inquietante il modo in cui Hazel potesse capire così tanto di un luogo sotterraneo solo trovandosi lì. Per quello che sapeva, non si era mai sbagliata. “Una villa nobile?” chiese lui. “Ti prego, non dirmi che ci troviamo nel posto sbagliato.” “La Casa di Ade si trova sotto di noi,” lo rassicurò Nico. “Ma Hazel ha ragione, questi livelli superiori sono molto più nuovi. Quando gli archeologi portarono alla luce questo posto, pensarono di aver trovato il Necromanteion. Poi si accorsero che le rovine erano troppo recenti, così decisero che si trovavano nel punto sbagliato. Avevano indovinato al primo tentativo. Solo che non scavarono abbastanza in profondità.” Svoltarono un angolo e si fermarono. Davanti a loro, il tunnel finiva con un enorme blocco di pietra. “Una frana sotterranea?” chiese Jason. “Un test,” disse Nico. “Hazel, faresti gli onori?” Hazel si fece avanti. Posò la mano sulla roccia, e l’intero masso si ridusse in polvere. Il tunnel tremò. Delle crepe si aprirono lungo il soffitto. Per un terrificante attimo, Frank immaginò che sarebbero stati tutti schiacciati sotto tonnellate di terra – un modo deludete di morire, dopo tutto quello che avevano affrontato. Il rombo cessò. La polvere si posò a terra. Una scalinata scendeva più in profondità nella terra, con il soffitto a volta sorretto da un’altra serie di archi, più vicini gli uni agli altri e scolpiti con lucida pietra nera. Gli archi in discesa fecero venire le vertigini a Frank, come se stesse guardando in uno specchio riflettente che andava avanti all’infinito. Dipinte sulle pareti c’erano delle grezze immagini di bestiami che marciavano verso il basso. “Non mi piacciono proprio le mucche,” borbottò Piper. “Sono d’accordo,” disse Frank. “Quelli sono i bestiami di Ade,” disse Nico. “E’ solo un simbolo di –“ “Guardate.” Frank indicò. Sul primo scalino delle scale, si trovava un luccicante calice dorato. Frank era sicurissimo che non si trovava là fino a un attimo prima. Il calice era pieno di un liquido verde scuro. “Urrà,” disse Leo con tono apatico. “Immagino che quello sia il nostro veleno.” Nico raccolse il calice. “Ci troviamo sull’antica entrata del Necromanteion. Odisseo venne qui, insieme ad altre dozzine di eroi, in cerca di consigli dai morti.” “I morti li avvertivano di andarsene immediatamente?” chiese Leo. “Io accetterei quel consiglio,” ammise Piper. Nico bevve dal calice, poi lo offrì a Jason. “Mi hai parlato di fiducia, e di correre dei rischi? Bè, ecco qui, figlio di Giove. Quanto ti fidi di me?” Frank non sapeva di cosa stesse parlando Nico, ma Jason non esitò. Prese il calice e bevve. Lo fecero passare per tutto il gruppo, e ogni membro prese un sorso di veleno. Mentre aspettava il suo turno, Frank cercò di controllare le gambe che gli tremavano e lo stomaco che si agitava. Si chiese cosa avrebbe detto sua nonna se avesse potuto vederlo. Stupido, Fai Zhang! Lo avrebbe probabilmente rimproverato. Se tutti i tuoi amici bevessero il veleno, lo faresti anche tu? Frank fu l’ultimo. Il sapore del liquido verde gli ricordava quello del succo di mela andato a male. Svuotò il calice. Questo si trasformò in fumo tra le sue mani. Nico annuì, apparentemente soddisfatto. “Congratulazioni. Assumendo che il veleno non ci uccida, dovremmo essere in grado di passare attraverso il primo livello del Necromanteion.” “Solo il primo livello?” chiese Piper. Nico si girò verso Hazel e fece un gesto verso le scale. “Dopo di te, sorella.” Immediatamente, Frank si sentì completamente perso. Le scale si dividevano in tre diverse direzioni. Non appena Hazel scelse un percorso, le scale si divisero di nuovo. Si fecero strada attraverso dei tunnel interconnessi e delle primitive camere sepolcrali che avevano tutte lo stesso aspetto – le pareti scavate con polverose nicchie che probabilmente una volta avevano ospitato dei corpi. Gli archi sopra le porte erano dipinti con mucche nere, alberi di pioppo bianchi e gufi. “Pensavo che il gufo fosse il simbolo di Minerva,” mormorò Jason. “Il gufo urlante è uno degli animali sacri di Ade,” disse Nico. “Il suo grido simboleggia un brutto presagio.” “Da questa parte.” Hazel indicò un arco che aveva lo stesso aspetto di tutti gli altri. “E’ l’unico che non ci crollerà addosso.” “In questo caso, buona scelta,” disse Leo. Frank iniziò a sentirsi come se stesse lasciando il mondo dei vivi. La sua pelle pungeva, e si chiese se fosse un effetto collaterale del veleno. Il sacchettino con il suo legnetto sembrava più pesante appeso alla sua cintura. Nel brillio inquietante delle loro armi magiche, i suoi amici assomigliavano a fantasmi tremolanti. Dell’aria fredda gli accarezzò il volto. Nella sua mente, Ares e Marte si erano fatti silenziosi, ma Frank credeva di sentire altre voci che sussurravano nei corridoi laterali, invitandolo a cambiare strada, ad avvicinarsi per ascoltarli parlare. Finalmente raggiunsero un arco scolpito con forme di teschi umani – o forse erano teschi umani incastonati nella roccia. Nella luce viola dello scettro di Diocleziano, le orbite vuote dei teschi sembravamo ammiccare. Frank stava quasi per colpire il soffitto quando Hazel gli posò una mano sul braccio. “Questa è l’entrata del secondo livello,” disse. “E’ meglio se do un’occhiata.” Frank non si era nemmeno accorto che si era spostato davanti all’entrata. “Uh, certo…” Le fece spazio. Hazel fece scorrere le dita lungo i teschi scolpiti. “Nessuna trappola sulla porta, ma… c’è qualcosa di strano qui. I miei sensi sotterranei sono – sono confusi, come se qualcuno mi stesse opponendo, nascondendo quello che ci aspetta davanti.” “La maga della quale ti ha parlato Ecate?” indovinò Jason. “Quella che Leo ha visto nei suoi sogni? Come si chiamava?” Hazel si morse le labbra. “Sarebbe più sicuro non pronunciare il suo nome. Ma state in guardia. Di una cosa sono certa: da questo punto in poi, i morti sono più forti dei vivi.” Frank non era certo di come facesse a saperlo, ma le credeva. Le voci nell’oscurità sembravano sussurrare più forte. Catturò dei lampi di movimento nelle ombre. Dal modo in cui gli occhi dei suoi amici saettavano intorno alla stanza, indovinò che li vedessero anche loro. “Dove sono i mostri?” chiese ad alta voce. “Pensavo che Gea avesse un esercito a sorvegliare le Porte” “Non lo so,” disse Jason. La sua carnagione pallida appariva verde come il veleno del calice. “A questo punto preferirei quasi uno scontro diretto.” “Attento a quello che desideri, amico.” Leo invocò una palla di fuoco nella mano, e per una volta Frank fu contento di vedere le fiamme. “Personalmente, sto sperando che non ci sia nessuno in casa. Entriamo, troviamo Percy e Annabeth, distruggiamo le Porte della Morte, e usciamo. Magari ci fermiamo al negozio di souvenir.” “Sì,” disse Frank. “Andrà proprio così.” Il tunnel tremò. Dei detriti caddero dal soffitto. Hazel afferrò la mano di Frank. “Era vicino,” mormorò. “Questi corridoi non reggeranno ancora a lungo” “Le Porte della Morte si sono appena riaperte,” disse Nico. “Accade più o meno ogni quindici minuti,” notò Piper. “Ogni dodici,” la corresse Nico, anche se non spiegò come facesse a saperlo. “Faremo meglio a brigarci. Percy ed Annabeth sono vicini. Sono in pericolo. Posso avvertirlo.” Mentre procedevano più in profondità, i corridoi si allargarono. Il soffitto salì fino a sei metri, decorato con elaborati dipinti di gufi tra i rami di bianchi pioppi. Lo spazio in più avrebbe dovuto sollevare Frank, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era la situazione tattica. I tunnel erano abbastanza grandi per ospitare grossi mostri, persino giganti. Ovunque c’erano angoli ciechi, perfetti per le imboscate. Il loro gruppo poteva essere facilmente affiancato o circondato. Non avrebbero avuto nessuna opzione di ritirata. Tutti gli istinti di Frank gli dicevano di uscire da quei tunnel. Se non c’era nessun mostro visibile, quello voleva solo dire che si stavano nascondendo, in attesa di far scattare la trappola. Anche se Frank lo sapeva, non c’era molto che potesse fare. Dovevano trovare le Porte della Morte. Leo tenne il fuoco vicino alle pareti. Frank vide delle antiche scritte in greco antico graffiate nella pietra. Non sapeva leggere il greco antico, ma indovinò che si trattava si preghiere o di suppliche ai morti, scritte dai pellegrini migliaia di anni prima. Il pavimento del tunnel era cosparso da frammenti di ceramica e monete d’argento. “Offerte?” indovinò Piper. “Sì,” disse Nico. “Se volevi che comparissero i tuoi antenati, dovevi fare un’offerta.” “Noi non facciamo offerte,” suggerì Jason. Nessun lo contraddisse. “Da qui il tunnel è instabile,” avvertì Hazel. “Il pavimento potrebbe… bè, voi seguitemi, camminateesattamente dove passo io.” Andò in avanti. Frank camminava subito dopo di lei – non perché si sentisse particolarmente coraggioso, ma perché voleva essere vicino se Hazel avesse avuto bisogno di aiuto. Le voci del dio della guerra avevano ripreso a litigare nelle sue orecchie. Poteva avvertire il pericolo – molto vicino adesso. Fai Zhang. Si fermò di colpo. Quella voce… non era quella di Ares o Marte. Sembrava essere vicino a lui, come se qualcuno gli stesse sussurrando nell’orecchio. “Frank?” sussurrò Jason dietro di lui. “Hazel, aspetta un secondo. Frank, cosa c’è che non va?” “Nulla,” mormorò Frank. “Ho solo –“ Pylos, disse la voce. Ti aspetto a Pylos. Frank aveva la sensazione che il veleno gli stesse risalendo lungo la gola. Era stato spaventato numerose volte in passato. Aveva persino affrontato il dio della Morte. Ma quella voce lo terrorizzava in modo diverso. Gli risuonava nelle ossa, come se conoscesse ogni cosa di lui – la sua maledizione, la sua storia, il suo futuro. Sua nonna aveva sempre preso seriamente la tradizione dell’onorare gli antenati. Era una cosa Cinese. Dovevi appagare i fantasmi. Dovevi prenderli seriamente. Frank aveva sempre pensato che le superstizioni di sua nonna fossero sciocche. Adesso aveva cambiato idea. Non aveva nessun dubbio… la voce che gli aveva parlato era uno dei suoi antenati. “Frank, non muoverti.” Hazel suonava spaventata. Abbassò lo sguardo e si rese conto che era in procinto di uscire dal percorso. Per sopravvivere, devi guidare, disse la voce. Alla rottura, devi prendere il comando. “Guidare dove?” chiese ad alta voce. Poi la voce scomparve. Frank poteva avvertire la sua assenza, come se improvvisamente fosse precipitata l’umidità. “Uh, ragazzone?” disse Leo. “Potresti non impazzire? Per favore e grazie.” Gli amici di Frank lo stavano tutti guardando preoccupati. “Sto bene,” riuscì a dire. “Solo… una voce.” Nico annuì. “Ti avevo avvertito. Non farà che peggiorare. Dovremmo –“ Hazel alzò la mano per chiedere silenzio. “Aspettate tutti qui.” A Frank non piaceva, ma lei avanzò a sola. Lui contò fino a ventitre prima di vederla tornare, con il volto teso e meditabondo. “Stanza paurosa davanti a noi,” avvertì. “Non fatevi prendere dal panico.” “Quelle due cose non vanno d’accordo insieme,” mormorò Leo. Ma seguirono tutti Hazel nella caverna. La stanza assomigliava a una cattedrale circolare, con un soffitto così alto che si perdeva nel buio. Dozzine di altri tunnel portavano in varie direzioni, ognuno riecheggiante di voci spettrali. La cosa che rese Frank nervoso fu il pavimento. Era un raccapricciante mosaico di ossa e gemme – femori umani, bacini, e costole distorte e fuse insieme fino a formare una superficie liscia, punteggiata di diamanti e rubini. Le ossa formavano dei disegni, come dei contorsionisti scheletrici intrecciati insieme, avvolti per proteggere le pietre preziose – una danza di morte e ricchezze. “Non toccate nulla,” disse Hazel. “Non avevo intenzione di farlo,” borbottò Leo. Jason studiò l’uscita. “Adesso da che parte si va?” Per una volta, Nico apparve incerto. “Questa dovrebbe essere la camera dove i preti invocavano gli spiriti più potenti. Uno di questi passaggi porta più in profondità nel tempio, fino al terzo livello e all’altare di Ade stesso. Ma quale –?” “Quello.” Frank indicò un tunnel. Sulla soglia di un corridoio all’estremità opposta della stanza, uno spettrale legionario romano gli fece cenno di avvicinarsi. Il suo volto era nebbioso e indistinto, ma Frank ebbe la sensazione che il fantasma stesse guardando dritto verso di lui. Hazel si accigliò. “Perché quello?” “Non vedete il fantasma?” chiese Frank. “Fantasma?” chiese Nico. Okay… se Frank stava vedendo un fantasma che i figli dell’Oltretomba non vedevano, c’era senza dubbio qualcosa che non andava. Si sentì come se il pavimento stesse vibrando sotto i suoi piedi. Poi si rese conto che stava vibrando. “Dobbiamo raggiungere quell’uscita,” disse. “Adesso!” Hazel dovette quasi placcarlo per fermarlo. “Aspetta, Frank! Questo pavimento non è stabile, e sotto… bè, non sono certa di cosa ci sia sotto. Devo trovare un passaggio sicuro.” “Allora fallo in fretta,” la incitò. Tirò fuori il suo arco e scortò Hazel quanto più velocemente osasse andare. Leo correva dietro di lui per fare luce. Gli altri erano nella retroguardia. Frank poteva capire che stava spaventando i suoi amici, ma non poteva farci nulla. Sapeva nella pancia che avevano solo pochi secondi prima che… Davanti a loro, il fantasma legionario si vaporizzò. La caverna riecheggiò con mostruosi ruggiti – dozzine, forse centinaia di nemici che stavano arrivando da tutte le direzioni. Frank riconobbe l’urlo roco dei Figli della Terra, lo strillo dei grifoni, il gutturale grido di battaglia dei Ciclopi – tutti suoni che si ricordava dalla Battaglia di Nuova Roma, amplificati sottoterra, riecheggianti nella sua testa persino più forte delle voci del dio della guerra. “Hazel, non fermarti!” ordinò Nico. Prese lo scettro di Diocleziano dalla sua cintura. Piper e Jason sguainarono le spade mentre i mostri si riversavano nella caverna. Un’avanguardia di Figli della Terra dalle sei braccia lanciò una raffica di pietre che frantumò il pavimento fatto di gioielli ed ossa come fosse ghiaccio. Una crepa si allargo dal centro della stanza, correndo dritta verso Leo e Hazel. Non c’era tempo per essere cauteli. Frank placcò i suoi amici, e insieme scivolarono tutti e tre sul pavimento della caverna, atterrando sul bordo del tunnel del fantasma mentre pietre e lance volavano sopra di loro. “Andate!” gridò Frank. “Andate, andate!” Hazel e Leo si riversarono nel tunnel, che sembrava essere l’unico libero dai mostri. Frank non sapeva se fosse un buon segno. Dopo due metri, Leo si voltò. “Gli altri!” L’intera caverna tremò. Frank si guardò indietro e il suo coraggio si ridusse in polvere. A dividere la caverna c’era un nuovo abisso di quindici metri, unito solo da due traballanti strisce di pavimento di ossa. La massa dell’esercito dei mostri si trovava dall’altra parte, urlante di frustrazione e intenta a lanciare qualsiasi cosa riuscissero a trovare, inclusi loro stessi. Alcuni cercarono si attraversare i ponti, che scricchiolarono e si creparono sotto il loro peso. Jason, Piper e Nico si trovavano nella parte vicina dell’abisso, il che era un bene, ma erano circondati da un anello di Ciclopi e segugi infernali. Altri mostri continuavano a riversarsi dai corridoi laterali, mentre i grifoni volavano da sopra, non scoraggiati dal pavimento cadente. I tre semidei non sarebbero mai riusciti a raggiungere il tunnel. Anche se Jason avesse provato a farli volare, sarebbero stati attaccati via aerea. Frank si ricordò della voce del suo antenato: Alla rottura, devi prendere il comando. “Dobbiamo aiutarli,” disse Hazel. La mente di Frank stava correndo, facendo dei calcoli di battaglia. Vide esattamente quello che sarebbe accaduto – dove e quando i suoi amici sarebbero stati sopraffatti, come tutti loro sei sarebbero morti in quella caverna… a meno che Frank non avesse cambiato l’equazione. “Nico!” gridò. “Lo scettro.” Nico sollevò lo scettro di Diocleziano, e l’aria della caverna brillò di viola. Dei fantasmi si arrampicarono dalle crepe nel pavimento e filtrarono dalle pareti – un’intera legione romana in tenuta da battaglia. Iniziarono ad assumere una forma fisica, come cadaveri ambulanti, ma sembravano confusi. Jason gridò in latino, ordinando loro di formare dei ranghi e di attaccare. I morti si limitarono a muoversi confusi tra i mostri, causando un momentaneo scompiglio, ma non sarebbe durato. Frank si voltò verso Hazel e Leo. “Voi due andate avanti.” Gli occhi di Hazel si spalancarono. “Cosa? No!” “Dovete.” Era la cosa più difficile che Frank avesse mai fatto, ma sapeva che era l’unica scelta. “Trovate le Porte. Salvate Annabeth e Percy.” “Ma –“ Leo guardò oltre la spalla di Frank. “Giù!” Frank si gettò a terra per ripararsi mentre una raffica di pietre volava sopra la sua testa. Quando riuscì ad alzarsi, tossendo e ricoperto di polvere, l’entrata del tunnel era sparita. Un’intera sezione del muro era crollata, lasciando una cascata di detriti fumanti. “Hazel…” La voce di Frank si spezzò. Doveva sperare che lei e Leo fossero vivi dall’altra parte. Non poteva permettersi di pensare diversamente. La rabbia gli ribollì nel petto. Si voltò e caricò contro l’esercito di mostri. 67 FRANK Frank non era un esperto di fantasmi, ma i legionari morti dovevano essere stati tutti dei semidei, perché erano assolutamente ADHD. Si fecero strada fuori dall’abisso, poi vagarono intorno senza scopo, colpendosi sul petto a vicenda senza nessuna ragione apparente, spingendosi l’un l’altro oltre la voragine, sparando frecce in aria come cercando di uccidere le mosche e, di tanto in tanto, solo per pura fortuna, lanciavano un giavellotto, una spada, o uno dei loro compagni nella direzione del nemico. Nel frattempo, l’esercito di mostri si faceva sempre più grande e arrabbiato. I Figli della Terra lanciavano raffiche di pietre che atterravano sui legionari zombie, schiacciandoli come carta. Demoni femminili con gambe spaiate e capelli di fiamme (Frank indovinò che fossero delle empousai) digrignavano le loro zanne e gridavano ordini agli altri mostri. Una dozzina di Ciclopi avanzava sui ponti instabili, mentre degli umanoidi con forma di foche – telchini, come quelli che Frank aveva visto ad Atlanta – trascinavano fiale di fuoco greco oltre l’abisso. Nella mischia c’era persino qualche centauro selvaggio, che scoccava frecce di fuoco e schiacciava i suoi alleati più piccoli sotto gli zoccoli. Infatti, la maggior parte dei nemici sembrava essere armata con qualche tipo di arma in fiamme. Nonostante il suo sacchetto a prova di fuoco, Frank trovò la cosa estremamente negativa. Si fece largo tra la folla di romani morti, abbattendo i mostri fino a che non terminò le frecce, aprendosi lentamente la strada verso i suoi amici. Un po’ troppo tardi, si rese conto – stupido – che avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di grosso e potente, come un orso o un drago. Non appena quel pensiero lo colpì, del dolore gli balenò lungo il braccio. Inciampò all’indietro, abbassò lo sguardo, e guardò incredulo l’estremità di una freccia che gli sporgeva dal bicipite sinistro. La manica della maglietta era inzuppata di sangue. Quella vista gli diede le vertigini. Soprattutto lo fece arrabbiare. Cercò di trasformarsi in un drago, senza successo. Il dolore rendeva troppo difficile concentrarsi. Forse non poteva mutare forma se era ferito. Fantastico, pensò. Lo scopro solo adesso. Lasciò cadere il suo arco e raccolse una spada da… bè, in realtà non era certo di cosa si trattasse – qualche tipo di donna rettile con dei serpenti al posto delle gambe che si trovava sconfitta a terra. Si aprì la strada in avanti, cercando di ignorare il dolore e il sangue che gli colava dal braccio. A circa cinque metri di distanza, Nico stava agitando la spada nera con una mano, tenendo lo scettro di Diocleziano sollevato con l’altra. Continuava a gridare ordini ai legionari, ma questi non gli prestavano attenzione. Certo che no, pensò Frank. Lui è greco. Jason e Piper si trovavano alle spalle di Nico. Jason invocava delle raffiche di vento per far deviare giavellotti e frecce. Fece volare di lato una fiala di fuoco greco, spedendola dritta nella gola di un grifone, che esplose in fiamme e precipitò nell’abisso. Piper faceva buon uso della sua spada, mentre riversava del cibo dalla sua cornucopia con l’altra mano – usando prosciutti, polli, mele, e arance come missili intercettori. L’aria sopra l’abisso si trasformò in uno spettacolo di fuochi d’artificio fatti di proiettili di fuoco, rocce esplosive e prodotti freschi. Tuttavia, gli amici di Frank non potevano resistere per sempre. Il volto di Jason era già imperlato di sudore. Continuava a gridare in latino: “Formate dei ranghi!” Ma i legionari morti non ascoltavano nemmeno lui. Alcuni degli zombie erano utili semplicemente trovandosi in mezzo, bloccando i mostri e intercettando i colpi. Se continuavano ad essere abbattuti, però, non ce ne sarebbero rimasti abbastanza per organizzarli. “Fate largo!” gridò Frank. Con sua sorpresa, i legionari morti si spostarono per farlo passare. Quelli più vicini si voltarono e lo fissarono con occhi vuoti, come in attesa di nuovi ordini. “Oh, meraviglioso…” borbottò Frank. A Venezia, Marte lo aveva messo in guardia sul fatto che la sua vera prova da leader stava per arrivare. L’antenato spettrale di Frank lo aveva esortato a prendere il comando. Ma sei quei romani morti non ascoltavano Jason, perché avrebbero dovuto ascoltare lui? Perché era un figlio di Marte, o forse perché… La verità lo investì. Jason non era più completamente romano. Il periodo che aveva trascorso al Campo Mezzosangue lo aveva cambiato. Reyna se ne era accorta. Apparentemente, lo avevano fatto anche i legionari morti. Se Jason non irradiava più la giusta aura, l’aura di un leader romano… Frank raggiunse i suoi amici mentre un’ondata di Ciclopi si gettava contro di loro. Sollevò la sua spada per parare la mazza di un Ciclope, poi pugnalò un altro mostro nella gamba, facendolo volare all’indietro nell’abisso. Un altro lo attaccò. Frank riuscì a impalarlo, ma la perdita di sangue lo stava rendendo debole. La sua vista si fece sfocata. Le orecchie gli fischiavano. Era parzialmente consapevole di Jason sul fianco sinistro, che parava un missile in arrivo con il vento; di Piper sulla sua destra, che gridava comandi con la lingua ammaliatrice – incoraggiando i mostri ad attaccarsi a vicenda o di fare un salto rinfrescante nell’abisso. “Sarà divertente!” li assicurava. Alcuni le davano ascolto, ma dall’altra parte dell’abisso, le empousai stavano contrastando i suoi ordini. Apparentemente anche loro avevano la lingua ammaliatrice. I mostri si affollarono così stretti intorno a Frank che lui fu a stento in grado di usare la sua spada. Il puzzo dei loro aliti e dei loro corpi era quasi abbastanza da farlo svenire, persino senza la freccia che gli pulsava nel braccio. Cosa avrebbe dovuto fare Frank? Aveva un piano, ma i suoi pensieri si stavano facendo confusi. “Stupidi fantasmi!” gridò Nico. “Non ascoltano!” concordò Jason. Ecco cos’era. Frank doveva far sì che i fantasmi ascoltassero. Chiamò tutta la sua forza e gridò, “Coorti – serrate gli scudi!” Gli zombie attorno a lui si mossero. Si allinearono davanti a Frank, unendo gli scudi, creando un’imprecisa formazione di difesa. Ma si stavano muovendo troppo lentamente, come sonnambuli, e solo alcuni di loro avevano risposto alla sua voce. “Frank, come hai fatto?” gridò Jason. La testa di Frank stava nuotando nel dolore. Si obbligò a non svenire, “Sono classificato come ufficiale romano,” disse. “Loro – uh, loro non ti riconosco. Scusa.” Jason fece una smorfia, ma non sembrava particolarmente sorpreso. “Come possiamo aiutare?” Frank desiderò avere una riposta. Un grifone volò sopra di lui, riuscendo quasi a decapitarlo con i suoi artigli. Nico lo colpì con lo scettro di Diocleziano, e il mostro deviò contro un muro. “Orbem formate!” ordinò Frank. Circa due dozzine di mostri obbedirono, lottando per formare un anello di difesa intorno a Frank e ai suoi amici. Era abbastanza da concedere ai semidei un po’ di respiro, ma c’erano troppi nemici che spingevano in avanti. La maggior parte dei legionari fantasmi stava ancora vagando in trance. “Il mio rango,” capì Frank. “Tutti questi mostri formano un rango!” gridò Piper, pugnalando un centauro selvaggio. “No,” disse Frank. “Io sono solo un centurione.” Jason imprecò in latino. “Vuol dire che non può controllare un’intera legione. Non appartiene a un rango abbastanza elevato.” Nico affondò la sua spada nera contro un altro grifone. “Bè, allora promuovilo!” La mente d Frank era lenta. Non capiva quello che stava dicendo Nico. Promuovere lui? In che modo? Jason gridò con la sua migliore voce da sergente: “Frank Zhang! Io, Jason Grace, pretore della Dodicesima Legione Fulminata, ti do il mio ordine finale: lascio il mio posto e concedo a te una promozione sul campo di emergenza come pretore, con i pieni poteri di quel rango. Prendi il controllo di questa legione!” Frank si sentì come se da qualche parte nella Casa di Ade si fosse aperta una porta, lasciando entrare una raffica di aria fresca che era soffiata attraverso tunnel. Improvvisamente la freccia nel suo braccio non ebbe più importanza. I suoi pensieri erano chiari. La sua vista si fece più nitida. Le voci di Marte e Ares parlarono nella sua testa, forti e unificate: Distruggili! Frank riconobbe a malapena la sua voce quando urlò: “Legione, agmen formate!” Istantaneamente, ogni legionario morto nella caverna sguainò la spada e sollevò lo scudo. Si mossero verso la posizione di Frank, spingendo e colpendo i mostri che si trovavano sulla loro strada fino a che non si trovarono spalla contro spalla con i loro compagni, ordinandosi in una formazione a quadrato. Pietre, giavellotti e fuoco piovevano contro il gruppo di semidei, ma adesso Frank aveva una disciplinata linea difensiva che li proteggeva dietro a un muro fatto di bronzo e pelle. “Arcieri!” gridò Frank. “Eiaculare flammas!” Non aveva molta speranza che il comando avrebbe funzionato. Gli archi degli zombie non potevano essere in buono stato. Ma con suo stupore, numerose dozzine di guerrieri spettrali scoccarono delle frecce contemporaneamente. Le punte delle loro frecce presero fuoco spontaneamente e un’ardente ondata di morte cadde disegnando un arco sopra le file della legione, dritta verso il nemico. I Ciclopi caddero. I centauri furono gettati a terra. Un telchino strillò e corse in cerchio con una freccia in fiamme impalata nella fronte. Frank udì una risata alle sue spalle. Si guardò indietro e non riuscì a credere a quello che vide. Nico di Angelo stava davvero sorridendo. “Così va meglio,” disse Nico. “Andiamo a invertire la corrente!” “Cuneum formate!” urlò Frank. “Avanzate con le pila!” La linea di zombie si fece più stretta nella parte centrale, formando un cuneo progettato per sbaragliare l’armata nemica. Abbassarono le lance per formare un’acuminata linea di armi e si spinsero in avanti. I Figli della Terra gemettero e lanciarono massi, i Ciclopi abbassarono i loro pugni e le loro mazze sulla formazione di scudi, ma i legionari zombie non erano più bersagli di carta. Avevano una forza inumana, barcollavano a malapena sotto gli attacchi più violenti. In poco tempo il pavimento fu ricoperto di polvere di mostro. La fila di giavellotti avanzava attraverso il nemico come fossero dei denti giganti, abbattendo orchi, donne serpente e segugi infernali. Gli arcieri di Frank sparavano contro i grifoni in aria e causavano caos nel corpo centrale dell’esercito dei mostri dall’altra parte dell’abisso. Le forze di Frank iniziarono a prendere il controllo della loro parte di caverna. Uno dei ponti di pietra crollò, ma altri mostri continuavano a riversarsi attraverso il secondo. Frank avrebbe dovuto impedirlo. “Jason,” esclamò, “puoi far volare alcuni legionari oltre l’abisso? Il fianco sinistro del nemico è debole – vedi? Attaccalo!” Jason sorrise. “Con piacere.” Tre romani morti si sollevarono in aria e volarono oltre la voragine. Poi furono raggiunti da altri tre. Alla fine, Jason fece volare se stesso dall’altra parte e la sua squadra iniziò ad attaccare dei telchini dall’aspetto molto sorpreso, diffondendo paura attraverso i ranghi del nemico. “Nico,” disse Frank, “continua a cercare di evocare i morti. Abbiamo bisogno di più forze.” “Ci sono.” Nico sollevò lo scettro di Diocleziano, che brillò di un viola persino più scuro. Altri romani spettrali filtrarono dalle pareti per unirsi alla battaglia. Oltre l’abisso, le empousai gridavano dei comandi in una lingua che Frank non conosceva, ma il succo della questione era ovvio. Stavano cercando di spronare i loro alleati e continuare a farli attaccare attraverso il ponte. “Piper!” gridò Frank. “Opponiti a quelle empousai! Abbiamo bisogno di un po’ di caos.” “Pensavo che non l’avresti mai chiesto.” Iniziò a fischiare verso le demoni: “Il vostro trucco è sbavato! La tua amica ti ha chiamato strega! Quella lì ti sta facendo le boccacce alle spalle!” Presto le donne vampiro furono troppo impegnate a combattere una contro l’altra per gridare qualsiasi ordine. I legionari si mossero in avanti, mantenendo costante la pressione. Dovevano impossessarsi del ponte prima ce Jason venisse sopraffatto. “E’ arrivato il momento di guidare dall’avanguardia,” decise Frank. Sollevò la sua spada presa in prestito e gridò per l’attacco. 68 FRANK Frank non si accorse che stava brillando. In seguito Jason gli disse che la benedizione di Marte lo aveva avvolto con una luce rossa, come aveva fatto a Venezia. I giavellotti non lo toccavano, le pietre in qualche modo venivano deviate. Persino con una freccia che gli spuntava dal bicipite sinistro, Frank non si era mai sentito così carico di energia. Il primo Ciclope che incontrò fu abbattuto così velocemente che fu quasi uno scherzo. Frank lo affettò a metà dalle spalle alla vita. Il ragazzone esplose in polvere. Il Ciclope successivo indietreggiò nervoso, così Frank gli tagliò le gambe e lo spedì nella voragine. I mostri rimanenti dalla loro parte dell’abisso cercarono di ritirarsi, ma la legione li bloccò. “Formazione Tetsubo!” urlò Frank. “Unica fila, avanzate!” Frank fu il primo ad attraversare il ponte. I morti lo seguirono, con gli scudi serrati su entrambi i lati e sopra le loro teste, deviando tutti gli attacchi. Quando l’ultimo zombie attraversò il ponte, questo crollò precipitando nel buio, ma ormai non importava più. Nico continuava a invocare altri legionari per unirsi alla battaglia. Durante la storia dell’impero, migliaia di romani avevano servito ed erano morti in Grecia. Adesso erano tornati, rispondendo alla chiamata dello scettro di Diocleziano. Frank avanzò, distruggendo tutto quello che incontrava sul suo cammino. “Ti brucerò!” strillò un telchino, agitando disperatamente una fiala di fuoco Greco. “Ho il fuoco!” Frank lo abbatté. Mentre la fiala precipitava verso il terreno, Frank le diede un calcio spedendola oltre il bordo del precipizio prima che potesse esplodere. Un’empousa abbassò i suoi artigli sul petto di Frank, ma lui non avvertì nulla. Affettò il demone riducendolo in polvere e continuò a muoversi. Il dolore non era importante. Fallire era impensabile. Lui era un leader della legione adesso, e stava facendo ciò per cui era nato – combattere i nemici di Roma, difendere la sua eredità, proteggere le vite dei suoi amici e dei suoi compagni. Lui era il pretore Frank Zhang. Le sue forze spazzarono via il nemico, spezzando ogni loro tentativo di raggrupparsi. Jason e Piper combattevano al suo fianco, gridando in segno di sfida. Nico avanzava attraverso l’ultimo gruppo di Figli della Terra, riducendoli in cumuli di argilla bagnata con la sua spada di ferro nero. Prima che Frank se ne rendesse conto, la battaglia era terminata. Piper affettò l’ultima empousa, che si vaporizzò con un lamento sofferente. “Frank,” disse Jason, “vai a fuoco.” Lui abbassò lo sguardo. Qualche goccia di olio doveva essersi versata sui suoi pantaloni perché avevano iniziato a fumare. Frank li colpì con la mano finché il fumo non si fermò, ma non era particolarmente preoccupato. Grazie a Leo, non doveva più temere il fuoco. Nico si schiarì la voce. “Uh… hai anche una freccia conficcata nel braccio.” “Lo so.” Frank spezzò la punta della freccia e la estrasse tirandola dall’altra estremità. Avvertì solo una calda sensazione tirante. “Me la caverò.” Piper gli fece mangiare un pezzo di ambrosia. Mentre gli bendava la ferita, disse, “Frank, sei stato eccezionale. Assolutamente terrificante, ma eccezionale.” Frank ebbe dei problemi ad elaborare le sue parole. Terrificante non poteva riferirsi a lui. Lui era soltanto Frank. La sua adrenalina si prosciugò. Si guardò intorno, chiedendosi dove fossero andati tutti i nemici. Gli unici mostri rimasti erano i suoi romani morti, che si trovavano storditi con le armi abbassate. Nico sollevò il suo scettro, con la sfera scura e inattiva. “I morti non rimarranno ancora a lungo, adesso che la battaglia è finita.” Frank si voltò verso le sue truppe. “Legione!” I soldati zombie si misero sull’attenti. “Avete combattuto bene,” disse loro Frank. “Adesso potete riposarvi. Andate.” Crollarono disfacendosi in pile di ossa, armature, scudi e armi. Poi persino quelle si disintegrarono. Frank si sentiva come se anche lui potesse disintegrarsi. Nonostante l’ambrosia, il suo braccio ferito iniziò a pulsare. I suoi occhi erano pesanti dalla stanchezza. La benedizione di Marte era scomparsa, lasciandolo vuoto. Ma il suo lavoro non era ancora finito. “Hazel e Leo,” disse. “Dobbiamo trovarli.” I suoi amici guardarono oltre la voragine. All’altra estremità della caverna, il tunnel nel quale erano entrati Hazel e Leo era sepolto sotto tonnellate di detriti. “Non possiamo andare da quella parte,” disse Nico. “Forse…” Improvvisamente barcollò. Sarebbe precipitato, se Jason non l’avesse preso al volo. “Nico!” disse Piper. “Cosa c’è?” “Le Porte,” disse Nico. “Sta succedendo qualcosa. Percy e Annabeth… dobbiamo andare adesso.” “Ma come?” disse Jason. “Quel tunnel è sparito.” Frank serrò la mascella. Non era arrivato fin lì per rimanere bloccato, incapace di aiutare mentre i suoi amici erano nei guai. “Non sarà divertente,” disse, “ma c’è un altro modo.” 69 ANNABETH Essere uccisi da Tartaro non sembrava un granché come onore. Mentre Annabeth fissava lo scuro vortice che aveva al posto del volto, decise che avrebbe preferito morire in qualche modo meno memorabile – magari cadendo dalle scale, o andandosene serenamente via nel sonno a ottant’anni, dopo una bella vita tranquilla con Percy. Sì, quello le piaceva. Non era la prima volta che Annabeth affrontava un nemico che non poteva sconfiggere con la forza. Normalmente, quello sarebbe stato il segnale per iniziare a prendere tempo con qualche furba chiacchierata da figlia di Atena. Solo che la sua voce non funzionava. Non riusciva nemmeno a chiudere la bocca. Per quanto ne sapeva, stava sbavando tanto quanto faceva Percy quando dormiva. Era a stento consapevole dell’esercito di mostri che vorticava intorno a lei, ma dopo il loro iniziale ruggito di trionfo, l’orda si era fatta silenziosa. Ormai Annabeth e Percy sarebbero dovuti essere già stati fatti a pezzi, invece, i mostri mantenevano le loro distanze, in attesa di qualche mossa da parte di Tartaro. Il dio dell’abisso flesse le dita, esaminandosi i lucidi artigli neri. Non aveva espressione, ma raddrizzò le spalle come se fosse soddisfatto. E’ bello aveva una forma, esclamò. Con queste mani, posso eviscerarvi. La sua voce suonava come una registrazione al contrario – come se le parole venissero risucchiate nel vortice della sua faccia invece che gettate fuori. Infatti, tutto sembrava essere attratto verso il volto di quel dio – la debole luce, le nuvole velenose, l’essenza dei mostri, persino la fragile forza vitale di Annabeth. Si guardò intorno e si rese conto che su ogni oggetto in quella vasta pianura era spuntata una vaporosa coda di cometa – tutte dirette verso Tartaro. Annabeth sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa, ma i suoi istinti le dicevano di nascondersi, di evitare di fare qualsiasi cosa che avrebbe attratto l’attenzione del dio. Inoltre, cosa avrebbe potuto dire? Non ce la farai mai! Non era vero. Lei e Percy erano riusciti a sopravvivere così a lungo solo perché Tartaro si stava gustando la sua nuova forma. Voleva provare il piacere di farli fisicamente a pezzi. Se Tartaro lo voleva, Annabeth non aveva nessun dubbio che avrebbe potuto divorare la sua esistenza con un solo pensiero, tanto facilmente quanto aveva vaporizzato Iperione e Krios. Ci sarebbe stata una rinascita da quello? Annabeth non voleva scoprirlo. Accanto a lei, Percy fece qualcosa che lei non gli aveva mai visto fare. Fece cadere la sua spada. L’arma si limitò a scivolare dalla sua mano e a colpire il terreno con un tonfo. La Foschia di Morte non gli avvolgeva più il volto, ma aveva ancora la carnagione di un cadavere. Tartaro sibilò di nuovo – probabilmente ridendo. La vostra paura ha un odore meraviglioso, disse il dio. Capisco il fascino di avere un corpo fisico con così tanti sensi. Forse la mia amata Gea ha ragione, a desiderare di svegliarsi dal suo sonno. Allungò la sua enorme mano viola, e avrebbe potuto raccogliere Percy da terra come fosse un’erbaccia, ma Bob lo bloccò. “Vattene!” Il Titano puntò la sua lancia contro il dio. “Non hai il diritto di immischiarti!” Immischiarmi? Tartaro si voltò. Io sono il signore di tutte le creature dell’oscurità, piccolo Giapeto. Io posso fare come voglio. Il suo scuro volto da ciclone vorticò più velocemente. Il suono ululante era così orribile, che Annabeth cadde sulle ginocchia stringendosi le orecchie. Bob barcollò, mentre la sua sottile scia di forza vitale si allungava risucchiata verso il volto del dio. Bob ruggì in segno di sfida. Attaccò e affondò la sua lancia verso il petto di Tartaro. Prima che potesse toccarlo, Tartaro colpì Bob, facendolo volare di lato come fosse un insetto fastidioso. Il Titano cadde a terra. Perché non ti disintegri? disse Tartaro con tono meditativo. Tu non sei nulla. Sei persino più debole di Krios e Iperione. “Io sono Bob,” disse Bob. Tartaro sibilò. Cos’è? Cos’è Bob? “Ho deciso di esser più di Giapeto,” disse il Titano. “Tu non mi controlli. Io non sono come i miei fratelli.” Il colletto della sua divisa si gonfiò. Piccolo Bob saltò fuori. Il gattino atterrò al suolo di fronte al suo padrone, poi inarcò la schiena e soffiò contro il signore dell’abisso. Mentre Annabeth guardava, Piccolo Bob iniziò a crescere, la sua forma vibrò fino a che il piccolo gattino non si fu trasformato in una traslucida tigre dai denti a sciabola a grandezza naturale fatta di ossa. “Inoltre,” annunciò Bob, “ho un bravo gatto.” Piccolo Bob non più così piccolo balzò verso Tartaro, affondando i suoi artigli nella coscia del dio. La tigre si arrampicò lungo la sua gamba, dritta sotto la maglietta di maglia cotta. Tartaro si agitò e gridò, apparentemente non più innamorato di avere una forma fisica. Nel frattempo, Bob affondò la sua lancia nel fianco del dio, esattamente sotto la sua corazza. Tartaro ruggì. Si lanciò verso Bob, ma il Titano indietreggiò fuori dalla sua portata. Bob tese la mani in avanti, la sua lancia si estrasse da sola dalla carne del dio e volò nella mano di Bob, il che fece boccheggiare Annabeth dallo stupore. Non avrebbe mai immaginato che una scopa potesse avere così tante funzioni utili. Piccolo Bob saltò fuori dalla maglietta di Tartaro. Corse al fianco del suo padrone, con le zanne a sciabola gocciolanti di icore dorato. Tu morirai per primo, Giapeto, decise Tartaro. Dopo, aggiungerò la tua anima alla mia armatura, dove si dissolverà lentamente, ancora e ancora, in un’agonia eterna. Tartaro batté il suo pugno contro la corazza. Dei volti lattiginosi vorticarono nel metallo, urlando silenziosamente per uscire. Bob si voltò verso Percy e Annabeth. Il Titano fece un grosso sorriso, che probabilmente non sarebbe stata la reazione di Annabeth davanti a una minaccia di agonia eterna. “Prendete le Porte,” disse Bob. “Io penserò a Tartaro.” Tartaro lanciò la testa all’indietro e ruggì – creando un risucchio così forte che i demoni volanti più vicini furono tirati nella sua faccia di vortice e ridotti a brandelli. Pensare a me? Lo derise il dio. Tu sei solo un Titano, un figlio minore di Gea! Ti farò soffrire per la tua arroganza. E per quanto riguarda i tuoi minuscoli amici mortali… Tartaro agitò la mano verso l’esercito di mostri, invitandoli a farsi avanti. DISTRUGGETELI! 70 ANNABETH DISTRUGGETELI. Annabeth aveva sentito quelle parole abbastanza spesso da scuoterla dalla sua paralisi. Sollevò la sua spada e grido, “Percy!” Lui raccolse Vortice da terra. Annabeth si lanciò verso le catene che reggevano le Porte della Morte. La sua lama di osso di dragone tagliò le funi di sinistra con un unico colpo. Nel frattempo, Percy tratteneva la prima ondata di mostri. Pugnalò unarai e gemette, “Gah! Stupide maledizioni!” poi abbatté una mezza dozzina di telchini. Annabeth corse alle sue spalle e spezzò le catene dall’altra parte. Le Porte tremarono, poi si aprirono con un piacevole Ding! Bob e la sua spalla dai denti a sciabola continuavano a muoversi velocemente intorno alle gambe di Tartaro, attaccando e schivando per rimanere fuori dalla portata dei suoi artigli. Non sembrava che stessero causando molti danni, ma Tartaro stava barcollando, evidentemente non abituato a combattere con un corpo umanoide. Attaccava e mancava l’obbiettivo, attaccava e mancava. Altri mostri si riversarono verso le Porte. Una lancia volò accanto alla testa di Annabeth. Lei si voltò e pugnalò un empousa nello stomaco, poi si lanciò verso le Porte mentre queste cominciavano a chiudersi. Le tenne aperte con il piede mentre combatteva. Almeno, con la schiena rivolta alle porte dell’ascensore, non doveva preoccuparsi di attacchi alle spalle. “Percy, vieni qui!” urlò. Lui la raggiunse alla porta, con il volto gocciolante di sudore e sangue proveniente da numerosi tagli. “Stai bene?” chiese lei. Lui annuì. “Ho ricevuto una maledizione del dolore da quell’arai.” Colpì un grifone e lo fece precipitare dal cielo. “Fa male, ma non mi ucciderà. Entra nell’ascensore. Io terrò il pulsante.” “Sì, come no!” Lei colpì un cavallo carnivoro sul muso con l’elsa della sua spada e spedì il mostro in mezzo alla folla. “Hai promesso, Testa d’Alghe. Non ci separeremo! Mai più!” “Sei impossibile!” “Ti amo anche io!” Un’intera fila di Ciclopi corse verso di loro, gettando i mostri più piccoli fuori dalla loro strada. Annabeth pensò che stesse per morire. “Dovevano essere proprio Ciclopi,” brontolò. Percy lanciò un grido di battaglia. Ai piedi dei Ciclopi, una vena rossa che si trovava nel terreno esplose, investendo i mostri con del fuoco liquido proveniente dal Flegetonte. L’acqua di fuoco poteva curare i mortali, ma non fece nessun favore ai Ciclopi. Questi presero fuoco in un’onda anomala di calore. La vena scoppiata guarì da sola, ma dei mostri non rimase nulla eccetto una fila di segni di bruciatura. “Annabeth, devi andare!” disse Percy. “Non possiamo rimanere tutti e due!” “No!” gridò lei. “Giù!” Lui non chiese perché. Si abbassò, e Annabeth si mosse sopra di lui, abbassando la sua spada sulla testa di un orco completamente tatuato. Lei e Percy si trovavano spalla contro spalla davanti alle Porte, in attesa della prossima ondata. La vena esplosa aveva dato una pausa ai mostri, ma non ci sarebbe voluto molto prima che questi si fossero ricordati:Hey, aspetta, noi siamo settantacinque miliardi e loro sono solo in due. “Bè, allora,” disse Percy, “hai un’idea migliore?” Annabeth desiderò che fosse così. Le Porte della Morte si trovavano proprio alle loro spalle – la loro uscita da quel mondo da incubo. Ma non potevano usare le Porte senza qualcuno che rimaneva ai controlli per dodici lunghi minuti. Se entravano e lasciavano che le Porte si chiudessero senza che qualcuno spingesse il pulsante, Annabeth non credeva che il risultato sarebbe stato salutare. E se per qualsiasi ragione si fossero allontanati dalle Porte, pensava che l’ascensore si sarebbe chiuso e sarebbe scomparso senza di loro. La situazione era così pateticamente triste, da essere quasi divertente. La folla di mostri avanzò lentamente, ringhiando e raccogliendo il coraggio. Nel frattempo, gli attacchi di Bob si stavano facendo più lenti. Tartaro stava imparando a controllare il suo nuovo corpo. Piccolo Bob dai denti a sciabola balzò verso il dio ma Tartaro colpì il gatto spedendolo di lato. Bob attaccò, ruggendo di rabbia ma Tartaro afferrò la sua lancia e la strappò dalle mani del Titano. Diede un calcio a Bob spendendolo a terra, abbattendo una fila di telchini come fossero dei birilli fatti di mammiferi marini. ARRENDITI! rombò Tartaro. “Non lo farò,” disse Bob. “Tu non sei il mio padrone.” Allora muori resistendomi, disse il dio dell’abisso. Voi Titani non siete nulla per me. I miei figli, i giganti, sono sempre stati migliori, più forti, e più malvagi. Loro renderanno il mondo superiore scuro come il mio regno! Tartaro spezzò la lancia a metà. Bob gemette in agonia. Piccolo Bob saltò verso di lui per aiutarlo, ringhiando verso Tartaro e scoprendo le sue zanne. Il Titano cercò di rialzarsi, ma Annabeth sapeva che era finita. Persino i mostri si voltarono per guardare, come se avvertissero che il loro signore stava per entrare in azione. La morte di un Titano era una cosa degna di essere vista. Percy afferrò la mano di Annabeth. “Rimani qui. Devo aiutarlo.” “Percy, non puoi,” disse lei con voce strozzata. “Tartaro non può essere combattuto. Non da noi.” Sapeva di avere ragione. Tartaro apparteneva a una categoria a parte. Era più potente degli dei o dei Titani. I semidei non erano nulla in confronto a lui. Se Percy attaccava per aiutare Bob, sarebbe stato schiacciato come una formica. Ma Annabeth sapeva anche che Percy non le avrebbe dato ascolto. Non poteva lasciare che Bob morisse da solo. Non era una cosa da lui – e quella era una delle numerose ragioni per la quale lo amava, anche se era una sofferenza formato Olimpo. “Andremo insieme,” decise Annabeth, sapendo che quella sarebbe stata la loro ultima battaglia. Se si allontanavano dalle Porte, non avrebbero mai lasciato il Tartaro. Almeno sarebbero morti combattendo fianco a fianco. Stava per dire: Adesso. Un’ondata di panico attraversò l’esercito. In lontananza, Annabeth udì grida, urla, e un persistente boom, boom, boom che era troppo veloce per essere il battuto del cuore nel terreno – assomigliava più a qualcosa di grosso e pesante, che stava correndo a forte velocità. Un Figlio della Terra volò in aria come se fosse stato lanciato. Uno sbuffo di gas verde acceso si levò sulla cima dell’orda di mostri come acqua spruzzata da un idrante. Tutto ciò che colpiva si dissolse. Oltre la distesa di sfrigolante terreno, adesso vuoto, Annabeth vide la causa del panico. Iniziò a sorridere. Il dragone Meoniano aprì il suo collare e sibilò, con l’alito velenoso che riempiva il campo di battaglia dell’odore di pino e zenzero. Mosse il suo corpo di trenta metri, agitando la sua coda chiazzata di verde e spazzando via un battaglione di orchi. A cavallo sulla sua schiena c’era un gigante dalla pelle rossa con fiori negli intrecciati capelli color ruggine, un giacchetto di pelle verde, e una lancia fatta con una costola di dragone nella mano. “Damasene!” gridò Annabeth. Il gigante inclinò la testa. “Annabeth Chase, ho seguito il tuo consiglio. Mi sono scelto un nuovo destino.” 71 ANNABETH Cos’è? sibilò il dio dell’abisso. Perché sei venuto, figlio disgraziato? Damasene lanciò uno sguardo verso Annabeth, con un messaggio chiaro negli occhi: Vai. Adesso. Il gigante si voltò verso Tartaro. Il dragone Meoniano pestò le zampe a terra e ringhiò. “Padre, desideravi un avversario più degno?” chiese Damasene con tono calmo. “Io sono uno dei giganti dei quali sei così orgoglioso. Volevi che fossi più battagliero? Magari inizierò con il distruggerti!” Damasene puntò la sua lancia verso di lui e caricò. L’esercito di mostri lo assalì, ma il dragone Meoniano spianava tutto quello che trovava sul suo cammino, spazzando con la sua coda e spruzzando veleno mentre Damasene attaccava Tartaro, obbligando il dio a ritirarsi come un leone in trappola. Bob si allontanò velocemente dalla battaglia, con il gatto dai denti sciabola al suo fianco. Percy garantì loro tutta la copertura che poteva – facendo esplodere i vasi sanguigni nel terreno uno dopo l’altro. Alcuni mostri vennero carbonizzati nelle acque dello Stige. Ad altri toccò una doccia di acqua del Cocito e caddero a terra, scossi dal pianto. Altri furono inzuppati con il liquido del Lete e si ritrovarono a guardarsi intorno apatici, senza essere più sicuri su dove si trovassero o persino su chi fossero. Bob zoppicò fino alle Porte. L’icore dorato gli usciva dalle ferite sulle braccia e sul petto. La sua divisa da custode era a brandelli. Stava in piedi storto e ingobbito, come se il fatto che Tartaro avesse spezzato la sua lancia gli avesse rotto qualcosa dentro. Nonostante tutto quello, stava sorridendo, con gli occhi argentati che luccicavano di soddisfazione. “Andate,” ordinò. “Io terrò il pulsante.” Percy lo fissò sconvolto. “Bob, non sei nelle condizioni –“ “Percy.” La voce di Annabeth rischiava di spezzarsi. Si detestava per il fatto che stesse permettendo che Bob facesse quella cosa, ma sapeva che era l’unico modo. “Dobbiamo farlo.” “Non possamo lasciarli qui!” “Devi, amico.” Bob diede una pacca sul braccio di Percy, gettandolo quasi a terra. “Posso ancora premere un pulsante. E ho un buon gatto che mi protegge.” Piccolo Bob ringhiò in segno di assenso. “Inoltre,” disse Bob, “tornare nel mondo è il vostro destino. Mettete una fine a questa pazzia di Gea.” Un Ciclope urlante, sfrigolante a causa degli spruzzi di veleno, volò sopra le loro teste. A cinquanta metri di distanza, il dragone Meoniano si fece strada attraverso i mostri, con le zampe che producevano dei rivoltanti squish squish come se stesse camminando sull’uva. Sulla sua schiena, Damasene gridava insulti e punzecchiava il dio dell’abisso, adescando Tartaro ad allontanarsi sempre di più dalle Porte. Tartaro lo seguiva con passo pesante, creando dei crateri nel terreno con i suoi stivali di ferro. Non puoi uccidermi! ruggì. Io sono l’abisso in persona. E’ come cercare di uccidere la terra. Io e Gea – noi siamo eterni. Noi vi possediamo, carne e spirito! Abbassò il suo enorme pugno, ma Damasene si spostò di lato, impalando il suo giavellotto nel lato del collo di Tartaro. Tartaro ringhiò, apparentemente più irritato che ferito. Girò il suo vorticante volto aspiratore verso il gigante, ma Damasene si spostò in tempo. Una dozzina di mostri furono risucchiati nel vortice e si disintegrarono. “Bob, non farlo!” disse Percy, con gli occhi imploranti. “Ti distruggerà permanentemente. Nessun ritorno. Nessuna rigenerazione.” Bob scrollò le spalle. “Chi sa cosa succederà? Dovete andare ora. Tartaro ha ragione su una cosa. Non possiamo sconfiggerlo. Possiamo solo farvi guadagnare del tempo.” Le Porte cercarono di chiudersi sul piede di Annabeth. “Dodici minuti,” disse il Titano. “Posso darveli.” “Percy… tieni le Porte.” Annabeth saltò fuori dall’ascensore e gettò le sue braccia intorno al collo del Titano. Gli baciò la guancia, con gli occhi così carichi di lacrime, che non riusciva a vedere nitidamente. Il volto ispido di Bob aveva l’odore di prodotti per pulire – lucido per mobili al limone e olio per il legno. “I mostri sono eterni,” gli disse, cercando di impedirsi di piangere. “Noi ricorderemo te e Damasene come eroi, come il Titano migliore e il gigante migliore. Lo racconteremo ai nostri figli. Manterremo la storia in vita. Un giorno, vi rigenererete.” Bob le scompigliò i capelli. Delle rughe di sorriso gli apparvero intorno agli occhi. “Questo è bello. Fino ad allora, amici miei, salutate il sole e le stelle per me. E siate forti, questo potrebbe non essere l’ultimo sacrificio che dovrete fare per fermare Gea.” La spinse via gentilmente. “Non c’è più tempo. Vai.” Annabeth afferrò il braccio di Percy. Lo trascinò dentro l’ascensore. Ebbe un’ultima veloce immagine del dragone Meoniano che scuoteva un orco come fosse un pupazzo, e di Damasene che punzecchiava le gambe di Tartaro. Il dio dell’abisso indicò le Porte della Morte e gridò: Mostri, fermateli! Piccolo Bob si acquattò e ringhiò, pronto per attaccare. Bob fece l’occhiolino verso Annabeth. “Tenete le Porte chiuse dalla vostra parte,” disse. “Loro cercheranno di opporsi al vostro passaggio. Tenetele –“ Le porte si chiusero. 72 ANNABETH “Percy, aiutami!” gridò Annabeth. Gettò tutto il suo corpo contro la porta di sinistra, spingendola verso il centro. Percy fece la stessa cosa sulla destra. Non c’erano maniglie, o nient’altro a cui potersi reggere. Mentre il vano dell’ascensore saliva, le Porte tremavano e cercavano di aprirsi, minacciando di gettarli fuori in qualsiasi cosa ci fosse tra la vita e la morte. Le spalle di Annabeth erano doloranti. La musichetta di sottofondo dell’ascensore non aiutava. Se tutti i mostri dovevano ascoltare quella canzone che parlava di pina colada e di essere persi nella pioggia, non c’era da stupirsi che fossero dell’umore di massacrare quando raggiungevano il mondo mortale. “Abbiamo lasciato Bob e Damasene,” disse Percy con voce roca. “Moriranno per noi, e noi abbiamo –“ “Lo so,” mormorò lei. “Dei dell’Olimpo, Percy, lo so.” Annabeth era quasi grata per il compito di dover reggere le Porte. Il terrore che le scorreva nel cuore almeno la distraeva dal lasciarsi andare alla sofferenza. Abbandonare Damasene e Bob era stata la cosa più dura che aveva mai fatto. Per anni al Campo Mezzosangue, non aveva sopportato quando gli altri campeggiatori partecipavano alle imprese mentre lei doveva rimanere là. Aveva guardato mentre gli altri guadagnavano la gloria… o fallivano e non tornavano. Da quando aveva sette anni, aveva pensato: Perché io non ho la possibilità di dimostrare le mie capacità? Perché non posso guidare io un’impresa? Adesso, si rese conto che la prova più difficile per un figlio di Atena non era guidare un’impresa o affrontare la morte in battaglia. Era prendere la decisione strategica di farsi da parte, di lasciare che qualcun’altro affrontasse il pericolo –soprattutto quando quella persona era un tuo amico. Doveva affrontare il fatto che non poteva proteggere tutti quelli che amava. Non poteva risolvere ogni problema. Detestava la cosa, ma non aveva tempo per piangersi addosso. Sbatté le palpebre per scacciare via le lacrime. “Percy, le Porte,” lo mise in guardia. I panelli avevano iniziato ad aprirsi, lasciando entrare un alito di… ozono? Zolfo? Percy spinse con forza il suo lato e l’apertura si chiuse. I suoi occhi erano accesi di rabbia. Sperava che non fosse infuriato con lei, ma se lo era, non poteva biasimarlo. Se la cosa lo faceva andare avanti, pensò, allora lascia che sia arrabbiato. “Ucciderò Gea,” borbottò lui. “La farò a pezzi a mani nude.” Annabeth annuì, ma stava pensando al vanto di Tartaro. Lui non poteva essere ucciso. Così valeva per Gea. Contro un tale potere, persino i Titani e i giganti erano spacciati. I semidei non avevano nessuna possibilità. Si ricordò anche dell’avvertimento di Bob: Questo potrebbe non essere l’ultimo sacrificio che dovrete fare per fermare Gea. Avvertiva quella verità nelle sue ossa. “Dodici minuti,” mormorò. “Solo dodici minuti.” Pregò Atena perché Bob potesse reggere il pulsante così a lungo. Pregò per avere forza e saggezza. Si chiese cosa avrebbero trovato una volta raggiunta la cima di quella corsa in ascensore. Se i loro amici non si fossero trovati là, a controllare l’altra parte… “Possiamo farcela,” disse Percy. “Dobbiamo.” “Sì,” disse Annabeth. “Sì, dobbiamo.” Tennero le Porte chiuse mentre l’ascensore tremava e la musica andava avanti, mentre da qualche parte sotto di loro, un Titano e un gigante sacrificavano le loro vite per farli scappare. 73 HAZEL Hazel non era orgogliosa di piangere. Dopo che il tunnel era crollato, aveva frignato e urlato come una bambina di due anni che faceva i capricci. Non poteva spostare i detriti che separavano lei e Leo dagli altri. Se la terra si fosse spostata di nuovo, l’intera struttura sarebbe potuta crollare sulle loro teste. Tuttavia, batté i pugni contro le pietre e urlò delle imprecazioni che le avrebbero fatto guadagnare una lavata di lingua con sapone di lisciva alla St. Agnes Academy. Leo la fissava, con gli occhi spalancati e senza parole. Non si stava comportando giustamente con lui. L’ultima volta che erano stati insieme, lei lo aveva trasportato nel suo passato e gli aveva mostrato Sammy, il suo bisnonno – il primo ragazzo di Hazel. Lo aveva caricato con un bagaglio di emozioni di cui non aveva bisogno, e lo aveva lasciato così sconvolto che erano quasi stati uccisi da un gamberetto gigante. Adesso si trovavano lì, di nuovo da soli, mentre i loro amici rischiavano di morire per mano di un esercito di mostri, e lei stava facendo i capricci. “Scusa.” Si asciugò le lacrime dalla faccia. “Hey, sai…” Leo scrollò le spalle. “Anche io ho attaccato qualche roccia ogni tanto.” Lei deglutì con difficoltà. “Frank è… lui è –“ “Ascolta,” disse Leo. “Frank Zhang ha delle doti. Probabilmente si trasformerà in un canguro e farà qualche mozza di karate da marsupiale sugli orrendi volti di quei mostri.” L’aiutò ad alzarsi. Nonostante il panico che le ribolliva dentro, sapeva che Leo aveva ragione. Frank e gli altri non erano indifesi. Avrebbero trovato un modo per sopravvivere. La cosa migliore che lei e Leo potevano fare era andare avanti. Studiò Leo. I suoi capelli erano cresciuti e si erano fatti più disordinati, e il suo volto era più magro, così assomigliava di meno a un folletto e più a uno di quegli elfi della natura delle favole. La differenza più grande era nei suoi occhi. Si muovevano in continuazione, come se stesse cercando di scorgere qualcosa all’orizzonte. “Leo, mi dispiace,” disse lei. Lui inarcò le sopracciglia. “Okay. Per cosa?” “Per…” Si fece un gesto intorno con fare impotente. “Tutto. Per aver pensato che tu fossi Sammy, per averti incoraggiato con me. Voglio dire, non volevo farlo, ma se l’ho fatto –“ “Hey.” Lui le strinse la mano, anche se Hazel non avvertì nulla di romantico in quel gesto. “Le macchine sono progettate per funzionare.” “Uh, cosa?” “Credo che alla fine l’universo sia solo una macchina. Non so chi l’abbia creata, se sono state le Parche, o gli dei, o Dio con la D maiuscola, o quello che è. Ma la maggior parte delle volte corre lungo la strada che è destinato a prendere. Certo, ogni tanto si rompono dei piccoli pezzi e delle parti vanno in corto circuito, ma per la maggior parte… le cose accadono per una ragione. Come il fatto che noi due ci siamo incontrati.” “Leo Valdez,” disse Hazel meravigliata, “tu sei un filosofo.” “Nah,” disse lui. “Sono solo un meccanico. Ma credo che il mio bisabuelo Sammy sapesse. Ti ha lasciata andare, Hazel. Il mio compito è quello di dirti che va bene. Tu e Frank – state bene insieme. Supereremo tutti questa battaglia. Spero che voi due abbiate la possibilità di essere felici. Inoltre, Zhang non sarebbe in grado di allacciarsi le scarpe senza il tuo aiuto.” “Questa è cattiva,” lo rimproverò Hazel, ma si sentì come se qualcosa si stesse sciogliendo dentro di lei – un nodo di tensione che si stava portando con sé da settimane. Leo era veramente cambiato. Hazel stava cominciando a credere di aver trovato un buon amico. “Cosa ti è successo quando eri da solo?” chiese. “Chi hai incontrato?” Gli occhi di Leo scattarono. “E’ una lunga storia. Un giorno te la racconterò, ma sto ancora aspettando di vedere come andrà a finire.” “L’universo è una macchina,” disse Hazel, “quindi andrà bene.” “Si spera.” “Solo se non è una delle tue macchine,” aggiunse Hazel. “Perché le tue macchine non fanno mai quello che dovrebbero.” “Sì, ha-ha.” Leo fece apparire del fuoco nella mano. “Adesso, dove si va, Miss Sottoterra?” Hazel studiò il percorso che avevano davanti. A circa nove metri più in basso, il tunnel si divideva in quattro arterie più piccole, tutte identiche, ma quella sulla sinistra irradiava freddo. “Da quella parte,” decise. “Sembra la più pericolosa.” “Mi hai convinto,” disse Leo. Iniziarono a scendere. Non appena raggiunsero il primo passaggio, la moffetta Gale li trovò. Si arrampicò correndo sul fianco di Hazel e si raggomitolò intorno al suo collo, squittendo irritata come a dire: Dove sei stata? Sei in ritardo. “Non di nuovo la donnola che spara gas,” si lamentò Leo. “Se quella cosa rilascia in spazi chiusi come questo, con il mio fuoco e tutto il resto, esploderemo.” Gale abbaiò un insulto da moffetta verso Leo. Hazel zittì entrambi. Poteva avvertire il tunnel più avanti scendere gentilmente verso il basso per circa cento metri, per poi aprirsi in una grande stanza. In quella stanza si trovava una presenza… fredda, pesante e potente. Hazel non aveva avvertito nulla del genere dalla grotta in Alaska, dove Gea l’aveva obbligata a far risorgere Porfirione, il re dei giganti. Quella volta, Hazel aveva contrastato i piani di Gea, ma aveva dovuto far crollare la caverna, sacrificando la sua vita e quella di sua madre. Non era ansiosa di vivere un’esperienza simile. “Leo, tieniti pronto,” sussurrò. “Ci stiamo avvicinando.” “Avvicinando a cosa?” La voce di una donna riecheggiò dalla fine del corridoio. “Vi state avvicinando a me.” Un’ondata di nausea colpì Hazel così violenta che le tremarono le ginocchia. Tutto il mondo vacillò. Il suo senso dell’orientamento, solitamente perfetto sottoterra, divenne completamente vago. Non sembrava che lei e Leo si stessero muovendo, ma improvvisamente si ritrovarono più avanti di cento metri, davanti all’entrata della stanza. “Benvenuti,” disse la voce di donna. “Aspettavo impaziente questo momento.” Gli occhi di Hazel studiarono la caverna. Non riusciva a vedere chi parlava. La stanza le ricordava del Pantheon a Roma, con l’unica differenza che quel luogo era stato decorato in stile Ade. Le pareti di ossidiana erano scolpite con scene di morte: vittime della peste, cadaveri sul campo di battaglia, stanze della tortura con scheletri appesi in gabbie di ferro – il tutto abbellito da gemme preziose che in qualche modo rendevano le scene persino più spettrali. Come nel Pantheon, il tetto a cupola era formato da uno schema a cassettoni fatto di pannelli quadrati incavati, ma lì ogni pannello era una stela – una lapide con inscrizioni in greco antico. Hazel si chiese se dietro quelle stele ci fossero seppelliti dei corpi veri. Con i suoi sensi sotterranei fuori uso, non ne poteva essere sicura. Non vide nessun’altra uscita. Sull’apice del soffitto, da dove sarebbe dovuta entrare la luce del cielo sopra il Pantheon, brillava un cerchio di oscurità pura, come per rinforzare la sensazione che non ci fosse una via d’uscita da quel luogo – niente cielo sopra di loro, solo oscurità. Gli occhi di Hazel si spostarono fino al centro della stanza. “Sì,” borbottò Leo. “Quelle sono porte, non c’è dubbio.” A quindici metri di distanza si trovava una porta doppia priva di muro, con i pannelli incisi d’argento e ferro. File di catene correvano su entrambi i lati, fissando la struttura a dei grossi uncini nel pavimento. La zona attorno alle porte era cosparsa di detriti neri. Con un senso di rabbia sempre più stringente, Hazel si rese conto che una volta in quel punto si trovava un antico altare di Ade. Era stato distrutto per fare spazio alle Porte della Morte. “Dove sei?” gridò lei. “Non ci vedi?” la provocò la voce di donna. “Pensavo che Ecate ti avesse scelta per le tue capacità.” Un altro attacco di nausea si agitò nello stomaco di Hazel. Sulla sua spalla, Gale abbaiò e lasciò aria, il che non aiutò. Dei puntini neri danzavano davanti agli occhi di Hazel. Cercò di scacciarli via, ma questi si fecero solo più scuri. I puntini si solidificarono in un’ombrosa sagoma di sei metri che incombeva accanto alle Porte. Il gigante Clitio era avvolto nel fumo nero, proprio come lo aveva visto nelle sue visioni presso l’incrocio, ma adesso Hazel poteva appena scorgere la sua forma – gambe da drago con scaglie color cenere; un enorme petto umanoide racchiuso in un’armatura di ferro di Stige; lunghi capelli intrecciati che sembravano essere fatti di fumo. La sua carnagione era scura come quella della Morte (Hazel doveva saperlo, visto che aveva incontrato Morte personalmente). I suoi occhi luccicavano freddi come i diamanti. Non aveva nessuna arma, ma la cosa non lo rendeva affatto meno terrificante. Leo fischiò. “Sai, Clitio… per essere un tipo così grosso, hai una voce bellissima.” “Idiota,” sibilò la donna. A metà strada tra Hazel e il gigante, l’aria brillò. La maga apparve. Indossava un elegante vestito senza maniche fatto di oro intrecciato, con i capelli impilati in un cono, circondati da diamanti e smeraldi. Intorno al collo aveva un pendente simile a un labirinto in miniatura, appeso a un filo incastonato di rubini che faceva pensare ad Hazel alle gocce di sangue cristallizzate. La donna era bella in un modo regale e senza tempo – come una statua che si poteva ammirare ma mai amare. I suoi occhi brillavano di malignità. “Pasifae,” disse Hazel. La donna inclinò la testa. “Mia cara Hazel Levesque.” Leo tossì. “Voi due vi conoscete? Del tipo, compagne dell’Oltretomba, oppure –“ “Silenzio, sciocco.” La voce di Pasifae era morbida ma carica di veleno. “Non ho nessun interesse nei ragazzi semidei – sempre così pieni di se stessi, così avventati e distruttivi.” “Hey, signora,” protestò Leo. “Non distruggo molto. Io sono un figlio di Efesto.” “Un pensatore,” scattò Pasifae. “Persino peggio. Conoscevo Dedalo. Le sue invenzioni non mi hanno portato nulla eccetto guai.” Leo sbatté le palpebre. “Dedalo… cioè, il Dedalo? Bè, allora, dovresti sapere tutto su noi pensatori. Noi siamo più portati all’aggiustare, al costruire, ogni tanto al ficcare batuffoli di tela cerata nelle bocche delle signore maleducate –“ “Leo.” Hazel gli mise il braccio sul petto. Aveva la sensazione che la maga stesse per trasformarlo in qualcosa di spiacevole se non si fosse stato zitto. “Lascia fare a me, okay?” “Ascolta la tua amica,” disse Pasifae. “Fai il bravo ragazzo e lascia parlare le donne.” Pasifae camminò davanti a loro, esaminando Hazel con gli occhi così carichi di odio che le fecero formicolare la pelle. Il potere della dea si irradiava da lei come il calore da una fornace. La sua espressione era inquietante e vagamente familiare…. In qualche modo, però, il gigante Clitio la innervosiva di più. Rimaneva sullo sfondo, silenzioso e immobile fatta eccezione per il fumo scuro che si alzava dal suo corpo, raccogliendosi in una pozzanghera intorno ai suoi piedi. Era lui la presenza fredda che Hazel aveva sentito prima – come un vasto deposito di ossidiana, così pensate che Hazel non sarebbe mai riuscita a muoverlo, potente e indistruttibile e completamente privo di emozioni. “Il – il tuo amico non parla molto,” notò Hazel. Pasifae guardò verso il gigante e sbuffò con disprezzo. “Prega che rimanga in silenzio, mia cara. Gea mi ha concesso il piacere di pensare a voi; ma Clitio è la mia, ah, assicurazione. Detto tra me e te, come sorelle maghe, credo che si trovi qui anche per tenere i miei poteri sotto controllo, nel caso dimenticassi gli ordini della mia nuova padrona. Gea è attenta a queste cose.” Hazel era tentata di protestare dicendo che lei non era una maga. Non voleva sapere come Pasifae avesse pianificato di ‘pensare’ a loro, o a come facesse il gigante a tenere la sua magia sotto controllo. Ma raddrizzò la schiena e cercò di sembrare sicura. “Qualsiasi cosa tu stia panificando,” disse Hazel, “non funzionerà. Abbiamo superato ogni mostro che Gea ha messo sul nostro cammino. Se sei intelligente, non ti opporrai a noi.” La moffetta Gale digrignò i denti in segno di approvazione, ma Pasifae non sembrava impressionata. “Non sembri granché,” rifletté la maga. “Ma alla fine voi semidei non lo sembrate mai. Mio marito, Minosse, re della Creta? Lui era un figlio di Zeus. Non l’avresti mai detto guardandolo. Era magrolino quasi come quello là.” Agitò la mano verso Leo. “Wow,” borbottò Leo. “Minosse doveva aver fatto qualcosa di davvero orribile per meritarsi te.” Le narici di Pasifae si allargarono. “Oh… non ne hai idea. Era troppo orgoglioso per fare i giusti sacrifici per Poseidone, così gli dei punirono me per la sua arroganza.” “Il Minotauro,” ricordò Hazel improvvisamente. La storia era così grottesca e rivoltante che Hazel si tappava sempre le orecchie quando la raccontavano al Campo Giove. Pasifae era stata maledetta, fatta innamorare con il toro di suo marito. Aveva partorito il Minotauro – metà uomo, metà toro. Adesso, mentre Pasifae la fissava con sguardo omicida, Hazel si rese conto del perché la sua espressione le risultasse così familiare. La maga aveva lo stesso odio e amarezza negli occhi che ogni tanto aveva anche la madre di Hazel. Nei suoi moment peggiori, Marie Levesque guardava Hazel come se sua figlia fosse stata una bambina mostruosa, una maledizione dagli dei, la fonte di tutti i problemi di Marie. Era per quello che la storia del Minotauro inquietava Hazel – non solo per l’idea repellente di Pasifae e il toro, ma per l’idea che un figlio, qualsiasifiglio, potesse essere considerato un mostro, una punizione per i suoi genitori da essere imprigionata da qualche parte e odiata. Ad Hazel, il Minotauro era sempre sembrato la vittima della storia. “Sì,” disse alla fine Pasifae. “La mia disgrazia fu insopportabile. Quando mio figlio nacque e fu rinchiuso nel Labirinto, Minosse si rifiutò di avere qualsiasi cosa a che fare con me. Disse che avevano rovinato la suareputazione! E sai cosa accade a Minosse, Hazel Levesque? Per i suoi crimini e per il suo orgoglio? Furicompensato. Fu nominato giudice dei morti dell’Oltretomba, come se avesse qualche diritto di giudicare gli altri! Fu Ade ad assegnargli quella posizione. Tuo padre.” “In realtà è Plutone.” Pasifae fece una smorfia. “Irrilevante. Quindi, vedi, io detesto i semidei tanto quanto detesto gli dei. Qualsiasi tuo fratello che dovesse sopravvivere alla guerra, è stato promesso a me da Gea, così che potrò guardarli morire lentamente nel mio nuovo regno. Vorrei solo avere più tempo per torturare voi due come si vede. Purtroppo –“ Al cento della stanza, le Porte della Morte produssero un piacevole suono di campanello. Il pulsante verde sul lato destro della struttura iniziò a brillare. Le catene tremarono. “Ecco, vedi?” Pasifae scrollò le spalle con fare di scuse. “Le Porte sono in funzione. Dodici minuti e si apriranno.” La pancia di Hazel tremava quasi quanto quelle catene. “Altri giganti?” “No, grazie al cielo,” disse la maga. “Con loro abbiamo finito – sono tornati nel mondo mortale pronti per l’assalto finale.” Pasifae le rivolse un sorriso freddo. “No, immagino che le Porte siano utilizziate da qualcun altro… qualcuno di non autorizzato.” Leo si fece avanti. Dai suoi pugni stretti si levò del fumo. “Percy e Annabeth.” Hazel non riusciva a parlare. Non era certa se il groppo che aveva in gola fosse causato dalla gioia o dalla frustrazione. Se i loro amici avevano raggiunto le Porte, se fossero veramente apparsi là tra dodici minuti… “Oh, non preoccuparti.” Pasifae agitò la mano con noncuranza. “Ci penserà Clitio a loro. Vedi, quando la campanella suonerà di nuovo, qualcuno dalla nostra parte deve premere il pulsante o le Porte non si apriranno e chiunque si trovi all’interno – poof. Andato. O magari Clitio li lascerà uscire e penserà a loro di persona. Questo dipende da voi due.” Hazel aveva in bocca il sapore del ferro. Non voleva chiedere, ma doveva farlo. “Come fa a dipendere da noi esattamente?” “Bè, ovviamente, abbiamo bisogno solo di una coppia di semidei vivi,” disse Pasifae. “I due fortunati saranno portati ad Atene e sacrificati per Gea durante la Festa di Speranza.” “Ovviamente,” borbottò Leo. “Quindi, sarete voi due, o i vostri amici nell’ascensore?” La maga allargò le braccia. “Vediamo chi sarà ancora vivo tra dodici… in realtà, undici minuti ormai.” La caverna si dissolse nell’oscurità. 74 HAZEL La bussola interna di Hazel vorticò selvaggiamente. Si ricordò che quando era molto piccola, a New Orleans alla fine degli anni Trenta, sua madre l’aveva portata dal dentista per farsi estrarre un dente. Fu la prima e unica volta nella quale le era stato dato l’etere. Il dentista le aveva assicurato che l’avrebbe resa assonnata e rilassata, ma Hazel si era sentita come se stesse fluttuando via dal suo corpo, nel panico e fuori controllo. Quando l’effetto dell’etere era svanito, era stata malata per tre giorni. Ora si sentiva come se avesse preso una dose massiccia di etere. Parte di lei sapeva che si trovava ancora nella caverna. Pasifae si trovava solo a pochi metri davanti a loro. Clitio aspettava in silenzio accanto alle Porte della Morte. Ma numerosi strati di Foschia circondavano Hazel, distorcendo il suo senso della realtà. Fece un passo in avanti e si scontrò contro un muro che non sarebbe dovuto essere lì. Leo premette le mani contro la pietra. “Cosa accidenti è? Dove siamo?” Un corridoio si estendeva su entrambi i lati. Delle torce gocciolavano dentro candelabri di ferro. L’aria odorava di muffa, come in una vecchia tomba. Sulla spalla di Hazel, Gale abbaiava con rabbia, scavando i suoi artigli nella sua pelle. “Sì, lo so,” borbottò Hazel alla donnola. “E’ un’illusione.” Leo batté contro le pareti. “Un’illusione piuttosto solida.” Pasifae rise. La sua voce suonava attutita e molto distante. “E’ un’illusione, Hazel Levesque, o qualcosa di più? Non vedi cosa ho creato?” Hazel si sentiva così scossa che era a malapena in grado di mantenere l’equilibrio, meno che mai pensare lucidamente. Cercò di espandere i suoi sensi, di vedere attraverso la Foschia e di trovare di nuovo la caverna, ma tutto quello che avvertiva erano dei tunnel che si dividevano in una dozzina di direzioni, che procedevano ovunque tranne che in avanti. Dei pensieri casuali le apparvero nella mente, come pepite d’oro che spuntavano in superficie: Dedalo. Il Minotauro rinchiuso lontano. Morirete lentamente nel mio nuovo regno. “Il Labirinto,” disse Hazel. “Sta ricreando il Labirinto.” “Cosa?” Leo era impegnato a picchiare contro le pareti con un martello da metallo, ma si voltò verso di lei con aria accigliata. “Pensavo che il Labirinto fosse crollato durante quella battaglia al Campo Mezzosangue – era, tipo, connesso alla forza vitale di Dedalo o qualcosa del genere, e poi lui è morto.” La voce di Pasifae suonava carica di disapprovazione. “Ah, ma io sono ancora viva. Attribuisci a Dedalo tutti i segreti del labirinto? Io ho soffiato vita magica nel suo Labirinto. Dedalo non era nulla paragonato a me – la maga immortale, figlia di Elio, sorella di Circe! Adesso il Labirinto sarà il mio regno.” “E’ un’illusione,” insistette Hazel. “Dobbiamo semplicemente spezzarla.” Anche mentre lo diceva, le pareti sembravano diventare più solide, l’odore di muffa più intenso. “Troppo tardi, troppo tardi,” canticchiò Pasifae. “Il labirinto è già sveglio. Si espanderà sotto la pelle della terra ancora una volta mentre il vostro mondo mortale verrà raso al suolo. Voi semidei… voi eroi… vagherete per i suoi corridoi, morendo lentamente di sete, di paura e di miseria. O forse, se mi sentirò clemente, morirete in fretta, molto dolorosamente!” Dei fori si aprirono nel pavimento sotto i piedi di Hazel. Lei afferrò Leo e lo spinse di lato mentre una fila di chiodi veniva sparata dal basso verso l’alto, impalandosi al soffitto. “Corri!” gridò Hazel. La risata di Pasifae riecheggiò lungo il corridoio. “Deve stai andando, giovane maga? Scappi da un’illusione?” Hazel non rispose. Era troppo impegnata a cercare di rimanere in vita. Dietro di loro, file dopo file di chiodi schizzavano verso il soffitto con un continuo thunk, thunk, thunk. Tirò Leo lungo il corridoio, saltò sopra un filo teso in mezzo al tunnel, poi si fermò di colpo davanti a un abisso largo sei metri. “Quanto è profondo?” Leo cercava di riprendere fiato. Le gambe dei suoi pantaloni erano strappate dove uno dei chiodi lo aveva graffiato. I sensi di Hazel le dissero che quella fossa era profonda almeno quindici metri, con una piscina di veleno sul fondo. Poteva fidarsi dei suoi sensi? Che Pasifae avesse creato o meno un nuovo Labirinto, Hazel credeva che si trovasse ancora nella stessa caverna, e che la maga li stesse facendo correre senza scopo avanti e indietro mentre lei e Clitio li guardavano divertiti. Illusione o meno: a meno che Hazel non riuscisse a trovare un modo per uscire da quel labirinto, le trappole potevano ucciderli. “Otto minuti ora,” disse la voce di Pasifae. “Amerei vedervi sopravvivere, davvero, sareste dei degni sacrifici per Gea ad Atene. Ma in quel caso, ovviamente, non avremmo bisogno dei vostri amici nell’ascensore.” Il cuore di Hazel martellava. Si rivolse verso la parte sulla sua sinistra. Nonostante ciò che le dicevano i suoi sensi, quella sarebbe dovuta essere la direzione delle Porte. Pasifae doveva essere proprio davanti a lei. Hazel voleva irrompere attraverso la parete e strozzare la maga. Tra otto minuti, lei e Leo dovevano trovarsi accanto alle Porte della Morte per lasciare uscire i loro amici. Ma Pasifae era una maga immortale con migliaia di anni di esperienza nel tessere incantesimi. Hazel non poteva sconfiggerla solo con la forza di volontà. Era riuscita a ingannare il bandito Scirone mostrandogli quello che lui si aspettava di vedere. Hazel doveva capire quale era la cosa che Pasifae voleva più di tutte. “Adesso siamo a sette minuti,” si lamentò Pasifae. “Se solo avessimo più tempo! Ci sarebbero così tante offese che vi vorrei far soffrire.” Era quello, si rese conto Hazel. Doveva accettare il guanto di sfida. Doveva rendere il labirinto più pericoloso,più spettacolare – far concentrare Pasifae sulle trappole piuttosto che sulla direzione in cui li portava il Labirinto. “Leo, salteremo,” disse Hazel. “Ma –“ “Non è profondo come sembra. Andiamo!” Afferrò la sua mano e si lanciarono dentro la fossa. Quando atterrarono, Hazel si guardò indietro e non vide nessun precipizio – solo una crepa di sei centimetri nel pavimento. “Andiamo!” lo incitò. Corsero mentre la voce di Pasifae rimbombava intorno a loro. “Oh, cari, no. Non sopravvivrete mai da quellaparte. Sei minuti.” Il soffitto sopra di loro si spaccò. La donnola Gale squittì spaventata, ma Hazel immaginò un nuovo tunnel che portava sulla sinistra – un tunnel persino più pericoloso, che procedeva nella direzione sbagliata. La Foschia si ammorbidì sotto la sua volontà. Il tunnel apparve, e loro si lanciarono di lato. Pasifae sospirò delusa. “Non sei davvero brava in questo, mia cara.” Ma Hazel avvertì un lampo di speranza. Aveva creato un tunnel. Aveva creato un piccolo buco nel tessuto magico del Labirinto. Il pavimento crollò sotto di loro. Hazel saltò da una parte, trascinando Leo con sé. Immaginò un altro tunnel, che portava nella direzione dalla quale erano venuti, ma pieno di gas velenoso. Il labirinto le obbedì. “Leo, trattieni il fiato,” lo avvertì. Corsero attraverso la nebbia tossica. Ad Hazel sembrava di essersi sciacquata gli occhi con salsa di peperoncino, ma continuò a correre. “Cinque minuti,” disse Pasifae. “Che peccato! Se solo potessi vedervi soffrire di più.” Entrarono in un corridoio con aria fresca. Leo tossì. “Se solo si potesse stare zitta.” Si abbassarono passando sotto una garrota. Hazel immaginò il tunnel che curvava tornando verso Pasifae, un pezzetto alla volta. La Foschia si piegò sotto la sua volontà. Le pareti del tunnel iniziarono a chiudersi su entrambi i lati. Hazel non cercò di fermarle. Le fece chiudere più velocemente, scuotendo il pavimento e crepando il soffitto. Lei e Leo corsero per salvarsi la vita, seguendo la curva mentre questa li portava più vicini a quello che sperava fosse il centro della stanza. “Un peccato,” disse Pasifae. “Vorrei poter uccidere voi e i vostri amici nell’ascensore, ma Gea ha insistito che due di voi debbano essere tenuti in vita fino alla Festa di Speranza, quando il vostro sangue servirà a una buona causa! Ah, bè. Dovrò trovare altre vittime per il mio Labirinto. Voi due siete stati dei fallimenti di seconda categoria.” Hazel e Leo si fermarono. Davanti a loro si estendeva un abisso così ampio, che Hazel non riusciva a vedere dall’altra parte. Da qualche parte più in basso, nell’oscurità, proveniva un suono di sibili – migliaia e migliaia di serpenti. Hazel era tentata di ritirarsi, ma il tunnel si stava chiudendo dietro di loro, lasciandoli bloccati su una minuscola sporgenza. Gale si mosse agitata sulle spalle di Hazel rilasciando aria per l’ansia. “Okay, okay,” borbottò Leo. “Le pareti sono delle parti moventi. Devono essere meccaniche. Dammi un secondo.” “No, Leo,” disse Hazel. “Non possiamo tornare indietro.” “Ma –“ “Tienimi la mano,” disse lei. “Al tre.” “Ma –“ “Tre!” “Cosa?” Hazel saltò nella fossa, tirandosi dietro Leo. Cercò di ignorare le sue urla e la donnola flatulenta attaccata al suo collo. Usò tutta la sua volontà per reindirizzare la magia del Labirinto. Pasifae rise di piacere, sapendo che in qualsiasi momento si sarebbero schiantati, o sarebbero stati morsi fino alla morte in una fossa di serpenti. Invece, Hazel immaginò che ci fosse un canale laterale nell’oscurità, appena alla loro sinistra. Si voltò a mezz’aria e cadde verso di esso. Lei e Leo colpirono il canale inclinato e scivolarono nella caverna, atterrando esattamente sopra Pasifae. “Ack!” La testa della maga sbatté contro il pavimento mentre Leo si sedeva sul suo petto. Per un attimo, loro tre e la donnola furono una massa di corpi contorti e arti che si agitavano nell’aria. Hazel cercò di sguainare la sua spada, ma Pasifae riuscì a districarsi per prima. La maga indietreggiò, con la sua acconciatura così piegata da un lato da assomigliare a una torta sciolta. Il suo vestito era coperto di macchie di grasso causate dalla cintura degli attrezzi di Leo. “Piccoli sciagurati!” urlò lei. Il labirinto era sparito. A qualche metro di distanza, Clitio dava loro le spalle, intento a osservare le Porte della Morte. Secondo i calcoli di Hazel, avevano circa trenta secondi prima dell’arrivo dei loro amici. Hazel si sentiva esausta per aver corso attraverso il labirinto mentre controllava la Foschia, ma aveva bisogno di giocare qualche altro trucco. Era riuscita a far vedere a Pasifae quello che più desiderava. Adesso Hazel doveva far vedere alla maga ciò che lei temeva di più. “Devi odiare davvero i semidei,” disse Hazel, cercando di mimare il sorriso crudele di Pasifae. “Noi abbiamo sempre la meglio su di te, non è così, Pasifae?” “Sciocchezze!” urlò Pasifae. “Vi farò a pezzi! Vi –“ “Ti tiriamo sempre via il tappeto da sotto i piedi,” disse Hazel con pietà. “Tuo marito ti tradì. Teseo uccise il Minotauro e rapì tua figlia Ariadne. Adesso due fallimenti di seconda categoria ti hanno messo contro il tuo stesso labirinto. Ma tu sapevi che sarebbe successo, non è così? Alla fine vieni sempre sconfitta.” “Io sono immortale!” gemette Pasifae. Fece un passo indietro, toccandosi la sua collana. “Non potete rimanere in piedi contro di me!” “Tu non puoi affatto rimanere in piedi,” ribatté Hazel. “Guarda.” Indicò verso i piedi della maga. Una botola si aprì sotto Pasifae. La maga precipitò, urlando, in un abisso senza fondo che non esisteva davvero. Il pavimento si solidificò. La maga non c’era più. Leo fissò Hazel stupito. “Come hai –“ Proprio in quel momento l’ascensore suonò. Invece di premere il pulsante, Clitio indietreggiò dai controlli, tenendo i loro amici intrappolati all’interno. “Leo!” gridò Hazel. Si trovavano a sei metri di distanza – troppo lontani per raggiungere l’ascensore – ma Leo tirò fuori un cacciavite e lo tirò come un lanciatore di coltelli. Un colpo impossibile. Il cacciavite volò dritto oltre Clitio e si schiantò contro il pulsante. Le Porte della Morte si aprirono con un sibilo. Del fumo nero si riversò all’esterno, e due corpi caddero di faccia sul pavimento – Percy e Annabeth, inerti come cadaveri. Hazel singhiozzò. “Oh, dei…” Lei e Leo si fecero avanti, ma Clitio sollevò la sua mano con un gesto inequivocabile – fermi. Sollevò il suo enorme piede da rettile sopra la testa di Percy. Il fumoso velo del gigante si riversò sul pavimento, andando a ricoprire Annabeth e Percy in una piscina di nebbia scura. “Clitio, hai perso,” ringhiò Hazel. “Lasciali andare, o farai la fine di Pasifae.” Il gigante inclinò la testa. I suoi occhi di diamanti luccicarono. Ai suoi piedi, Annabeth tremò come se fosse stata colpita da una scossa elettrica. Rotolò sulla sua schiena, con del fumo nero che le usciva dalla bocca. “Io non sono Pasifae.” Annabeth parlò con una voce che non era la sua – le parole erano profonde come un basso. “Non avete vinto nulla.” “Smettila!” Anche da sei metri di distanza, Hazel poteva avvertire la forza vitale di Annabeth che diminuiva, il suo battito sempre più flebile. Qualunque cosa stesse facendo Clitio, facendo uscire le parole dalla sua bocca – la stava uccidendo. Clitio diede un colpetto con il piede alla testa di Percy. Il suo volto ciondolò di lato. “Non completamente morto.” Le parole del gigante riecheggiarono dalla bocca di Percy. “Immagino che sia uno shock terribile per il corpo mortale tornare dal Tartaro. Saranno fuori uso per un po’.” Rivolse nuovamente la sua attenzione su Annabeth. Altro fumo si riversò dalle labbra della ragazza. “Li legherò e li porterò da Porfirione ad Atene. Proprio i sacrifici di cui abbiamo bisogno. Sfortunatamente, ciò vuol dire che voi due non mi servite più.” “Oh, davvero?” ringhiò Leo. “Bè, bè, forse tu hai il fumo, amico, ma il ho il fuoco.” Le sue mani si accesero. Sparò una colonna di fiamme bianche contro il gigante, ma l’aura fumosa di Clitio le assorbì all’impatto. Scie di nebbia nera risalirono lungo le fiamme, spegnendo la luce e il calore e ricoprendo Leo dall’oscurità. “No!” Hazel corse verso di lui, ma Gale squittì con allarme sulla sua spalla – un chiaro avvertimento. “Io non lo farei.” La voce di Clitio si riverberò dalla bocca di Leo. “Tu non capisci, Hazel Levesque. Io divoro la magia. Io distruggo la voce e l’anima. Non puoi opporti a me.” Della nebbia nera si diffuse maggiormente nella stanza, ricoprendo Annabeth e Percy, rotolando verso di lei. Il sangue ribollì nelle orecchie di Hazel. Doveva agire – ma come? Se quel fumo nero era in grado di mettere fuori uso Leo così velocemente, quante possibilità aveva lei? “F – fuoco,” balbettò con voce piccola. “Tu dovresti essere debole contro il fuoco.” Il gigante ridacchiò, questa volta usando le corde vocali di Annabeth. “Ci contavi, eh? È vero che non mi piace il fuoco. Ma le fiamme di Leo Valdez non sono abbastanza forti da darmi problemi.” Da qualche parte alle spalle di Hazel, una dolce voce musicale disse, “Che ne dici delle mie fiamme, vecchio amico?” Gale squittì emozionata e saltò alla spalla di Hazel, correndo verso l’entrata della caverna dove si trovava una donna bionda con un vestito nero e la Foschia che le vorticava intorno. Il gigante indietreggiò, sbattendo contro le Porte della Morte. “Tu,” disse attraverso la bocca di Percy. “Io,” annuì Ecate. Allargò le braccia. Delle torce ardenti le apparvero nelle mani. “Sono passati millenni da quando ho combattuto al fianco di un semidio, ma Hazel Levesque si è dimostrata degna. Che ne dici, Clitio? Giochiamo un po’ con il fuoco?” 75 HAZEL Se il gigante fosse scappato via urlando, Hazel ne sarebbe stata grata. In quel caso si sarebbero tutti potuti prendere il resto della giornata libera. Clitio la deluse. Quando vide le torce della dea accese, il gigante sembrò riprendersi. Pestò il suo piede, scuotendo il terreno e mancando per un pelo il braccio di Annabeth. Del fumo nero gli vorticò intorno fino a che Annabeth e Percy non ne vennero completamente ricoperti. Hazel non riusciva a vedere nulla eccetto gli occhi brillanti del gigante. “Parole coraggiose.” Clitio parlò attraverso la bocca di Leo. “Ti sei dimenticata, dea. Quando ci siamo incontrati l’ultima volta, tu avevi l’aiuto di Ercole e di Dioniso – gli eroi più potenti del mondo, entrambi destinati a diventare divinità. Adesso porti… questi?” Il corpo privo di sensi di Leo si contorse in preda al dolore. “Smettila!” urlò Hazel. Non aveva pianificato quello che accadde dopo. Sapeva semplicemente che doveva proteggere i suoi amici. Li immagino alle sue spalle, nello stesso modo nel quale si era immaginata i nuovi tunnel che apparivano nel Labirinto di Pasifae. Leo si dissolse. Riapparve ai piedi di Hazel, insieme ad Annabeth e Percy. La Foschia vorticò intorno a lei, riversandosi sulle pietre e avvolgendo i suoi amici. Dove la Foschia bianca incontrava il fumo scuro di Clitio, essa fumava e sfrigolava, come lava che scorreva nel mare. Leo aprì gli occhi e boccheggiò. “Co – cosa…?” Annabeth e Percy rimasero immobili, ma Hazel poteva avvertire i loro battiti farsi più forti, i respiri che si facevano più regolari. Sulla spalla di Ecate, la moffetta Gale abbaiò in segno di ammirazione. La dea si fece avanti, con gli occhi scuri luccicanti alla luce delle torce. “Hai ragione, Clitio. Hazel Levesque non è Ercole o Dioniso, ma credo che la troverai altrettanto formidabile.” Attraverso il velo fumoso, Hazel vide il gigante aprire la bocca. Non ne uscì fuori nessuna parola. Clitio sogghignò frustrato. Leo cercò di mettersi a sedere. “Cosa sta succedendo? Cosa posso – “ “Guarda Percy e Annabeth.” Hazel sguainò la sua spatha. “Rimani dietro di me. Rimani nella Foschia.” “Ma –“ Lo sguardo che Hazel gli rivolse doveva essere più duro di quanto si fosse resa conto. Leo deglutì. “Sì, afferrato. Foschia bianca buona. Fumo nero cattivo.” Hazel avanzò. Il gigante allargò le braccia. Il soffitto a cupola tremò, e la voce del gigante riecheggiò attraverso la stanza, amplificata di un centinaio di volte. Formidabile? Chiese il gigante. Suonava come se stesse parlando attraverso un coro di morti, usando tutte le anime sfortunate che erano state seppellite dietro le lapidi della cupola. Perché la ragazza ha imparato i tuoi trucchetti magici, Ecate? Perché permetti a questi codardi di nascondersi nella tua Foschia? Una spada apparve nella mano del gigante – una lama di ferro di Stige molto simile a quella di Nico, solo cinque volte più grande. Non capisco perché Gea ritiene questi semidei degni di essere sacrificati. Li schiaccerò come noci vuote. La paura di Hazel si trasformò in rabbia. Gridò. Le pareti della stanza produssero uno scricchiolio, come del ghiaccio che si scioglieva nell’acqua calda, e dozzine di gemme precipitarono verso il gigante, colpendo la sua armatura come pallottole. Clitio barcollò all’indietro. La sua voce priva di corpo ruggì di dolore. La sua corazza di ferro era tempestata di fori. Del sangue dorato scendeva da una ferita sul suo braccio destro. Il suo velo di oscurità si assottigliò. Hazel poteva vedere l’espressione assassina che aveva sul volto. Tu, ringhiò Clitio. Tu, inutile – “Inutile?” chiese Ecate con tono calmo. “Io direi che Hazel Levesque conosce qualche trucchetto che persinoio non avrei potuto insegnarle.” Hazel si trovava davanti ai suoi amici, determinata a proteggerli, ma la sua energia stava svanendo. La sua spada era già pesante nella mano, e non l’aveva ancora neanche usata. Desiderò che Arion fosse lì. Le avrebbe fatto comodo la velocità del cavallo e la sua forza. Sfortunatamente, il suo amico equino non sarebbe stato in grado di aiutare quella volta. Lui era una creatura da ampi spazi aperti, non da sotterranei. Il gigante scavò le dita nella ferita che aveva sul bicipite. Ne tirò fuori un diamante e lo gettò di lato. La ferita si rimarginò. Allora, figlia di Plutone, rombò Clitio, credi davvero che ad Ecate stiano a cuore i tuoi interessi? Circe era una delle sue predilette. Così lo era Medea. E Pasifae. Che fine hanno fatto loro, eh? Dietro di lei, Hazel sentì Annabeth muoversi, gemendo di dolore. Percy borbottò qualcosa che suonava come, “Bob – bob – bob?” Clitio si fece avanti, tenendo la spada con noncuranza lungo il fianco come se fossero compagni di squadra invece che nemici. Ecate non ti dirà la verità. Lei invia assistenti come te per svolgere i suoi compiti e prendersi tutti i rischi. Se per qualche miracolo tu mi ferirai, solo allora lei sarà in grado di darmi fuoco. Allora lei si prenderà la gloria dell’uccisione. Hai sentito come Bacco si è comportato con i gemelli Aloadi nel Colosseo. Ecate è peggio. Lei è un Titano che ha tradito i Titani. Poi ha tradito gli dei. Credi davvero che manterrà la parola con te? Il volto di Ecate era illeggibile. “Non posso rispondere alle sue accuse, Hazel,” disse la dea. “Questo è il tuo incrocio. Devi decidere tu.” Sì, incroci. La risata del gigante riecheggiò. Le sue ferite sembravano essere completamente guarite. Ecate ti offre l’oscurità, delle scelte, delle vaghe promesse di magia. Io sono l’anti-Ecate. Io ti darò la verità. Io eliminerò le scelte e la magia. Io strapperò via la Foschia, una volta per tutte, e ti mostrerò il mondo in tutto il suo vero orrore. Leo lottò per mettersi in piedi, tossendo come un asmatico. “Adoro questo ragazzo,” ansimò. “Seriamene, dovremmo tenercelo per tenere seminari ispiratori.” Le sue mani si accesero come torce. “Oppure potremmo semplicemente dargli fuoco.” “Leo, no,” disse Hazel. “Il tempio di mio padre. Compito mio.” “Sì, va bene. Ma –“ “Hazel…” ansimò Annabeth. Hazel fu così piena di gioia nel sentire la voce della sua amica che fu quasi sul punto di voltarsi, ma sapeva che non doveva togliere gli occhi di dosso a Clitio. “Le catene…” riuscì a dire Annabeth. Hazel fece un respiro strozzato. Era stata una sciocca! Le Porte della Morte erano ancora aperte, tremanti contro le catene che le bloccavano. Hazel doveva spezzarle così sarebbero scomparse – e sarebbero finalmente state fuori dalla portata di Gea. L’unico problema: un grosso gigante fumoso si trovava nel mezzo. Non puoi seriamente credere che ne hai la forza, la rimproverò Clitio. Cosa farai, Hazel Levesque – mi bersaglierai con altri rubini? Mi farai fare una doccia di zaffiri? Hazel gli diede una risposta. Sollevò la sua spatha e attaccò. Apparentemente, Clitio non si era aspettato che avesse degli istinti suicidi così forti. Fu lento a sollevare la sua spada. Quando colpì, Hazel si era già abbassata sotto le sue gambe e aveva conficcato la sua lama d’oro Imperiale nei suoi gluteu maximus. Non molto signorile. Le suore alla St. Agnes non avrebbero mai approvato. Ma funzionò. Clitio ruggì e inarcò la schiena, allontanandosi da lei mentre camminava ancheggiando. La Foschia vorticò intorno ad Hazel, sibilando quando incontrava il fumo nero del gigante. Hazel si rese conto che Ecate la stava assistendo – prestandole la forza per mantenere attivo un velo difensivo. Hazel sapeva anche che l’attimo in cui la sua concentrazione avesse vacillato e quell’oscurità l’avesse toccata, lei sarebbe caduta. Se fosse successo, non era certa che Ecate sarebbe stata in grado – o che avrebbe voluto – fermare il gigante dallo schiacciare lei e i suoi amici. Hazel si lanciò verso le Porte della Morte. La sua lama spezzò le catene sulla parte sinistra come se fossero fatte di ghiaccio. Corse verso destra, ma Clitio gridò, NO! Per pura fortuna, non fu affettata a metà. La parte piatta della lama del gigante la colpì al petto e la fece volare all’indietro. Lei si schiantò contro il muro e avvertì le ossa che si rompevano. Dall’altra parte della stanza, Leo gridò il suo nome. Attraverso la vista sfocata, Hazel vide un lampo di fuoco. Ecate si trovava vicino, con la sagoma luccicante come se stesse per dissolversi. Le sue torce sembravano sul punto di spegnersi, ma quello poteva essere solo il fatto che Hazel stava iniziando a perdere i sensi. Non poteva arrendersi adesso. Si obbligò a mettersi in piedi. Aveva la sensazione di avere delle lame affilate conficcate nel fianco. La sua spada giaceva a terra a circa due metri di distanza. Procedette zoppicante verso di essa. “Clitio!” urlò. Voleva che sembrasse un grido di sfida coraggioso, ma uscì più simile a un gracidio. Almeno catturò la sua attenzione. Il gigante distolse lo sguardo da Leo e dagli altri. Quando la vide zoppicare in avanti, rise. Un bel tentativo, Hazel Levesque, ammise Clitio. Sei stata migliore di quanto mi aspettassi. Ma la magia da sola non può sconfiggermi, e tu non hai la forza sufficiente. Ecate ti ha tradita, come tradisce tutti i suoi seguaci alla fine. La Foschia intorno a lei si stava assottigliando. Dall’altra parte della stanza, Leo stava cercando di obbligare Percy a mangiare un po’ di ambrosia, anche se Percy era ancora praticamente fuori uso. Annabeth era sveglia ma debole, a malapena in grado di sollevare la testa. Ecate se ne stava ferma con le sue torce, osservando e in attesa – cosa che fece infuriare Hazel così tanto da farle trovare un’ultima ondata di energia. Lanciò la sua spada – non verso il gigante, ma verso le Porte della Morte. Le catene sulla parte destra si spezzarono. Hazel cadde a terra agonizzante, con il fianco in fiamme, mentre le Porte tremavano e scomparivano in un lampo di luce viola. Clitio ruggì così forte che una mezza dozzina di stele precipitarono dal soffitto e si ridussero a pezzi. “Quello era per mio fratello Nico,” disse Hazel senza fiato. “E per aver distrutto l’altare di mio padre.” Hai perso il diritto a una morte veloce, ringhiò il gigante. Ti soffocherò nel buio, lentamente, dolorosamente. Ecate non può aiutarti. NESSUNO può aiutarti! La dea sollevò le sue torce. “Io non ne sarei così sicura, Clitio. Gli amici di Hazel avevano solo bisogno di un po’ di tempo per raggiungerla – del tempo che tu hai dato loro con le tue vanterie e arie.” Clitio fece un verso di scherno. Quali amici? Quei codardi? Loro non rappresentano una sfida. Davanti ad Hazel, l’aria si increspò. La Foschia si fece più densa, creando una porta, e quattro persone ci passarono attraverso. Hazel pianse dal sollievo. Il braccio di Frank era sanguinante e bendato, ma era vivo. Accanto a lui si trovavano Nico, Piper e Jason – tutti con le spade sguainate. “Scusate per il ritardo,” disse Jason. “E’ questo il tipo che deve essere ucciso?” 76 HAZEL Hazel fu quasi dispiaciuta per Clitio. Lo attaccarono da ogni direzione – Leo sparando fuoco contro le sue gambe, Frank e Piper pugnalandolo al petto, Jason volando in aria e assestandogli dei calci in faccia. Hazel fu orgogliosa di vedere quanto Piper si ricordasse bene delle loro lezioni di combattimento con la spada. Ogni volta che il velo fumoso del gigante cominciava a strisciare verso uno di loro, Nico era lì, pronto ad attaccarlo con la sua spada, assorbendo l’oscurità con la lama di ferro di Stige. Percy e Annabeth erano in piedi, deboli e scioccati, ma avevano le spade guainate. Da quando in qua Annabeth aveva una spada? E di che cosa era fatta – avorio? Sembrava che volessero aiutare, ma non ce n’era bisogno. Il gigante era circondato. Clitio ringhiava, voltandosi avanti e indietro come se non riuscisse a decidere chi uccidere per primo.Aspettate! Fermi! No! Ahia! Il buio che lo circondava si disperse completamente, lasciando nulla a proteggerlo se non la sua armatura ammaccata. L’icore colava da una dozzina di ferite. I danni guarivano quasi altrettanto velocemente di quanto venivano inflitti, ma Hazel capiva che il gigante si stava stancando. Un’ultima volta, Jason volò verso di lui, gli diede un calcio sul petto, e la corazza del gigante si spezzò. Clitio inciampò all’indietro. La sua spada scivolò a terra. Cadde sulle ginocchia, e i semidei lo circondarono. Solo allora Ecate si fece avanti, con le torce sollevate. La Foschia strisciò intorno al gigante, sibilando e ribollendo quando entrava in contatto con la sua pelle. “E così finisce qui,” disse Ecate. Non finisce qui. La voce di Clito riecheggiò da qualche parte in alto, stanca e attutita. I miei fratelli sono risorti. Gea sta solo aspettando il sangue dell’Olimpo. Ci siete voluti tutti per configgere me. Cosa farete quando Madre Terra aprirà gli occhi? Ecate mise le torce a testa in giù. Le affondò come pugnali contro la testa di Clitio. I capelli del gigante prese fuoco più velocemente di legna secca, diffondendo le fiamme sulla testa e lungo il suo corpo fino a che il calore del falò non costrinse Hazel ad indietreggiare. Clitio cadde di faccia nei detriti dell’altare di Ade, senza produrre alcun suono. Il suo corpo si ridusse in cenere. Per un momento, non parlò nessuno. Hazel sentì uno stridente rumore dolorante, e si accorse che era il suo respiro. Nel fianco aveva la sensazione di essere stata colpita con un bastone da assedio. La dea Ecate si voltò verso di lei. “Adesso dovresti andare, Hazel Levesque. Porta i tuoi amici fuori da questo posto.” Hazel strinse i denti, cercando di trattenere la sua rabbia. “Solo questo? Nessun ‘grazie’? Nessun ‘bel lavoro’?” La dea inclinò la testa. La donnola Gale squittì – forse un arrivederci, forse un avvertimento – e scomparve tra le pieghe della gonna della sua padrona. “Cerchi nel posto sbagliato per la gratitudine,” disse Ecate. “Per quanto riguarda il ‘bel lavoro’, questo rimane da vedere. Recatevi in fretta verso Atene. Clitio non aveva torto. I giganti sono sorti – tutti i giganti, più forti che mai. Gea è sul punto di svegliarsi. La Festa di Speranza non avrà un nome indicato, a meno che non arriviate voi per fermarla.” La stanza rombò. Un’altra stela si schiantò sul pavimento. “La Casa di Ade è instabile,” disse Ecate. “Andatevene adesso. Ci rincontreremo di nuovo.” La dea si dissolse. La Foschia evaporò. “E’ amichevole,” brontolò Percy. Gli altri si voltarono verso lui e Annabeth, come se si fossero appena accorti che si trovavano lì. “Amico.” Jason investì Percy con un abbraccio da orso. “Tornati dal Tartaro!” esultò Leo. “Questi sono i miei amici!” Piper gettò le braccia intorno ad Annabeth e pianse. Frank corse da Hazel. La avvolse gentilmente con le braccia. “Sei ferita,” disse. “Probabilmente ho le costole rotte,” ammise lei. “Ma Frank – cosa è successo al tuo braccio?” Lui abbozzò un sorriso. “Lunga storia. Siamo vivi. E’ questo quello che conta.” Hazel era così scossa dal sollievo che le ci volle un momento per notare Nico, tutto da solo con l’espressione carica di dolore e conflitto. “Hey,” lo chiamò, facendogli segno di avvicinarsi con il braccio buono. Lui esitò, poi si avvicinò e la baciò sulla fronte. “Sono felice che tu stia bene,” disse. “I fantasmi avevano ragione. Solo uno di noi ha raggiunto le Porte della Morte. Tu… avresti reso orgoglioso nostro padre.” Lei sorrise, prendendogli gentilmente il volto tra le mani. “Non avremmo potuto sconfiggere Clitio senza di te.” Strofinò il pollice sotto l’occhio di Nico e si chiese se avesse pianto. Voleva capire così disperatamente cosa gli stava succedendo – cosa gli era accaduto nelle ultime settimane. Dopo tutto quello che avevano appena passato, Hazel era più grata che mai di avere un fratello. Prima che potesse dirlo, il soffitto tremò. Delle crepe apparvero nelle piastrelle rimaste. Colonne di polvere caddero dall’alto. “Dobbiamo uscire di qui,” disse Jason. “Uh, Frank…?” Frank scosse la testa. “Credo che un favore dai morti sia tutto quello che posso fare per oggi.” “Aspetta, che?” chiese Hazel. Piper sollevò le sopracciglia. “Il tuo incredibile ragazzo ha invocato un favore come figlio di Marte. Ha richiamato gli spiriti di qualche guerriero morto, li ha ordinato di portarci qui attraverso… um, bè, in realtà non lo so. I passaggi dei morti? Tutto quello che so è che era molto, molto buio.” Alla loro sinistra, una sezione del muro si spaccò. Due occhi di rubini provenienti da uno scheletro di pietra scolpito caddero a terra e rotolarono sul pavimento. “Dovremmo usare il viaggio-ombra,” disse Hazel. Nico sussultò. “Hazel, riesco a farlo a malapena da solo. Con sette persone in più –“ “Ti aiuterò io.” Cercò di suonare sicura. Non aveva mai usato il viaggio-ombra prima d’ora, e non aveva nessuna idea se fosse in grado di farlo; ma dopo aver lavorato con la Foschia, alterando il Labirinto – doveva credere che fosse possibile. Un’intera sezione di piastrelle si staccò dal soffitto. “Tutti quanti, prendetevi per mano!” urlò Nico. Formarono un cerchio in fretta. Hazel visualizzò la campagna greca sopra di loro. La caverna crollò, e lei avvertì che si stava dissolvendo nell’ombra. Apparvero sul fianco della collina che si affacciava sul Fiume Acheronte. Il sole aveva appena cominciato a sorgere, rendendo l’acqua luccicante e le nuvole arancioni. La fresca aria del mattino sapeva di caprifoglio. Hazel stava tenendo la mano a Frank sulla sinistra e a Nico sulla destra. Erano tutti vivi e quasi completamente integri. La luce del sole tra gli alberi era la cosa più bella che avesse mai viso. Voleva vivere in quel momento – libera dai mostri, dagli dei e dagli spiriti malvagi. Poi i suoi amici iniziarono a muoversi. Nico si rese contro che stava tenendo la mano di Percy e la lasciò andare velocemente. Leo indietreggiò incerto. “Sai… credo che mi metterò a sedere.” Crollò a terra. Gli altri si unirono a lui. L’Argo II stava ancora fluttuando sopra al fiume a qualche centinaio di metri di distanza. Hazel sapeva che avrebbero dovuto avvertire il Coach Hedge e dirgli che erano vivi. Erano stati nel tempio tutta la notte? Oppure diverse notti? Ma in quel momento, il gruppo era troppo stanco per fare qualsiasi cosa eccetto stare seduti e rilassarsi e meravigliarsi del fatto che stessero bene. Iniziarono a scambiarsi le storie. Frank spiegò di quello che era accaduto con la legione fantasma e l’esercito di mostri – come Nico avesse usato lo scettro di Diocleziano, e di quanto coraggiosamente avessero combattuto Jason e Piper. “Frank sta facendo il modesto,” disse Jason. “Lui ha controllato tutta la legione. Avreste dovuto vederlo. Oh, e comunque…” Jason guardò Percy. “Ho ceduto la mia carica, dando a Frank una promozione sul campo da pretore. A meno che tu non voglia contestare.” Percy sogghignò. “Niente in contrario.” “Pretore?” Hazel fissò Frank. Lui scrollò le spalle a disagio. “Bè… sì. So che sembra strano.” Lei cercò di gettargli le braccia al collo, poi sussultò a causa delle costole ferite. Decise di baciarlo. “Sembraperfetto.” Leo diede delle pacche sulla spalla di Frank. “Grande, Zhang. Adesso puoi ordinare ad Octavian di cadere sulla sua spada.” “Allettante,” concordò Frank. Si voltò preoccupato verso Percy. “Ma voi ragazzi… il Tartaro deve essere lavera storia. Cosa è successo là sotto? Come avete…?” Percy allacciò le sue dita in quelle di Annabeth. Hazel guardò per caso verso Nico e vide il dolore nei suoi occhi. Non ne era certa, ma forse stava pensando a quanto fossero stati fortunati Percy e Annabeth ad avere l’un l’altro. Nico aveva attraversato il Tartaro da solo. “Vi racconteremo la storia,” promise Percy. “Ma non adesso, okay? Non sono pronto a ricordarmi di quel posto.” “No,” concordò Annabeth. “In questo momento…” Spostò lo sguardo verso il fiume e si interruppe. “Uh, credo che il nostro passaggio stia arrivando.” Hazel si voltò. L’Argo II girò verso babordo, con i remi aerei in movimento e le vele gonfie al vento. La testa di Festus brillava alla luce del sole. Persino da quella distanza, Hazel poteva sentirlo sferragliare e cigolare dalla gioia. “Ecco il mio ragazzo!” gridò Leo. Mentre la nave si avvicinava, Hazel vide il Coach Hedge in piedi a prua. “Era l’ora!” gridò il coach verso il basso. Stava facendo il suo cipiglio migliore, ma i suoi occhi brillavano come se forse, solo forse, fosse felice di vederli. “Perché vi ci è voluto così tanto, pasticcini? Avete fatto aspettare il vostro visitatore!” “Visitatore?” mormorò Hazel. Alla balaustra accanto al Coach Hedge, apparve una ragazza dai capelli scuri con un mantello viola, il volto così ricoperto da polvere e graffi sanguinanti che Hazel quasi non la riconobbe. Era arrivata Reyna. 77 PERCY Percy fissò l’Atena Partenone, aspettando che lo polverizzasse. Il nuovo sistema montacarichi meccanico di Leo aveva abbassato la statua sul fianco della collina con facilità sorprendente. Adesso la dea di dodici metri guardava serenamente verso il Fiume Acheronte, con il vestito dorato simile a metallo sciolto alla luce del sole. “Incredibile,” ammise Reyna. Aveva ancora gli occhi rossi a causa del pianto. Poco dopo essere atterrata sull’Argo II, il suo pegaso Scipio era crollato a terra, sopraffatto dalle ferite velenose provocate dall’attacco di un grifone la notte prima. Reyna aveva messo fine alla sofferenza dal cavallo con il suo pugnale dorato, trasformando il pegaso in polvere che si era dispersa nella dolce aria greca. Forse non era una fine brutta per un cavallo volante, ma Reyna aveva perso un amico fedele. Percy immaginò che avesse già perso troppo nella sua vita. Il pretore si aggirò con cautela intorno all’Atena Partenone. “Sembra nuova.” “Sì,” disse Leo. “Abbiamo pulito via le ragnatele, e usato un po’ di lucido. Non è stato difficile.” L’Argo II era librata sopra di loro. Con Festus allerta in caso si minacce sul radar, tutta la ciurma aveva deciso di pranzare sulla collina mentre discutevano cosa fare. Dopo le ultime settimane, Percy pensava che si fossero guadagnati un buon pasto insieme – qualsiasi cosa che non fosse acqua di fuoco o zuppa di carne di dragone. “Hey, Reyna,” esclamò Annabeth. “Mangia qualcosa. Unisciti a noi.” Il pretore guardò nella loro direzione, con le sopracciglia scure aggrottate, come se unisciti a noi non la convincesse totalmente. Percy non aveva mai visto Reyna senza la sua armatura prima. Si trovava a bordo della nave, mentre veniva riparata da Buford il Tavolo delle Meraviglie. Reyna indossava un paio di jeans e una maglietta viola del Campo Giove e sembrava quasi una normale adolescente – fatta eccezione per il pugnale legato alla cintura e per l’espressione attenta, come se fosse pronta per un attacco da qualsiasi direzione. “Va bene,” disse alla fine. Si spostarono per farle posto nel cerchio. Si mise seduta a gambe incrociate accanto ad Annabeth, prese un panino al formaggio, e lo mordicchiò al bordo. “Allora,” disse Reyna. “Frank Zhang… pretore.” Frank si mosse a disagio, pulendosi le briciole dal mento. “Bè, sì. Promozione sul campo.” “Per guidare una legione diversa,” notò Reyna. “Una legione di fantasmi.” Hazel mise il braccio su quello di Frank con fare protettivo. Dopo aver passato un’ora in infermeria, avevano entrambi un aspetto migliore; ma Percy poteva capire che non erano certi di cosa pensare sul fatto che il loro vecchio capo del Campo Giove si fosse unito a loro per il pranzo. “Reyna,” disse Jason, “avresti dovuto vederlo.” “E’ stato fenomenale,” concordò Piper. “Frank è un leader,” insistette Hazel. “Sarà un grande pretore.” Gli occhi di Reyna rimasero su Frank, come se stesse cercando di indovinare il suo peso. “Ti credo,” disse. “Approvo.” Frank sbatté le palpebre. “Davvero?” Reyna fece un sorriso asciutto. “Un figlio di Marte, l’eroe che ha aiutato a riportare indietro l’aquila della legione… posso lavorare con un semidio così. Mi sto solo chiedendo come fare a convincere la Dodicesima Fulminata.” Frank si imbronciò. “Già. Mi stavo chiedendo la stessa cosa.” Percy non riusciva ancora a capacitarsi di quanto Frank fosse cambiato. Parlare dire ‘crescita veloce’ sarebbe stato dire poco. Era come minimo sei centimetri più alto, meno tozzo e più muscoloso, come un giocatore di rugby. Il suo volto appariva più robusto, la mascella più pronunciata. Era come se Frank si fosse trasformato in un toro e poi fosse tornato ad essere un umano, ma avesse mantenuto un po’ del toro che era stato. “La legione ti darà ascolto, Reyna,” disse Frank. “Sei arrivata fino qui, da sola, attraversando le Terre Antiche.” Reyna masticò il suo panino come se fosse cartone. “Facendolo, ho infranto le leggi della legione.” “Cesare infranse le leggi quando attraversò il Rubicone,” disse Frank. “I grandi leader devono pensare al di fuori degli schemi ogni tanto.” Lei scosse la testa. “Io non sono Cesare. Dopo aver trovato il biglietto di Jason al Palazzo di Diocleziano, rintracciarvi è stato facile. Ho solo fatto quello che pensavo fosse necessario.” Percy non poté fare a meno di sorridere. “Reyna, sei troppo modesta. Volare dall’altra parte del mondo da sola per rispondere alla chiamata di Annabeth, perché sapevi che era la nostra migliore possibilità per la pace? E’ mostruosamente eroico.” Reyna scrollò le spalle. “Parla il semidio che è precipitato nel Tartaro ed è tornato indietro.” “Ha avuto aiuto,” disse Annabeth. “Oh, ovviamente,” disse Reyna “Senza di te, dubito che Percy riuscirebbe a trovare l’uscita in una busta di carta.” “Vero,” concordò Annabeth. “Hey!” protestò Percy. Gli altri iniziarono a ridere, ma a Percy non importava. Era vello vederli sorridere. Cavoli, solo trovarsi nel mondo mortale era bello, respirare aria non velenosa, godersi della vera luce del sole sulla schiena. Improvvisamente pensò a Bob. Salutate il sole e le stelle per me. Il sorriso di Percy si spense. Bob e Damasene avevano sacrificato le loro vite così che Percy e Annabeth potessero stare seduti là in quel momento, a godersi la luce del sole a ridere con i loro amici. Non era giusto. Leo tirò fuori un minuscolo cacciavite dalla sua cintura degli attrezzi, pugnalò una fragola ricoperta di cioccolato e la passò al Coach Hedge. Poi tirò fuori un altro cacciavite e impalò una seconda fragola per se stesso. “Allora, la domanda da un milione di dollari,” disse Leo. “Abbiamo questa statua di Atena di dodici metri appena usata. Cosa ci facciamo?” Reyna guardò verso l’Atena Partenone. “Per quanto stia bene su questa collina, non ho fatto tutta questa strada per ammirarla. Secondo Annabeth, deve essere riportata al Campo Mezzosangue da un leader romano. Ho capito bene?” Annabeth annuì. “Ho fatto un sogno nel… sì, nel Tartaro. Ero sulla Collina Mezzosangue, e la voce di Atena ha detto, Devo stare qui. Devono portarmi i romani.” Percy studiò la statua a disagio. Non era mai stato in grandi rapporti con la madre di Annabeth. Continuava ad aspettarsi che la statua della Grande Mammina prendesse vita e lo rimproverasse per aver cacciato sua figlia in così tanti guai – o forse lo avrebbe solo schiacciato senza dire una parola. “Ha senso,” disse Nico. Percy sobbalzò. Suonava quasi come se Nico gli avesse letto nella mente e fosse d’accordo sul fatto che Atena lo schiacciasse. Il figlio di Ade era seduto dalla parte opposta del cerchio, e non aveva mangiato nulla eccetto metà melograno, il frutto dell’Oltretomba. Percy si chiese se quella fosse l’idea di scherzo di Nico. “La statua è un simbolo potente,” disse Nico. “Un romano che la riconsegna ai greci… quello potrebbe guarire la frattura storica, forse potrebbe persino guarire le divinità dal loro problema di personalità spaccate.” Il Coach Hedge inghiottì la sua fragola insieme a metà cacciavite. “Adesso, aspetta un attimo. La pace mi piace tanto quanto piacerebbe a qualunque satiro –“ “Lei detesta la pace,” disse Leo. “Il punto è, Valdez, che ci troviamo a soli – cosa, qualche giorno da Atene? Abbiamo un esercito di giganti che ci aspetta là. Abbiamo affrontato tutti quei guai per salvare questa statua –“ “Io ho affrontato la maggior parte dei guai,” gli ricordò Annabeth. “ – perché quella profezia parla di un flagello dei giganti,” continuò il coach. “Allora perché non la stiamo portando ad Atene con noi? Si tratta ovviamente della nostra arma segreta.” Guardò l’Atena Partenone. “Per me assomiglia a un razzo. Forze se Valdez ci attaccasse qualche motore –“ Piper si schiarì la gola. “Uh, idea fantastica, Coach, ma molti di noi hanno avuto sogni e visioni di Gea che sorgeva al Campo Mezzosangue…” Sguainò il suo pugnale Katoptris e lo mise sul suo piatto. In quel momento, la lama non mostrava nulla eccetto il cielo, ma guardarla rendeva comunque Percy nervoso. “Da quando siamo tornati alla nave,” disse Piper, “ho visto delle brutte cose nel coltello. La legione romana è quasi a distanza di attacco dal Campo Mezzosangue. Stanno raggruppando dei rinforzi: spiriti, aquile, lupi.” “Octavian,” ringhiò Reyna. “Gli avevo detto di aspettare.” “Quando prenderemo il comando,” suggerì Frank, “il nostro primo ordine potrebbe essere quello di far caricare Octavian nella catapulta più vicina e di spararlo il più lontano possibile.” “Sono d’accordo,” disse Reyna. “Ma per adesso –“ “Ha intenzione di attaccare,” esclamò Annabeth. “E lo farà, a meno che non lo fermiamo.” Piper fece ruotare la lama del suo pugnale. “Sfortunatamente, questa non è la parte peggiore. Ho visto delle immagini di un futuro possibile – il campo in fiamme, semidei greci e romani che giacevano morti a terra. E Gea…” La voce la tradì. Percy si ricordò del dio Tartaro nella sua forma fisica, che incombeva su di lui. Non si era mai sentito così inerme e terrorizzato. Stava ancora bruciando di vergogna, ricordandosi come gli fosse scivolata la spada di mano. E’ come cercare di uccidere la terra, aveva detto Tartaro. Se Gea era così potente, e aveva un esercito di giganti dalla sua parte, Percy non vedeva come sette semidei potessero fermarla, soprattutto quando la maggior parte degli dei era fuori uso. Dovevano fermare i gigantiprima che Gea si svegliasse, altrimenti sarebbe stato game over. Se l’Atena Partenone era un’arma segreta, portarla ad Atene era piuttosto allettante. Cavoli, a Percy in un certo senso piaceva l’idea del coach di usarla come un razzo e di spedire Gea in alto con una divina esplosione nucleare. Sfortunatamente, la sua pancia gli diceva che Annabeth aveva ragione. La statua doveva tornare a Long Island, dove avrebbe potuto fermare la guerra tra i due campi. “Quindi Reyna si prende la statua,” disse Percy. “E noi continuiamo verso Atene.” Leo scrollò le spalle. “Per me va bene. Ma, uh, qualche seccante problema logistico. A noi mancano quanto – due settimane prima di quella festa romana in cui Gea dovrebbe svegliarsi?” “La Festa di Spes,” disse Jason. “E’ il primo Agosto. Oggi è –“ “Il diciotto di Luglio,” disse Frank. “Quindi, sì, da domani sono esattamente quattordici giorni.” Hazel sussultò. “Ci sono voluti diciotto giorni per arrivare da Roma a qui – un viaggio che avrebbe dovuto richiedere solo due o tre giorni, al massimo.” “Quindi, data la nostra solita fortuna,” disse Leo, “forse abbiamo abbastanza tempo per portare l’Argo II ad Atene, trovare i giganti, e impedire loro di svegliare Gea. Forse. Ma come dovrebbe fare Reyna a riportare questa statua gigante al Campo Mezzosangue prima che i greci e i romani inizino ad azzuffarsi? Non ha più nemmeno il suo pegaso. Uh, scusa –“ “Non fa niente,” scattò Reyna. Forse poteva trattarli come alleati invece che nemici, ma Percy capiva che Reyna aveva ancora del risentimento verso Leo, probabilmente perché lui aveva fatto esplodere metà del Foro a Nuova Roma. Lei fece un respiro profondo. “Sfortunatamente, Leo ha ragione. Non vedo come posso trasportare qualcosa di così grosso. Pensavo – bè, speravo che voi avreste avuto una risposta.” “Il Labirinto,” disse Hazel. “Voglio – voglio dire, se Pasifae l’ha davvero riaperto, ed io credo che sia così…” Guardò Percy con aria apprensiva. “Bè, tu hai detto che il Labirinto può portare ovunque. Quindi forse –“ “No.” Percy e Annabeth parlarono all’unisono. “Non per abbatterti, Hazel,” disse Percy. “E’ solo che…” Lottò per trovare le parole giuste. Come poteva descrivere il Labirinto a qualcuno che non l’aveva mai esplorato? Dedalo l’aveva creato perché fosse una struttura vivente e in continua crescita. Nel corso dei secoli si era esteso come le radici di un albero sotto l’intera superficie del mondo. Certo, poteva portare ovunque. La distanza al suo interno non aveva significato. Potevi entrare nel Labirinto a New York, fare tre metri, e uscire dal labirinto a Los Angeles – ma solo se trovavi una via affidabile per muoverti al suo interno. Altrimenti il Labirinto ti ingannava e cercava di ucciderti ad ogni svolta. Quando la rete di tunnel era crollata dopo la morte di Dedalo, Percy si era sentito sollevato. L’idea che il labirinto si stesse rigenerando, scavandosi nuovamente la strada sottoterra e creando una spaziosa nuova casa per i mostri… la cosa non lo rendeva felice. Aveva già abbastanza problemi. “Per prima cosa,” disse, “i passaggi per il Labirinto sono troppo piccoli per l’Atena Partenone. Non c’è modo nel quale potresti farla passare là sotto –“ “E anche se il labirinto si sta davvero riaprendo,” continuò Annabeth, “non sappiamo come potrebbe essere ora. Era già abbastanza pericoloso prima, sotto il controllo di Dedalo, e lui non era malvagio. Se Pasifae ha ricreato il Labirinto come voleva lei…” Scosse la testa. “Hazel, forse i tuoi sensi sotterranei potrebbero guidare Reyna, ma nessun altro avrebbe una sola possibilità. E noi abbiamo bisogno di te qui. Inoltre, se ti perdessi là sotto – “ “Avete ragione,” disse Hazel accigliata. “Non importa.” Reyna spostò lo sguardo verso il resto del gruppo. “Altre idee?” “Potrei andare io,” propose Frank, anche se non sembrava molto felice al riguardo. “Se sono un pretore,dovrei andare. Forse potremmo allestire un qualche tipo di slitta, oppure –“ “No, Frank Zhang.” Reyna gli rivolse un sorriso stanco. “Spero che lavoreremo insieme in futuro, ma per adesso il tuo posto è con la ciurma di questa nave. Tu sei uno dei sette della profezia.” “Io non lo sono,” disse Nico. Smisero tutti di mangiare. Percy fissò dall’altra parte del cerchio verso Nico, cercando di decidere se stesse scherzando. Hazel mise giù la sua forchetta. “Nico –“ “Andrò con Reyna,” disse. “Posso trasportare la statua attraverso il viaggio-ombra.” “Uh…” Percy alzò la mano. “Voglio dire, so che ci hai appena portati tutti e otto in superficie, ed è stato incredibile. Ma un anno fa hai detto che trasportare solo te stesso era pericoloso e imprevedibile. Un paio di volte sei finito in Cina. Trasportare una statua di dodici metri e due persone dall’altra parte del mondo – “ “Sono cambiato da quando sono tornato dal Tartaro.” Gli occhi di Nico brillavano di rabbia – una rabbia più intensa di quella che Percy riusciva a comprendere. Si chiese se avesse fatto qualcosa per offendere il ragazzo. “Nico,” intervenne Jason, “non stiamo mettendo in discussione i tuoi poteri. Vogliamo solo essere sicuri che non ti ucciderai provandoci.” “Posso farlo,” insistette. “Farò dei salti brevi – qualche centinaio di chilometri ogni volta. È vero, dopo ogni salto non sarò nella condizione di difendermi dai mostri. Avrò bisogno di Reyna per difendere me e la statua.” Reyna aveva un’eccellente faccia da poker. Studiò il gruppo, esaminando i loro volti, ma non tradì nessuno dei suoi pensieri. “Nessuna obiezione?” Non parlò nessuno. “Molto bene,” disse, con il tono definitivo di un giudice. Se avesse avuto un martelletto, Percy sospettava che l’avrebbe battuto. “Non vedo nessuna alternativa migliore. Ma ci saranno molti attacchi di mostri. Mi sentirei meglio portando una terza persona. Questo è il numero ottimale per un’impresa.” “Coach Hedge,” disse Frank all’improvviso. Percy lo fissò, non sicuro di aver sentito bene. “Uh, cosa, Frank?” “Il coach è la scelta migliore,” disse Frank. “L’unica scelta. E’ un buon combattente. E’ un protettore certificato. Farà il suo dovere.” “Un fauno,” disse Reyna. “Satiro!” abbaiò il coach. “E, sì, andrò. Inoltre, quando arriverete al Campo Mezzosangue, vi servirà qualcuno con delle conoscenze e abilità diplomatiche per impedire ai greci di attaccarvi. Fatemi solo andare a fare una telefonata – er, voglio dire, a prendere la mia mazza.” Si alzò e lanciò a Frank un messaggio muto che Percy non riuscì a leggere. Nonostante il fatto che fosse stato appena reso volontario per una missione molto probabilmente suicida, il coach sembrava grato. Corse verso la scaletta della nave, saltando e sbattendo gli zoccoli l’uno contro l’altro come un bambino emozionato. Nico si alzò. “Anche io dovrei andare, e riposarmi prima del viaggio iniziale. Ci incontreremo alla statua al tramonto.” Quando se ne fu andato, Hazel aggrottò le sopracciglia. “Si sta comportando in maniera strana. Non sono certa che stia considerando attentamente la cosa.” “Starà bene,” disse Jason. “Spero che tu abbia ragione.” Passò la mano sul terreno. In superficie apparvero dei diamanti – una luccicante via lattea di pietra. “Ci troviamo a un altro incrocio. L’Atena Partenone va ad ovest. L’Argo II va ad est. Spero che abbiamo fatto le scelte giuste.” Percy desiderò poter dire qualcosa di incoraggiante, ma si sentiva inquieto. Malgrado tutto quello che avevano affrontato e tutte le battaglie che avevano vinto, sembravano non essere affatto più vicini a sconfiggere Gea. Certo, avevano liberato Tanato. Avevano chiuso le Porte della Morte. Per lo meno adesso potevano uccidere i mostri e farli rimanere nel Tartaro per un po’. Ma i giganti erano tornati – tutti. “C’è una cosa che non mi convince,” disse. “Se la Festa di Spes è tra due settimane, e Gea ha bisogno del sangue di due semidei per svegliarsi – come l’ha chiamato Clitio? Il sangue dell’Olimpo? – in questo caso non stiamo facendo esattamente ciò che vuole Gea, andando ad Atene? Se non andiamo, e lei non può sacrificare nessuno di noi, questo non vuol dire che non può svegliarsi completamente?” Annabeth gli prese la mano. Adesso che erano tornati nel mondo mortale, lui si affogava nella sua vista; senza la Foschia di Morte, con i capelli biondi che catturavano la luce del sole – anche se era ancora magra e pallida, come lui, e i suoi occhi grigi erano tempestosi di pensieri. “Percy, le profezie funzionano da entrambi i lati,” disse. “Se non andiamo, potremmo perdere la nostra migliore e unica occasione per fermarla. Atene è dove ci aspetta la nostra battaglia. Non possiamo evitarlo. Inoltre, cercare di impedire le profezie non funziona mai. Gea potrebbe catturarci da qualche altra parte, o versare il sangue di qualche altro semidio.” “Sì, hai ragione,” disse Percy. “Non mi piace, ma hai ragione.” Il morale del gruppo si fece cupo come l’aria del Tartaro, finché Piper non spezzò la tensione. “Bene!” Rinfoderò la sua arma e picchiettò con la mano sulla sua cornucopia. “Bel picnic. Chi vuole il dolce?” 78 PERCY Al tramonto, Percy trovò Nico intento a legare le corde intorno al piedistallo dell’Atena Partenone. “Grazie,” disse Percy. Nico aggrottò le sopracciglia. “Per cosa? “Avevi promesso di guidare gli altri alla Casa di Ade,” disse Percy. “L’hai fatto.” Nico legò insieme le estremità delle corde, creando un’imbrigliatura. “Tu mi hai tirato fuori da quella giara di bronzo a Roma. Mi hai salvato la vita ancora una volta. Era il minimo che potessi fare.” La sua voce era inflessibile, controllata. Percy desiderò poter capire quali fossero le motivazioni di quel ragazzo, ma non ne era mai stato in grado. Nico non era più il bambino di Westover Hall con le carte di Mitomagia. Né era più il solitario arrabbiato che aveva seguito il fantasma di Minosse attraverso il Labirinto. Ma chi era? “Inoltre,” disse Percy, “sei andato a trovare Bob…” Gli raccontò del loro viaggio attraverso il Tartaro. Immaginava che se c’era qualcuno che avrebbe potuto capire, quello era Nico. “Hai convinto Bob che si poteva fidare di me, anche se io non lo sono mai andato a trovare. Non gli ho mai pensato. Probabilmente ci hai salvato la vita facendo il gentile con lui.” “Sì, bè,” disse Nico, “non pensare alle persone… quello può essere pericoloso.” “Amico, sto cercando di ringraziarti.” Nico rise senza allegria. “Io sto cercando di dirti che non devi farlo. Adesso devo finire questo, mi puoi lasciare un po’ di spazio?” “Sì. Sì, va bene.” Percy indietreggiò mentre Nico prendeva la parte avanzata delle corde. Se le fece scivolare sopra le spalle come se l’Atena Partenone fosse un zainetto gigante. Percy non poté fare a meno di sentirsi un po’ ferito, sentendosi dire che se ne doveva andare. Tuttavia, Nico ne aveva passate parecchie. Il ragazzo era sopravvissuto al Tartaro da solo. Percy capiva di prima mano quanta forza avesse richiesto farlo. Annabeth salì sulla collina per unirsi a loro. Prese la mano di Percy, cosa che lo fece sentire meglio. “Buona fortuna,” disse a Nico. “Sì.” Lui non incrociò i suoi occhi. “Anche a te.” Un minuto più tardi, Reyna e il Coach Hedge arrivarono vestiti con l’armatura completa, muniti di zaini sulle spalle. Reyna appariva seria e pronta per combattere. Coach Hedge sorrideva come se si aspettasse una festa a sorpresa. Reyna abbracciò Annabeth. “Ce la faremo,” le promise. “So che lo farai,” disse Annabeth. Coach Hedge si mise la mazza da baseball sulla spalla. “Sì, non preoccupatevi. Arriverò al campo e vedrò il mio bambino! Uh, voglio dire, poterò questa bambinona al campo!” Diede dei colpetti sulla gamba dell’Atena Partenone. “Va bene,” disse Nico. “Per favore, afferrate le corde. Ci siamo.” Reyna ed Hedge si aggrapparono. L’aria si scurì. L’Atena Partenone precipitò nella sua stessa ombra e scomparve, insieme ai suoi tre accompagnatori. L’Argo II salpò quando era già scesa la notte. Si diressero in direzione sudovest fino a che non raggiunsero la costa, poi si ritrovarono nel Mar Ionio. Percy era sollevato di sentire di nuovo le onde sotto di lui. Sarebbe stato un viaggio più breve fino ad Atene via terra, ma dopo l’esperienza del gruppo con gli spiriti delle montagne in Italia, avevano deciso di non volare sopra il territorio di Gea più di quanto fosse necessario. Avrebbero navigato intorno alla Grecia, seguendo la rotta che gli eroi greci avevano preso nei tempi antichi. La cosa andava bene a Percy. Adorava trovarsi di nuovo nell’elemento di suo padre – con la fresca aria di mare nei polmoni e gli schizzi salati sulle braccia. Si trovava alla ringhiera di tribordo e chiuse gli occhi, avvertendo le correnti sotto di lui. Ma le immagini del Tartaro continuavano a bruciargli impresse nella mente – il fiume Flegetonte, il terreno ricoperto di vesciche dalle quali si rigeneravano i mostri, la foresta scura dove le arai volavano in alto tra le nuvole color sangue. Più di tutto, ripensava a una capanna in una palude con un fuoco caldo e scaffali di erbe secche e carne essiccata di dragone. Si chiese se adesso quella capanna fosse vuota. Annabeth si strinse accanto a lui alla ringhiera, con il suo calore che lo rassicurava. “Lo so,” mormorò lei, leggendo la sua espressione. “Neanche io riesco a togliermi quel luogo dalla testa.” “Damasene,” disse Percy. “E Bob…” “Lo so.” La sua voce era fragile. “Dobbiamo far sì che il loro sacrificio sia servito a qualcosa. Dobbiamo sconfiggere Gea.” Percy fissò il cielo della notte. Desiderò che lo stessero guardando dalla spiaggia di Long Island invece che dalla parte opposta del mondo, diretti verso una morte quasi certa. Si chiese dove si trovassero Nico, Reyna ed Hedge in quel momento, e quanto ci avrebbero messo per tornare indietro – assumendo che fossero sopravvissuti. Immaginò i romani che organizzavano i ranghi di battaglia in quel momento, circondando il Campo Mezzosangue. Quattordici giorni per raggiungere Atene. Poi, in un modo o nell’altro, la guerra sarebbe stata decisa. Alla prua, Leo fischiettava felice mentre lavorava con la testa meccanica di Festus, borbottando qualcosa riguardo a un cristallo e ad un astrolabio. Dal centro della nave, Piper e Hazel si stavano allenando con la spada, lame di oro e bronzo che risuonavano nella notte. Jason e Frank si trovavano al timone, parlando a bassa voce – forse raccontandosi storie sulla legione, o condividendosi pensieri sulla carica di pretore. “Abbiamo una buona squadra,” disse Percy. “Se devo navigare verso la mia morte –“ “Non morirai con me qui, Testa d’Alghe,” disse Annabeth. “Non ti ricordi? Non ci separeremo mai più. E quando torneremo a casa…” “Cosa?” chiese Percy. Lei lo baciò. “Chiedimelo di nuovo quando avremo sconfitto Gea.” Lui sorrise, felice di avere qualcosa di bello da aspettare. “Come dici tu.” Mentre navigavano sempre più lontani dalla costa, il cielo si scurì e spuntarono altre stelle. Percy studiò le costellazioni – quelle che Annabeth gli aveva insegnato così tanti anni prima. “Bob vi saluta,” disse alle stelle. L’Argo II scivolò nella notte.