Commento/tormento: eccessi antichi e moderni nell`esegesi dei testi*

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Commento/tormento: eccessi antichi e moderni nell`esegesi dei testi*
«EIKASMOS» XVI (2005)
Commento/tormento:
eccessi antichi e moderni nell’esegesi dei testi*
Ricordando con grandissimo affetto Giovanna
Gronda, la mia prima moglie.
Da anni mi vengo occupando di commenti ai testi, soprattutto latini, scholia
vergati per la maggior parte nella tarda antichità e nel primo medioevo, quando il
fenomeno discusso in queste pagine divenne più appariscente.
Le annotazioni filologiche del periodo alessandrino, come quelle del PSI XI
1219 al prologo degli Aitia, erano in genere brevi e concrete, si ponevano all’ombra
del testo: in quel caso specifico, ad esempio, rivelavano in poche parole chi fossero
concretamente i Telchini, l’idolo polemico verso cui si appuntava l’ironia di Callimaco.
Ma nei commenti più tardi, come gran parte di quelli ad Aristotele (Commentaria
in Aristotelem Graeca), il testo originale forma solo uno sfondo, un pretesto per
costruire vere opere autonome, che si sviluppano dai paludosi meandri di spiegazioni neoplatoniche e moralismi stoicheggianti. Di questo tipo di commento retorico non mancano pure esempi latini, come i Commentarii in Somnium Scipionis di
Macrobio, che nell’edizione teubneriana di Willis (1970) occupano 154 pagine,
contro le appena 9 del Somnium ciceroniano in quello stesso volume (in media
diciassette pagine di esegesi per una di testo).
Si tratta di un fenomeno analogo a quello che ai nostri giorni in medicina viene
chiamato accanimento terapeutico, dove la scienza sembra perdere in qualche modo
di vista il malato per diventare una sorta di autocompiacimento narcisistico, fra
diverse scuole accademiche, e le cure si sviluppano indefinitamente per ragioni
persino politiche (si pensi alla prolungata agonia del dittatore spagnolo Francisco
Franco nel novembre 1975). Se l’accanimento terapeutico manda a gambe all’aria
i saldi princìpi della medicina ippocratica, dovremo pure domandarci quali siano o
siano stati gli eccessi della filologia, quali pericoli apportatori di morte – o al
contrario di vita – essi presentino per la conoscenza dei testi, antichi o moderni che
siano.
Sui commenti ‘esagerati’ si appunta la dotta ironia del romanziere russo/americano Vladimir Nabokov in Pale Fire, uscito nel 1962 (sei anni dopo Lolita).
Fuoco Pallido (questo il titolo della versione italiana di Franca Pece e Anna Raffetto,
Milano 2002) sconcerta prima di tutto per la forma: un monumento alla mistificazione
letteraria, l’apologia di un tipo di pazzia che non esita a proporre ragionamenti i più
complessi possibili. Il volume si apre con un «poema di novecentonovantanove
*
Lezione tenuta presso il Dipartimento di Filologia Classica e Medioevale dell’Università
di Bologna il 22 maggio 2003.
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versi, suddivisi in quattro canti», attribuito allo scrittore John ‘Ombra’ (Shade),
professore in un’università della costa atlantica degli Stati Uniti, e si sviluppa nel
commento ipertrofico dell’egocentrico e bizzarro Charles Kinbote, esule dalla «remota nazione nordica di Zembla», Visiting Professor nella medesima università,
amico e ammiratore di ‘Ombra’. Si tratta di una deformazione debordante, in cui
da un primo significato ne vengono fatti scaturire innumerevoli altri, dalla cronaca
all’allegoria fino all’esoterico (duecentotrentasette pagine di fronte alle trentuno
del testo poetico, otto in media per una). Le note di Kinbote prendono la via di una
vera persecuzione nei confronti del poeta: pettegole, accademiche, nostalgiche,
esse interpretano il poema di Shade attraverso percorsi tortuosi, i quali, più che
risolvere quesiti, aprono interrogativi inusitati e sempre meno evidenti.
Si pensi che il verso di apertura
I was the shadow of the waxwing slain,
va supplito pure come v. 1000, di completamento, alla fine del poema. E si vedano
in particolare i primi due versi, che ritornano con poche varianti ai vv. 131s.:
Ero l’ombra del beccofrusone ucciso
dall’azzurro ingannevole nel vetro
Ecco come l’autore di Lolita apre il commento a quel testo:
L’immagine di questi versi iniziali è chiaramente quella di un uccello tramortito in pieno volo dall’urto violento contro la superficie esterna del vetro di una
finestra in cui il cielo si specchia creando, pur con una sfumatura di colore più
intensa e il trascorrere più lento di una nuvola, l’illusione di spazio ininterrotto. E
vediamo con gli occhi della mente John «Ombra» (Shade) nella primissima adolescenza, un giovinetto privo di attrattive fisiche, ma per il resto stupendamente
sviluppato, che subisce il primo shock escatologico della sua vita quando, con dita
incredule, solleva dal terreno erboso quel corpicino compatto, ovoidale, e fissa le
strisce color ceralacca che ornano le ali grigio-brune e le penne caudali aggraziate,
dalle punte di un giallo brillante, come di vernice fresca. Quando, nel suo ultimo
anno di vita, ebbi la fortuna di avere Shade come vicino di casa fra le idilliche
colline di New Wye (si veda la Prefazione), notai spesso quella particolare specie
d’uccelli nutrirsi, garruli e spensierati, delle bacche di ginepro velate di pruina
azzurrognola che crescevano all’angolo della sua casa (si vedano anche i vv. 181s.).
I rinvii interni sono un tipico stilema degli esegeti, precisi nei commenti moderni, più generici in quelli antichi. Dopo una serie di annotazioni sulle aves (che
in italiano sono tradotte al maschile, «gli aves»), Charles Kinbote continua:
Il poema fu iniziato esattamente a metà dell’anno, qualche minuto dopo la
mezzanotte del 1° luglio, mentre io giocavo una partita a scacchi con un giovane
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iraniano iscritto ai nostri corsi estivi; e non ho dubbio alcuno che il nostro poeta
avrebbe capito la tentazione del suo glossatore di rilevare la coincidenza di quella
data con un certo avvenimento fatale – la partenza dell’aspirante regicida, Gradus,
da Zembla. In realtà, Gradus partì da Onhava, sull’aereo per Copenaghen, il 5 luglio.
Siamo al delirio!
Si veda pure come in àmbito italiano il poeta Paolo Vita-Finzi, nella sua Antologia apocrifa (Milano 1978, 97), ha composto Convalescenza, una parodia del
celebre «Mi illumino / d’immenso» di Giuseppe Ungaretti, facendola seguire da
una annotazione a dir poco allarmante:
Di questa poesia sono stati stampati dieci esemplari numerati su carta del
Giappone, con ritratto dell’Autore e riproduzione del manoscritto autografo, che
costituiscono l’edizione originale; 30 esemplari su carta di Fabriano e 50 su papier
d’Arches. Precede uno studio di 148 pagine di Alfredo Gargiulo. La poesia ha
inoltre un commento di Paul Valéry e note esplicative di Valéry Larbaud. Seguono
una versione in francese di Lionello Fiumi e uno studio sulle fonti e sulle varianti.
Un bell’eccesso anche qui. Per non parlare del Nuovo commento di Giorgio Manganelli (Torino 1969, poi Milano 1993) in cui l’autore afferma senza mezzi termini
(p. 19):
Il lettore è invitato a tenere presente fin d’ora che il compito di chiosare il
testo non può non comportare l’ulteriore ufficio di chiosare le chiose. Pare pacifico che solo rettamente intendendo le chiose, possiamo giungere a interpretare il
testo; donde la necessità di chiosare le stesse chiose delle chiose; pertanto, graficamente allontanandoci, di altrettanto ci accosteremo al testo; e per conseguire
tanto fine dovremo magari fare un tal pellegrinaggio di chiosa in chiosa da pervenire per gli antipodi alla meta, per infinita lontananza conseguendo infinita
coincidenza; non ultima delle piacevolezze del presente lavoro1.
Non solo all’àmbito dell’arte sembrano riferirsi infine le parole salaci di Jean
Clair, il direttore del Musée Picasso di Parigi, nella sua Critica della modernità:
Poche epoche hanno conosciuto quanto la nostra un tale divorzio fra la povertà delle opere prodotte e l’inflazione dei commenti che anche le più insignificanti di esse riescono a suscitare […]. La critica si gonfia in proporzione inversa
al suo soggetto: più l’opera diventa inconsistente tanto più dotta sarà l’esegesi.
Una piega della tela, un tratto, un semplice punto diventano pretesti per un discorso incomprensibile in cui si intrecciano i diversi gerghi delle scienze umane […].
Fra l’occhio dell’osservatore e l’oggetto si frappone un apparato tanto più pesante
e imperativo quanto più ambigua è la natura stessa dell’oggetto2.
1
Fra i più antichi commenti ad altri commenti ricordo quelli di tradizione scolastica ai
Veda, gli inni sanscriti che risalgono in qualche caso fino all’inizio del primo millennio a.C.
2
Trad. it. Torino 1984, 9, 10, 16.
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Nell’àmbito specifico della filologia classica, non possiamo non ricordare le
cattedre universitarie distribuite in tutto il mondo dalle innumerevoli esegesi del
cosiddetto papiro di Gallo, mentre per la poesia moderna si possono ricordare gli
articoli, anche nella stampa quotidiana, su quella che possiamo considerare una
sorta di Appendix Montaliana, cioè le poesie lasciate dal poeta come eredità per
Annalisa Cima, conservate nel caveau di una banca svizzera e pubblicate anno dopo
anno con il contagocce. Del resto anche nella più seria filologia qualcosa di eccessivo si può rilevare persino nella lodevole edizione che uno studioso di alto profilo
come Dante Isella ha dedicato a Vittorio Sereni (Milano 1995): 266 pagine di testi,
di cui molte bianche, con 125 di introduzione e 600 di cosiddetto Apparato critico!
E Sereni non è certo uno di quei letterati a cui applicare l’aforisma di Camus: «chi
scrive in modo chiaro ha dei lettori, chi scrive in modo oscuro ha dei commentatori». C’è da ripetere ciò che con sublime ironia Anton Cechov scriveva nei suoi
Quaderni: «non è Shakespeare che conta, ma il commento a Shakespeare»3.
In un felice intervento al convegno internazionale su Il commento ai testi tenuto
sul Monte Verità, ad Ascona, nel 1989, padre Giovanni Pozzi ne catalogava quattro
tipi: il biblico, l’umanistico, il parodistico ed il mistico, facendo pure qualche osservazione sul commento dei giuristi e canonisti che «ha fatto presa sui nostri testi
letterari». Il critico svizzero ammetteva che il commento a volte «rassomiglia agli
esercizi», non solo a quelli di lettura alla Contini, ma «proprio agli esercizi per
antonomasia, quelli di sant’Ignazio»4. Non intendo spingermi sull’impervio e pur
fascinoso sentiero dei commenti teologici, dove l’autore terreno viene messo in second’ordine e considerato solo come un tramite di quello celeste, e dove si cerca di
pervenire al senso riposto di un testo con l’affermazione paradossale che esso nihil in
se habere quod iuxta litteram intellegi potest, ovvero è privo di un vero senso letterale.
Ma c’è davvero una differenza sostanziale fra i commenti antichi a Virgilio e a Omero
e quelli di Sant’Agostino ai Salmi? Non sono tutti costruiti su un rapporto, pagano e
poi cristiano, per testi e per autori di cui si affronta la lettura in modo quasi religioso5?
Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Non mancano colleghi universitari
che, confondendo intentio auctoris con intentio lectoris, conducono le loro analisi
3
I quaderni del dottor Cechov, trad. it. di P. Zveteremich, Milano 1957, 88 [80].
G. Pozzi, Fra teoria e pratica: strategie per il commento ai testi, in O. Besomi-C. Caruso
(edd.), Il commento ai testi. «Atti del Seminario di Ascona, 2-9 ottobre 1989», Basel-BostonBerlin 1992, 311-333: 312, 316.
5
Agostino peraltro conosceva solo superficialmente la problematica filologica e linguistica
dei Salmi, che erano stati scritti originariamente in ebraico, così che il suo approccio rimane
«tendenzialmente di gusto retorico» (M. Simonetti nell’Introduzione ad Agostino. Commento ai
Salmi, Milano 1988, XXVII). Per niente retorico, ma ricco di motivazioni storiche e filosofiche,
è invece uno dei più antichi commenti giuntici in greco, quello di Socrate a un carme di Simonide
nel Protagora di Platone, 342a-347a (su cui vd. F.M. Giuliano, Esegesi letteraria in Platone: la
discussione sul carme simonideo nel Protagora, «SCO» XLI, 1991, 105-190, ora ripubblicato in
Id., Studi di letteratura greca, Pisa 2004, 1-86).
4
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non tanto con gli occhi e la memoria quanto con il computer, riuscendo potenzialmente ad evidenziare qualche Ringkomposition persino negli elenchi telefonici,
dove certo alcune serie numeriche ritornano a intervalli.
Ma ora basta con i paradossi, e veniamo ad esempi significativi nell’àmbito
degli studi di antichità. Approdato ad Oxford nel 1935, Eduard Fraenkel diede
inizio in quella celebre università ad un seminario sull’Agamennone di Eschilo: alla
fine del primo anno era giunto al v. 33, ma va detto a suo merito che egli riuscì con
immane fatica a concludere il lavoro, consegnandolo all’editore nel 1946 e pubblicandolo infine nel ’50. Sono tre grossi volumi di 850 pagine complessive, una delle
opere di filologia più notevoli del secolo scorso, dove sono affrontati con rigore
problemi fondativi di quello e di altri testi classici, anche se di fatto non sembrano
davvero adatti per una lettura effettiva del testo. Sembra che pure Fraenkel se ne
lamentasse in séguito con allievi ed amici, affermando che anche i commenti devono avere un loro stile6. Certo di questo fatto era conscio Denys Page, Regius
Professor of Greek a Cambridge, quando sottolineava con sottile ironia la sua
ammirazione per «the enormously extensive researches embodied in Professor
Fraenkel’s book», ma non aveva dubbi a firmare un nuovo agile commento all’Agamennone (Oxford 1957), di fatto il più usato negli anni successivi.
Peraltro Fraenkel era Fraenkel, ma non così i suoi epigoni! Il critico francese
Jean Bollack, ad esempio, dopo aver pubblicato in quattro volumi fra il 1965 e il
’69 una esegesi un po’ sbrodolata ai frammenti di Empedocle (senza ovviamente
l’ultimo papiro), nel 1981 ha intrapreso ma non è poi riuscito a terminare un ulteriore commento all’Agamennone: era previsto in cinque tomi, ma gli ultimi due
sono usciti solo nel 2003, a cura di Pierre Judet de la Combe.
In claris non fit interpretatio, «nelle cose chiare non c’è bisogno di commento». Eppure ciascuno di noi ha fatto esperienza di annotazioni che si prolungano
fumosamente in particolari inutili, e magari saltano ciò che più avrebbe bisogno di
essere spiegato, riservandone forse il compito per le generazioni future. Il problema
è che il commento a un testo, classico e non solo classico, dovrebbe essere in ogni
modo funzionale, non riportare cioè pagine intere di esempi tratti da raccolte generiche come il Thesaurus, ma cercare di ricostruire il più possibile il ‘tavolo di
lavoro’ dell’autore di cui ci si occupa. Un commento che vuol rimanere nel tempo
non dovrebbe poi essere influenzato dalle mode, come pure capita e come capitava
6
Ce lo testimonia fra gli altri Paolo Fedeli ne Il mio ricordo di Eduard Fraenkel, «Aufidus»
XLI (2000) 12: «l’interpretazione, che dal testo doveva sempre muovere e al testo doveva sempre
fare ritorno, era da lui considerata un’esigenza primaria: a suo parere uno studioso del mondo
antico raggiungeva la sua pienezza allorché si faceva commentatore di testi, e ai commenti,
completi, complessi e onnicomprensivi come il suo Agamennone, egli auspicava che i giovani si
applicassero. Ricordo, comunque, che un giorno mi disse che nell’Agamennone aveva forse
ecceduto per amor di completezza; e citava spesso l’affermazione di Leo, secondo cui anche i
commenti debbono avere un loro stile».
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anche ai ‘padri nobili’ del passato. Si pensi agli spostamenti spesso artificiosi di
versi e intere pagine di un testo, un vezzo al quale nella seconda metà dell’Ottocento non sfuggì neppure il grande Ribbeck, anche se nessuno prende più oggi sul serio
le sue ardite trasposizioni nel testo di Virgilio7.
Eduard Fraenkel iniziava il suo commento all’Agamennone riportando opportunamente l’intenzione manifestata da Lucilio in ciò che scriveva, così come viene
riferita da Cicerone (De oratore II 6,25):
C. Lucilius, homo doctus et perurbanus, dicere solebat ea, quae scriberet,
neque se ab indoctissimis neque a doctissimis legi velle, quod alteri nihil intellegerent,
alteri plus fortasse quam ipse.
Non è peraltro stato sempre così, e a volte anche i lettori e commentatori antichi si
sono lanciati in excursus e divagazioni poco pertinenti. Galeno ad esempio se la
prendeva con Lico, un medico macedone del II secolo d.C., che aveva scritto un
commento ad Ippocrate di ampiezza inusitata (1400 stichoi per una sola espressione!), e pure contro Giuliano (anche lui del II secolo) che sugli Aforismi aveva
scritto ben 48 libri (Adversus Iulianum 248, in CMG [Corpus Medicorum Graecorum]
V/10/3, Berlin 1951)8.
Di molti di questi testi il tempo ha fatto giustizia, e ne rimane ormai solo un
ricordo sbiadito. Peraltro nella tarda latinità furono compilati tre ‘commenti/tormenti’ a cui vale la pena accennare in questa sede:
7
Ciò non significa che spostamenti estesi e complessi non si possano provare almeno per
alcune opere antiche. Me ne sono occupato a proposito della parafrasi di Eutecnio agli Alexipharmaca
di Nicandro (la mia edizione venne pubblicata a Milano dall’Istituto Cisalpino nel 1976: si
vedano in particolare le pp. 12 e 14). Di quel testo si può seguire fortunosamente l’intera tradizione: nel capostipite, il celebre codice Medico Greco 1 di Vienna, della fine del secolo V, un
indice dei capitoletti è scritto come nei papiri su due colonne verticali parallele, ma i manoscritti
successivi non hanno compreso quell’ordine e lo hanno ricopiato in senso orizzontale (4, 15, 5,
16, 6, 17, e via di séguito). Una parte della tradizione, di cui è capostipite un esemplare del Monte
Athos del secolo XII, rilevata l’incongruenza fra l’ordine dell’indice e quello dei capitoli, non
potendo risalire al poemetto originario per stabilire dove stesse l’errore, invertì zelantemente
come nell’indice tutto quanto il testo. Ci è pervenuto infine un manoscritto Laurenziano del
secolo XV che ricopiò di nuovo in senso verticale, e con alcune ripetizioni, l’indice del suo
antigrafo, l’Urbinate 66, che era invece disposto in senso orizzontale, giungendo per un mal
riposto senso di ordine a un disordine completo (4, 15, 5, 16, 6, 17, 7, 19, 9, 11, 5, 17, 8, 21, 23,
25, 16, 7, 20, 10, 12, 14, 22, 24, 18)!
8
Non mancano dunque commenti antichi a cui applicare l’ironia di Manganelli nel Nuovo
commento che ho prima citato, dove si ricordano edizioni di scrittori a cui «eruditi, pedagoghi di
varia dottrina ed estro, avevano apposto chiose, intese originariamente a far più piana e spedita
la lettura agli incolti scolari. Non di rado, codesto limitato, pratico scopo sembrava affatto cadere
di mente dallo studioso, che si abbandonava ad una ossessiva, ipnotica voluttà» (p. 59). Sui
commenti medici si veda in particolare il bell’articolo di Amneris Roselli e Daniela Manetti,
Galeno commentatore di Ippocrate, in ANRW XXXVII/2 (1994) 1529-1635 e 2071-2080.
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1) lo scolio dello Pseudo-Probo a Bucoliche 6,31s. (Namque canebat, uti magnum
per inane coacta / semina) travalica nettamente i limiti della semplice esegesi e
occupa quasi un quinto di quel testo, che attende da troppo tempo una nuova edizione (sembrano averne abbandonato il proposito sia Luigi Lehnus, che si è limitato
a pubblicare la biografia di Virgilio, sia Massimo Gioseffi, che pure sullo PseudoProbo ha scritto un poderoso volume nel 1991 e un articolo significativo qualche
anno più tardi)9. Lo scolio a Bucoliche 6,31s. appare come una dissertazione dossografica, introdotta da una formula che sottolinea il distacco da ciò che precede
(pp. 331s. Hagen):
Hactenus breviter. Nunc, ut omnis quaestio tractetur, quaeritur, an poeta
quattuor solis et his an omnibus principia rerum convenire confirmet, tunc deinde,
an revolutis super eadem re sensibus paria percurrat, an vero diversa confundat.
Ut igitur sensum plenius intellegamus, hoc, quod est ab eo versu «Namque canebat,
uti magnum per inane coacta / semina», proprium in Vergilio est, ut nihil magnum
sua auctoritate confirmet, sed aut a Musis acceptum dicat aut admirabile famae
tribuat. Hoc quidam diffidentiae dicunt: nam si confirmet, inquiunt, opiniones
hominum ad credendum facilius inducat.
Scopo della lunga nota è di verificare nelle parole di Sileno la presenza della
dottrina empedoclea dei quattro elementi e la sua coerenza con altre affermazioni
di tipo cosmologico nell’opera di Virgilio. L’assunto lascia spazio a una serie di
divagazioni ad esso variamente connesse, che costituiscono altrettanti inciampi
nella linearità del discorso. Lapidario è il giudizio di Gioseffi: «L’esposizione
probiana si fa spesso confusa ed incerta, né vi mancano le inesattezze o le contraddizioni; il nucleo principale è fortemente incentrato su Virgilio, mentre le divagazioni segnalate mantengono con esso un legame che a tratti diviene molto labile,
sicché sembrano derivare da un procedimento di accumulazione progressiva. I criteri interpretativi sfoggiati sono discutibili e i versi virgiliani vengono sottoposti a
continue forzature esegetiche; le informazioni fornite, al di là di occasionali
sdrucciolamenti, sono però di buon livello complessivo e abbondano in specie i
riferimenti alla tradizione greca o a quella latina arcaica. In generale, si può ripetere
per queste pagine il giudizio che dell’intero testo probiano diede la filologia
ottocentesca, riconoscendolo a un tempo et doctissimum et vilissimum»10.
2) Non diverso è il caso della Disputatio de Somnio Scipionis di Favonio
Eulogio, un ‘commento/tormento’ conservato in un unico codice del secolo XI, più
9
L. Lehnus, Verso una nuova edizione del commento virgiliano attribuito a Probo. La
“Vita Vergilii”, «Scripta philologa» III (1982) 179-211; M. Gioseffi, Studi sul commento a
Virgilio dello Pseudo-Probo, Firenze 1991 e Problemi di fonti nel Commento alle Bucoliche dello
Pseudo-Probo, in Esegesi, parafrasi e compilazione in età tardoantica, a c. di C. Moreschini,
Napoli 1995, 131-145.
10
In Studi sul commento cit. 71-75: 74s. n.
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volte ristampato in età moderna (l’edizione migliore è quella di Luigi Scarpa, Padova 1974). Il trattatello si apre con un breve cenno al significato della parte
conclusiva del De re publica ciceroniano, per passare bruscamente ai problemi
aritmetici, o meglio aritmologici, sollevati dalla predizione dell’età nella quale
sarebbe morto l’Emiliano:
Cum aetas tua septenos octiens solis anfractus reditusque converterit, duoque
hi numeri, quorum uterque plenus alter altera de causa habetur, circuitu naturali
summam tibi fatalem confecerint … (è il paragrafo 12 del Somnium, così nella
traduzione di F. Stok, Venezia 2000: «quando tu sarai giunto all’età in cui il sole
per otto volte avrà compiuto sette complete rivoluzioni, tornando al punto di
partenza, e questi due numeri, ognuno dei quali è considerato per ragioni diverse
perfetto, avranno prodotto, per un meccanismo naturale, quella che per te sarà
un’età fatale …»)
Favonio Eulogio introduce una vera ‘cascata’ di argomenti aritmologici, che
occupano quasi la metà del trattato (capitoli II-XIX), come egli stesso riconosce nel
passo di raccordo (XX):
Habes de numeris quod, sine libris in agello positus, potui reminisci: sequenti
parte sermonis etiam symphoniam mundi, qua eum personare Pythagoras existimat,
referemus.
E in effetti i capitoli successivi, da XXI a XXVIII, si occupano esclusivamente
del paragrafo 18 del Somnium ciceroniano, un’occasione per discorrere dell’armonia delle sfere (summus ille caeli stellifer cursus, cuius conversio est concitatior,
acuto et excitato movetur sono, gravissimo autem hic Lunaris atque infimus, «il
cerchio più alto del cielo, quello delle stelle, essendo il suo movimento più rapido,
produce ruotando un suono alto e acuto; quello della Luna, invece, che è il più
basso, emette il suono più grave»). Non è il solo caso: molti commenti antichi a testi
di filosofia, più che di parole si occupano di singoli paragrafi e frasi, e da essi
prendono le mosse per spingersi sulla tangente verso considerazioni del tutto autonome. Si pensi al commento neoplatonico al Timeo di Calcidio, che impiega sei
capitoli, 268-274, per fare la parafrasi della pagina 49 (a-e) di Platone, e da lì partire
a comporre un vero trattato De silva, lungo ben quarantasei capitoli (275-320).
3) Il terzo esempio, forse il più interessante, sono i Commentarii in Somnium
Scipionis di Macrobio, che peraltro appaiono, a chi li legge oggi, assai meno affascinanti dei Saturnalia. Come la Disputatio di Favonio Eulogio, anche i Commentarii
dedicano numerose pagine ai problemi aritmologici di cui quello si era soprattutto
occupato (ma Favonio Eulogio non viene neppure citato!). Ciò che però è accaduto
nella tradizione di Macrobio ci fa riflettere su come, accanto a confusioni ed eccessi, i vasti ‘commenti/tormenti’ antichi possano rivelare meriti eccezionali. Se in
certi casi ci si può domandare se sia il testo occasione per il commento o se il
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commento non si trasformi in opera autonoma (lo si può affermare pure per alcuni
commenti trecenteschi a Dante, come l’Anonimo Fiorentino, quasi una enciclopedia del sapere destinata a lettori-mercanti), nel caso di Macrobio si assiste ad un
rovesciamento sorprendente. Ciò che ha fatto la fortuna dell’opera nel medioevo,
soprattutto fra il secolo IX e l’XI, non era ormai più il testo di Cicerone ma il
commento tardoantico in sé. Il fatto che i capitoletti del Somnium siano effettivamente giunti a noi dipende da almeno quattro manoscritti medievali (PDBC) dove
essi hanno formato una specie di ‘appendice’ a Macrobio.
Né si tratta di un unicum, giacché vi sono passi importanti di Ippocrate giunti
a noi solo nei lemmi dei commenti di Galeno. Senza discutere di situazioni anche più
intricate, che ricordano quasi le matrioske russe, bambole che contengono altre bambole, commenti che ci conservano altri commenti, come gli scholia Veronensia a
Virgilio, dove spesso – è un particolare interessante – le esegesi precedenti sono
indicate con il nome del grammatico a cui erano dovute11. Si tratta in ogni caso
dell’immagine speculare della definizione che con logica stringente Cesare Segre
dava del commento nella relazione di apertura al convegno ticinese prima accennato:
Il commento è un apparato di illustrazioni verbali destinato a rendere più
comprensibile un testo. Questo apparato ha senso esclusivamente in rapporto col
testo: preso in sé, non ha valore di testo perché privo di autonomia comunicativa12.
In questo inizio di secolo e di millennio non sarà dunque il caso di consegnare
crudelmente alla morte i commenti eccessivamente ampi. Nel ‘mercato globale’
oggi tanto osannato hanno soprattutto successo apparati e commenti selettivi (gli
Oxford Classical Texts, la serie di Cambridge, la Loeb, la Valla, le pubblicazioni
di Marsilio, i Meridiani Mondadori, la stessa BUR). Ma pure i lavori più attenti e
persino troppo estesi possono aprire nuove vie, spingere a ipotesi originali, sollevare dubbi, fare domande inattese. Ciò che possiamo chiedere a un apparato ricco,
a un commento magari frondoso e supercolto come quello di Fraenkel all’Agamennone o quello «monumentale»13 di Nicholas Horsfall al VII libro dell’Eneide (Leiden
11
Significativo nel Rinascimento mi sembra in particolare il caso del Cornu Copiae di
Niccolò Perotti, la cui prima edizione (1489, nove anni dopo la morte dell’umanista), fu seguita
in brevissimo tempo in tutta Europa da una cinquantina di altre, uno dei primi grandi successi
editoriali nella storia della stampa. Nata come commento ai primi 147 epigrammi di Marziale,
l’opera fu di fatto il primo lessico latino dell’età moderna, poi imitato da Calepino, Forcellini e
molti altri (il materiale linguistico è raccolto soprattutto intorno ai primi 6 epigrammi, che costituiscono oltre la metà dell’opera). Si veda la recente edizione critica in 8 volumi (Sassoferrato
1989-2001) ed il libro di F. Stok, Studi sul Cornu Copiae di Niccolò Perotti, Pisa 2002.
12
Per una definizione del commento ai testi, in Il commento ai testi cit. 3-14: 3.
13
Così lo chiama Alfonso Traina all’inizio della sua ampia recensione (Il Virgilio di Nicholas
Horsfall, «AVM» LXX, 2002, 63), che si chiude peraltro (pp. 74s.) con osservazioni generali
proprio sul nostro argomento. «“Questo è un libro lungo”, ha scritto l’Autore (p. XXXV), “e
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GEYMONAT
2000) non riguarda solo i testi a cui è dedicata specificamente quella esegesi, ma
l’intera storia della lingua, la grammatica, la paleografia, la mitologia, discipline
una volta ancillari della filologia classica, oggi sostanzialmente autonome.
Concludendo, non abbandoniamo del tutto le battaglie defatiganti, all’arma
bianca, con manoscritti e commenti antichi, pure quelli pomposi e retorici del
Rinascimento e del Seicento, e quelli buoni e meno buoni dei tempi moderni!
Venezia
MARIO GEYMONAT
poteva essere più lungo”. Anche le nostre note sono lunghe, e potevano essere più brevi. Ma non
si doveva di meno a un’opera come questa, destinata a lunga vita: benché, squilibrando il rapporto fra testo e commento, si sfiori il rischio di sovrapporsi alla voce del poeta. Il commento è
l’indispensabile intermediario fra l’autore e il lettore, soprattutto se appartenenti a contesti culturali e linguistici diversi e lontani: ma può anche, determinando l’indeterminato, depauperare il
testo poetico delle sue potenzialità espressive. Forse pensava a questo il Carducci scrivendo a una
dotta signora: “i commenti nocciono alla poesia” [G. Carducci, L.G. Bertolini, Carteggio (18601865), Pistoia 2000, 176]. (Il che non gli ha impedito di commentare il Petrarca)».