SEZIONE I LA NASCITA E LA STRUTTURA ISTITUZIONALE DELL

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SEZIONE I LA NASCITA E LA STRUTTURA ISTITUZIONALE DELL
Sezione I
La nascita e la struttura
istituzionale dell’Unione europea
 Capitolo Primo 
Dalle Comunità europee all’Unione europea

1. La dichiarazione Schuman e la nascita della CECA
Il 9 maggio 1950 (giorno che in seguito sarà indicato come festa dell’Unione europea)
l’allora ministro degli esteri francese Robert Schuman rendeva pubblica una dichiarazione con la quale proponeva di «mettere l’intera produzione francese e tedesca del
carbone e dell’acciaio sotto una comune Alta autorità, nel quadro di un’organizzazione
alla quale possono aderire gli altri paesi europei».
Per capire il senso della proposta francese si deve ricordare che lo sfruttamento dei ricchi giacimenti di
carbone e di acciaio della Ruhr e della Saar era stato, spesso, motivo scatenante di guerre tra la Francia e la
Germania. Inoltre, a cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati occidentali (in particolare
gli Stati Uniti e la Gran Bretagna) volevano evitare un nuovo isolamento della Germania, anche nell’ottica di
contrastare l’affermarsi del blocco sovietico nell’Europa centro-orientale.
La costruzione dell’unione carbo-siderurgica costituiva un’esperienza del tutto originale; a differenza delle altre organizzazioni, si trattava di cedere un frammento di
sovranità di ciascuno degli Stati membri (anche se in un settore limitato) ad un organismo
sovranazionale, che avrebbe gestito in modo autonomo la politica comune nel settore.
Si inaugurava, in tal modo, l’approccio funzionalista al processo di integrazione europeo, che doveva attuarsi attraverso il graduale trasferimento di compiti e funzioni in
settori circoscritti e ben determinati a istituzioni indipendenti dagli Stati, per gestire
le risorse comuni (il cd. sector by sector approach).
La favorevole accoglienza alla proposta Schuman, che nel frattempo aveva ricevuto
anche l’adesione dell’Italia, del Belgio, del Lussemburgo e dei Paesi Bassi, portò alla
firma del Trattato di Parigi del 18 gennaio 1951 (entrato in vigore il 23 luglio 1952)
con il quale fu creata la Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA).
Firmato per un periodo di cinquant’anni, il 23 luglio 2002 il trattato CECA è pervenuto a scadenza. Tutte le attività e le passività della CECA residuate al 23 luglio 2002
sono state trasferite alla Comunità europea e il valore netto è destinato alla ricerca
in settori correlati all’industria del carbone e dell’acciaio.
2. La creazione della CEE e dell’Euratom
La positiva esperienza dei primi anni di attività della CECA indusse i governi degli
Stati aderenti a promuovere nuove forme di integrazione.
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Parte III: Diritto comunitario - Sezione I: La nascita e la struttura istituzionale dell’UE
Un primo progetto in tal senso fu la firma del Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa
(CED) il 27 maggio 1952, che si proponeva di creare una struttura militare comune in Europa. L’obiettivo, però, si rivelò troppo ambizioso perché gli Stati non erano ancora pronti a delegare la propria sovranità
in un settore così delicato come quello della difesa militare, soprattutto a così poca distanza dalla fine del
secondo conflitto mondiale.
La mancata ratifica da parte del Parlamento francese bloccò definitivamente il progetto; per cui di «difesa
comune» europea non si sarebbe più parlato fino al 1992 con il Trattato di Maastricht.
Il fallimento del progetto CED non interruppe, comunque, il cammino dell’integrazione europea. Pochi
anni dopo i sei Stati membri della CECA avviarono le trattative per costituire altre due Comunità.
Nel corso dell’incontro tenutosi a Messina il 1° giugno 1955 i ministri degli esteri
dei sei delinearono le tappe per la costituzione della Comunità europea dell’energia
atomica (Euratom o CEEA) e della Comunità economica europea (CEE), affidando
ad un Comitato di delegati governativi, presieduto dal ministro degli esteri belga Paul
Henry Spaak, il compito di esaminare, perfezionare e trasformare in strumenti concreti
le direttive e le idee scaturite dalla conferenza.
I negoziati per la stesura dei due trattati iniziarono il 30 maggio 1956 e si protrassero
fino al febbraio del 1957 (Conferenze di Bruxelles e Parigi) e, finalmente, il 25 marzo
dello stesso anno si giunse alla firma a Roma dei Trattati istitutivi della CEE e
dell’Euratom; i due trattati entrarono in vigore il 1° gennaio 1958.
Mentre il Trattato CECA prevedeva l’instaurazione di un’area di libero scambio limitatamente al settore del carbone e dell’acciaio (che implica l’abolizione dei dazi doganali
interni e la soppressione di qualunque limitazione all’importazione e all’esportazione
di tali prodotti tra gli Stati membri), i Trattati CEE ed Euratom gettavano le basi per la
creazione di un’unione doganale di più ampio respiro, che implica anche l’adozione di una
tariffa doganale comune nei confronti dei paesi terzi, in aggiunta alle misure prima citate.
L’obiettivo dell’instaurazione dell’unione doganale fu raggiunto il 1° luglio 1968,
allorché fu fissata una tariffa doganale comune (TDC); dopo questa data tutti gli sforzi dei
paesi membri furono indirizzati alla realizzazione di una unione economica, cioè di uno
spazio interno in cui fosse assicurata la piena libertà di circolazione delle merci, dei servizi,
dei capitali e delle persone, nonché il perseguimento di politiche economiche comuni.
3. Le adesioni dei nuovi Stati (1972-1995)
L’unico grande Stato europeo che non aveva aderito al progetto lanciato nel 1950
era il Regno Unito, che decise di creare nel 1960 una semplice area di libero scambio
insieme ad altri Stati europei (l’EFTA - European Free Trade Area). Tuttavia, già a partire
dal 1961, il governo britannico cominciò a modificare il proprio orientamento e presentò una prima domanda di adesione, bloccata dall’opposizione del governo francese
(all’epoca guidato dal generale De Gaulle). Sorte analoga toccò ad una nuova domanda
di adesione presentata nel 1967, bloccando in tal modo per diversi anni qualunque
progetto di allargamento delle Comunità europee.
Soltanto nei primi anni settanta, una volta attenuatasi l’opposizione francese all’adesione del Regno Unito, fu possibile riprendere le trattative per estendere la membership
a nuovi paesi. I negoziati si conclusero il 22 gennaio 1972 con l’adesione di quattro
Stati (alla domanda del Regno Unito, infatti, si erano aggiunte nel frattempo quelle di
Irlanda, Danimarca e Norvegia.
Nel corso di quell’anno, però, in Norvegia si tenne un referendum che bocciò il
progetto di adesione dello Stato scandinavo. Dal 1° gennaio 1973, quindi, soltanto 3
Stati aderirono alle Comunità, portando il numero totale dei paesi membri a 9.
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Una nuova adesione si ebbe nel 1981, quando entrò a far parte della Comunità la
Grecia. Lo Stato ellenico aveva già firmato nel 1961 un accordo di associazione, che
rappresentava il primo passo per una adesione a pieno titolo. L’instaurazione di una
dittatura militare nel 1967, tuttavia (nota come «dittatura dei colonnelli»), bloccò per
diversi anni qualunque progresso nei negoziati di adesione. Una volta ricostituito un
regime democratico (1974), le trattative per l’adesione furono riavviate nel 1976 e si
conclusero nel 1979; a partire dal 1° gennaio 1981 la Grecia è diventato il decimo Stato
membro delle Comunità.
Negli anni ’70 caddero altri due regimi autoritari in Europa, quello portoghese e
quello spagnolo, avviando un processo di democratizzazione che avrebbe consentito
a questi due Stati di aderire a pieno titolo alle Comunità europee. Nel 1974, infatti, in
Portogallo ebbe fine la dittatura militare con la cd. rivoluzione dei garofani e l’anno
successivo moriva in Spagna Francisco Franco, che da circa 40 anni guidava un regime
dittatoriale. Le trattative per l’adesione dei due Stati mediterranei si conclusero nel mese
di marzo del 1985 e dal 1° gennaio dell’anno successivo essi aderirono a pieno titolo
alle Comunità, portando il numero totale dei paesi membri da 10 a 12.
Ulteriore ampliamento delle Comunità europee si è avuto nel 1995, con l’acquisizione dello status di membro anche da parte di Austria, Finlandia e Svezia. In realtà
la domanda di adesione era stata presentata anche dalla Norvegia, ma come negli anni
settanta un referendum aveva bocciato l’ingresso del paese scandinavo. Dal 1° gennaio
1995, quindi, i paesi membri sono passati da 12 a 15, più del doppio rispetto ai sei Stati
che inizialmente avevano aderito all’idea di Robert Schuman.
Nel par. 11 daremo conto del successivo ampliamento dell’Unione che oggi conta
ben 27 Stati membri.
4. Il Libro bianco per il completamento del mercato interno
Con il raggiungimento dell’originario obiettivo dell’unione doganale e l’ampliamento
ad altri paesi europei, si rese necessaria una completa revisione della struttura e degli
obiettivi della Comunità.
Dopo la crisi mondiale che caratterizzò gli anni settanta ed il rallentamento del processo d’integrazione comunitario che ne seguì, era unanimamente avvertita l’esigenza
di ridare nuovo slancio e vigore alla cooperazione europea.
L’impulso decisivo venne dalla Commissione presieduta da Jacques Delors, che nel
giugno 1985 presentò un Libro bianco per il completamento del mercato interno.
In questo documento venivano analizzati tutti gli ostacoli che si frapponevano ad una completa realizzazione dell’unione economica tra gli Stati della Comunità e si avanzavano proposte volte a superarli.
In particolare i tre obiettivi principali del programma erano:
— integrare i mercati nazionali della Comunità per trasformarli in un mercato unico;
— rendere questo mercato unico un mercato in espansione, estremamente dinamico;
— garantire la necessaria flessibilità, al fine di canalizzare al meglio le risorse umane, materiali e finanziarie
verso i settori di utilizzazione ottimali.
5. L’Atto unico europeo
I problemi e le soluzioni individuate nel Libro bianco costituirono la base della Conferenza intergovernativa che si riunì a Lussemburgo il 9 settembre 1985 e nella quale
furono predisposte le strategie per il rilancio del processo di integrazione europeo.
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I lavori della Conferenza, infatti, ebbero termine a Bruxelles il 28 febbraio 1986
con l’adozione dell’Atto unico europeo, entrato successivamente in vigore il 1° luglio
1987 a seguito della ratifica dei Parlamenti degli Stati membri (in Italia con la L. 23
dicembre 1986, n. 909).
L’obiettivo più importante previsto da tale accordo era la realizzazione, entro il
31 dicembre 1992, del mercato unico, cioè di uno spazio senza frontiere interne nel
quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
6. Il mercato unico europeo
Il periodo che va dall’entrata in vigore dell’Atto unico europeo alla data del 1° gennaio
1993, fissata per l’avvio del mercato unico, è stato caratterizzato da un’intensa attività.
La necessità di procedere ad una completa armonizzazione delle diverse legislazioni degli
Stati membri, al fine di eliminare tutte le barriere (fisiche, tecniche e fiscali) che si frapponevano al processo di integrazione, ha reso necessario un lungo e paziente lavoro da
parte della Commissione. Nonostante le inevitabili difficoltà l’obiettivo è stato comunque
centrato e, a partire dal 1° gennaio 1993, tra i paesi membri dell’Unione europea
sono caduti tutti gli ostacoli di natura burocratica e tariffaria che ostacolavano la
circolazione dei beni e dei servizi.
Il laborioso ed interessante lavorio finalizzato al completamento del mercato unico
è proseguito parallelamente ad un’intensa attività volta a creare le basi per delineare
le future tappe dell’integrazione europea. Preso atto dell’imminente raggiungimento
dell’obiettivo 1993, le istituzioni dell’Unione hanno avviato già dal 1988 i contatti che
sarebbero sfociati nella firma del Trattato di Maastricht, che ancora una volta sottolineava l’ottica nella quale si muove il processo di integrazione europea: periodicamente
vengono fissate delle scadenze, raggiunte le quali, si passa ad una nuova fase di collaborazione e vengono delineati nuovi e più ambiziosi traguardi. Quello fissato dal Trattato
di Maastricht ha portato ad una completa unione economica e monetaria.
7. La nascista dell’Unione europea: il Trattato di Maastricht
Ufficialmente noto come Trattato sull’Unione europea (TUE), il Trattato firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 (ed entrato in vigore il 1° novembre 1993) ha
inaugurato una nuova fase del progetto di integrazione europea, che ha previsto la
realizzazione di una comunità politica, oltre che economica, unica nel suo genere.
Per le sue peculiarità, l’Unione europea non trova paragoni in altre forme di cooperazione interstatuale e, pertanto, è stata spesso definita come un ordinamento sui
generis che alterna elementi straordinariamente innovativi di sovranazionalità ad altri,
più tradizionali, di cooperazione intergovernativa.
La sua struttura, così come delineata a Maastricht (e fino alle innovazioni apportate
dal Trattato di Lisbona), si è presentata come un complesso modello interistituzionale
a composizione mista (Stati, istituzioni, persone) che, secondo una visione alquanto
«barocca», può essere immaginato come un tempio sorretto da tre «pilastri»:
— la dimensione comunitaria, disciplinata dalle disposizioni contenute nei Trattati
istitutivi delle Comunità europee (cd. primo pilastro);
— la politica estera e di sicurezza comune (PESC), disciplinata dal titolo V del Trattato sull’Unione europea (cd. secondo pilastro);
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— la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (cd. terzo pilastro,
precedentemente definito GAI, giustizia e affari interni), contemplata dal titolo VI
del Trattato sull’Unione europea.
La struttura a tempio è stato il risultato di un compromesso faticosamente raggiunto fra le volontà contrapposte degli Stati membri al momento della firma del Trattato di Maastricht. In quell’occasione alcuni Paesi,
temendo che una netta separazione potesse provocare la disgregazione della costruzione europea, propendevano
per l’inserimento dei tre pilastri in un testo giuridico unitario, assimilando di fatto le nuove politiche a quelle già
previste dai trattati originari. Altri sostenevano, invece, la necessità di salvaguardare il potere decisionale degli
Stati membri nei settori della politica estera nonché degli affari interni e della giustizia. Il risultato finale fu questa
anomala struttura che attribuiva alle diverse istituzioni ruoli diversi a seconda del pilastro in cui operavano.
8. L’unione monetaria e l’introduzione dell’euro
La realizzazione dell’unione economica e monetaria rappresenta uno degli
obiettivi più significativi del Trattato di Maastricht. Quest’ultimo ha scandito il
processo di integrazione monetaria attraverso fasi successive che sono culminate
nell’adozione di una moneta unica europea, l’euro.
Durante la prima fase, che ha avuto inizio il 1° luglio 1990 e si è conclusa nel
1993, è stato completamente liberalizzato il movimento dei capitali con la conseguente
necessità di un maggiore coordinamento tra le politiche monetarie degli Stati membri,
obiettivo principale della seconda fase.
Dal 1° gennaio 1994 al 31 dicembre 1998, infatti, gli Stati membri hanno cercato
di far convergere le loro economie attraverso il rispetto di quattro criteri stabiliti dal
protocollo allegato al Trattato di Maastricht: inflazione, finanze pubbliche, tassi d’interesse e moneta nazionale.
Il controllo del rispetto dei parametri stabiliti dal Trattato è stato affidato ad un istituto ad hoc, l’IME, che
il 25 marzo 1998 ha pubblicato un rapporto sullo stato di convergenza fra i Paesi dell’Unione.
Sulla base di questo documento, unitamente alla relazione della Commissione europea che ha raccomandato al Consiglio i Paesi che a suo giudizio hanno soddisfatto i criteri di convergenza, durante il vertice dei
Capi di Stato e di governo tenutosi a Bruxelles dall’1 al 2 maggio 1998 sono stati scelti gli Stati che potevano
adottare la moneta unica sin dall’inizio della terza fase (Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Austria, Germania,
Italia, Francia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Finlandia, poi si è aggiunta dal 1° gennaio 2001 la Grecia. Tra i
nuovi Stati che hanno aderito all’Unione si è aggiunta ancora la Slovenia dal 1° gennaio 2007 mentre Malta e
Cipro hanno adottato l’euro dal 1° gennaio 2008, dal 1° gennaio 2009 la Slovacchia fa parte dell’area dell’euro
e dal 1° gennaio 2011 anche l’Estonia). Nella stessa sede si è proceduto anche alla nomina del Presidente della
BCE e alla fissazione dei tassi di cambio bilaterali tra le monete degli Stati partecipanti.
La terza fase dell’UEM è iniziata il 1° gennaio 1999 con la fissazione dei tassi di
cambio irrevocabili tra l’euro e le valute partecipanti. Da quella data è partita una
lunga fase di transizione che si è conclusa il 1° gennaio 2002 quando la nuova moneta
unica è entrata materialmente in circolazione.
9. Il Trattato di Amsterdam
Frutto dei lavori svolti dalla Conferenza intergovernativa (CIG) dal marzo 1996 al
giugno 1997, il Trattato di Amsterdam è stato ufficialmente firmato il 2 ottobre
1997 ed è entrato in vigore il 1° maggio 1999 (l’Italia ha provveduto alla ratifica con
L. 16 giugno 1998, n. 209).
La più importante novità introdotta dal Trattato nell’ambito delle politiche europee
è consistita nell’impegno assunto per la promozione di un più alto livello occupa-
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zionale: nel Trattato istitutivo della Comunità europea, infatti, era stato aggiunto un
nuovo titolo interamente dedicato alle problematiche occupazionali, con il quale, pur
ribadendo la responsabilità dei singoli Stati membri in materia di occupazione, si è
tentato di introdurre un coordinamento anche a livello europeo. Si è, inoltre, modificato
l’assetto istituzionale, aumentando i poteri del Parlamento europeo, snellendo il processo
di adozione degli atti e rafforzando i poteri del Presidente della Commissione.
Le modifiche più rilevanti hanno, però, investito il terzo pilastro, con la comunitarizzazione di alcune materie che in precedenza venivano trattate esclusivamente secondo
il metodo intergovernativo (rilascio di visti, concessione di asilo, azione comune in
materia di immigrazione, cooperazione giudiziaria in materia civile etc.).
È stata, infine, introdotta la cd. cooperazione rafforzata, consistente nella facoltà,
per quegli Stati membri intenzionati a perseguire determinate politiche comuni, di
procedere anche in assenza di una volontà condivisa da tutti i Paesi membri. Tale strumento ha rappresentato il fondamento di un’integrazione differenziata, multilivello,
ideata allo scopo di far procedere il processo di integrazione al ritmo degli Stati più
dinamici, superando in tal modo le reticenze dei Paesi meno «entusiasti».
10. Il Trattato di Nizza
Uno dei nodi irrisolti con l’approvazione del Trattato di Amsterdam era il nuovo
assetto istituzionale da dare all’Unione europea in previsione del futuro allargamento,
che comportava la necessità di rendere le procedure decisionali delle istituzioni comunitarie più semplici ed efficaci.
Per evitare che l’adesione di nuovi Paesi comportasse la paralisi decisionale dell’Unione, era stata convocata una nuova Conferenza intergovernativa, incaricata di elaborare
una bozza di trattato contenente le necessarie modifiche istituzionali. I lavori si sono
conclusi nel corso del Consiglio europeo del 7-9 dicembre 2000 e gli Stati membri hanno
potuto ufficialmente procedere alla firma del Trattato di Nizza il 26 febbraio 2001.
Il nuovo testo ha apportato ai trattati preesistenti modifiche estremamente tecniche, ma indispensabili
per delineare il nuovo equilibrio istituzionale dell’Unione. Tra le novità più significative ricordiamo:
— la nuova ripartizione del numero dei rappresentanti degli Stati membri nelle istituzioni e negli organi comunitari. Per il Consiglio, invece, è stata introdotta una nuova ponderazione dei voti;
— l’ampliamento dei poteri del Presidente della Commissione europea, a cui è stato attribuito un vero e proprio potere direttivo sul collegio, con la possibilità di decidere sulla struttura interna, sulla nomina dei
vicepresidenti e con la facoltà di richiedere le dimissioni di un membro della Commissione;
— una drastica riduzione dei casi in cui era previsto il voto all’unanimità da parte del Consiglio, con il
relativo aumento degli atti adottati a maggioranza qualificata;
— le modifiche all’ordinamento giudiziario comunitario. Per poter assorbire l’aumentato carico di lavoro, la
competenza del Tribunale di primo grado è stata estesa anche ad altre materie in precedenza di esclusiva competenza della Corte, creando nella pratica un vero e proprio doppio grado di giurisdizione tra il
Tribunale e la Corte.
11. L’adesione di nuovi Stati e l’Europa a 27
Fino al 1990 il continente europeo si presentava nettamente separato in due, quale
conseguenza della guerra fredda in corso: da un lato, gli Stati dell’Europa occidentale,
alleati degli Stati Uniti e riuniti militarmente nella NATO, dall’altro, i Paesi dell’Europa
orientale, posti sotto l’influenza dell’Unione Sovietica e stretti da un’alleanza militare
tramite il Patto di Varsavia.
Capitolo I: Dalle Comunità europee all’Unione europea
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Gli eventi politici che si sono susseguiti nell’ultimo decennio del secolo scorso hanno definitivamente posto fine alla divisione (politica, militare, ideologica, economica)
dell’Europa, e negli anni successivi ben 10 Stati appartenenti all’ex blocco comunista
presentavano domanda di adesione all’Unione europea, cui si sono aggiunte le
richieste di Malta e Cipro.
Il 16 aprile 2003 sono stati firmati ad Atene i trattati di adesione di 10 nuovi
Stati, 8 ex socialisti (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia,
Slovenia e Ungheria) e 2 appartenenti all’area del Mediterraneo (Cipro e Malta), che
hanno acquisito la membership a pieno titolo il 1° maggio 2004.
Successivamente è stato firmato anche il trattato di adesione con la Romania e la Bulgaria, entrambe entrate ufficialmente a far parte dell’Unione europea dal 1° gennaio 2007.
12. Il Trattato di Lisbona
In seguito al fallimento del progetto di Costituzione europea, si è deciso di avviare un
processo di riforma che, anziché portare all’adozione di un unico testo, di livello costituzionale, riformasse i trattati già vigenti, superando in tal modo le reticenze dei paesi membri.
Nel 2000 le istituzioni europee ed i Paesi dell’Unione avevano deciso di procedere all’approvazione di una
sorta di «trattato costituzionale europeo» (in concomitanza con il processo di allargamento), affidando ad
un organismo ad hoc, la Convenzione sul futuro dell’Europa, il compito di prepararne la bozza. Nato nel 2002,
tale organismo era diretto dall’ex Presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e composto da rappresentanti
delle istituzioni europee, dei governi nazionali e della società civile.
Dopo circa un anno di intenso lavoro, nel mese di luglio del 2003 il testo è stato presentato agli Stati
membri, e firmato a Roma il 29 ottobre 2004, ma è stato poi bocciato dai referenda tenutisi in Francia e nei
Paesi Bassi.
Il Consiglio europeo del 21-22 giugno 2007 ha, così, incaricato la Conferenza intergovernativa svoltasi tra il 23 luglio e il 18 ottobre dello stesso anno di elaborare il testo
di riforma (che ha ripreso, tra l’altro, molte delle proposte del progetto costituzionale)
Il 13 dicembre 2007 è stato, dunque, firmato il Trattato di Lisbona, entrato in
vigore il 1° dicembre 2009 dopo un lungo e travagliato iter di ratifica da parte degli
Stati membri.
Tale iter si è concluso solo il 3 novembre 2009, in seguito alla sentenza emessa dalla Corte costituzionale
della Repubblica ceca che ha confermato la compatibilità del Trattato con la Carta costituzionale.
Prima di ciò, il processo di ratifica era stato ostacolato da una serie di circostanze:
— l’esito negativo del referendum tenutosi in Irlanda il 12 giugno 2008, superato con l’indizione di una seconda
consultazione il 2 ottobre 2009 in cui il popolo irlandese, ottenute le necessarie garanzie giuridiche in
ordine alle politiche fiscali, alle questioni sociali e ai diritti alla vita e alla famiglia, si è espresso in favore
della ratifica;
— la lunga attesa, in Germania, della pronuncia di compatibilità del Trattato con la Legge fondamentale
tedesca da parte della Corte costituzionale federale;
— l’euroscetticismo del Presidente polacco, che ha finalmente firmato lo strumento di ratifica nell’ottobre
2009 (dopo ben sei mesi dall’approvazione di quest’ultimo in sede parlamentare).
Nei suoi aspetti essenziali, il Trattato firmato a Lisbona ha previsto una profonda modifica del Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) e del Trattato di Maastricht (TUE).
Il TUE conserva la sua originaria denominazione ed è suddiviso in 6 Titoli, i primi
tre dei quali presentano le innovazioni di maggior rilievo:
— il Titolo I (disposizioni comuni) accoglie un esplicito riferimento ai valori su cui si
fonda l’Unione, una chiara ripartizione di competenze tra l’Unione e gli Stati
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Parte III: Diritto comunitario - Sezione I: La nascita e la struttura istituzionale dell’UE
membri ed un definitivo richiamo ai diritti fondamentali dell’uomo. Sotto l’ultimo
profilo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea diventa finalmente
atto giuridico vincolante per tutte le istituzioni europee, sebbene non sia stata
incorporata nel TUE e resti, dunque, un testo separato;
— nel Titolo II (disposizioni relative ai principi democratici) sono inseriti alcuni importanti articoli aventi ad oggetto, ad esempio, i principi di uguaglianza giuridica
dei cittadini, di democrazia rappresentativa e partecipativa, il diritto di iniziativa dei
cittadini ed il ruolo dei Parlamenti nazionali nella vita democratica dell’Unione;
— nel Titolo III, infine (disposizioni su una cooperazione rafforzata), trovano spazio tutte
le principali norme che disciplinano le istituzioni europee. Di particolare rilevanza è
l’inserimento del Consiglio europeo nel quadro istituzionale dell’Unione (come
si vedrà nel Cap. II, fino ad oggi il Consiglio europeo non ha mai fatto parte delle
istituzioni europee, trattandosi più semplicemente di una riunione dei Capi di Stato
e di governo dei paesi membri).
Il TCE, invece, assume la nuova denominazione di Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE): la Comunità europea viene, così, assorbita dall’Unione,
razionalizzando notevolmente la complessa struttura «a tempio» dell’organizzazione.
Tra le principali novità presenti nel TFUE ricordiamo:
— la formulazione di nuovi obiettivi (circa una trentina) che l’Unione deve perseguire.
Tra essi la pace, la piena occupazione, lo sviluppo sostenibile, la tutela della diversità
culturale, la solidarietà, la coesione e la protezione dei cittadini;
— l’estensione del voto a maggioranza qualificata in settori in cui era precedentemente
richiesta l’unanimità;
— la generalizzazione della procedura di codecisione, rinominata «procedura legislativa
ordinaria», che prevede un coinvolgimento a pieno titolo del Parlamento europeo
nell’adozione di (quasi tutti) gli atti europei;
— la chiara distinzione tra atti legislativi ed atti non legislativi europei;
— l’introduzione di una clausola di recesso dall’Unione, che consente ad un Paese membro di abbandonare l’organizzazione al termine di una specifica procedura.
La struttura del Trattato di Lisbona (TL)
Articoli
Contenuto
Art. 1
Modifiche, in 61 punti, al Trattato sull’Unione europea (TUE)
Art. 2
Modifiche, in 295 punti, al Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE),
ridenominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)
Art. 3
Durata: il trattato è concluso per una durata illimitata
Art. 4
Protocolli allegati:
—— protocollo n. 1, contenente le modifiche ai protocolli allegati al TUE,
al TCE e/o al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia
atomica (TCEEA)
—— protocollo n. 2, contenente le modifiche al TCEEA
Art. 5
Nuova numerazione del TUE e del TCE (articoli, sezioni, capi, titoli, parti)
così come indicata nelle «tabelle di corrispondenza» allegate al trattato per
costituirne parte integrante
Art. 6
Entrata in vigore: prevista per il 1° gennaio 2009 o il primo giorno del mese
successivo al deposito dell’ultimo strumento di ratifica
Segue
Capitolo I: Dalle Comunità europee all’Unione europea
Art. 7
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Lingue di redazione: sono ventitré. L’«unico esemplare» in ciascuna lingua
del trattato è depositato negli archivi del governo della Repubblica italiana.
Il Trattato di Lisbona è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C306 del 17 dicembre 2007.
La struttura del Trattato sull’Unione europea (TUE)
Preambolo
Titolo I
Disposizioni comuni
Titolo II
Disposizioni relative ai principi democratici
Titolo III
Disposizioni relative alle istituzioni
Titolo IV
Disposizioni sulle cooperazioni rafforzate
Titolo V
Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione e disposizioni specifiche
sulla politica estera e di sicurezza comune
Capo I. Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione
Capo II. Disposizioni specifiche sulla PESC (con due Sezioni)
Titolo VI
Disposizioni finali
Il Trattato sull’Unione europea riformato consta, oltre che del preambolo, di 55 articoli che, a seguito del consolidamento,
hanno la «rinumerazione» progressiva da 1 a 55.
La struttura del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)
Preambolo
Parte I
Principi
Tit. I. Categorie e settori di competenza dell’Unione
Tit. II. Disposizioni di applicazione generale
Parte II
Non discriminazione e cittadinanza dell’Unione
Parte III
Tit. I. Mercato interno
Politiche e azioni interne Tit. I bis. Libera circolazione delle merci
dell’Unione
Tit. II. Agricoltura e pesca
Tit. III. Libera circolazione persone, servizi, capitali (con 4 Capi)
Tit. IV. Spazio di liberà, sicurezza e giustizia (con 5 Capi)
Tit. V. Trasporti
Tit. VI. Norme comuni concorrenza, fiscalità, ravvicinamento legislazioni
(con 3 Capi e Sezioni)
Tit. VII. Politica economica e monetaria (con 5 Capi)
Tit. VIII. Occupazione
Tit. IX. Politica sociale
Tit. X. Fondo sociale europeo
Tit. XI. Istruz., formaz. professionale, gioventù e sport
Tit. XII. Cultura
Tit. XIII. Sanità pubblica
Tit. XIV. Protezione dei consumatori
Tit. XV. Reti transeuropee
Tit. XVI. Industria
Tit. XVII. Coesione economica, sociale e territoriale
Tit. XVIII. Ricerca e sviluppo tecnologico e spazio
Tit. XIX. Ambiente
Tit. XX. Energia
Tit. XXI. Turismo
Tit. XXII. Protezione civile
Tit. XXIII. Cooperazione amministrativa
Segue
238
Parte III: Diritto comunitario - Sezione I: La nascita e la struttura istituzionale dell’UE
Parte IV
Associazione dei paesi e
territori d’Oltremare
Parte V
Tit. I. Disposiz. gen. sull’azione esterna dell’Unione
Azione esterna dell’Unione Tit. II. Politica commerciale comune
Tit. III. Cooperazione con i paesi terzi e aiuto umanitario (con 3 Capi)
Tit. IV. Misure restrittive
Tit. V. Accordi internazionali
Tit. VI. Relazioni dell’Unione con le organizzazioni internazionali e i paesi
terzi e delegazioni dell’Unione
Tit. VII. Clausola di solidarietà
Parte VI
Tit. I. Disposizioni istituzionali (con 3 Capi e Sezioni)
Disposizioni istituzionali Tit. II. Disposizioni finanziarie (con 6 Capi)
e di bilancio
Tit. III. Cooperazioni rafforzate
Parte VII.
Disposizioni generali e
finali
Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea consta, oltre che del preambolo, di 358 articoli.
 Capitolo Ottavo 
L’imputabilità e la pena

1. Nozione d’imputabilità
Il reo quale autore di un fatto previsto dalla legge come reato, per poter essere sottoposto a pena deve possedere, al momento della commissione del reato, la capacità di
intendere e di volere.
Si tratta della cd. imputabilità, che l’art. 85 c.p. pone quale presupposto della punibilità del soggetto agente.
Secondo la prevalente dottrina, il fondamento di tale norma va individuato nella
comune concezione della responsabilità umana, per la quale intanto ha senso sottoporre
a pena un individuo in quanto questo sia in grado di comprendere il valore degli atti
posti in essere e, quindi, il significato della sanzione.
La capacità di intendere è la capacità del soggetto di rendersi conto del valore sociale dell’atto che compie
e del fatto che esso sia in contrasto con le esigenze della vita comune.
La capacità di volere consiste nella idoneità della persona a determinarsi in modo autonomo, resistendo
agli impulsi che gli derivano dal mondo esterno e dai moti del suo animo.
Mancando l’imputabilità, il soggetto non può essere assoggettato a pena (causa soggettiva di esenzione
da pena; ad es.: il bambino o il pazzo che uccidono una persona, pur commettendo il delitto di omicidio, non
sono punibili perché la legge li considera incapaci di rendersi conto delle proprie azioni).
La legge prevede espressamente alcune cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità.
Per effetto delle prime, la capacità di intendere e di volere risulta del tutto esclusa,
mentre, allorché ricorrono le seconde, essa, senza essere esclusa, risulta grandemente
diminuita.
Si tratta di situazioni nelle quali l’agente non è punibile perché immaturo (i processi
formativi dell’intelletto non si sono sviluppati completamente) ovvero perché affetto da
alterazioni di natura patologica derivanti: da infermità di mente, da malattia congenita,
oppure da abuso di sostanze tossiche.
2. Singole cause che escludono o diminuiscono grandemente
l’imputabilità
A)La minore età (artt. 97 e 98 c.p.).
Al riguardo, occorre distinguere due diverse fasce di età del minore:
— periodo che va fino ai 14 anni compiuti, in cui è categoricamente esclusa ogni capacità di intendere e di volere da parte del minore che compie un reato;
— periodo che va dai 14 ai 18 anni, in cui non vige alcuna presunzione di incapacità,
e l’imputabilità del minore deve essere accertata caso per caso dal giudice (se l’imputabilità sussiste, il minore è assoggettato a pena, ma questa è diminuita).
B)L’infermità di mente (artt. 88-89 c.p.)
Questa causa consiste in una malattia mentale da cui è affetto il soggetto al momento
in cui ha commesso il fatto.
582
Parte Settima: Elementi di diritto penale
A seconda del suo grado, l’infermità può essere:
— totale, se esclude la capacità (in tal caso il soggetto non è imputabile);
— parziale, se per effetto di essa la capacità è soltanto ridotta (in tal caso il soggetto fruirà di una diminuzione
di pena).
Gli stati emotivi e passionali non escludono l’imputabilità.
C)Il sordomutismo (art. 96 c.p.)
Ricorre tale causa quando, per effetto di tale anomalia, il soggetto non sia capace
di intendere e di volere.
Tuttavia, poiché la scienza medica ha fatto notevoli progressi nella cura di questa
malattia, il legislatore non ha adottato una soluzione definitiva e, escludendo una
presunzione di incapacità, ha lasciato tale soluzione all’accertamento caso per caso
dell’esistenza o meno della capacità di intendere e di volere.
Pertanto:
— quando si riconosce che la capacità di intendere e di volere è piena, il sordomuto viene considerato imputabile;
— se, invece, si accerta che la capacità non sussiste, egli è parificato all’individuo affetto da vizio totale di mente;
— se si stabilisce, infine, che essa è grandemente scemata, il soggetto è parificato all’individuo affetto da vizio
parziale di mente.
Si segnala che ai sensi della L. 20-2-2006, n. 95, in tutte le disposizioni legislative
vigenti, il termine sordomuto è sostituito con l’espressione sordo. Deve, quindi, ritenersi
che, alla luce di tale innovazione disciplinare la norma possa trovare applicazione anche
in favore di coloro che sono affetti da sola sordità.
D)L’ubriachezza (art. 91 c.p.)
Deriva dall’uso eccessivo di bevande alcoliche.
Essa, se è accidentale, e cioè non dipendente da colpa del soggetto, esclude la imputabilità (es.: colui che,
lavorando in una distilleria, si ubriaca per i fumi dell’acool che respira).
Se, invece, l’ubriachezza è volontaria (quando il soggetto si è ubriacato volontariamente o per imprudenza)
o preordinata (quando il soggetto si è ubriacato proprio allo scopo di commettere il reato o per prepararsi
una scusa), l’impu­­­­­­tabilità non è esclusa né diminuita.
E)Intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti (artt. 94 e 95 c.p.)
Si verifica quando per effetto dell’abuso prolungato di droga o di sostanze alcoliche,
si produce una alterazione psichica del soggetto tipica del vizio di mente.
Per la disciplina di tali ipotesi si applicano le norme degli artt. 88 e 89 c.p. (vizio
totale o parziale di mente).
3. Conclusioni (1)
Se l’incapacità di intendere di volere è totale, il soggetto va esente da pena, ma nel
caso che essa dipenda da infermità può essere sottoposto alla misura di sicurezza del
ricovero in manicomio giudiziario, se riconosciuto pericoloso. La pericolosità, onde
applicare la misura di sicurezza, deve sussistere al momento del ricovero.
Se l’incapacità è parziale, il soggetto andrà condannato ad una pena minore rispetto
a quella prevista dal codice per il reato commesso.
(1) Per un breve commento delle cause che diminuiscono o escludono l’imputabilità, si consiglia la consultazione delle
relative norme del codice penale esplicato (E.3).
Capitolo VIII: L’imputabilità e la pena
583
4. Le actiones liberae in causa
L’art. 87 c.p. prevede che «la disposizione della prima parte dell’art. 85 non si applica
a chi si è messo in stato di incapacità di intendere o di volere al fine di commettere un
reato o di prepararsi una scusa».
È questa l’ipotesi che, tradizionalmente va sotto il nome di «actiones liberae in causa»: si tratta, cioè, delle azioni compiute in uno stato di incapacità che il soggetto si è
procurato (ad esempio, mediante droghe o alcolici) allo scopo di commettere un reato
che, in condizioni normali, non avrebbe avuto il coraggio di compiere, ovvero allo scopo
di far attribuire il reato al suo stato d’incapacità.
La punibilità delle actiones liberae in causa, secondo ANTOLISEI, non costituisce
un’eccezione alla regola (posta dall’art. 85 c.p.) secondo la quale l’agente è punibile solo
se capace d’intendere e di volere al momento in cui ha commesso il fatto: colui che si
ubriaca per commettere un delitto, infatti, già nel momento in cui si procura l’ebbrezza
comincia ad eseguire il delitto stesso. La caratteristica dell’actio libera in causa consiste,
quindi, nel fatto che il soggetto comincia l’esecuzione del reato in stato di imputabilità
e la continua in stato di incapacità di intendere e di volere.
La dottrina prevalente ritiene che l’autore del reato commesso in stato di preordinata incapacità di intendere e di volere risponda a titolo di dolo e, precisamente, di
dolo diretto; infatti, il dolo consiste nella coscienza e volontà tanto della condotta atta
a determinare lo stato di incapacità, quanto della condotta esecutiva del reato alla cui
realizzazione l’incapacità è preordinata.
5. La capacità a delinquere
Dispone l’art. 133 c.p. che, nella determinazione della pena da infliggere all’autore di
un reato, il giudice deve tener conto, oltre che della gravità del reato commesso, della
capacità a delinquere del reo.
Essa consiste nella tendenza o inclinazione dell’individuo a commettere fatti in contrasto con la legge penale.
Mentre l’imputabilità costituisce il presupposto necessario della colpevolezza, per
cui è penalmente responsabile (e perciò punibile) solo il soggetto che al momento del fatto
era capace di intendere e di volere, la capacità a delinquere (capacità criminale), invece,
serve a graduare la responsabilità e, quindi, la pena da applicare per il reato commesso.
L’imputabilità riguarda, pertanto, la sussistenza della responsabilità, la capacità a
delinquere il quantum di essa e, quindi, della pena.
Tale capacità, che implica un vero e proprio giudizio prognostico sulla possibilità maggiore o minore che
il soggetto compia nel futuro ulteriori reati, va desunta:
—
—
—
—
—
—
dal reato commesso;
dai moventi dell’azione criminosa compiuta;
dai precedenti del reo e, in genere, dalla sua vita trascorsa;
dal comportamento del reo contemporaneo e successivo al reato;
dal carattere del reo;
dalle sue condizioni familiari, sociali ed individuali di vita (cd. ambiente del reo).
In base all’art. 133bis, il giudice, nella determinazione della pena pecuniaria, deve tener conto, poi, oltre
che dei canoni indicati dall’art. 133, anche delle condizioni economiche del reo (2).
(2) Per un breve commento dei criteri idonei alla determinazione della pena, si consiglia la lettura degli artt. 133 e
133bis del codice penale esplicato (E.3).
584
Parte Settima: Elementi di diritto penale
6. La pericolosità criminale
Un grado particolarmente intenso di capacità a delinquere è la pericolosità criminale,
cioè la notevole probabilità che il soggetto commetterà altri reati.
La pericolosità criminale influisce sulla misura della pena, preclude la concessione
dei benefici della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale, ed è il
presupposto per l’applicazione di misure di sicurezza.
Il codice penale prevede quattro forme specifiche di pericolosità criminale che delinea­
no diverse figure di autori di reato:
A)La recidiva (art. 99 c.p.)
È la condizione personale di chi, dopo essere stato condannato, con sentenza irrevocabile, per un delitto non colposo, ne commette un altro.
La recidiva (la cui disciplina è stata oggetto di riforma ad opera della L. 5-12-2005,
n. 251, nota come «legge ex Cirielli»), si distingue in:
1) semplice: è recidivo semplice chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo,
ne commetta un altro. Questi può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena
da infliggere per il nuovo delitto non colposo (aumento che è obbligatorio ove si tratti di
uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale);
2) aggravata: comprende la recidiva specifica, se il nuovo delitto non colposo sia della
stessa indole, la recidiva infraquinquennale, se il nuovo delitto non colposo sia stato
commesso nei cinque anni dalla condanna precedente, nonché la recidiva vera e finta,
configurabili, rispettivamente, nel caso in cui il nuovo delitto non colposo sia stato
commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il
condannato si sottragga volontariamente all’esecuzione della pena. In tali ipotesi, la
pena può essere aumentata fino alla metà di quella da infliggere per il nuovo delitto
non colposo (aumento che è obbligatorio e non può essere inferiore ad un terzo ove
si tratti di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di
procedura penale). Qualora concorrano più circostanze fra quelle appena descritte
(cd. recidiva pluriaggravata), l’aumento di pena è della metà;
3) reiterata: è recidivo reiterato chi, già da recidivo, commetta un altro delitto non colposo. In tal caso l’aumento di pena è della metà di quella da infliggere per il nuovo
delitto non colposo, se chi lo commette è un recidivo semplice, mentre è di due terzi
ove chi lo commette è un recidivo aggravato. Si ritiene in giurisprudenza che, anche dopo i correttivi della L.251/2005, la recidiva reiterata sia facoltativa, salvo che
si tratti di uno dei delitti previsti dall’articolo 407, comma secondo, lettera a), cod.
proc. pen. (in tal senso, Cass.3-5-2007, n. 16750).
B)Abitualità criminosa (artt. 102 e 103)
È la condizione personale di chi, con la sua persistente attività criminosa, dimostra di aver acquisito una
notevole attitudine a commettere reati. L’abitualità criminosa può essere:
1) presunta (art. 102): se un delitto non colposo, della stessa indole, è commesso nei 10 anni da chi è stato
condannato alla reclusione in misura superiore ai 5 anni per 3 delitti non colposi della stessa indole,
commessi non contestualmente in 10 anni;
2) ritenuta dal giudice (art. 103): se una condanna per delitto non colposo è riportata da chi abbia già subìto
due condanne per delitti non colposi e il giudice, valutati gli elementi di cui all’art. 133, ritenga il reo
dedito al delitto. In materia contravvenzionale l’abitualità non è mai presunta (art. 104 c.p.).
L’abitualità influisce sull’applicazione di misure di sicurezza, dell’amnistia e dell’indulto. Esclude la
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Capitolo VIII: L’imputabilità e la pena
585
C)Professionalità nel reato (art. 105)
Trattasi della condizione di chi riporti altra condanna ricorrendo già i presupposti
per la dichiarazione di abitualità e, avuto riguardo ad ogni circostanza, si debba ritenere
che egli viva dei proventi del reato.
D)Tendenza a delinquere (art. 108)
È la condizione di chi, avendo commesso un delitto doloso o preterintenzionale,
lesivo della vita o dell’incolumità individuale, valutate le circostanze di cui all’art. 133
c.p., manifesti una particolare inclinazione al delitto.
Gli effetti delle dichiarazioni di professionalità e tendenza a delinquere sono disciplinati dall’art. 109 c.p. (3).
7. La pena
A)Concetto
La pena (cd. pena criminale) è la sanzione giuridica irrogata dallo Stato (Autorità
giudiziaria) a carico di colui che ha violato un precetto della legge penale, mediante un
particolare procedimento (processo penale).
Il carattere principale della pena è dato dalla «afflittività», essa, infatti, mira ad infliggere al soggetto
un vero e proprio castigo per il reato commesso; tuttavia, accanto alla funzione retributiva, il diritto attuale
assegna alla pena anche una funzione di emenda del condannato, mirando ad agevolare il ravvedimento dello
stesso ed il suo reinserimento nella società.
Le pene si distinguono in:
— principali, che vengono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna;
— accessorie, che conseguono automaticamente alla condanna anche senza una espressa
dichiarazione del giudice.
B)Caratteri della pena
a)La pena è personalissima (cd. personalità della pena): essa colpisce solo l’autore del
reato (art. 27 Cost.);
b) l’applicazione della pena è rigorosamente disciplinata dalla legge (cd. legalità della
pena).
Per cui:
— la pena è inflitta solo nei casi stabiliti dalla legge: non si possono irrogare se non le pene previste e
consentite dalla legge (nulla poena sine lege);
— l’applicazione della pena è devoluta all’Autorità Giudiziaria, la quale infligge la pena con la garanzia
del procedimento penale;
— la pena inflitta può essere revocata solo nei casi stabiliti dalla legge, cioè in virtù di una norma di legge
o dell’esercizio di una prerogativa sovrana (amnistia, indulto, grazia);
c) la pena, una volta minacciata per un determinato fatto, è sempre applicata all’autore
della violazione (cd. inderogabilità).
Notevoli deroghe, però, derivano dagli istituti della liberazione condizionale e del perdono giudiziale;
d) la pena è proporzionata al reato (cd. proporzionalità della pena).
(3) Per un breve commento di quanto inerisce all’istituto della pericolosità criminale, si consiglia la lettura degli artt.
99 ss. del codice penale esplicato (E.3).
586
Parte Settima: Elementi di diritto penale
C)Pene principali
Le pene principali sono:
a) per i delitti:
1) la pena di morte, è oggi pena non più ammissibile anche «nei casi previsti dalle leggi militari di guerra»;
2) l’ergastolo, consistente nella privazione della libertà personale per l’intera durata della vita del
condannato. Con sentenza del 28-4-1994, n. 168, la Corte Cost. ha dichiarato inapplicabile la pena
dell’ergastolo agli imputati minorenni;
3) la reclusione, pena detentiva che va da 15 gg. a 24 anni;
4) la multa, pena pecuniaria che va da  50 a  50.000;
b) per le contravvenzioni:
1) l’arresto, pena detentiva che va da 5 giorni a 3 anni;
2) l’ammenda, pena pecuniaria che va da  20 a  10.000.
Si ricordi che il D.Lgs.28-8-2000, n. 274, attributivo di competenza penale al giudice di pace, ha disposto, per le fattispecie rimesse alla competenza del giudice onorario, la sostituzione del tradizionale impianto
sanzionatorio penale (fondato su pena pecuniaria e detentiva) con uno specifico sistema che, salvando la
sola pena pecuniaria, sostituisce le pene privative della libertà personale con sanzioni alternative, sulla base
di criteri di ragguaglio che tengono conto della sanzione originaria delle singole fattispecie. Tali misure sono:
1) l’obbligo di permanenza domiciliare, da eseguirsi nei giorni di sabato e domenica (salvo che, per riconosciute
legittime esigenze del condannato ne sia consentita l’esecuzione in giorni diversi, o continuativamente,
su richiesta dello stesso), per un periodo non inferiore a sei giorni né superiore a quarantacinque;
2) la prestazione di lavoro di pubblica utilità, non retribuito, in favore della collettività, nella provincia di
residenza, con modalità e tempi non pregiudizievoli delle esigenze di lavoro, studio, famiglia e salute del
condannato, per un periodo non inferiore a dieci giorni, né superiore a sei mesi.
Le pene principali vengono classificate in:
— detentive, quando consistono in una restrizione della libertà personale: tali sono l’ergastolo, la reclusione
e l’arresto.
— pecuniarie, quando consistano nel pagamento di una somma di danaro: si tratta della multa e dell’ammenda.
Differenze
Il criterio distintivo tra delitti e contravvenzioni va ricercato nella sanzione irrogata. Mentre i delitti
sono puniti con l’ergastolo, la reclusione e/o la multa, le contravvenzioni sono sanzionate con l’arresto
e/o l’ammenda.
La distinzione è di notevole importanza in quanto la disciplina dei due tipi di reato è sensibilmente differente: a) quanto all’elemento psicologico, le contravvenzioni son punite indifferentemente sia a titolo di
dolo che di colpa (art. 42, c. 1), mentre i delitti sono puniti solo a titolo di dolo (art. 42, c. 2), e la punibilità
per colpa deve essere espressamente prevista dal codice; b) il tentativo è ammissibile solo per i delitti;
c) alcune circostanze sono applicabili solo ai delitti (es. art. 61, n. 3, 7, 8); d) i reati commessi all’estero
punibili nel territorio dello Stato sono solo i delitti.
D)Pene sostitutive
Le pene sostitutive delle pene detentive brevi sono:
1) la semidetenzione (art. 55 L. 689/1981);
2) la libertà controllata (art. 56 L. 689/1981);
3) la pena pecuniaria di specie corrispondente.
In particolare, ai sensi dell’art. 53, L.689/81, come da ultimo riformulato dalla L.12-6-2003, n. 134, il
giudice, nel pronunciare la sentenza di condanna, quando ritiene di dovere determinare la durata della pena
detentiva entro il limite di due anni, può sostituire tale pena con quella della semidetenzione; quando ritiene
di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla anche con la libertà controllata; quando
ritiene di doverla determinare entro il limite di sei mesi, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della
specie corrispondente. Prima della citata riforma, i limiti di pena entro cui era ammissibile la sostituzione
erano, rispettivamente, un anno, sei mesi e tre mesi.
Capitolo VIII: L’imputabilità e la pena
587
E) alla detenzione
Sono previste, in funzione rieducativa, dalla legge 26 luglio 1975 n. 354, di riforma dell’ordinamento
penitenziario, e possono incidere sulla sola fase esecutiva della pena principale con provvedimento del Tribunale di sorveglianza. Esse sono:
1)
2)
3)
4)
l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47);
la semilibertà (art. 48);
la liberazione anticipata (art. 54);
la detenzione domiciliare (L. 663/ 1986).
F)Pene accessorie
Le pene accessorie sono:
1. interdizione dai pubblici uffici (può essere perpetua o temporanea, da un minimo
di un anno ad un massimo di 5 anni);
2. interdizione da una professione o da un’arte, per un periodo variante da un mese a
5 anni;
3. interdizione legale, conseguente ad una condanna a pena detentiva non inferiore ai
5 anni o all’ergastolo;
4. interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, conseguente
ad una condanna alla reclusione non inferiore a 6 mesi, per delitti commessi con
abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio (art. 32bis). È temporanea, con durata uguale alla pena principale (art. 37);
5. incapacità a contrattare con la P.A. (artt. 32ter e 32quater), conseguente alla condanna
per i delitti elencati nell’art. 32quater, commessi a causa o in occasione dell’esercizio
di un’attività imprenditoriale. Essa non può avere una durata inferiore ad un anno, né
superiore a tre anni. Il novero delle fattispecie cui si riconnette tale pena accessoria è
stato integrato dal D.L. 369/93, conv. in L. 461/93, dalla L. 108/96 in tema di usura e,
da ultimo, dalla L. 29-9-2000, n. 300, nota come legge anticorruzione internazionale;
6. estinzione del rapporto di impiego o di lavoro, (art. 32quinquies, introdotto dalla L.
27-3-2001, n. 97), a norma del quale, salvo quanto previsto dagli articoli 29 e 31
(disciplinanti le ipotesi in cui alla condanna consegue l’interdizione dai pubblici
uffici), la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni per i delitti
di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319ter e 320 importa altresì
l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica;
7. decadenza dalla potestà dei genitori e sospensione dal suo esercizio (art. 34 come
modificato dalle leggi 689/81 e 19/90), conseguono, la prima, alla condanna per
alcuni delitti (es. art. 564), la seconda, della durata doppia della pena inflitta, alla
condanna per delitti connessi con la potestà dei genitori;
8. sospensione dall’esercizio di una professione o un’arte, per un periodo variante da 15
giorni a 2 anni, conseguente ad ogni condanna per contravvenzione commessa con
abuso della professione o arte per cui è prevista la pena dell’arresto non inferiore ad
un anno;
9. sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 35bis),
conseguente alla condanna per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o
violazione dei doveri inerenti all’ufficio e va da 15 giorni a 2 anni;
10. pubblicazione della sentenza di condanna (art. 36), conseguente alla condanna all’ergastolo e agli altri casi tassativamente previsti dalla legge ed è effettuata a spese del
condannato;
588
Parte Settima: Elementi di diritto penale
11. pene accessorie previste da leggi speciali: esempio: sospensione della patente di guida
(art. 85, D.P.R. 309/90).
Le prime sette pene accessorie sono per i soli delitti.
L’ottava e la nona sono pene accessorie per le sole contravvenzioni.
La pubblicazione della sentenza è pena accessoria, comune sia ai delitti, sia alle
contravvenzioni.
L’applicazione delle pene accessorie è in genere automatica, conseguendo di diritto alla
condanna penale come suo ulteriore effetto; esse devono essere ordinate dal giudice solo
nel caso in cui la legge rimetta alla sua discrezionalità la loro applicazione o la loro durata.
G)Determinazione della pena
Tranne qualche rarissima, se non unica, eccezione (art. 121 codice stradale in cui è
prevista una pena fissa), di regola, la pena per i singoli reati è indicata tra un massimo e
un minimo e spetta al giudice, caso per caso, determinare in concreto quella da infliggere;
egli, infatti, gode di un ampio potere discrezionale, sebbene sia tenuto ad indicare in
motivazione le ragioni della sua concreta determinazione.
Tale discrezionalità, tuttavia, non è illimitata, dovendosi il giudice basare sui criteri previsti dall’art. 133 c.p.
In particolare, il giudice «deve tener conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del colpevole».
La gravità del reato va desunta:
1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione;
2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa.
La capacità a delinquere del colpevole, a sua volta, va desunta:
1)
2)
3)
4)
dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
dai precedenti penali e giudiziari, e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato;
dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;
dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
8. La punibilità
A)Nozione
Secondo parte della dottrina (ANTOLISEI), la punibilità può definirsi come la possibilità in concreto di irrogare la sanzione prevista per la violazione del precetto penale.
Per il sorgere della punibilità occorrono tre elementi:
1) la commissione di un reato;
2) l’assenza di cause personali di esclusione della pena (immunità, non imputabilità);
3) la presenza di eventuali condizioni obiettive di punibilità.
B)Le condizioni obiettive di punibilità
L’art. 44 c.p. prevede che «quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende
il verificarsi della condizione, non è da lui voluto».
Il codice, quindi, non definisce le condizioni obiettive di punibilità, ma si limita a
fissarne due caratteri:
— devono consistere in un avvenimento del mondo esterno, che non deve necessariamente esser voluto dall’agente;
— devono essere estranee alla condotta illecita.
Capitolo VIII: L’imputabilità e la pena
589
Secondo la migliore dottrina, le condizioni obiettive di punibilità costituiscono avvenimenti futuri ed incerti, estranei all’azione illecita, il cui verificarsi è necessario per
la punibilità del reato, ma non per la sua esistenza (PAGLIARO, FIANDACA-MUSCO).
Il fondamento della figura in esame, risiede in ragioni di opportunità che inducono il
legislatore a subordinare la punibilità di alcuni reati al verificarsi di certe circostanze.
Ai sensi dell’art. 44 c.p., il fatto-condizione può in concreto essere oggetto della volontà
del reo, ma l’esistenza di tale nesso psichico non costituisce requisito indispensabile ai
fini della punibilità dello stesso (BRICOLA, FIANDACA-MUSCO).
La dottrina distingue tra condizioni intrinseche ed estrinseche: le prime approfondiscono una lesione già implicita nella commissione del fatto (ad esempio, art. 264
c.p.) e si pongono a metà strada tra gli elementi costitutivi e le condizioni estrinseche;
queste nulla aggiungono alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice,
ma si limitano a riflettere mere valutazioni di opportunità punitiva estranee alla sfera
dell’offesa al bene protetto (FIANDACA-MUSCO).
Per individuare le condizioni obiettive di punibilità è necessario fare ricorso ad indici strutturali (collocazione dell’elemento all’interno della fattispecie astratta) e a criteri sostanziali (relativi alla determinazione
dell’interesse tutelato dalla norma).
In applicazione del primo criterio, non rientrano tra le condizioni di punibilità gli eventi legati da un
rapporto di causalità necessaria con l’azione tipica, ovvero da un rapporto psicologico con l’agente.
In base al secondo criterio, devono escludersi dalle condizioni di punibilità gli eventi nei quali si concreta l’offesa all’interesse protetto (ad esempio, il «pubblico scandalo» nel delitto di incesto, e il «pericolo per
l’incolumità pubblica» di cui all’art. 423 c.p.: FIANDACA-MUSCO).
Sono condizioni obiettive di punibilità:
1) l’annullamento di matrimonio nell’induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558 c.p.);
2) la sorpresa in flagranza prevista negli artt. 260, 707, 708 (4), 720, c.p.;
3) la presenza del reo nel territorio dello Stato nei casi previsti dagli artt. 9 e 10 c.p.
L’interesse pratico alla individuazione delle condizioni obiettive di punibilità è duplice:
— in primo luogo, mentre gli eventi che fanno parte del fatto in senso stretto devono essere oggetto del dolo
o della colpa, gli eventi-condizioni obiettive vengono imputati a titolo di responsabilità oggettiva (art. 44
c.p.);
— in secondo luogo, l’art. 158, comma 2, c.p. fa decorrere il termine di prescrizione del reato dal momento
in cui si verifica la condizione obiettiva di punibilità.
C)Trasformazione della punibilità
Il passaggio in giudicato della sentenza di condanna comporta una trasformazione
della punibilità.
Prima della sentenza, infatti, la pena applicabile è quella che la legge stabilisce in
astratto per il reato.
Dopo la sentenza, la pena che va applicata è quella che il giudice ha irrogato all’autore del reato.
Pertanto, si distingue tra:
— punibilità in astratto, che sorge quando sussistono tutti gli elementi richiesti dalla
legge per l’inflizione della pena (commissione del reato, assenza di cause personali
di esenzione dalla pena, eventuali condizioni obiettive di punibilità);
— punibilità in concreto, che sorge con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna.
(4) La Corte Cost. con sentenza 1-11-1996, n. 370, ha dichiarato tale articolo costituzionalmente illegittimo.
590
Parte Settima: Elementi di diritto penale
9. Segue: Cause di estinzione della punibilità
La punibilità può estinguersi in virtù di cause speciali previste dalla legge, che il
codice distingue in:
a) cause di estinzione del reato: estinguono la punibilità in astratto, cioè l’applicabilità
di una certa pena all’autore di una trasgressione, antecedentemente alla sentenza
definitiva di condanna;
b) cause di estinzione della pena: estinguono la punibilità in concreto, cioè la pena da
applicare nel caso concreto, per effetto di una sentenza definitiva di condanna.
Cause di estinzione della punibilità sono:
a) morte del reo: per il principio della assoluta personalità della responsabilità penale
e della pena, con la morte del reo si determina l’estinzione del reato (se prima della
condanna) o della pena principale e accessoria nonché degli altri effetti penali della
condanna (se dopo la condanna) (artt. 150 e 171 c.p.);
b) amnistia (art. 151 c.p.): atto di clemenza generale con cui lo Stato rinuncia all’applicazione della pena. È concessa con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei
componenti di ciascuna camera. È rinunziabile dall’imputato.
Essa può essere:
1) propria: opera per i reati per cui non sia ancora intervenuta la condanna, estingue il reato;
2) impropria: interviene dopo la sentenza irrevocabile di condanna, estingue le pene principali e quelle
accessorie, ma non gli altri effetti penali della condanna;
c) indulto (art. 174 c.p.): atto di clemenza generale che opera non sul reato ma sulla
pena principale che è condonata in tutto o in parte; non estingue le pene accessorie
ed è concesso con la stessa procedura dell’amnistia.
A tale atto clemenziale si è, da ultimo, fatto ricorso con l’approvazione della L. 31-7-2006, n. 241, con l’intento
di soddisfare l’esigenza (ormai conclamata) di porre un freno ai disagi connessi al sovraffollamento carcerario.
In particolare, ai sensi dell’art. 1 della citata legge, è concesso indulto, per tutti i reati commessi fino a tutto il 2
maggio 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle
pecuniarie sole o congiunte a pene detentive. Anche il provvedimento in esame (come già i precedenti) dispone
l’esclusione oggettiva di un nutrito gruppo di fattispecie dal beneficio (trattasi di crimini di particolare allarme
sociale come, a titolo esemplificativo, l’associazione sovversiva, quella terroristica, quella di stampo mafioso, la
riduzione in schiavitù, talune figure criminose contro lo sfruttamento sessuale dei minori, nonché alcuni fra i
più gravi delitti contro il patrimonio, come usura, riciclaggio e sequestro a fini estorsivi). Il beneficio dell’indulto
è revocato di diritto se chi ne ha usufruito commette, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della legge
241, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni;
d) grazia (art. 174 c.p.): atto di clemenza particolare (perché individuale) che presuppone una sentenza irrevocabile di condanna ed è rimesso (art. 87 Cost.) al potere
discrezionale del Presidente della Repubblica; opera solo sulla pena principale,
condonandola in tutto o in parte;
e) prescrizione: consiste nella rinuncia dello Stato a far valere la propria pretesa punitiva
dopo il trascorrere di un certo periodo di tempo dal verificarsi del reato o dalla condanna.
Al riguardo distinguiamo:
1) prescrizione del reato: trascorso il tempo previsto dall’art. 157 dalla consumazione del reato senza che
sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, il reato è definitivamente estinto. Gli artt. 159 e
160 c.p. prevedono cause di sospensione e di interruzione della prescrizione (5);
(5) Si segnala che, con la L. 5-12-2005, n. 251, comunemente nota come legge «ex Cirielli», si è operata una sostanziale
riscrittura dei criteri di calcolo della prescrizione del reato. Se, infatti, in virtù di quanto disposto dal previgente art. 157
Capitolo VIII: L’imputabilità e la pena
591
2) prescrizione della pena: trascorso il tempo previsto dagli artt. 172 e 173 c.p. senza che la condanna,
comminata con sentenza irrevocabile, sia stata eseguita, la pena principale è estinta;
f) oblazione: consiste nel pagamento, a domanda dell’interessato, di una somma di denaro (così da degradare il reato in illecito amministrativo) prima dell’apertura del
dibattimento o del decreto di condanna.
Al riguardo distinguiamo:
1) oblazione nelle contravvenzioni punite con la sola ammenda (art. 162 c.p.).
È un diritto dell’imputato e consiste nel pagamento di una somma pari al terzo del massimo edittale;
2) oblazione nelle contravvenzioni punite con pena alternativa (detentiva o pecuniaria art. 162bis c.p.). È facoltativa a discrezione del giudice e consiste nel pagamento di una somma pari alla metà dell’ammenda;
g) perdono giudiziale (art. 169 c.p.): consiste nella rinuncia dello Stato a condannare un minore
di anni diciotto, mai condannato per delitto, che abbia commesso un reato non grave (deve
essere applicabile in concreto una pena detentiva non maggiore di anni 2 di reclusione o
una pecuniaria non superiore a  1.549) per consentirne un più rapido recupero sociale.
Estingue il reato;
h) sospensione condizionale della pena (artt. 163 e ss. c.p.): consiste nel sospendere
l’esecuzione della pena inflitta a condizione che entro un certo periodo di tempo (5
anni per i delitti, 2 per le contravvenzioni) il colpevole non commetta altri reati. Se
ciò non si verifica egli sconterà la vecchia e la nuova pena.
Le condizioni cui è subordinata la concessione del beneficio e gli obblighi del condannato sono disciplinati dagli artt. 164, 165, 168 c.p.
Il beneficio sospende l’esecuzione delle pene principali. Se la condizione si verifica
si estingue il reato, ma restano fermi gli altri effetti penali della condanna;
i) libertà condizionale (artt. 176-177 c.p.): consiste nella concessione di un premio ad un
condannato che durante il periodo della detenzione abbia dato prova di buona condotta.
Sospende l’esecuzione della pena inflitta ancora da scontare;
l) riabilitazione (artt. 178 e ss. c.p.): estingue le pene accessorie e gli altri effetti penali della
condanna dopo che sia trascorso il periodo di almeno 3 anni (8 anni per i recidivi) dal
giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia estinta, se il condannato ha dato
prova effettiva di buona condotta e ha eseguito le obbligazioni civili nascenti dal reato;
m) non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (art. 175): può
essere concessa discrezionalmente dal giudice al condannato nel caso di prima
condanna per reati non gravi (pena detentiva non superiore a due anni e, se pecuniaria, non superiore a  516).
c.p., a ciascun termine di prescrizione era associato uno scaglione nel quale la sanzione di riferimento era determinata
in modo generico (es. un tot termine per i delitti punibili con la reclusione non inferiore a dieci anni, un altro per quelli
punibili con la reclusione inferiore a cinque anni, ecc.), la qual cosa comportava che venissero accomunate dal medesimo
termine-base di prescrizione fattispecie radicalmente diverse sotto il profilo del disvalore penale (es. nello scaglione dei
delitti prescrivibili in dieci anni rientravano tutti quelli aventi una sanzione massima compresa fra cinque ed oltre nove
anni di reclusione), con il nuovo sistema, ciascuna fattispecie di reato ha un proprio termine di prescrizione coincidente con la
sanzione edittale massima prevista dalla legge, pur se, onde evitare che le fattispecie meno gravi fossero associate a termini
di prescrizione troppo bassi, si è determinato un minimo temporale, pari a sei anni in caso di delitto e quattro anni in caso
di contravvenzione, anche se trattasi di reati puniti con la sola pena pecuniaria. Fra gli ulteriori elementi di novità disciplinare, vanno evidenziati l’esclusione, dal calcolo della prescrizione, delle circostanze del reato (salvo talune eccezioni) e
del relativo giudizio di bilanciamento (la qual cosa sottrae alla discrezionalità del giudice la determinazione concreta del
tempo necessario a prescrivere), e l’influenza, sulla durata della prescrizione, di talune «qualifiche soggettive», quali quelle
di recidivo, delinquente abituale e professionale. Trovano, infine, conferma l’imprescrittibilità dei reati puniti con l’ergastolo
(anche per effetto dell’applicazione di aggravanti) e la rinunciabilità della prescrizione da parte dell’imputato (già sancita,
indirettamente, dalla Corte costituzionale, attraverso una sua risalente sentenza).
592
Parte Settima: Elementi di diritto penale
10. Le misure di sicurezza
A)Definizione e caratteri
Le misure di sicurezza sono speciali provvedimenti di carattere educativo o curativo
ovvero anche cautelativo, applicabili dall’Autorità giudiziaria, in sostituzione oppure in
aggiunta alla pena, nei confronti di un reo ritenuto socialmente pericoloso.
I presupposti per la loro applicazione sono:
— la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato o di un quasi-reato (reato
impossibile art. 49 c.p.; istigazione a commettere un reato non accolta o accordo
criminoso non eseguito: art. 115 c.p.);
— la pericolosità criminale del reo.
Le misure di sicurezza si differenziano dalla pena in ordine:
a) alla funzione: la pena ha anche, e soprattutto, una funzione retributiva; la misura di sicurezza ha esclusivamente funzione di emenda del colpevole;
b) ai destinatari: la pena si applica solo ai soggetti imputabili; la misura di sicurezza si applica anche ai non
imputabili;
c) alla durata: la pena è fissa, avendo una durata determinata, stabilita nella sentenza di condanna; la misura
di sicurezza ha una durata indeterminata, dovendo, per sua natura, cessare solo col venir meno dello stato
di pericolosità del soggetto (la durata è determinata solo nel minimo, non anche nel massimo).
B)Tipologia
Le misure di sicurezza si distinguono in:
a) personali, che limitano la libertà personale del soggetto;
b) patrimoniali, che incidono soltanto sul patrimonio del soggetto.
Le misure di sicurezza personali possono essere, a loro volta, detentive e non detentive.
Misure di sicurezza detentive sono:
1) la assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro (per i delinquenti abituali, professionali o per
tendenza);
2) la assegnazione ad una casa di cura e di custodia (per i condannati a pena diminuita per infermità psichica,
intossicazione cronica da alcool o sostanze stupefacenti, e sordomutismo);
3) il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (per gli imputati prosciolti per le stesse cause di cui sopra,
ferma restando la facoltà del giudice di adottare, in luogo di tale misura, quella che ritenga più «idonea
ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale» (in tal senso
Corte cost. 18-7-2003, n. 253);
4) il riformatorio giudiziario (per i minori non imputabili o condannati a pena diminuita).
Misure di sicurezza non detentive sono:
1) la libertà vigilata, consistente in una serie di limitazioni e di prescrizioni imposte per evitare nuove occasioni di reato (ad esempio, l’obbligo di una stabile attività lavorativa, l’obbligo di non ritirarsi la sera
dopo una certa ora, l’obbligo di non accompagnarsi a pregiudicati, ecc.);
2) il divieto di soggiorno, consistente nell’obbligo di non soggiornare in uno o più comuni ovvero in una o
più province;
3) il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche;
4) la espulsione dello straniero dallo Stato.
Misure di sicurezza patrimoniali sono:
1) la cauzione di buona condotta, consistente nel deposito di una somma di danaro presso la Cassa delle ammende, variabile da  103 a  2.065, per la durata massima di 5 anni. Se il soggetto commette un nuovo
reato punito con pena detentiva durante tale periodo, la somma viene incamerata; altrimenti, decorso il
termine, essa viene restituita;
2) la confisca, consistente nella espropriazione a favore dello Stato di cose che servono a commettere il reato
(es.: gli arnesi da scasso) o che ne sono il prodotto o il profitto, ovvero di cose la cui fabbricazione, uso,
detenzione o alienazione costituisce reato (es.: armi, monete false).
Capitolo VIII: L’imputabilità e la pena
593
Numerose ipotesi di confisca sono previste dalle leggi speciali: es. art. 87 T.U. 309/1990 (confisca di stupefacenti); art. 6 L. 152/1975 (confisca di armi).
11. Le conseguenze civili del reato
A)Generalità
Oltre che illecito penale, un determinato fatto può anche costituire illecito di diversa
natura (civile, amministrativo, disciplinare etc.) e, quindi, da esso possono derivare
conseguenze giuridiche diverse ed ulteriori rispetto a quelle penali.
La maggior parte dei reati (ma sarebbe meglio precisare: dei delitti) costituisce,
generalmente, anche un illecito civile ai sensi dell’articolo 2043 c.c., per cui da essi
deriva anche una sanzione civile. In alcuni casi è la stessa norma civile che prevede la
sanzione (civile) per un illecito penale; così:
a) gli eccessi, le sevizie, le minacce o le ingiurie gravi possono essere causa di separazione personale tra coniugi (art. 151 c.c.);
b) la condanna per determinati delitti può essere causa di divorzio (cfr. art. 3 L. 1-121970, n. 898);
c) l’omicidio, il tentato omicidio o la falsa denuncia del de cuius importa indegnità a succedere
(art. 463 c.c.) nonché la revocazione della donazione per ingratitudine (art. 801 c.c.).
Le più importanti conseguenze di natura civile sono previste nel titolo VII del libro
I del codice penale, e sono le restituzioni, il risarcimento, l’obbligo del rimborso delle
spese allo Stato per il mantenimento del condannato e l’obbligazione civile per l’ammenda.
Esaminiamole singolarmente nelle lettere che seguono.
B)L’obbligo alle restituzioni
Per il primo comma dell’art. 185 c.p. «ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili».
La restituzione di cui parla la legge si riferisce non soltanto al maltolto, ma anche al ripristino della situazione di fatto preesistente al reato. L’obbligo della restituzione, naturalmente, sorge solo nel caso in cui una
restituzione, nel senso prima inteso, sia possibile naturalisticamente e giuridicamente.
C)L’obbligo del risarcimento del danno
Per il secondo comma dell’art. 185 c.p. «ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui».
Danno patrimoniale è l’offesa di un interesse patrimoniale, nei suoi due aspetti di danno emergente e di
lucro cessante.
Danno non patrimoniale è il perturbamento morale derivato dalla commissione del reato, perturbamento
morale consistente non in un valutabile detrimento fisico o patrimoniale, bensì nell’offesa, nell’angoscia, nel
dolore, nel risentimento etc. (così PANNAIN).
Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale, per essere risarcibili, devono porsi in rapporto
di immediatezza col reato, essere cioè legati ad esso da uno stretto rapporto di causa ad effetto (art. 1223 c.c.).
Soggetto tenuto al risarcimento del danno è il colpevole. In caso di concorso di persone nel reato, tutti
gli autori del fatto sono tenuti in solido al risarcimento (art. 187, comma 2 c.p.).
Oltre al colpevole, inoltre, è tenuto al risarcimento del danno, in solido con lui, il responsabile civile ove vi sia.
Soggetto attivo (creditore) del rapporto obbligatorio di risarcimento del danno è il cd. danneggiato, che
può esser persona diversa dal soggetto passivo del reato.
D)L’obbligo al rimborso delle spese di mantenimento del condannato
Per il disposto dell’art. 188 c.p., il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per
il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili
ed immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili.
Tale obbligazione non si estende alla persona civilmente obbligata per l’ammenda (cfr. § seguente) né
agli eredi del condannato.
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Parte Settima: Elementi di diritto penale
Per il disposto dell’art. 2 della L. 26-7-1975, n. 354, in materia di ordinamento penitenziario, il rimborso delle
spese di mantenimento ha luogo per una quota non superiore ai due terzi del costo reale del mantenimento stesso.
E)L’obbligazione civile per le multe e le ammende inflitte a persona dipendente
(artt. 196 e 197, modificati dalla L. 689/1981)
L’art. 196, in caso di insolvibilità del condannato a pena pecuniaria, stabilisce l’obbligazione sussidiaria
al pagamento di una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria a carico della persona rivestita dell’autorità o incaricata della direzione o vigilanza del soggetto condannato.
Affinché sorga questa obbligazione, occorre che si tratti di violazione di una norma che la persona preposta
doveva far osservare e, nello stesso tempo, occorre che la persona preposta non ne debba rispondere penalmente.
Del pari l’art. 197 stabilisce che «gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuato lo Stato, le regioni,
le province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza
o l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione
degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona
giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta».
Anche questa «obbligazione» nasce solo in caso di insolvibilità del condannato (e perciò ha carattere
sussidiario) ed è stata estesa ai delitti dalla L. 689/1981. Le due norme di cui sopra non fanno eccezione al
principio della personalità della pena in quanto non sanciscono una responsabilità penale a carico di persone
estranee al reato, ma contemplano ipotesi di responsabilità puramente civile a garanzia dell’adempimento di
un obbligo penale. L’individuo o l’ente obbligati versano una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria
che il colpevole non è in condizioni di pagare.
In entrambi i casi, se l’obbligazione non può essere adempiuta si applica l’art. 136 (conversione della
pena pecuniaria).
F)Effetti dell’estinzione del reato o della pena sulle obbligazioni civili
L’art. 198 c.p. stabilisce che l’estinzione del reato o della pena non importa l’estinzione delle obbligazioni
derivanti dal reato, ad eccezione delle obbligazioni civili per le ammende ex artt. 196 e 197 c.p.
La ratio della norma è chiara: la causa di estinzione del reato o della pena colpisce il reato come illecito
penale, ma non può escludere quei caratteri di illiceità diversa da quella penale da esso rivestiti.
G)Garanzie per le obbligazioni civili
Gli artt. 189-195 c.p. contengono una serie di disposizioni tese a garantire l’adempimento delle obbligazioni civili da parte dell’imputato.
Tali garanzie possono così sintetizzarsi:
a) sequestro conservativo;
b) cauzione prestata dall’imputato al fine di evitare il sequestro;
c) azione revocatoria penale.
Cause di estinzione del reato (artt. 150-170 c.p.)
➤ cause generali di estinzione del reato:
— morte del reo (art. 150 c.p.)
— amnistia «propria» (art. 151 c.p.)
— remissione della querela (art. 152 c.p.)
— prescrizione del reato (art. 157 c.p.)
— oblazione (artt. 162-162bis c.p.)
— sospensione condizionale della pena (art. 163 c.p.)
— perdono giudiziale per i minori degli anni 18 (art. 169 c.p.)
➤
cause speciali di estinzione del reato:
— previste per singole figure criminose dalle relative norme incriminatrici