Non è giustizia. La colpa, il carcere, la parola di Dio Carlo Maria

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Non è giustizia. La colpa, il carcere, la parola di Dio Carlo Maria
- Zona Italia
Seminario di formazione - ottobre 2012
NEL CORTILE DELLA STORIA – GIUSTIZIA ED ETICA DELLA RESPONSABILITÀ
Non è giustizia. La colpa, il carcere, la parola di Dio
Carlo Maria Martini
Una raccolta di saggi, frutto di frequenti visite alle carceri italiane da parte dell’autore e di numerosi
interventi pubblici sulla giustizia. Carlo Maria Martini, che ha sempre sentito con particolare
passione i problemi dei detenuti, degli esclusi dalla società, invita qui laici e fedeli, membri delle
istituzioni e privati cittadini a interrogarsi sulle modalità di una prevenzione dei reati e a una
riflessione sulla pena che non deve mai dimenticare la dignità della persona e su una giustizia che
sappia ricucire i rapporti invece che reciderli, promuovendo il consenso ai valori della convivenza
civile.
La persona, soggetto di diritti e doveri, sempre «Il recupero dell’uomo deviante è possibile quando
vengono accettate alcune premesse. Ne sottolineo quattro:
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La persona umana è il massimo valore a motivo della sua intelligenza e libera volontà,
dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende.
La sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male
che l’uomo, singolo o associato, possa compiere. L’errore indebolisce e deturpa sì la
personalità dell’individuo, ma non la nega, non può distruggerla, né declassarla al regno
animale, inferiore all’umano: il delinquente resta sempre “uomo”. Le leggi e le istituzioni
penali di una società civile e democratica hanno senso se lo salvano, se operano in funzione
dell’affermazione e sviluppo della dignità di ogni singola persona. Essa resta sempre un
grande bene, indipendentemente dalle sue qualità, efficienza e merito.
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Ogni persona è parte vitale e solidale della nostra comunità, anche quando viene
colpita da malattia, fisica o morale; resta fratello o sorella dell’unica famiglia umana;
distaccarla dal corpo sociale, disconoscerla, emarginarla, violentarla sono azioni che non
favoriscono il bene comune, ma lo feriscono almeno quanto lo stesso reato.
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Non esistono persone soltanto negative, tutte e sempre malvagie, identificabili nel reato; in
ognuna c’è del frumento buono mescolato alla zizzania, come nel campo evangelico; le
capacità del bene e del male nella persona umana convivono. L’uomo che sbaglia conserva
sempre alcuni diritti-doveri fondamentali; glieli riconosce anche la legge del 26 luglio 1975,
n. 354, all’articolo 4; tra questi il diritto-dovere di correggersi e risocializzarsi. La storia ci
insegna che anche dall’errore può nascere un bene insperato, un’esperienza utile a tutti.
Il reato è sintomo di un disagio profondo, interiore, che produce violenza, ingiustizia,
criminalità. Il comportamento delinquenziale e malavitoso può essere paragonato a una
malattia: è una deformazione morale, causata spesso da ignoranza, da mancanza di realismo,
da irresponsabilità, asocialità, istinti negativi, da condizioni abbandoniche e miserabili, da
cattiva educazione; può essere curata e guarita.
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All’uomo in errore non dev’essere proposta unicamente la sanzione. Va quindi superata
la cieca fiducia nella pena retributiva, meccanica, come unica forza capace di migliorare i
comportamenti del delinquente. Non di rado si constata la sua inefficacia e anche la sua
azione devastante.
Alla base del nuovo modo di concepire la pena e la sua esecuzione dev’essere posta la
riconciliazione come proposta di partenza e traguardo d’arrivo del trattamento rieducativo.
L’antisociale può essere aiutato ad abbandonare una vita sbagliata, a rientrare nella realtà
sociale e ad accettare con lealtà e senza strumentalizzazioni l’osservanza delle leggi soltanto
in un clima di rispetto della sua persona e di disponibilità nei suoi confronti, e non
nell’esecuzione materiale di una pena coercitiva e mortificante. (…)»