Vol. 41 • N. 162 Aprile-Giugno 2011

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Vol. 41 • N. 162 Aprile-Giugno 2011
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 55-107
Vol. 41 • N. 162
Aprile-Giugno 2011
nefroLoGIA (a cura di Alberto Edefonti)
“Cosa resterà di questi anni…?”: un’analisi selettiva della letteratura
nefrologica pediatrica dal 2007 al 2009
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica
Difetti del riassorbimento tubulare del sodio e del magnesio
dermAtoLoGIA (a cura di Carlo Gelmetti)
Novità in dermatologia pediatrica: patogenesi e terapia
Tessuti per l’abbigliamento e per il trattamento di condizioni dermatologiche
Emangioma infantile e la rivoluzione del propranololo
frontIere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Le origini precoci della salute e della malattia: una nuova sfida per i pediatri
Pacini
EditorE
MEdicina
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Vol. 41 • N. 162
Aprile-Giugno 2011
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e verniciata idro.
Pacini
EditorE
MEdicina
INDICE numero 162 Aprile-Giugno 2011
EDITORIALI
Pierpaolo Mastroiacovo........................................................................................................................................................................... 55
Generoso Andria...................................................................................................................................................................................... 56
nefrologia (a cura di Alberto Edefonti)
“Cosa resterà di questi anni…?”: un’analisi selettiva della letteratura nefrologica pediatrica dal 2007 al 2009
Antonio Mastrangelo, Mirco Belingheri, Alberto Edefonti........................................................................................................................ 57
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica
Alberto Magnasco, Gianluca Caridi, Francesco Perfumo, Gian Marco Ghiggeri....................................................................................... 66
Difetti del riassorbimento tubulare del sodio e del magnesio
Francesco Emma, Giacomo Di Zazzo, Chiara Amoruso, Alberto Bettinelli................................................................................................ 75
DERMATOlogia (a cura di Carlo Gelmetti)
Novità in dermatologia pediatrica patogenesi e terapia
Lucia Restano, Stefano Cambiaghi, Carlo Gelmetti.................................................................................................................................. 83
Tessuti per l’abbigliamento e per il trattamento di condizioni dermatologiche
Annalisa Patrizi, Iria Neri, Beatrice Raone............................................................................................................................................... 91
Emangioma infantile e la rivoluzione del propranololo
Ernesto Bonifazi, Antonella Milano, Valeria Colonna................................................................................................................................ 95
Frontiere (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon)
Le origini precoci della salute e della malattia: una nuova sfida per i pediatri
Umberto Simeoni, Isabelle Grandvuillemin, Christophe Buffat.............................................................................................................. 102
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 55
EDItoRIALE
Editoriale
Passo la mano, solo la mano, non la mente né il cuore. Dieci anni nel ruolo di coordinatore della Direzione di Prospettive in
Pediatria lasciano tracce indelebili. Ci tengo innanzitutto a sottolineare il mio ruolo in Prospettive in Pediatria negli ultimi anni:
coordinatore della Direzione e non Direttore, vorrei aggiungere semplice Direttore. Coordinare la Direzione, composta non solo
dai fondatori della Rivista (di riconosciuta eccellenza), ma anche da un gruppo di uomini (e per un periodo di tempo da una
donna) di indiscusso calibro scientifico ed umano, senza alcun dubbio ha realizzato un’esperienza molto più ricca per me e,
non ho dubbi, anche più produttiva per la Rivista stessa. Potrei anche disquisire sulla generalizzabilità della formula, su quanto
una Direzione composta da più persone e da un Comitato di Redazione, piuttosto che un Direttore (uno solo) e un Comitato di
Redazione sia oggigiorno più efficace per qualsiasi rivista. Dal mio punto di vista coordinare la Direzione, ha significato essere
in continuo contatto con personaggi straordinari il cui unico scopo è stato adoperarsi affinché la Rivista fosse davvero indipendente da tutto e da tutti ed avesse come solo obiettivo la qualità dell’aggiornamento fornito e il massimo rispetto per i lettori.
Ci sono stati ritardi, è vero, e anche articoli che non hanno soddisfatto del tutto i lettori, ma lo sforzo di mantenere elevata la
qualità è sempre stato notevole e disinteressato.
Passo la mano dicevo, alla persona a mio parere più dotata di qualità umane, scientifiche ed organizzative che oggi la Pediatria
italiana possa esprimere. Non è una dichiarazione di amicizia, ma un’opinione (purtroppo non posso produrre una prova scientifica, ma quasi …) di cui sono profondamente convinto per aver lavorato gomito a gomito non solo nella realizzazione della
Rivista, ma anche nelle attività collaterali, come le indimenticabili e innovative “Giornate Giovani di Prospettive in Pediatria” (ove
gli unici veri protagonisti erano gli specializzandi e tutto si svolgeva “francescanamente”) o in altre attività (es.: la fondazione
della Società Italiana Malattie Genetiche Pediatriche e Disabilità Congenite – SIMGePeD). Questo passaggio di mano non può
che rappresentare ulteriore orgoglio per me e ulteriore attaccamento alla Rivista, per gli sviluppi futuri che potrà avere. Una
frase, almeno una, va spesa in questo mio commiato, per sottolineare l’audacia, la fiducia e la volontà (appellarsi all’intelligenza
sarebbe un atto di superbia) della Presidenza e del Comitato Direttivo della Società Italiana di Pediatria, passata e presente (in
particolare Pasquale Di Pietro e Gianni Bona prima, Alberto Ugazio e Giovanni Corsello poi), per aver voluto rendere Prospettive in Pediatria un prodotto fruibile per tutti i pediatri italiani. Tale operazione, così come sarà condotta, con idee innovative e
tecnologie moderne dal nuovo Direttore, ha tutte le carte in regola per incidere significativamente sulla crescita culturale dei
pediatri italiani dei prossimi anni. Ed infine, ma non ultimo in ordine di importanza, grazie a tutti i lettori, senza di essi e senza
il loro desiderio di aggiornamento, semplicemente, una Rivista come Prospettive in Pediatria non esisterebbe.
Pierpaolo Mastroiacovo
55
Gennaio-Marzo2011
Aprile-Giugno
2011• •Vol.
Vol.4141• •N.N.162
161• •pp.
Pp.56xx-xx
oNCoLoGIA
EDItoRIALE
Editoriale
Sono molto grato al Presidente e al Consiglio direttivo della Società Italiana di Pediatria per l’onore che hanno voluto farmi con
la nomina a direttore di Prospettive in Pediatria. Li ringrazio anche, perché questa nomina mi ha consentito di andare con la
memoria a molti anni addietro, quando, ancora giovane pediatra, cercavo punti di riferimento per la mia formazione. Riconosco oggi il ruolo fondamentale svolto appunto dalla lettura di Prospettive in Pediatria, accanto a quello di figure carismatiche
di pediatri e ricercatori che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita, sia in Italia che all’estero. In realtà la Rivista non
ha solo arricchito in maniera aggiornata e autorevole il mio bagaglio di conoscenze in campo medico, ma soprattutto mi ha
fatto entrare in contatto con un gruppo di pediatri italiani, che è stato per me un modello a cui riferirmi sul piano personale,
scientifico e professionale. Per questi motivi sono naturalmente molto felice di poter contribuire, sperando di essere all’altezza,
alla continuazione di un’esperienza culturale, ma anche umana, col gruppo della Direzione e della Redazione di Prospettive in
Pediatria, di cui fanno ancora fortunatamente parte maestri della pediatria italiana, come Fabio Sereni, Antonio Cao e Salvatore
Auricchio.
Desidero, poi, rivolgere un grazie particolare all’amico Pierpaolo Mastroiacovo che per circa 10 anni ha coordinato con grande
impegno e intelligenza i Comitati di Direzione e di Redazione della Rivista e l’ha traghettata con successo nel gruppo editoriale
della Società Italiana di Pediatria.
Mi auguro che i lettori storici e i nuovi lettori di Prospettive in Pediatria trovino la voglia di collaborare con idee, suggerimenti
e contributi a mantenere viva e interessante la Rivista, rendendola uno strumento utile e qualificato per l’aggiornamento e la
formazione delle vecchie e, soprattutto, delle nuove generazioni di pediatri italiani.
Generoso Andria
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Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 57-65
NEFRoLoGIA
“Cosa resterà di questi anni…?”:
un’analisi selettiva della letteratura nefrologica
pediatrica dal 2007 al 2009
Antonio Mastrangelo, Mirco Belingheri, Alberto Edefonti
U.O. Complessa di Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Clinica Pediatrica De Marchi, Fondazione IRCCS Ca’ Granda,
Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
Riassunto
È cresciuta in questi anni la consapevolezza che alterazioni dello sviluppo, in epoca fetale e post-natale, tali da condizionare basso peso alla nascita, possano determinare, con meccanismo epigenetico, ipertensione arteriosa, riduzione del filtrato glomerulare e malattia cardio-vascolare che possono iniziare in
età pediatrica, ma si manifestano soprattutto nell’età adulta. Da questo punto di vista, la prevenzione attuata dall’ostetrico, dal neonatologo e dal pediatra
assume un ruolo determinante per la salute delle future generazioni.
L’analisi genetica si dimostra sempre più necessaria per la diagnosi ed il conseguente trattamento di diverse patologie, quali, ad esempio, la sindrome
emolitico-uremica, la sindrome nefrosica cortico-resistente, le ciliopatie e le tubulopatie. Sono stati proposti nuovi schemi di classificazione di tali malattie
basati sul dato genetico. In particolare, la diagnosi differenziale su base genetica della sindrome nefrosica e delle tubulopatie trova spazio nei due articoli
dedicati di questo numero della rivista.
Sulla falsariga di quanto avvenuto nei primi anni 2000 per la malattia renale cronica (CKD), sono stati proposti nuovi criteri di diagnosi e di stadiazione
dell’insufficienza renale acuta, ora identificata come Acute Kidney Injury (AKI). La classificazione delle varie fasi di AKI è di grande aiuto al pediatra nell’identificare precocemente i soggetti che necessitano di intervento terapeutico. Sono stati, inoltre, proposti nella pratica clinica nuovi biomarker, più sensibili,
per la diagnosi precoce di questa condizione.
La gestione dei pazienti pediatrici con malattia renale cronica (CKD), i cui stadi iniziali (CKD 1 e 2) sono spesso osservati dal pediatra di libera scelta ed
ospedaliero, è stata resa più precisa grazie all’identificazione dei fattori prognostici di progressione dell’insufficienza renale cronica e delle complicanze, in
particolare ipertensive e cardio-vascolari. Inoltre, per la definizione di CKD nel suo stadio precoce (CKD 1) diventa critico utilizzare formule che diano una
stima accurata della filtrazione glomerulare (GFR) a partire da semplici esami di laboratorio e dati biometrici. Recentemente, formule conosciute, come
quelle di Schwartz e quelle basate sul dosaggio serico di molecole come la cistatina C, hanno subito delle modifiche che le hanno rese più precise, ma in
alcuni casi anche più complesse e quindi meno utilizzabili nella pratica clinica.
Summary
Changes occurring during the critical phase of fetal and post-natal growth may determine, by epigenetic mechanisms, hypertension, low glomerular filtration rate and early onset of cardiovascular disease: prevention towards the factors leading to growth alteration by obstetrician, neonatologist and pediatrician plays therefore an important role for the health of future generations.
Genetic analysis is now essential for the diagnosis and subsequent treatment of various diseases such as hemolytic-uremic syndrome, steroid-resistant
nephrotic syndrome, ciliopathies and tubulopathies. New classifications for these nephropathies, based on genetic analysis, have also been proposed. A
genetically based differential diagnosis of nephrotic syndrome and tubulopathies are specifically discussed in two dedicated chapters of this journal.
Similarly to what happened in the early 2000s for chronic kidney disease (CKD), new diagnostic and staging criteria of acute renal failure, now identified as
Acute Kidney Injury (AKI), have been, recently, proposed. The new classification is very helpful to the pediatrician in order to identify patients who require
early therapeutic intervention. More sensitive new biomarkers, for early diagnosis of AKI, have also been proposed in clinical practice. As regards chronic
kidney disease, the identification of the early stage of CKD in large pediatric population with kidney and urinary tract diseases by an accurate estimation
of glomerular filtration rate by simple laboratory tests and anthropometrics parameters, has become critical to prevent the progression of the disease. At
this purpose, Schwartz and Cystatin C-based formulas have undergone major changes which guarantee on one side more accuracy but, on the other side,
make their use more complex and less user-friendly for the clinician.
Metodologia della ricerca bibliografica
L’articolo fa seguito alla precedente revisione della letteratura nefrologica pediatrica 2003-2006, pubblicata su Prospettive in Pediatria
(Edefonti, 2006). Per quanto riguarda il triennio 2007-2009, è stata
seguita la stessa metodologia di ricerca bibliografica. Dopo un’ampia
discussione tra gli autori ed i colleghi nefrologi pediatri dell’U.O.C.
di Nefrologia e Dialisi Pediatrica di Milano, il cui confronto verteva
su cosa di rilevante fosse cambiato negli ultimi anni nella pratica
clinica, sia dal punto di vista diagnostico che da quello terapeutico,
sono stati identificati i temi più importanti, escludendo gli argomenti
dialitici e trapiantologici, in quanto considerati troppo specialistici
per il pediatra di 1° e 2° livello. Questi argomenti principali sono stati
oggetto di una ricerca bibliografica su PubMed, utilizzando come
principali parole chiave le seguenti: acute kidney injury, acute renal failure, biomarkers, chronic kidney disease, cardio-vascular diseases, mortality, glomerular filtration rate, arterial blood pressure,
Barker’s hypothesis, intra-uterine growth retardation, brestfeeding,
ciliopathies, nephronophtisis, polycistic kidney disease, hemolitic
uremic syndrome. Inoltre, sono stati consultati gli editoriali delle
seguenti riviste pediatriche e nefrologiche, alla ricerca di ulteriori
57
A. Mastrangelo et al.
argomenti ed articoli di attualità che potevano essere sfuggiti nel
confronto preliminare: Pediatric Nephrology, Pediatrics, Journal of
Pediatrics, Journal of American Society of Nephrology, Kidney International, Current Opinions in Nephrology and Hypertension e Seminars in Nephrology. A riprova dell’efficacia del processo, tre dei
cinque articoli più citati su Nephrology, Dialysis and Transplantation
nel periodo 2005-2009 si riferiscono agli argomenti da noi prescelti
ed i due rimanenti concernono malattie non riscontrabili in nefrologia pediatrica.
“Developmental origin of health and disease”
e programming pressorio
Si tratta di uno degli aspetti conoscitivi più importanti degli ultimi
anni e riguarda l’origine di alcune malattie che si manifestano in età
adulta, quali ipertensione arteriosa (IA), malattia cardio-vascolare e
sindrome metabolica. Essa è stata ricondotta, a partire da articoli
pubblicati dopo il 1988, ad un’alterazione dello sviluppo di determinati organi a livello fetale per cause ambientali, soprattutto nutrizionali.
L’osservazione iniziale è consistita nel riconoscimento della relazione esistente tra basso peso alla nascita ed incidenti cerebrovascolari verificatisi in età adulta (Barker, 1988). Secondo una recente
revisione (Barker, 2006), all’interno di un determinato periodo critico
dello sviluppo intrauterino, un evento lesivo comporta delle risposte adattative permanenti su base genetica, che possono alterare
la struttura, il metabolismo e la crescita del rene e predisporre al
successivo sviluppo di IA e malattia renale cronica.
Studi successivi hanno dimostrato che il feto, in condizioni di scarso
apporto energetico, mette in atto, per sopravvivere, dei meccanismi
di compenso, tra cui una riduzione dello sviluppo somatico (fenotipo
fetale “parsimonioso”). Questo adattamento si esplica mediante una
ricollocazione delle risorse energetiche, che vengono sottratte ad
alcuni organi, come il rene, per garantirle ad altri, come il cervello
(fenomeno del trade-off). Di conseguenza, si assisterà ad un iposviluppo del rene nelle sue componenti funzionali (nefroni) ed un
normale sviluppo del cervello (Barker, 2006).
Recenti articoli hanno messo in luce che responsabili di queste alterazioni sono meccanismi epigenetici, che modificano l’espressione
del patrimonio genetico attraverso l’attivazione di regioni promoter
di geni tissutali specifici. Questi cambiamenti possono essere permanenti poiché provocano alterazioni della metilazione del DNA, della struttura degli istoni e del modellamento della cromatina (Kunes,
2009). In pratica, in situazioni di scarso apporto energetico fetale,
il riarrangiamento epigenetico farà in modo di ricollocare le cellule
staminali a livello del cervello, sottraendole ad organi come il rene,
che risulterà, così, povero di nefroni (Barker, 2006). Inoltre, attraverso una riduzione dell’espressione dei recettori di tipo 1 dell’angiotensina a livello cerebrale ed un aumento di quelli di tipo 2 a livello
renale, si verificherà una riduzione stabile del flusso ematico renale,
a favore di quello cerebrale (Barker, 2006).
Dopo la nascita, in un ambiente ricco di nutrienti, questo equilibrio
risulterà sfavorevole. Il neonato di basso peso andrà incontro ad una
rapida crescita (catch up growth) che si assocerà ad iperfiltrazione
glomerulare, legata all’aumento rapido della massa corporea e del
carico escretorio dei soluti, e IA. È stato, infatti, dimostrato che la
prevalenza di IA in soggetti nati con peso < 3 kg è significativamente
superiore a quella dei soggetti nati con peso > 4 kg (Symonds 2009;
Barker 2006). A riprova di questo fatto, è stato evidenziato, in una
metanalisi basata su studi su gemelli, che la differenza di 1 kg di
58
peso tra i due gemelli comporterebbe in media valori di pressione
arteriosa inferiori di 1.52 mmHg nel neonato di peso maggiore, rispetto a quello di peso minore (Huxley, 2002).
I meccanismi epigenetici possono intervenire non solo nel periodo
fetale, ma anche nell’epoca post-natale. L’alimentazione nei primi
mesi di vita è risultata, infatti, essere determinante. Studi epidemiologici hanno evidenziato che una ridotta crescita post-natale
da ipoalimentazione, in neonati di peso appropriato, è strettamente
legata allo sviluppo d’ipertensione nell’età adulta (Eriksson, 2007),
confermando, di fatto, che il periodo perinatale rappresenta ancora
un momento di suscettibilità allo sviluppo di malattie che si riveleranno nell’età adulta. Questo dato è stato confermato anche in
studi su ratti, sottoposti durante la vita fetale ad insufficienza utero-placentare (IUP). Da essi è emerso che la nefrogenesi postnatale (evenienza fisiologica in questo animale) ed il “programming”
ipertensivo possono essere modificati da manipolazioni dietetiche
nel periodo post-natale, sia nei ratti patologici che in quelli normali
(Bagby, 2007; Wlodek, 2007). In particolare, lo studio sperimentale
di Wlodek ha per la prima volta evidenziato che la scarsa dotazione
nefronica da sola non conduce necessariamente ad IA, in quanto
durante il periodo post-natale il programming pressorio può essere
modificato dall’alimentazione: si delinea così uno spazio interessante di prevenzione, anche nella specie umana.
La comprensione di questi meccanismi deve portare ad un attento
monitoraggio della crescita del feto e del neonato, così da garantire
gli apporti energetici più corretti per le loro esigenze. Una ulteriore
semplice misura consiste nella misurazione della pressione arteriosa nei bambini e nei giovani adolescenti nati di basso peso (Barker,
1988; Fuentes, 2002). La prevenzione attuata dall’ostetrico, dal neonatologo e dal pediatra assume, quindi, un ruolo determinante per
la salute delle future generazioni.
Nefropatie su base genetica
In questi ultimi anni, l’analisi genetica si è rivelata sempre più determinante per l’approccio diagnostico e, conseguentemente, terapeutico di numerose malattie. Per alcune di esse, i dati emersi da
studi recenti hanno portato a nuove proposte classificative. Esempi particolarmente rilevanti di questo nuovo approccio diagnostico
sono la sindrome emolitico-uremica, le ciliopatie, le tubulopatie e la
sindrome nefrosica cortico-resistente. In particolare, la diagnostica
differenziale di queste ultime due patologie trova spazio nei due articoli ad esse dedicati in questo numero della rivista.
Sindrome Emolitico-Uremica (SEU)
La SEU rappresenta, nel bambino, la causa più frequente d’insufficienza renale acuta richiedente dialisi. Se ne riconoscono da tempo due
forme, definite tipica o atipica (SEUa) a seconda della presenza (SEU tipica) o meno (SEUa) di prodromi diarroici. Secondo una recente revisione (Noris 2009), la SEUa rappresenta circa il 10% di tutte le SEU. Solo
da pochissimi anni ne sono state definite le basi genetiche, che hanno
portato ad una nuova ipotesi classificativa della malattia (Tab. I).
Secondo quanto descritto da Noris, le forme secondarie a deficit dei
fattori di regolazione del complemento (Fig. 1) rappresentano la quota preponderante (50-60% circa) e si manifestano con alterazioni di
tipo sia qualitativo che quantitativo (1-II.a nella Tab. I).
Differenti mutazioni nella sequenza che porta all’inibizione dell’attivazione della cascata complementare (Fig. 1) sono state identificate negli ultimi anni, rappresentando il paradigma dell’evoluzione
nell’approccio diagnostico che è avvenuta in questa ed altre malattie
renali in questo periodo (Tab. II).
“Cosa resterà di questi anni...?”: un’analisi selettiva della letteratura nefrologica pediatrica dal 2007 al 2009
Tabella I.
Eziologia della Sindrome Emolitico-Uremica.
1) SEU da causa nota
I. SEU indotta da infezione (90% casi)
II. SEU causata da disordini del complemento
a. Genetici: Fattore H, I, B, C3, MCP (Membrane Cofactor Protein), trombomodulina
b. Acquisiti: autoanticorpi anti-Fattore H
III. SEU associata a deficit del vWF-CP ADAMTS13
a. Genetico
b. Acquisito: autoanticorpi anti-ADAMTS13
IV. SEU associata ad alterazioni del metabolismo della Cobalamina
V. SEU indotta da farmaci
2) SEU ad etiologia non nota
I. Associata a gravidanza (sindrome HELLP) o a farmaci anticoncezionali
II. Associata a patologie sistemiche
III. Genetiche non rientranti nella categoria CAUSE NOTE
La scoperta delle mutazioni genetiche descritte ha reso indispensabile l’esecuzione di test genetici in ogni caso di SEU con caratteristiche atipiche. Le nuove conoscenze fisiopatologiche hanno,
inoltre, permesso di attuare strategie terapeutiche differenziate,
basate sull’identificazione delle diverse mutazioni responsabili
della malattia. Esse consistono nella somministrazione di plasma
fresco congelato in caso di carenza dei fattori circolanti H ed I, nel
tentativo di fornire il fattore mancante, o nella plasmaferesi, in
caso di presenza di autoanticorpi anti CFH, o ancora nell’infusione
di anticorpi monoclonali anti-complemento, come recentemente
descritto per l’eculizumab nelle forme caratterizzate da aumentata attività della C3 convertasi (Nürnberger, 2009). Le possibilità di
trattamento della malattia primitiva sin qui descritte hanno anche
aperto la strada alla prevenzione delle recidive sul rene trapiantato, con schemi comprendenti la somministrazione di plasma,
l’esecuzione di plasmaferesi e l’infusione di eculizumab (Larrea,
2010).
Il livello di conoscenze raggiunto ha, infine, permesso la pubblicazione di linee guida sulla diagnosi ed il trattamento della SEUa, da parte
del Gruppo di Studio Europeo della SEU (Ariceta, 2009).
Ciliopatie
Si tratta di un nuovo gruppo classificativo in cui sono state inserite
malattie genetiche frequenti e note da tempo, quali ad esempio il
rene policistico e la nefronoftisi, e malattie più rare, di cui si ignorava il meccanismo fisiopatologico, come ad esempio la sindrome di
Bardet-Biedl. Il fattore comune è rappresentato da alterazioni a carico del ciglio primario delle cellule, a cui vengono attribuite funzioni
sensoriali rispetto a stimoli meccanici e chimici dell’ambiente circostante e di trasmissione di questi messaggi verso il nucleo (RodatDespoix, 2009). Nel rene, le ciglia primarie rilevano il flusso urinario
all’interno del lume tubulare e giocano un ruolo, per ora ipotetico, nel
riassorbimento dei soluti urinari e nella presentazione ai recettori di
membrana di sostanze presenti nelle urine.
figura 1.
Regolazione della cascata complementare.
59
A. Mastrangelo et al.
Tabella II.
Prevalenza, tipo di alterazione e numero di mutazioni identificate a carico dei fattori del complemento correlate a SEUa (Noris, 2009; Caprioli,
2006).
Fattore del
complemento
Funzione
Prevalenza di
mutazione
Tipo di alterazione
della proteina
Mutazioni
identificate
Trattamento
Fattore H (CFH)
Si lega al fattore I e degrada il C3b
interrompendo la cascata complementare
40-45%
Quantitative
e qualitative
(ridotta attività)
80
Infusione di plasma
fresco congelato
MCP
Proteina di membrana che con il fattore I
degrada il C3b
10-15%
Soprattutto
quantitative
20
Trapianto renale
Fattore I (CFI)
Proteasi plasmatica che con CFH e MCP
inattiva C3b e C4b
4-10%
Quantitative
e qualitative
(ridotta attività)
20
Infusione di plasma
fresco congelato
Fattore B (CFB)
Elemento costitutivo della C3 convertasi
1-3%
Qualitative
(aumentata attività)
-
-
C3
Elemento costitutivo della C3 convertasi
4-10%
Qualitative
(aumentata attività)
-
Eculizumab
Trombomodulina (TM)
Glicoproteina anticoaglulante che facilita la
degradazione del C3b da parte di CFH e CFI
< 5%
Qualitative
(ridotta attività)
1
Eculizumab
Ciglia primarie sono presenti a livello dell’epitelio renale, dei fotorecettori, delle isole pancreatiche, dei colangiociti, delle cellule tiroidee, dei neuroni, dei fibroblasti e dei condrociti. Da qui si comprende
come le ciliopatie si manifestino clinicamente con alterazioni solo
apparentemente non riconducibili ad un unico meccanismo di malattia, quali infertilità, formazione di cisti a livello pancreatico, epatico e renale, cecità, anomalie renali strutturali o funzionali, alterazioni
neurologiche, obesità, polidattilia ed IA.
Rene policistico
Per quanto concerne il rene policistico (PKD), studi recenti hanno
suggerito un deficit funzionale delle ciglia primarie come causa dello
sviluppo di cisti (Hildebrandt, 2005; Yoder, 2007). Potenzialmente,
mutazioni a carico di tutte le proteine che concorrono alla formazione del ciglio primario nell’epitelio tubulare renale possono causare
PKD (policistina-1, policistina-2, polaris, cistina ed inversina) (Rodat-Despoix, 2009; Deltas, 2010). Nella realtà, la forma autosomica
dominante (ADPKD), la più comune tra le ciliopatie, è associata a
mutazioni dei geni PKD1 (policistina-1) e PKD2 (policistina-2), trasmesse in eterozigosi. È necessaria, quindi, una mutazione somatica
dell’allele normale per poter avviare il processo di formazione delle
cisti (Rodat-Despoix, 2009). Recentemente, è stata riportata un’associazione tra gravità della malattia e sito di mutazione del gene
PKD1 (Deltas, 2010). Ciò sottolinea l’importanza attuale dell’analisi
genetica anche ai fini della prognosi, che rappresenta il quesito più
frequente da parte delle famiglie con uno o più membri affetti dalla
malattia.
Nell’ambito dell’ADPKD un’altra importante novità riguarda la possibilità di inibire la formazione di nuove cisti e, quindi, di rallentare
la progressione della malattia. Questa evidenza è emersa dall’osservazione di pazienti con ADPKD sottoposti a trapianto renale ed in
terapia immunosoppressiva con rapamicina ed è stata confermata
da studi su roditori. Sono stati sperimentati in questi ultimi anni due
farmaci: l’octreotide e la rapamicina. L’octreotide, un analogo della
somatostatina, inibisce la formazione di AMP ciclico, interrompendo il meccanismo di crescita delle cisti. Studi recenti (Peces, 2010)
hanno dimostrato una riduzione del volume di rene, fegato, pancreas
ed altri organi legata ad una diminuzione della grandezza delle cisti
nei pazienti trattati con octreotide. La rapamicina e gli altri inibi-
60
tori del “mammalian target of rapamycin” (mTOR), come sirolimus
ed everolimus, si sono dimostrati efficaci nel ridurre il volume delle
cisti con un meccanismo del tutto simile a quello descritto per l’octreotide. La differenza tra le due categorie di farmaci sembrerebbe
legata all’entità di questa inibizione. Gli studi finora disponibili, infatti, hanno mostrato una differenza significativa, nei pazienti rispetto
ai controlli, per quanto riguarda la riduzione del volume del fegato,
mentre non è stata raggiunta la significatività statistica per quanto
riguarda la riduzione del volume renale (Torres, 2010). Al momento,
tuttavia, l’utilizzo di questi farmaci in età pediatrica rimane una proposta promettente.
È noto da tempo che la forma recessiva, ARPKD, 40 volte meno
frequente della forma dominante, si associa a mutazioni del gene
PKHD1 (polycystic kidney and hepatic disease 1), che codifica per
la fibrocistina/poliductina (FPC), una proteina del ciglio primario importante nella differenziazione dei dotti collettori renali e del sistema
biliare. Recentemente, è stato dimostrato che lo sviluppo di cisti nel
feto è immediatamente successivo all’inizio della filtrazione glomerulare e che la mutazione della FPC, alterando il segnale di stop
alla proliferazione delle cellule tubulari generato dal flusso urinario,
creerebbe il presupposto per la formazione di cisti (Fliegauf, 2007).
Questi dati rendono ragione del fatto che lo sviluppo di cisti renali
nell’ARPKD è molto più precoce e severo rispetto all’ADPKD, così
che la malattia è riconoscibile ecograficamente sin dalle prime epoche dalla vita fetale.
Nefronoftisi
La nefronoftisi (NPH) rappresenta un gruppo eterogeneo di malattie renali cistiche autosomico-recessive ed è una delle cause
più frequenti d’insufficienza renale terminale (ESRD) in bambini e
giovani adulti (Hildebrandt, 2005). Le cisti si sviluppano prevalentemente a livello della giunzione cortico-midollare e le dimensioni
renali non sono aumentate come nel rene policistico, ma normali o ridotte. Come recentemente ipotizzato (Salomon, 2009),
ciò indicherebbe un maggior peso dell’apoptosi rispetto alla proliferazione cellulare, contrariamente a quanto accade per la PKD.
Alle nozioni classiche, che comprendono la diversa età di esordio
(infantile, giovanile ed adolescenziale) e le numerose mutazioni
descritte a carico di 8 diversi geni per la NPH giovanile (Fig. 2) e
“Cosa resterà di questi anni...?”: un’analisi selettiva della letteratura nefrologica pediatrica dal 2007 al 2009
figura 2.
Geni coinvolti nelle sindromi correlate alla nefronoftisi.
di un unico gene (NPHP-2) per la forma infantile (Salomon, 2009),
si sono aggiunte nuove conoscenze, secondo cui le mutazioni dei
geni NPHP causerebbero non solo le alterazioni renali, ma anche
quelle oculari (retinite pigmentosa), epatiche e cerebrali (Sindrome di Joubert) (Fig. 2). Oltre a quelli sopra citati, numerosi sintomi
extrarenali permettono di porre il sospetto di NPH (Simms 2009)
(Tab. III). A livello operativo appare, quindi, utile la flow chart proposta da Salomon, che utilizza dati clinici e analisi genetiche in
sequenza prestabilita per giungere alla diagnosi differenziale delle diverse forme di NPH (Fig. 3).
Tabella III.
Condizioni extrarenali associate a nefronoftisi.
Malattie oculari/retiniche
Retinite pigmentosa
Aprassia oculomotoria di Cogan
Coloboma
Nistagmo
Ptosi
Malattie Neurologiche
Difficoltà dell’apprendimento
Atassia cerebellare con ipoplasia del verme
Ipopituitarismo
Encefalocele
Malattie epatiche
Aumento degli enzimi epatici
Fibrosi, proliferazione dei dotti biliari
Malattie ossee
Malformazioni epifisarie
Costole corte
Polidattilia post-assiale
Displasia scheletrica
Altro
Situs inversus
Malformazioni cardiache
Bonchiectasie
figura 3.
Flow chart associazione genotipo-fenotipo in caso di sospetto clinico e
radiologico di NPH. I geni NPHP1 e NPHP2 devono essere analizzati in
prima battuta alla ricerca di mutazioni, in base all’età di esordio dell’insufficienza renale terminale. Gli altri geni dovranno essere analizzati
in funzione dei sintomi extra-renali. I geni NPHP3, NPHP4, NPHP7 e
NPHP9 non sono routinariamente analizzati a causa della loro bassa
frequenza di mutazione.
(ESRD: Insufficienza Renale Terminale; RP retinitis pigmentosa)
Da insufficienza renale acuta ad acute kidney injury
L’insufficienza renale acuta (IRA) è un evento di gravità assai variabile, da forme subcliniche, risolvibili con un’adeguata reidratazione,
sino a forme severe, che richiedono dialisi in ambiente di terapia
intensiva. Essa è classicamente definita come una brusca alterazione della capacità del rene di regolare l’omeostasi dei liquidi e degli
elettroliti corporei, potenzialmente reversibile, associata ad un aumento della concentrazione serica della creatininemia. Questa definizione presenta, tuttavia, limiti di genericità, legati alla mancanza di
un accordo sui criteri più idonei a valutare la caduta della funzione
renale, a stabilire il cut-off tra funzione renale normale ed alterata e
a determinare una sua stadiazione.
Per queste ragioni, il nuovo concetto di danno renale acuto (acute
kidney injury, AKI) ha sostituito la vecchia definizione di IRA (Kellum, 2007). L’AKI è stata suddivisa (Tab. IVa) in tre gradi di gravità
crescente (Risk, Injury e Failure) ed in due classi di outcome (Loss
e ESRD), da cui l’acronimo RIFLE, sulla base dell’alterazione della
diuresi e dei livelli di creatinina serica rispetto al valore basale.
I criteri RIFLE hanno dimostrato di possedere, nell’adulto, un’elevata
rilevanza clinica per la diagnosi, per la classificazione della gravità
e per il monitoraggio della progressione dell’AKI, e sono in grado di
predire in modo indipendente la durata del ricovero, i costi di gestione, la morbilità renale e la mortalità acuta (Bagshaw, 2008). Nel
2007, il Network AKI ha proposto una diversa classificazione in tre
stadi di gravità, introducendo alcune modifiche ai criteri RIFLE (Tab.
IVa), con lo scopo di aumentarne la sensibilità diagnostica (Metha,
2007). Non è ancora noto, attualmente, se esistano vantaggi pratici
a favore dell’una o dell’altra classificazione (Bagshaw, 2008; Ozcakar, 2009).
In ambito pediatrico (Tab. IVb), è stata proposta una classificazione
dedicata, la pRIFLE (Akcan-Arikan, 2007), che prevede l’utilizzo della
clearance della creatinina, calcolata tramite formula di Schwartz, invece della sola creatininemia. Un recente studio di Plötz, eseguito su
103 bambini ricoverati in terapia intensiva pediatrica, ha dimostrato
61
A. Mastrangelo et al.
Tabella IV.
Classificazione di AKI negli adulti secondo AKIN e RIFLE (a) e nei bambini secondo pRIFLE (b).
A) Adulti
RIFLE
Classe
AKIN
sCr oGFR
Diuresi
Risk
↑sCr ≥150% o ↓GFR ≥ 25%
< 0,5 ml/kg/h
per ≥ 6 h
Injury
↑sCr ≥ 200% o ↓GFR ≥ 50%
Failure
↑sCr ≥ 300% o sCr ≥ 4,0 mg/dl
con un aumento acuto ≥ 0,5 mg/
dl o ↓GFR ≥ 75%
Loss
Insufficienza > 4 settimane
ESRD
Insufficienza > 3 mesi
Stadio
sCr
Diuresi
I
↑sCr > 0,3 mg/dl o >150200% dal basale
< 0,5 ml/kg/h
per ≥ 6 h
< 0,5 ml/kg/h
per ≥12 h
II
↑sCr > 200-300%
dal basale
< 0,5 ml/kg/h
per ≥12 h
< 0,3 ml/kg/h
per ≥ 24 h
o anuria ≥12 h
III
↑sCr > 300% dal basale
o sCr > 4,0 mg/dl con un
aumento acuto > 0,5 mg/dl
< 0,3 ml/kg/h
per ≥ 24 h
o anuria ≥12 h
Classificazione AKIN: è necessaria una brusca (entro 48h) riduzione della funzione renale
B) Bambini
pRIFLE
Classe
Risk
eCrCl Schwartz
Diuresi
↓eCrCl ≥ 25%
< 0,5 ml/kg/h per ≥ 8 h
Injury
↓eCrCl ≥ 50%
< 0,5 ml/kg/h per ≥ 16 h
Failure
↓eCrCl ≥ 75% o < 35 ml/
min/1,73m2
< 0,3 ml/kg/h per ≥ 24 h o anuria
per ≥ 12 h
Loss
Insufficienza > 4 settimane
ESRD
Insufficienza > 3 mesi
pRIFLE: la eCrCl si basa sulla formula di Schwartz
che la pRIFLE riesce a circostanziare l’AKI in una grande percentuale
dei casi e che il grado di AKI così definito si associa sia alla mortalità
che al rischio di inizio dialisi.
Nonostante questi progressi classificativi, la diagnosi di AKI può
risultare ancora problematica, in quanto gli indici classici utilizzati
(creatininemia, diuresi, frazioni escrete) sono poco sensibili e non
specifici per un’identificazione precoce del danno renale (Parikh,
2008). Da qui la necessità di identificare dei biomarker precoci, atti
a diagnosticare il danno poche ore dopo l’insulto che lo determina,
prima che si rilevi l’insufficienza renale con la misura della diuresi
e della clearance della creatinina, cosa che avviene mediamente
dopo 24-48 h, cosi da mettere in atto tempestivamente le misure
terapeutiche appropriate.
I biomarker di danno renale riconoscono una diversa provenienza nel
contesto del tessuto renale e sono utili, quindi, per evidenziare diversi tipi di danno d’organo. La letteratura recente ha concentrato l’attenzione su alcuni, in particolare. Tra i biomarker riportati in tabella
5, l’NGAL (neutrophil gelatinase-associated lipocalin) si è dimostrato
il parametro più precoce e sensibile di danno renale, soprattutto in
ambito pediatrico e in caso di insulti ischemici (Parikh, 2008). Recenti studi hanno dimostrato che la sua concentrazione serica e urinaria aumenta in maniera significativa già 2 ore dopo un intervento
di bypass cardiopolmonare. Inoltre, nel trapianto renale pediatrico e
nella nefropatia da mezzo di contrasto iodato i livelli urinari e serici
di NGAL si sono dimostrati altamente predittivi, rispettivamente, di
funzionalità tardiva dell’organo e di AKI (Haase, 2009).
Anche il dosaggio urinario dell’interleukina 18 è risultato uno strumento eccellente per differenziare la necrosi tubulare acuta dalle
62
altre cause di AKI, già 6 ore dopo l’insulto ischemico e 24 ore prima
di un aumento della creatinina serica (Parikh, 2008). Essa si è anche dimostrata capace di predire la funzionalità tardiva del rene trapiantato con una sensibilità solo di poco inferiore a quella dell’NGAL
(Parikh, 2004).
Infine, la Kidney Injury Molecule-1 (KIM-1) è risultata utile nel differenziare l’AKI da ischemia dall’IRA prerenale già dopo 12 ore dall’insulto che la determina, candidandosi come biomarker precoce, ma
non quanto NGAL e IL-18 (Parikh, 2008). KIM-1 è, infatti, altamente
espressa sulla membrana delle cellule indifferenziate del tubulo
prossimale dopo danno ischemico o nefrotossico e, di conseguenza,
escreta in abbondanti quantità nelle urine in queste situazioni.
La cistatina C serica è considerata da tempo un buon indicatore di
riduzione della GFR. Un incremento del 50% dei suoi livelli serici
anticipa, infatti, la diagnosi di AKI di circa 24-48 ore rispetto all’aumento della creatininemia (Parikh, 2008).
Malattia renale cronica
Malattia renale cronica (Chronic Kidney Disease, CKD)
e malattia cardiovascolare
Le fasi iniziali della CKD (Tab. VI) sono di norma silenti o caratterizzate da segni e sintomi di difficile interpretazione. È però importante
sapere che un adeguato approccio alla CKD, sin dalle prime fasi, può
condizionare in modo significativo la comparsa di complicanze della
malattia e la sopravvivenza a lungo termine.
È stato, infatti, stimato che i bambini con CKD hanno una mortalità
“Cosa resterà di questi anni...?”: un’analisi selettiva della letteratura nefrologica pediatrica dal 2007 al 2009
Tabella V.
Principali biomarkers di AKI.
Biomarker
Campione
Ischemia
MdC
Sepsi
Trapianto
renale
Kit
commerciale
Diffusione
(Cardio-pulmonary by-pass)
NGAL
Urine
2h dopo CPBP
4h dopo MdC
48h prima di AKI
12-24h dopo
trapianto
ELISA, Abbot
Diffuso
IL-18
Urine
4-6h dopo CPBP
Non testato
48h prima di AKI
12-24h dopo
trapianto
ELISA
Poco diffuso
KIM-1
Urine
12-24h dopo CPBP
Non testato
Non testato
Non testato
ELISA
Laboratori
di ricerca
NGAL
Plasma
2h dopo CPBP
2h dopo MdC
48h prima di AKI
Non testato
ELISA,Biosite
Diffuso
Cistatina C
Plasma
12h dopo CPBP
8h dopo MdC
48h prima di AKI
Variabile
Nefelometria,
Dade-Behring
Molto diffuso
30 volte superiore a quella dei bambini sani di pari età e la malattia
cardiovascolare rappresenta la prima causa di morte nel giovane
che abbia presentato CKD in età pediatrica, con un rischio stimato
circa 700 volte maggiore rispetto a quello della popolazione generale (Foley, 2002).
È noto che la patogenesi del danno cardiovascolare in questo gruppo
di pazienti è dipendente sia da fattori di rischio tradizionali, quali IA,
dislipidemia, obesità e sedentarietà, sia da fattori di rischio specifici dello stato uremico, quali stato infiammatorio cronico, anemia e
alterazioni del metabolismo calcio-fosforo. Inoltre, i fattori di rischio
considerati più importanti per la progressione della CKD sono la
stessa ipertensione e la proteinuria.
A questo proposito, il recente studio randomizzato ESCAPE (ESCAPE
Trial Group, 2009) ha suggerito alcune importanti modifiche nell’approccio al bambino con CKD. I dati più interessanti emersi dallo
studio riguardano, infatti, il rallentamento della progressione della
CKD e la riduzione della proteinuria, tramite terapia con Ramipril,
nei bambini mantenuti a valori di pressione arteriosa inferiori al 50°
percentile, rispetto a coloro che avevano valori pressori tra il 50° e
il 95° percentile.
Per quanto concerne la proteinuria, il Ramipril ne ha determinato nei
primi 6 mesi una riduzione significativa, che si è però ridimensionata
nel tempo, tornando a valori simili a quelli iniziali dopo il terzo anno
di follow up. Gli autori spiegano questo fenomeno con l’attivazione di
sistemi vasoattivi alternativi a quello dell’angiotensina, il cui sistema
di conversione viene inibito dal Ramipril.
Riguardo ai fattori di rischio specifici dello stato uremico, un parametro sul quale si sta concentrando l’attenzione dei nefrologi è il
corretto trattamento dell’anemia. Le linee guida della National Kidney Foundation consigliavano già nel 2006 di mantenere i livelli di
emoglobina tra 11 e 12 gr/dl (National Kidney Foundation: KDOQI
2006). I dati più recenti mostrano però che già nello stadio 2 della
CKD circa il 20% dei bambini presenta un valore di Hb inferiore a
quello consigliato, con un rischio di ospedalizzazione significativamente aumentato (Staples, 2009). La percentuale di bambini anemici aumenta con il peggiorare della funzione renale arrivando al 68%
nello stadio 5 di CKD e, a differenza di quanto in precedenza ritenuto,
l’anemia non migliora neppure dopo trapianto di rene. Responsabile
di questo dato negativo è probabilmente l’uso sempre più diffuso
di farmaci antiproliferativi, ad esempio il micofenolato mofetile, nei
protocolli di immunosoppressione del trapianto.
L’iperparatiroidismo secondario e terziario rappresenta un altro importante fattore di progressione della malattia cardiovascolare nei
bambini con CKD. Come recentemente sottolineato (Bek 2009), nonostante l’impiego di farmaci chelanti il fosforo ed i consigli diete-
tici, la ridotta compliance del bambino e la necessità di mantenere
comunque uno stato di nutrizione adeguato fa sì che circa il 50% dei
bambini che entrano in un programma dialitico abbia un prodotto
calcio-fosforo patologico (> 50) e livelli di paratormone superiori a
300 pg/ml. La conseguenza diretta di quest’alterazione del metabolismo Ca-P è una percentuale di pazienti variabile, ma comunque
superiore al 10%, con calcificazioni tissutali in numerosi organi, in
primo luogo a livello vascolare, con conseguenze dirette sul rischio
di ipertensione e ischemia cardiaca precoce.
La gestione non specialistica del bambino con CKD prevede quindi
uno stretto monitoraggio e un controllo accurato dei valori di pressione arteriosa. Tra i farmaci di primo impiego, gli ACE inibitori si
confermano utili sia per l’azione antipertensiva, sia per l’effetto antiproteinurico, con risultati sulla progressione dell’insufficienza renale.
Obiettivo del pediatra deve quindi essere quello di collaborare con lo
specialista per garantire la compliance dietetica e farmacologica del
bambino così da minimizzare gli effetti della malattia renale sull’apparato cardiovascolare e traghettare il bambino/adolescente verso
l’età adulta con il minor numero di comorbidità possibili.
La stima del Filtrato Glomerulare (GFR) per la diagnosi
e il monitoraggio della CKD
Ottenere una stima precisa del GFR è importante per la diagnosi
di CKD, specie negli stadi 1 e 2 (Tab. VI), sia per fornire al paziente ed alla famiglia informazioni sulla evoluzione e la prognosi della
malattia, sia per impostare le misure farmacologiche e dietetiche
necessarie per contrastarne la progressione, sia, non da ultimo, per
consentire una corretta programmazione delle risorse economiche
da destinare al trattamento sostitutivo.
La clearance dell’inulina è sempre stata considerata il metodo di
riferimento per la determinazione del GFR, nell’adulto come nel
Tabella VI.
Stadi della malattia renale cronica (National Kidney Foundation.
K/DOQI 2002).
Stadio
Descrizione
GFR
1
Danno renale con GFR normale o ↑
≥ 90
2
Danno renale con lieve ↓ del GFR
60-89
3
Moderata ↓ del GFR
30-59
4
Severa ↓ del GFR
5
Insufficienza renale terminale
(ml/min/1,73 m2)
15-29
<15 (o dialisi)
63
A. Mastrangelo et al.
figura 4.
Formula per il calcolo della clearance della creatinina tramite creatinina, cistatina C e BUN.
bambino. Tuttavia, a causa della complessità del metodo, negli ultimi anni ha preso piede l’utilizzo di traccianti esogeni, quali il Cr51EDTA, lo ioexolo e lo iotalamato. L’impiego clinico routinario di tali
markers rimane comunque estremamente limitato, principalmente
per l’elevata invasività, i costi e il tempo necessario per l’esecuzione
degli esami (Schwartz, 2010).
Ad oggi, il marker più utilizzato per la stima della funzione renale è
ancora la creatinina, misurata mediante autoanalyzer. Tra i markers
endogeni alternativi alla creatinina, uno dei più interessanti è la cistatina C, una proteasi di 13kDa prodotta da tutte le cellule nucleate
dell’organismo. In diversi studi, la cistatina C serica si è dimostrata
superiore alla creatinina per la stima del GFR, essendo indipendente
dall’età e dal sesso. La stima del GFR basato sulla cistatina C risente
comunque di alcune limitazioni che devono essere tenute presenti, quali l’interferenza della terapia corticosteroidea e dell’indice di
massa corporea (Roos, 2007). L’impiego di tecniche meno invasive,
sempre auspicabili in ambito pediatrico, quali la determinazione della
cistatina C su prelievo capillare, non ha però dato, per il momento, i
risultati attesi (van Deutekom 2010). Schwartz ha di recente proposto
una formula che comprende la cistatina C oltre a creatinina e BUN (Fig.
4); la complessità e il numero delle costanti utilizzate rendono però
tale formula difficilmente impiegabile nella routine clinica (Schwartz
2009), a meno di utilizzare un apposito software di calcolo.
La formula classica di Schwartz è invece, dalla metà degli anni 70,
la più utilizzata in ambito pediatrico per la stima del GFR. L’uso di
nuovi kit di laboratorio per la determinazione della creatinina serica
ha reso peraltro necessario un suo aggiornamento e la sostituzione
delle due costanti precedentemente impiegate (0.55 nei bambini e
0.43 nei lattanti) con una unica costante per tutte le età:
eGFR = 0.413 x altezza (cm)
sCreatinina (mg/dl)
In un lavoro pubblicato nel corso del 2010, Staples ha testato la
nuova formula semplificata di Schwartz su un campione numeroso di bambini, valutandone l’accuratezza e la precisione sulla base
dell’età e del grado di insufficienza renale. La stima del GFR è risultata soddisfacente per i bambini sopra l’anno di vita e nei bambini
con stadio di CKD superiore a 2; nei lattanti e nei bambini con CKD1
si sono verificate, invece, rispettivamente una sovrastima (bias medio +9.1 ml/min) e una sottostima (bias medio - 9.1 ml/min) significative del GFR di cui bisogna tener conto nella pratica clinica.
Non esiste quindi al momento una formula semplice e del tutto affidabile per la stima del GFR al letto del paziente e, nonostante i
numerosi limiti, la stima del GFR mediante la formula semplificata di
Schwartz rappresenta ad oggi il miglior compromesso tra l’esigenza
di ottenere una valutazione attendibile del GFR e la facilità d’uso.
Il ricorso a metodiche invasive che sfruttano marcatori esogeni è comunque indispensabile quando si voglia ottenere una stima precisa
della filtrazione glomerulare.
Box di orientamento
Programming dell’ipertensione arteriosa e della malattia cardiovascolare
Il periodo prenatale e quello perinatale rappresentano una finestra critica all’interno della quale l’ambiente può modificare stabilmente il programming
pressorio attraverso meccanismi epigenetici, determinando, già in età pediatrica, ma soprattutto a lungo termine nell’età adulta, lo sviluppo di ipertensione e malattia cardio-vascolare. Un attento monitoraggio della crescita del feto e del neonato, che garantisca gli apporti energetici più corretti per le
loro esigenze, e la misurazione della PA nei bambini e giovani adolescenti di basso peso alla nascita rappresentano importanti misure preventive.
Genetica delle nefropatie
Nella diagnosi della sindrome emolitico-uremica atipica sono state identificate mutazioni a carico dei geni che codificano per fattori di regolazione della
cascata complementare. È stata proposta una nuova classificazione della malattia e sono, inoltre, disponibili linee guida su diagnosi e trattamento delle
varie forme di SEU atipica.
Alcune malattie genetiche frequenti e note da tempo, quali ad esempio il rene policistico e la nefronoftisi e altre meno note quali la sindrome di BardetBiedl, sono state inserite in un nuovo schema classificativo sotto il termine comune di ciliopatie. Il fattore comune è, infatti, rappresentato da alterazioni
a carico del ciglio primario delle cellule.
È in corso la sperimentazione di protocolli terapeutici per rallentare lo sviluppo di cisti renali nell’ADPKD: i farmaci in cui si ripone maggiore speranza
sono la rapamicina e l’octreotide.
Acute kidney injury
La definizione di insufficienza renale acuta ha lasciato il posto al concetto di danno renale acuto (AKI). Nuovi biomarker, tra cui NGAL, IL-18, KIM-1, si
sono dimostrati in grado di individuare l’AKI dopo poche ore dall’evento scatenante. NGAL rimane il più precoce ed accurato a questo scopo. Da studi
recenti, la cistatina-C si è dimostrata altrettanto accurata e più precoce della creatininemia nella stima della riduzione acuta del GFR.
Malattia renale cronica e malattia cardio-vascolare
Le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte dei pazienti con CKD. Anche se il danno cardiovascolare diventa evidente nell’età
di giovane adulto, le prime alterazioni a carico del sistema cardiovascolare (calcificazioni vascolari) si instaurano nel bambino con CKD già durante i
primi anni di malattia. Il mantenimento dei valori di pressione arteriosa al di sotto del 50° percentile ed il monitoraggio dei principali fattori di rischio
(anemia, iperparatiroidismo) possono consentire un rallentamento nella progressione dell’insufficienza renale.
Il pediatra deve essere in grado di riconoscere e classificare i diversi gradi di CKD, e a questo scopo la valutazione del GFR è fondamentale. Nonostante
l’identificazione di nuovi marcatori esogeni ed endogeni, ad oggi la stima del GFR mediante la nuova formula di Schwartz rappresenta l’unica metodica
realmente impiegabile in ambito clinico.
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“Cosa resterà di questi anni...?”: un’analisi selettiva della letteratura nefrologica pediatrica dal 2007 al 2009
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syndrome emolitico-uremica atipica. Comprende una piccolo sezione introduttiva, è
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Comprende un’analisi dei sistemi regolatori coinvolti (renina-angiotensina, cellule staminali, asse ipotalamo-ipofisi-surrene, sistema nervoso autonomo) e una
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Corrispondenza
Antonio Mastrangelo, U.O.C. Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Clinica Pediatrica De Marchi, via Commenda 9, 20122 Milano. E-mail: [email protected]
65
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 66-74
NEFRoLoGIA
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica
in età pediatrica
Alberto Magnasco, Gianluca Caridi*, Francesco Perfumo, Gian Marco Ghiggeri
U.O. Nefrologia, Dialisi e Trapianto; * Laboratorio Fisiopatologia dell’Uremia, Istituto Giannina Gaslini, Genova
Riassunto
La sindrome nefrosica idiopatica (iNS) è la più frequente malattia glomerulare del bambino ed è di frequente osservazione da parte del pediatra per la
cronicità che la caratterizza e per la frequenza di forme recidivanti con scarsa o limitata risposta ai farmaci.
Nella revisione che segue viene presentata una sintesi degli aspetti clinici, terapeutici e fisiopatologici, in considerazione del fatto che il tema generale è
troppo ampio per una trattazione dettagliata. Verranno presi in considerazione aspetti clinici in relazione alla diagnostica e verrà proposta una flow chart
diagnostica semplificata che prevede, nei casi di resistenza alle terapie, una valutazione istologica e, sulla base dei riscontri, una successiva fase di analisi
molecolare mirata. È chiaro che le evoluzioni tecnologiche nell’ambito del sequenziamento del DNA potranno nel breve cambiare tale approccio rendendo
la diagnostica molecolare necessaria come primo step alla diagnosi. Relativamente agli aspetti terapeutici viene presentata una sintesi delle principali
terapie adottate fino ad oggi con un cenno ad alcune terapie innovative, che sembrano promettere risultati importanti. Saranno, infine, delineate le principali
idee relative ai meccanismi patogenetici implicati nel danno renale che, pur nella loro incompletezza, hanno avuto il merito di mettere in evidenza come
il podocita abbia un ruolo centrale ed hanno permesso di identificare un gruppo di condizioni il cui meccanismo è legato a sue alterazioni strutturali. Più
recentemente sono stati proposti meccanismi extra-renali, legati ad una anomala attivazione dell’immunità innata (radicali liberi dell’ossigeno, uPAR) dove
appare ragionevole il ruolo di cellule figurate del sangue quali i linfociti T regolatori ed i linfociti B. L’intento è di fornire, in breve, un’aggiornata revisione
delle evoluzioni in tema di sindrome nefrosica focalizzando aspetti che sembrano più di altri attuali e significativi.
Summary
Idiopathic nephrotic syndrome (iNS) is the most frequent glomerular disease in children. This condition often requires the intervention of the general pediatrician for the frequent occurrence of relapses and for prolonged necessity of therapeutic approaches.
This review tries to condensate an outline on major clinical and pathological aspects of iNS that includes diagnostic issues, therapy and mechanisms. We
propose a simplified flow chart that addresses the differential diagnosis in cases with resistance to drugs but it is clear that technology improvements in the
field of DNA sequencing would rapidly change this aspect and make molecular diagnosis a first step. Therapeutical approaches to iNS follows consolidated
schemes developed in early sixty’s and employ association of steroids with immuno-depressors and/or calcineurin inhibitors. Validation of new drugs is,
however, in progress and would appear in next months.
In the last decade, progress on pathogenesis of familial iNS has been impressive and the panel of genes implicated (excluding syndromes) has almost
reached the number of ten. Altogether, genetic advances point out the implication of podocyte in iNS and contributed to describe functional aspects related
to ultrafiltration of proteins. Finally, extra-renal factors have been hypothesized from time on the basis of indirect evidence. Recent works contributed to
their identification and probably new actors would appear on the scenario in a near future.
Metodologia della ricerca bibliografica
La metodologia di ricerca bibliografica è consistita nelle seguenti fasi:
1. ampia discussione tra gli autori per identificare cosa fosse maggiormente cambiato negli ultimi anni nella pratica clinica nel campo
della sindrome nefrosica;
2. questi argomenti principali (hot spots) sono stati oggetto di una
ricerca bibliografica effettuata sulle banche classiche (Medline, PubMed) utilizzando come parole chiave nephrotic syndrome e mantenendo come profilo le categorie di: genetics, therapy, pathogenesis;
3. è stata, infine, presa in rassegna la parte cartacea delle seguenti riviste
degli ultimi tre anni: Pediatric Nephrology, Pediatrics, Journal of Pediatrics,
Journal of American Society of Nephrology, Kidney International, Current
Opinions in Nephrology and Hypertension e Seminars in Nephrology.
Introduzione
La sindrome nefrosica idiopatica (iNS) è la più frequente malattia
glomerulare del bambino e rappresenta un’importante causa di
66
morbidità in età pediatrica. Con un’incidenza di 2-7 casi/anno ed
una prevalenza di circa 16 casi/anno per 100.000 bambini (McKinney et al., 2001; Fletcher et al., 2004), essa si situa, peraltro, al limite
di definizione delle malattie rare o a bassa frequenza, ma diventa di
frequente osservazione da parte del pediatra per la cronicità che la
caratterizza e per la frequente insistenza di forme a bassa risposta
ai farmaci, che presentano recidive ripetute.
È una condizione clinica eterogenea caratterizzata da differenti varianti istologiche e/o da determinanti genetiche che ne definiscono
la risposta terapeutica. La malattia ha una più alta frequenza in età
prescolare e tende a scomparire spontaneamente dopo la pubertà
nelle forme a più alta sensibilità alla terapia e con istologia meno
complicata. L’evoluzione verso l’insufficienza renale non è frequente
ed è direttamente correlata con la mancata o parziale risposta alle
combinazioni terapeutiche (steroidi e vari immunosoppressori) che
sempre più si sono affinate negli anni.
Nei paragrafi che seguono abbiamo tentato di riportare in maniera
sintetica i temi in evoluzione pertinenti alla clinica, terapia e fisiopatologia della malattia, utilizzando come metodo riferimenti non
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica
ordinati e brevi trattazioni, ben consci che il tema generale sia troppo ampio e richieda spazi maggiori. Per una lettura dettagliata si
rimanda pertanto alla letteratura dedicata.
Definizioni e parole chiave
Sindrome nefrosica: è definita dalla concomitanza di proteinuria importante (> 3,5 gr/24 ore per l’adulto e ≥ 40 mg/mq/ora per il bambino), ipoalbuminemia, edema ed iperlipemia. Possono associarsi
disordini elettrolitici, tendenza al tromboembolismo e complicanze
infettive.
Varianti riguardo all’età di insorgenza. L’età di insorgenza della sindrome nefrosica modifica in maniera sostanziale la prognosi della
malattia, a causa soprattutto di un’alta incidenza di forme genetiche
(e come tali con scarsa o nulla risposta alla terapia) ad insorgenza
nel primo anno di vita. Il limite che può definire differenti quadri
patologici può essere stabilito al primo anno di vita (Tab. I), al di
sotto del quale la causa genetica è più probabile (80% dei casi). Le
forme ad insorgenza entro i primi 3 mesi (SN congenita) presenta-
no prognosi infausta e sono storicamente state trattate come forme
a sé, spesso coincidendo con la sindrome nefrosica di tipi finnico
(causata da mutazione della nefrina NPHS1) (Benoit et al., 2010).
Con l’evolvere dei test molecolari, oggi sappiamo che non esiste
un limite preciso d’insorgenza e di gravità per le forme da causa
genetica e pertanto la distinzione fra variante congenita ed infantile
appare artefattuale e poco utile a fini clinici.
Varianti istologiche. Semplificando la materia si possono individuare
4 quadri istologici osservabili in corso di iNS (Fig. 1). Essi comprendono due quadri più frequenti, quali l’assenza di lesioni glomerulari
documentabili alla microscopia ottica (lesioni minime), e la presenza
di lesioni sclerotiche segmentarie e focali (glomerulosclerosi focaleFSGS). Quadri meno frequenti sono associati alla presenza di collasso glomerulare per presenza di proliferazione degli epiteli della
capsula del Bowman (collapsing glomerulopathy) ed alla sclerosi
mesangiale diffusa (DMS) che caratterizza alcune varianti di malattia genetica.
L’inquadramento istologico della iNS è stato, in passato, al centro
dell’attenzione dei nefrologi, laddove si pensava che la presenza di
Tabella I.
Geni coinvolti nella sindrome nefrosica famigliare, forme sporadiche isolate e sindromi associate.
Gene
Locus
Proteina
Ereditarietà
Istologia
prevalente
#OMIM
Sindrome Nefrosica di tipo 1 (Tipo Finnico)
NPHS1
19q13.1
Nefrina
AR
DMS,
microcisti
#602716
Sindrome Nefrosica Steroido-Resistente
di tipo 2
NPHS2
1q25-31
Podocina
AR
FSGS
#604766
Sindrome Nefrosica Steroido-Resistente
di tipo 3
PLCE1
10q23
Fosfolipasi C epsilon 1
AR
DMS
#610725
Sindrome di Denys-Drash
WT1
11p13
Gene del tumore di Wilms 1
AD
DMS
#194080
Sindrome di Frasier
WT1
11p13
Gene del tumore di Wilms 1
AD
FSGS
#136680
Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria
di tipo 1
ACTN4
19q13
Alfa-Actinina 4
AD
FSGS
#603278
Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria
di tipo 2
TRPC6
11q21-22
Canale cationico non
selettivo, omologo 6
AD
FSGS
#603965
Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria
di tipo 3
CD2AP
6p12
Proteina associata al CD2
AR/AD
FSGS
#607832
Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria
di tipo 4
APOL12
22q12.3
Apolipoproteina L
AD
FSGS
*603743
Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria
di tipo 5
INF
14q32
Proteina regolatrice
dell’actina, Famiglie della
Formina
AD
FSGS
*613237
SMARCAL1
2q34-q36
Proteina “SWI/SNF”correlata, sottofamiglia tipo
1 associata alla matrice
AR
FSGS
#242900
Sindromi
Sindrome di Schimke (Diplasia immunoossea)
Sindrome di Pierson
LAMB2
3p21
Laminina beta 2
AR
FSGS
#609049
Deficit del Coenzima Q2
COQ2
4q21-q22
ParaidrossibenzoatoPoliprenilbenzoato
AR
FSGS,
Collapsing
#607426
Sindrome di Leight
PDSS2
6q21
Sub-unità 2 Decaprenil
Difosfato Sintasi
AR
FSGS,
Collapsing
#607426
SCARB2/
LIMP2
4q13-q21
Scavenger Receptor Class
B, Member 2
AR
FSGS
#254900
AMRF syndrome
(Action Myoclonus-Renal Failure syndrome)
Abbreviazioni: AR: Autosomico Recessivo; AD: Autosomico Dominante; DMS: Sclerosi Mesangiale Diffusa; FSGS: Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria; FSGS Collapsing:
Glomerulosclerosi Focale e Segmentaria tipo “collassante”
67
A. Magnasco et al.
figura 1.
Principali quadri istologici causativi di sindrome nefrosica.
Sono riportate nella figure gli aspetti più tipici relativi alle quattro forme riscontrabili in corso di sindrome nefrosica idiopatica insorta in età pediatrica. La più frequente è la forma nota come ‘Lesioni Minime’ che non presenta depositi immuni nel glomerulo né alterazioni evidenziabili all’istologia
classica. La forma istologica nota come ‘Glomerulosclerosi Focale’ è caratterizzata da focolai di degenerazione sclerotica interessanti localmente
zone segmentarie di alcuni glomeruli. Una variante rara di glomerulo sclerosi focale presenta, in associazione alle lesioni di cui sopra, collasso del
glomerulo in genere associato a proliferazione dell’epitelio della capsula di Bowman. Infine, la Sclerosi Mesangiale Diffusa è una variante più rara
rispetto alle precedenti caratterizzata da diffusa proliferazione della matrice mesangiale.
lesioni glomerulo-sclerotiche potesse rappresentare un elemento
prognostico negativo. In tal senso, la biopsia renale veniva proposta
precocemente nella diagnostica di tutte le forme a prescindere dalla
risposta terapeutica, ovvero si consigliava anche in presenza di una
semplice farmacodipendenza. L’istologia renale influenzava pertanto
la condotta terapeutica in termini di scelta del farmaco e di insistenza nelle terapie. L’attuale visione tiene conto del fatto che le lesioni
sclerotiche focali a carico del glomerulo possono rappresentare una
forma evolutiva di situazioni originariamente caratterizzate da lesioni minime. Attualmente si considera che il peso delle varianti terapeutiche (corticosensibilità o corticoresistenza) nel determinare la
strategia debba essere preponderante rispetto al quadro istologico e
che l’assenza di lesioni sclerotiche deponga semmai per la precocità
del danno e debba indurre a decisioni terapeutiche preventive più
ostinate (Webb et al., 1996; Gulati et al., 2002; Stadermann, 2003).
La disponibilità di una valutazione istologica è, invece, essenziale
per i programmi terapeutici delle forme resistenti agli steroidi. In
particolar modo, la biopsia renale farà escludere forme patologiche
68
su base autoimmune, quali la glomerulonefrite membranosa, peraltro rara in età pediatrica, per le quali sarà necessaria l’adozione di
schemi terapeutici alternativi. Un caso a se è la sindrome nefrosica
insorta sotto il primo anno di età, nel qual caso la biopsia renale è
consigliata come primo approccio diagnostico in quanto serve ad
indirizzare la diagnosi verso i diversi tipi di malattie su base genetica
(80% dei casi).
Più in generale, sembra sempre più proponibile una visione avanzata che pone la biopsia renale quale tappa intermedia che possa
compendiare le definizioni di ‘variante terapeutica’ e ‘variante genetica’ e possa correttamente indirizzare la diagnostica molecolare.
Tale necessità è essenzialmente motivata dal sempre più frequente
riscontro di forme genetiche di malattia che presentano quasi totalmente resistenza ai farmaci. In altre parole, in presenza di quadri
istologici peculiari di malattia genetica, si potrà attivare una diagnostica molecolare mirata e facilitare la definitiva diagnosi. Sta pertanto prendendo corpo l’idea di una flow chart diagnostica semplificata che prevede, nei casi di resistenza alle terapie, una valutazione
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica
figure 2.
Lo slit diaphragm podocitario.
Lo ‘slit diaphragm’ podocitario rappresenta l’unità funzionale responsabile dell’ultrafiltrazione delle proteine plasmatiche. Essa è conformata
come un setaccio formato dall’interazione di proteine ad espressione
renale quali la nefrina e la Neph1. Si tratta di proteine a struttura IgGlike e ad espansione extra-cellulare. Tale struttura richiede proteine di
ancoraggio quali la podocina ed il CD2AP. Mutazioni a carico delle proteine qui riportate sono causative di sindrome nefrosica con caratteristiche di farmaco-resistenza.
istologica e, sulla base dei riscontri, una successiva fase di analisi
molecolare mirata (vedi paragrafo dedicato).
Come la genetica sta cambiando l’approccio
alla sindrome nefrosica
Le più recenti evoluzioni in tema di iNS riguardano la marcata
componente genetica associata alla malattia quando è riscontrata
entro il 1° anno di età (Caridi et al., 2005; Caridi et al., 2010).
Significativa è anche l’origine genetica della iNS ad insorgenza
sotto i 16 anni, limite entro il quale ne è stimabile l’origine molecolare in circa il 15-20% dei casi. La maggior parte dei geni
causativi della iNS codifica per proteine a localizzazione a livello
dei podociti renali, che formano nel loro insieme quella struttura
specializzata che conferisce l’impermeabilità alle proteine seriche,
meglio nota come ‘slit-diaphragm’ (Fig. 2). La complessa struttura
cellulare che conferisce al rene l’impermeabilità al passaggio delle
proteine coinvolge anche componenti del citoscheletro podocitario
che interagiscono con lo ’slit-diaphragm’ per mezzo di mediatori
attivati dalla fosforilazione.
Nella Tabella I, sono elencati i geni fino ad oggi riconosciuti responsabili di iNS. A partire dal 1998, data di caratterizzazione del primo
gene (NPHS1), la lista ha raggiunto rapidamente complessità e numerosi sono stati i geni caratterizzati nello spazio di un decennio. La
caratterizzazione dell’NPHS1, gene codificante per la nefrina, che è
la principale componente dello slit-diaphragm, ha avuto un impatto
epocale nella ricerca sulla iNS, in quanto ha chiarito come la malattia sia determinata da alterazioni della cellula podocitaria e non,
come precedentemente ritenuto, da alterazione della membrana basale glomerulare. L’impatto clinico dell’identificazione della nefrina è
stato peraltro riguardevole in quanto è stata definitivamente chiarita
la causa della forma più grave di iNS ad esordio neonatale, nota
come sindrome nefrosica finnica (Caridi et al., 2009).
Tale scoperta ha dato modo di proseguire nell’identificazione di altri
geni podocitari responsabili di iNS, che sono appunto rappresentati da molecole di membrana che interagiscono intimamente con la
nefrina, quali la podocina (NPHS2) ed il CD2AP (Caridi et al., 2003).
Sono riconoscibili nella tabella anche componenti localizzate sulla
superficie del podocita quali il TRCP6, che è un canale del Ca++,
così come proteine del citoscheletro, quali la actinina 4, la formina
e SMARCAL. Un ruolo a parte hanno i geni mitocondriali coinvolti
nella iNS, in quanto sono più propriamente classificabili all’interno
delle forme sindromiche di malattia. L’interessamento di un gene
mitocondriale è ad oggi considerato evento raro, sebbene la lista
sia in rapido aggiornamento. Originariamente, a partire dal 1990,
erano stati riconosciuti difetti del DNA mitocondriale (a singola elica), mentre più recentemente sono state osservate mutazioni del
DNA nucleare (a doppia elica) codificante per proteine mitocondriali,
in genere enzimi del ciclo respiratorio o antiossidanti, che seguono
una genetica propriamente mendeliana (Caridi et al., 2010; Benoit
et al., 2010).
È chiaro che le notevoli evoluzioni conoscitive sull’argomento hanno
profondamente cambiato l’approccio clinico alla malattia ed hanno
posto, di fatto, la necessità di utilizzare farmaci potenzialmente tossici solo nei pazienti in cui è escludibile una genesi molecolare. In altre parole, poiché tutte le condizioni note legate alla causa genetica
non possono essere modificate dalle terapie, sembra necessaria la
loro esclusione prima di effettuare tentativi terapeutici con farmaci
potenzialmente tossici anche per altri organi ed apparati. Tale aspetto richiede attenzione e discussione da parte dei clinici in quanto
non tutti hanno accesso ad una diagnostica molecolare avanzata.
Una possibile risposta sarebbe la creazione di circuiti diagnostici
che possano essere attivati in tempo reale così da fornire una diagnostica efficiente. Una ragionevole alternativa è quella di basare la
diagnostica sul complesso istologia/genetica una volta determinata
una resistenza ai farmaci utilizzati come primo approccio terapeutico ovvero gli steroidi. Tale possibilità ha indotto a delineare una
flow chart diagnostica (vedi paragrafo dedicato) utilizzata da una
parte dei centri di nefrologia pediatrica, basata su una ragionevole
combinazione di procedure cliniche ed istologiche tali da limitare la
richiesta di tests molecolari (notoriamente ad alto costo e di lenta
esecuzione) e rendere disponibile una diagnostica accurata in un
arco di tempo non superiore a due mesi.
Flow-chart diagnostica
La sequenza delle tecniche diagnostiche da utilizzare in presenza di
una iNS resistente al trattamento con steroidi prevede l’accertamento bioptico appena documentata la resistenza e prima di associare
Tabella II.
Definizioni della sindrome nefrosica.
Sindrome nefrosica idiopatica
Congenita
Esordio entro i 3 mesi di vita
Infantile
Esordio tra i 3 e i 12 mesi di vita
Familiare
Stesso tipo istologico in due o più componenti del nucleo familiare
Sindromica
Sindrome Nefrosica associata a manifestazioni sindromi che extrarenali
69
A. Magnasco et al.
figure 3.
Flow-chart diagnostica per la sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica.
La crescente lista di geni implicati nella sindrome nefrosica rende, per
ora, difficile l’analisi molecolare di tutti i geni implicati. Una possibilità è
quella di stabilire una priorità dell’indagine molecolare sulla base degli
aspetti istologici in quanto molte delle forme associate a danno genetico presentano una forma istologica ripetitiva. In tal senso è proposto
uno schema diagnostico che prevede l’analisi di geni differenti per quadri istologici differenti. Nello specifico sono individuabili geni diversi per
almeno tre differenti classi istologiche i cui dettagli sono qui riportati.
gli inibitori delle calcineurine. L’utilità di tale prassi risiede nel poter
limitare il numero delle indagini molecolari a geni la cui implicazione
sia stata correlata ad un peculiare quadro istologico. È chiaro che
gli attuali sviluppi delle tecniche di sequenziamento del DNA fanno intravedere la possibilità di analisi multiple che potrebbe coprire
l’intero spettro dei potenziali geni implicati nella iNS. Risulterebbe
obsoleta, in tal caso, la proposta di flow-chart diagnostica qui riportata, ma che proponiamo in attesa di evoluzioni. Nella Figura 3
sono riportate le più frequenti associazioni fra geni e quadri istologici della sindrome nefrosica. In presenza di una sclerosi mesangiale
diffusa (DMS) i geni da valutare sono NPHS1, PLCE1 e WT1 quest’ultimo causativo delle sindromi di Denys-Drash/Frasier. I primi due
candidati non sono di facile esecuzione in quanto sono costituiti da
26 e 29 esoni rispettivamente. Più semplice è l’analisi di mutazioni
di WT1 in quanto occorrono a carico di due soli esoni (8 e 9). In
presenza di glomerulosclerosi focale (FSGS) i geni di interesse sono
NPHS2 e WT1, in questo caso con mutazioni a carico degli esoni 8
e 9 e rispettive giunzioni introniche. Infine, in presenza di lesioni
istologiche a carico dei mitocondri, alla microscopia elettronica, la
diagnostica verte su tre geni per ora noti, ovvero sul DNA mitocondriale e sui due geni mendeliani COQ2 e PDSS.
Quando il problema è di competenza del nefrologo
pediatra
La gestione del primo episodio di iNS prevede l’ospedalizzazione del
paziente in un reparto di pediatria generale per una più agevole gestione dell’edema e delle possibili complicazioni della malattia (vedi
capitoli successivi). La gestione delle recidive, che sono di frequente
osservazione, e soprattutto delle corticodipendenze, dovrebbe essere competenza del nefrologo pediatra, in quanto prevede asso-
70
ciazioni terapeutiche con farmaci immunosoppressori e soprattutto
schemi terapeutici continuativi che possono avere effetti collaterali
e tossicità. Una corretta interpretazione e modulazione terapeutica
con farmaci biologici deve essere supportata da esperienza che solo
la gestione quotidiana di numerosi pazienti fa acquisire. Sembra
infine prudente che la gestione dei casi con resistenza ai farmaci
avvenga in ambito specialistico per le problematiche diagnostiche e
terapeutiche sopra riportate, che richiedono l’applicazione di tecniche invasive e la messa a punto di metodologie di analisi e di terapie
sofisticate. L’interessamento del nefrologo pediatra è pertanto auspicabile nelle due situazioni sotto riportate e che fanno riferimento
a quanto sopra detto:
• per la diagnosi delle forme con mancata o scarsa sensibilità
alla terapia, situazione che richiede la disponibilità di un team con
esperienza nelle biopsie renali ed un laboratorio di immunopatologia renale adeguato. Quando richiesto, è anche necessario avere a
disposizione un servizio di microscopia elettronica che possa dirimere una accurata diagnostica nell’ambito delle alterazioni mitocondriali. Per quanto riguarda la diagnostica molecolare, è possibile
avere accesso a laboratori che tradizionalmente hanno esperienza
sull’argomento, ma la diagnostica va guidata dai dati istologici ed è
necessario un coordinamento stretto fra le varie unità diagnostiche
(vedi flow-chart diagnostica).
• per un’impostazione delle terapie di secondo livello. È noto come i
farmaci di secondo livello utilizzati nella iNS richiedano un’adeguata
esperienza per una corretta gestione. La tossicità renale e neurologica degli inibitori delle calcineurine va, per esempio, monitorata
con schemi codificati e controllati, e può richiedere biopsia renale ed
esperienza in campo istologico per valutare correttamente i segni di
nefrotossicità, qualora si eccedano i livelli terapeutici.
Un discorso a sé richiedono i farmaci biologici di nuovo sviluppo quali
gli anticorpi umanizzati anti-CD20. Essi sono di recente introduzione
nella terapia della iNS con dipendenza severa ai farmaci convenzionali
e saranno probabilmente di più ampio utilizzo anche in forme meno
importanti. L’uso di anticorpi anti-CD20 va riservato a specialisti che
abbiano sviluppato esperienza nel campo e che abbiano la possibilità
di valutare i risultati in coorti controllate di pazienti. Un problema che
sta nascendo con l’uso dei farmaci biologici è il trattamento delle recidive, in quanto appare sempre più evidente che essi modificano la
sensibilità ai farmaci canonici. In altre parole, un paziente con dipendenza ad alti dosaggi di steroide e ciclosporina può sviluppare dopo
anti-CD20 una maggior sensibilità e dovrà necessariamente essere
trattato con schemi che sono attualmente in evoluzione.
Verso schemi terapeutici unificati
Un’analisi dettagliata degli approcci terapeutici alla SN esce dagli
scopi della presente revisione. Va da sé che dovrebbero essere adottati schemi unificati e condivisi dalla comunità scientifica, sia per la
terapia del primo evento sia per le recidive. In attesa di un risultato
concreto da parte degli specialisti, proponiamo di seguito un breve
riassunto delle terapie ad oggi utilizzate.
Primo episodio: Gli steroidi per os rappresentano la base della terapia del primo episodio di iNS. La risposta al loro impiego permette
di distinguere le forme corticosensibili, di gran lunga più frequenti
(fino al 90% dei casi), dalle forme corticoresistenti. Gli obiettivi della
terapia sono 1) indurre la remissione, 2) mantenere la remissione e
3) minimizzare gli effetti collaterali dei corticosteroidi.
L’ISKDC (International Study for Kidney Disease in Children) ha introdotto per primo il concetto di un trattamento standardizzato per
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica
i pazienti al primo episodio di SN alla fine degli anni ’60. Da allora,
seppur con alcune modifiche, questo protocollo è ancora in uso. Il
protocollo prevedeva prednisone alla dose di 60 mg/mq/die (dose
massima 80 mg/die) per 28 giorni, seguito da prednisone 40 mg/
mq/a giorni alterni per altri 28 giorni. Il prednisone veniva sospeso
senza ulteriori riduzioni graduali.
La risposta alla terapia steroidea era indicata dalla scomparsa della
proteinuria, che nella maggioranza dei pazienti (80%) avveniva entro i primi 14 giorni. I bambini che andavano in remissione entro i
primi 28 giorni di trattamento definivano la categoria della sindrome
nefrosica corticosensibile. I bambini che non rispondevano in questo
arco di tempo erano considerati affetti da sindrome nefrosica corticoresistente, che richiedeva quindi ulteriori approcci terapeutici.
Studi successivi hanno documentato che maggiore era la durata del
trattamento al primo episodio, maggiore era l’associazione con remissioni di lunga durata ed un ridotto numero di recidive successivo
(Ehrich et al., 1993; Hodson et al., 2005; Vivarelli et al., 2010).
Tuttavia i dati disponibili non possono essere considerati definitivi
e sufficienti per determinare la durata ottimale del 1° episodio al
fine di ridurre il numero delle recidive. Sono in programma studi
mirati alla definizione del problema. Due proposte operative stanno
prendendo corpo in Italia, per mano di consorzi ad ambito regionale.
Comunque i dati della Cochrane library indicherebbero già da ora,
che il trattamento del 1° episodio di iNS non dovrebbe essere inferiore a 3 mesi e 1/2.
Recidive/Dipendenze terapeutiche: Le recidive sono caratterizzate
dalla rapida ricomparsa di proteinuria massiva, più spesso riscontrata attraverso il controllo quotidiano a domicilio mediante stick urinari. Possono intervenire una volta completata la terapia cortisonica
o in corso della stessa a dosi decrescenti, nel qual caso si definisce
una condizione di corticodipendenza. La comparsa di una recidiva
nelle forme di iNS con corticosensibilità deve essere attesa in oltre il
70% dei pazienti; la dipendenza è più rara ma copre una significativa porzione di questi pazienti. All’esordio della malattia non vi sono
elementi prognostici che permettano di stabilire se il paziente avrà
un singolo episodio di iNS oppure svilupperà nel tempo una forma
con frequenti recidive, anche se una rapida risposta al primo trattamento e l’età d’esordio più avanzata ne predicono un migliore andamento clinico (Vivarelli et al., 2010). Il trattamento standard della
recidiva prevede prednisone 60 mg/mq al giorno (dose massima 80
mg/die) fino alla scomparsa della proteinuria, seguito da prednisone
40 mg/mq a giorni alterni per 28 giorni; una riduzione successiva
potrà essere attivata e completata entro un mese o più, a seconda
del decorso della malattia.
I bambini che presentano recidive infrequenti (meno di due in 6 mesi
o meno di quattro in 1 anno) possono essere trattati con cicli ripetuti
come sopra riportato. Quelli con recidive frequenti e più ancora quelli con dipendenza per livelli medio-alti di cortisone rappresentano
invece un problema ancora aperto, nonostante alcuni schemi siano
stati proposti e adottati nel corso degli anni. Il primo tentativo terapeutico in genere è rappresentato da un ciclo lungo di terapia cortisonica a giorni alterni, alla minima dose possibile. Ciò può essere
attuato nei soggetti che non presentano segni di tossicità da steroidi
e si verifica in genere a dosaggi inferiori a 0,5-0,7 mg/kg/48h. Purtroppo gli steroidi determinano numerosi effetti collaterali, per cui è
necessario un programma di controlli ben definito, che riguardi la
crescita e lo sviluppo pubere, controlli oculistici, verifica dello stato
di mineralizzazione ossea e dell’omeostasi glicemica.
In presenza di tossicità steroidea, verranno prese in considerazione
terapie immunomodulatrici con farmaci quali levamisolo, agenti al-
chilanti (ad esempio ciclofosfamide), ciclosporina/tacrolimus, micofenolato, ognuna delle quali ha avuto negli anni variabile attenzione
ed alterne fortune. Riteniamo che per la presenza in letteratura di
segnalazioni contrastanti (Alsaran et al., 2001; Davin et al., 2005;
Hogg et al., 2006) e per la mancanza di dati certi di attività, l’uso del
levamisolo sia da ritenere ancora in discussione. Inoltre, la frequente
insorgenza di vasculiti che ne complicano la gestione a lungo termine rappresenta un elemento di rischio clinico rilevante.
Gli agenti alchilanti e/o la ciclofosfamide hanno un ruolo importante nel trattamento dei casi meno gravi (recidive frequenti e modeste
corticodipendenze) e danno una risposta positiva in circa il 40% dei
casi (ISKDC, Kyrieleis et al., 2007), ma con il passare degli anni il numero dei soggetti che mantengono la remissione completa tende progressivamente a ridursi. Gli inibitori delle calcineurine (ciclosporina/
tacrolimus) hanno un ruolo centrale soprattutto nelle corticodipendenze medio-alte (dose necessaria di steroide > 0,5 mg/kg/die) e hanno
una alta probabilità di mantenere una stabile remissione (Latta et al.,
2001; Vester et al., 2003). Per lunghi trattamenti, soprattutto in casi
con tossicità da steroidi e/o immunosopressori, è in via di perfezionamento l’uso di Rituximab, anticorpo monoclonale umanizzato verso
CD20. Tale approccio è stato sviluppato partendo da osservazioni casuali ed ha ottenuto la definitiva conferma di efficacia nel primo trial
terapeutico randomizzato multicentrico (Ravani et al., 2011, in press).
Resistenza agli steroidi: La corticoresistenza è definita come l’assenza di remissione dopo un ciclo di terapia orale con prednisone
alla dose di 60 mg/mq/die per 1 mese, seguito da 3 boli di metilprednisolone alla dose di 1 g/1,73 m2.. Per altri autori, la corticoresistenza è definita da schemi più lunghi di corticoterapia per via orale,
1 mese e 1/2 o 2 mesi, eventualmente completata da 3 boli di MPLS.
In presenza di resistenza agli steroidi è necessario in prima battuta
sospettare una forma di malattia genetica ed attivare la flow-chart
diagnostica già illustrata. Il rischio di evoluzione di queste forme verso l’insufficienza renale giustifica il ricorso a trattamenti aggressivi.
Gli approcci terapeutici proposti sono stati numerosi anche se i risultati nella globalità non si sono mai discostati molto nei diversi tipi
di terapia (Hodson et al., 2008; Chemli et al., 2009). Lo schema più
comunemente accettato prevede uno o più cicli con metilprednisolone per via venosa (3 boli da 10mg/kg) associato a prednisone per os
e ad inibitori delle calcineurine (ciclosporina e tacrolimus).
Dosaggi/Schemi terapeutici:
a) ciclofosfamide, per via orale, alla dose di 2-2,5 mg/kg/die, senza
superare una dose cumulativa di 180 mg/kg, per evitare il danno
gonadico, ha fornito risultati molto variabili, con una differenza significativa tra le forme corticoresistenti a lesioni minime alla biopsia,
rispetto a quelle che presentavano una glomerulosclerosi focale. La
ciclofosfamide è stata riportata essere più efficace nell’indurre la
remissione quando usata per bolo endovenoso una volta al mese per
6 mesi, tuttavia l’analisi dei dati della letteratura dimostrerebbe una
maggiore efficacia nelle forme di CR secondaria, rispetto alle forme
di CR iniziale (Bajpai et al., 2003). Una metanalisi ha dimostrato una
diminuzione significativa del rischio di infezioni e di complicanze
ematologiche con la somministrazione per via endovenosa rispetto
al trattamento per via orale. In definitiva, l’impiego della ciclofosfamide, almeno nei paesi industrializzati, è limitato alla sindrome nefrosica corticodipendente o a frequenti recidive.
b) chlorambucil, alla dose di 0,1-0,3 mg/kg/die per 8-10 settimane,
è stato utilizzato meno frequentemente per i maggiori rischi di complicazioni, con risultati molto variabili e mai superiori alla ciclofosfamide. Le indicazioni sono le medesime della ciclofosfamide.
71
A. Magnasco et al.
c) ciclosporina, gli studi controllati e randomizzati hanno dimostrato
un tasso di remissione della proteinuria dal 45 al 60% nelle forme
a lesioni minime, contro un 30-45% delle FSGS. Un elemento negativo è rappresentato dalla elevata frequenza delle ricadute dopo la
sospensione del trattamento, il che porta a trattamenti prolungati
con un aumento del rischio di effetti secondari indesiderati, quali
nefrotossicità, ipertricosi, neurotossicità, ipertensione (Niaudet et al.,
1994; Seikaly et al., 2000; Singh et al., 1999).
d) tacrolimus, è stato utilizzato sia in monoterapia che in associazione con steroidi con risultati sovrapponibili o di poco migliori rispetto
alla ciclosporina. Per quanto riguarda gli effetti collaterali, sono stati
riportati minore neurotossicità, iperplasia gengivale, ipertensione rispetto alla ciclosporina, con nefrotossicità sostanzialmente sovrapponibile, si aggiunge però il rischio di diabete mellito (Sinha et al.,
2006).
e) micofenolato mofetile (MMF), è stato utilizzato nelle forme con
corticodipendenza ma i risultati sono variabili. L’uso del MMF in generale non sembra aver apportato un miglioramento significativo nel
trattamento dei pazienti con corticodipendenza o in presenza di CR
(Barletta et al., 2003; Gellermann et al. 2004; Moudgil et al., 2005;
Ulinski et al., 2005). L’utilità del MMF è apprezzabile sopratutto nei
casi corticodipendenti di alto livello trattati per molti anni con ciclosporina, nei quali l’introduzione del MMF permette di ridurne il
dosaggio, riducendo così la nefrotossicità.
Tralasciamo i commenti su altri farmaci quali l’azatioprina, la mizoribina, la vincristina, o metodiche più complesse quali la plasmaferesi
e l’immunoadsorbimento.
Un ruolo a parte svolgono gli ACE-inibitori e gli antagonisti del recettore dell’angiotensina. La revisione dei risultati di numerosi studi
dimostra che la somministrazione di questi farmaci permette una
riduzione della proteinuria che in media si aggira sul 40-50% senza
effetti collaterali significativi (Wolf et al., 2005). Essi posono quindi
essere utilizzati nelle SN corticoresistenti e resistenti agli immunosoppressori per ridurre l’edema e le complicanze idroelettrolitiche e
trombotiche derivanti dalla proteinuria elevata.
Terapie innovative
Facciamo essenzialmente riferimento al Rituximab (RTX), che è stato
introdotto nel trattamento della iNS con sensibilità/dipendenza all’associazione fra sterodi ed inibitori delle calcineurine. Le osservazioni
iniziali circa l’uso di RTX in tali condizioni facevano riferimento a casi
aneddotici o piccole coorti di pazienti con i limiti che ne derivano per
una chiara dimostrazione dell’effetto. Lo studio randomizzato italiano
appena terminato ha dimostrato la capacità del farmaco di indurre
prolungata remissione, che permette in molti casi lo svezzamento
dalla terapia steroidea e dalla ciclosporina per tempi variabili fra 2
e 30 mesi. È evidente come nel caso di una remissione permanente
di 30 mesi (long lasting remission, LLR) il farmaco sia fortemente
indicato, ma resta il fatto che non è predicibile, sulla base dei dati
clinici, la risposta individuale. La più frequente risposta nella casistica
dello studio randomizzato italiano è stata una remissione di durata
intermedia fra 5 e 10 mesi, che è stata definita come ‘mild lasting
remission, MLR’, che pure permette lo svezzamento dai farmaci canonici per un periodo significativo. Sono attualmente in elaborazione
schemi terapeutici differenziati, in caso di LLR e/o MLR, che contemplano successivi boli di RTX (massimo 4) in associazione con farmaci
immunomodulatori a basso dosaggio. L’attuale attenzione va rivolta
alle complicanze a lungo termine del RTX, in particolare alla pur rara
forma di pneumopatia maligna, peraltro generalmente fino ad ora
riportata in patologie complesse e solo in un caso di iNS.
72
Cenni sui meccanismi patogenetici
Sebbene ricerche interessanti siano in fase di sviluppo, i meccanismi
responsabili della iNS non sono ancora stati del tutto chiariti. Come
già ampiamente discusso, la genetica della iNS ha avuto un grande
sviluppo nel decennio 2000-2010 ed ha permesso di mettere in evidenza numerosi geni podocitari causativi della malattia. Nell’insieme,
i dati derivati dalla scoperta di mutazioni genetiche sottolineano come
il podocita abbia un ruolo centrale nell’ultrafiltrazione delle proteine
plasmatiche. Questo ha permesso di identificare un primo gruppo di
iNS il cui meccanismo è legato ad alterazioni strutturali del rene.
Un secondo gruppo di iNS è causato da fattori extra-renali e la dimostrazione della loro esistenza è basata sull’alta frequenza di recidiva di malattia dopo trapianto renale. La recidiva post-trapianto è spesso rapida e ad
evoluzione infausta, ma può rispondere a tecniche di rimozione di fattori
plasmatici tramite plasmaferesi o immunofissazione con proteina A. Ed è
proprio dall’osservazione che la malattia può recidivare dopo sostituzione
dell’organo che origina la teoria dell’esistenza di fattori plasmatici che
permangono nel sangue anche dopo trapianto di rene ed inducono la
recidiva. Ad oggi l’identità dei fattori plasmatici non è nota e sembrano
perdurare problemi tecnologici che ne impediscono una caratterizzazione a breve (Musante et al., 2001; Ulinski, 2010; McCarthy et al. 2010).
Evoluzioni recenti puntano a definire meccanismi legati all’immunità innata ed alla sua regolazione da parte delle cellule figurate del sangue. Il
primo riferimento è alla implicazione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS),
che rappresentano i più immediati effettori dell’immunità innata e sono
aumentati in corso di iNS. Oltre alla dimostrazione di un’alta produzione
dinamica da parte dei neutrofili, esiste ampia documentazione della loro
attività nelle proteine plasmatiche e nei sistemi tamponi che sono attivati in loro presenza. L’osservazione forse più pertinente è che l’albumina
serica, che è il maggior scavenger di ROS, è marcatamente ossidata nei
pazienti con iNS. La tossicità dei ROS sulle membrane plasmatiche è
peraltro ben nota e tale da far ipotizzare un danno podocitario da ossidazione (Musante et al., 2007; Bertelli et al., 2010).
È interessante sottolineare come l’immunità innata, e come tale i
ROS che di essa sono effettori, sia regolata da un complesso di interazione fra cellule, dove i linfociti T-reg hanno un ruolo centrale.
A supporto del ruolo dei T-reg nella iNS è la nota associazione fra
mutazioni di FoxP3 nell’uomo, causative di IPEX (Immunodeficiency,
Polyendocrinopathy, Enteropathy X-linked) e la sindrome nefrosica.
Sta inoltre consolidandosi il concetto fisiopatologico che la sindrome
nefrosica sperimentale occorra in presenza di alterazioni dei linfociti
T-reg e che questa scompaia dopo terapia cellulare mirata.
È, infine, importante sottolineare come il successo terapeutico del
rituximab suggerisca l’implicazione di cellule CD20 nella patogenesi
della malattia. Tale osservazione va pertanto a modificare il concetto fisiopatologico sinora affermato dell’implicazione esclusiva delle
cellule T nella iNS. L’importanza di questa osservazione casuale potrà quindi modificare nei prossimi anni i concetti fisiopatologici e gli
approcci sperimentali alla malattia.
Ringraziamenti
Ringraziamo il Ministero Italiano della Salute, la Renal Child Foundation,
la Fondazione Mara Wilma e Bianca Querci, la Fondazione La Nuova
Speranza per il costante supporto economico allo studio della sindrome
nefrosica. Gli autori desiderano, inoltre, ricordare la prof.ssa Rosanna
Gusmano, recentemente scomparsa, per tutto quello che ha saputo
trasmettere nel corso degli anni, per il continuo aiuto e per l’esempio
di attaccamento al lavoro e alla ricerca unito ad una grande sensibilità nei confronti dei bambini.
Hot spots sulla sindrome nefrosica idiopatica in età pediatrica
Box di orientamento
L’approccio tradizionale alla sindrome nefrosica prevede un inquadramento clinico riferito principalmente alla risposta ai farmaci steroidei ed in caso
di resistenza l’inquadramento istologico e l’associazione degli steroidi con immunodepressori. Le recenti evoluzioni sulla sindrome nefrosica famigliare
hanno permesso l’identificazione di numerosi geni implicati nella malattia ed hanno posto la necessità di un parallelo schema diagnostico molecolare.
La numerosità dei geni potenziali, i costi ed i tempi richiesti nell’indagine molecolare ci porta a proporre una flow-chart diagnostica intermedia basata
sulla nota ricorrenza di quadri istologici riferibili a mutazioni di geni podocitari.
La terapia della iNS rimane invariata per quanto riguarda le fasi iniziali in cui è previsto l’uso di steroidi ed eventuali associazioni con immunodepressori.
Nei casi di reiterata dipendenza a tali farmaci ed in caso di tossicità è in via di validazione uno schema terapeutico con farmaci biologici.
La patogenesi della iNS è in fase di definizione per quanto riguarda le proteine dl podocita implicate nella malattia. Fattori extra-renali sono stati
prospettati ma per ora non definiti in maniera organica. La loro scoperta porterà ad avanzamento terapeutici che rimangono ancora incompleti nelle
forme resistenti.
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Corrispondenza
Gian Marco Ghiggeri, UO Nefrologia, Dialisi e Trapianto, Istituto Giannina Gaslini, largo Gaslini 5, 16148 Genova. E-mail: [email protected]
74
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 75-82
NEFRoLoGIA
Difetti del riassorbimento tubulare del sodio
e del magnesio
Francesco Emma*, Giacomo Di Zazzo*, Chiara Amoruso** ***, Alberto Bettinelli**
* Unità Operativa Complessa di Nefrologia e Dialisi, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma;
**
Struttura Complessa di Pediatria, Ospedale San Leopoldo Mandic, Merate; *** Clinica Pediatrica,
Ospedale Del Ponte, Università Dell’Insubria, Varese
Riassunto
Negli ultimi anni, gli studi di genetica molecolare si sono rivelati essenziali per un migliore inquadramento diagnostico di varie malattie renali tubulari e
sono state proposte nuove classificazioni. In questa review, gli autori si propongono di riassumere le acquisizioni recenti sui meccanismi molecolari di
riassorbimento del NaCl e del Mg nel tubulo renale ed alcune novità cliniche riguardo le relative sindromi renali tubulari ereditarie. In particolare sono state
considerate le sindromi di Bartter, Gitelman, gli pseudoipoaldosteronismi, la sindrome di Gordon, il deficit di 11 β-steroido-deidrogenasi, la sindrome di
Liddle e le varie forme di ipomagnesiemia di origine renale.
Summary
In recent years, molecular studies have demonstrated to be essential for the diagnosis of various renal tubular disorders and new classifications have been
proposed. In this review the authors summarize the recent advances on the molecular mechanisms of renal NaCl and Mg transport and on the understanding of related hereditary tubular diseases. Specifically, diseases that are described include Bartter and Gitelman syndromes, pseudohypoaldosteronism,
Gordon syndrome, 11 β-steroido-dehydrogenase deficiency, Liddle syndrome and genetic forms of renal hypomagnesemia.
Metodologia della ricerca bibliografica
Dal momento che si tratta di malattie rare (alcune rarissime) l’aggiornamento è basato su tutti gli articoli comparsi su PubMed negli
ultimi 5 anni relativi alle tubulopatie oggetto dello studio.
Introduzione
In questa review, gli autori si propongono di riassumere le acquisizioni recenti sui meccanismi molecolari di riassorbimento del NaCl
e del Mg nel tubulo renale ed alcune novità cliniche nelle relative
sindromi renali tubulari. Si tratta di sindromi rare con variabilità molto importante sia nell’età di esordio (dal periodo neonatale all’età
adulta) che nella sintomatologia (da segni/sintomi tipici dell’ipopotassiemia e/o ipomagnesiemia ad alterazioni più generiche quali lo
scarso accrescimento staturo ponderale e/o la poliuria). A volte la
diagnosi di tubulopatia renale è secondaria al riscontro di ipopotassiemia, casualmente osservata in seguito ad esami di routine. I
difetti nei sistemi di trasporto che operano questi processi sono alla
base di tubulopatie genetiche caratterizzate da eccessiva perdita
o riassorbimento di NaCl e/o di Mg (Chadha, 2009; Konrad, 2008;
Scheinman 1999).
L’energia utilizzata per questi sistemi di trasporto deriva generalmente dal gradiente elettrochimico creato dalla pompa Na-K-ATPasi,
grazie all’idrolisi di ATP in ADP; in alcuni casi, il trasporto è mediato
direttamente dall’idrolisi di ATP, come nel caso della H+-ATPasi. Per
generare il riassorbimento transcellulare di ioni ed altre molecole
organiche, le cellule esprimono canali selettivi che consentono il
trasporto secondario, sfruttando la differenza di potenziale elettrochimico creata dai trasportatori primari sopra-citati. In caso venga
trasportata una sola sostanza, questi canali vengono detti “uniporti”
(canali del Na o del K, per esempio). Il “cotrasporto” indica invece il
trasporto simultaneo di due soluti che si muovono nella stessa direzione in caso di “sinporti” (sinporto Na-Cl, per esempio) o in direzioni
opposte in caso di “antiporti” (antiporto Cl-HCO3, per esempio). Nel
cotrasporto, il passaggio selettivo di una delle due sostanze è mediato dal gradiente elettrochimico esistente attraverso la membrana
cellulare, il quale genera l’energia necessaria al trasporto contro
gradiente dell’altro soluto.
Questa review si concentra sui segmenti intermedi e distali del tubulo renale. È importante tuttavia ricordare che il 60% circa del Na
filtrato è riassorbito a livello del tubulo prossimale. Gli altri segmenti
coinvolti nel riassorbimento di Na sono riassunti nella Figura 1 e
comprendono il tratto spesso dell’ansa ascendente di Henle (AAH),
il tubulo contorto distale (TCD) ed i dotti collettori nella loro porzione
corticale (DCC).
Circa il 25% del Na filtrato è riassorbito nel AAH mediante il sinporto
elettroneutro Na-K-2Cl (NKCC2), bloccato dalla furosemide e dagli altri
diuretici dell’ansa. L’attività di questo sinporto è associato al riciclo di
K verso il lume tubulare, mediato dal canale ROMK, che genera un
gradiente elettrico positivo fra il lume tubulare e l’interstizio. A livello
basolaterale, la pompa Na-K-ATPasi ed i canali anionici ClC-Ka e ClCKb, associati alla loro sub-unità regolatrice denominata “barttina”,
consentono l’efflusso di ioni Na e Cl. L’attivazione sinergica di questi
sistemi di trasporto determina pertanto una iperosmolarità dell’interstizio renale e crea il gradiente osmotico essenziale al riassorbimento di acqua nel tubulo collettore, mediato dall’ormone anti-diuretico.
Inoltre, consente il riassorbimento paracelullare di Ca e Mg lungo il
gradiente elettrochimico creato fra il lume tubulare e l’interstizio.
Nel TCD, il sinporto Na-Cl (NDCC), sensibile ai diuretici tiazidici,
media il riassorbimento di circa 5-10% del NaCl filtrato. L’efflusso
basolaterale è mediato dalla Na-K-ATPasi e dal canale anionico ClCKb/barttina.
75
F. Emma et al.
figura 1.
Rappresentazione schematica dei principali sistemi di trasporto presenti nell’ansa ascendente di Henle, nel tubulo contorto distale e nel tubulo
collettore corticale.
Vedi testo per dettagli.
Infine, una quantità variabile del Na rimanente nel lume tubulare
è riassorbito nel DCC, in funzione delle concentrazioni circolanti di
aldosterone. In questo segmento del nefrone sono presenti 3 tipi
di cellule: le cellule principali, le cellule α-intercalate e le cellule
β-intercalate. Nelle cellule principali l’aldosterone esercita la sua
azione stimolando il recettore ai mineralocorticoidi (RM), inibito dallo
spironolactone. L’attivazione del RM stimola a sua volta l’espressione
del canale di membrana ENaC, deputato al trasporto di Na e bloccato
dall’amiloride, e, in sinergia con il canale ROMK e la Na-K-ATPasi,
determina un incremento del riassorbimento di Na e la secrezione di
K. Indirettamente viene stimolata l’attività delle cellule α-intercalate,
responsabili della secrezione di ioni H+ tramite una pompa H+-ATPasi
apicale. Ne consegue che negli stati di iperaldosteronismo (primari o
secondari) si sviluppa generalmente un’alcalosi ipokaliemica. All’inverso, gli stati di ipoaldosteronismo (primario o pseudoipoaldosteronismo) sono caratterizzati da acidosi iperkaliemica.
Il riassorbimento di Mg avviene principalmente nell’AAH e nel TCD
tramite riassorbimento cellulare o paracellulare.
I diuretici come modello di malattia
I diuretici utilizzati nella pratica clinica inibiscono a diversi livelli del
tubulo renale il riassorbimento di NaCl, riproducendo le alterazioni
funzionali causate da mutazioni genetiche dei sistemi di trasporto
che inibiscono.
La furosemide ed i diuretici dell’ansa bloccano il riassorbimento di
Na nell’AAH, causando, oltre alla perdita urinaria di NaCl, inibizione
del potere di concentrazione urinaria, ipercalcuria e perdita urinaria
di magnesio. Ne consegue un iperaldosteronismo secondario con
alcalosi ipokaliemica.
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I tiazidici bloccano invece il riassorbimento di NaCl nel TCD; pertanto, non hanno lo stesso potere nell’inibire i sistemi di concentrazione
delle urine (sistema a contro-corrente), ma generano egualmente
un’alcalosi ipokaliemica secondaria ad iperaldosteronismo secondario. Inoltre, l’inibizione prolungata del riassorbimento di NaCl in
questo segmento tubulare stimola il riassorbimento di Ca e la secrezione di Mg, causando ipomagnesemia e, a differenza della furosemide, ipocalciuria.
Lo spironolactone e l’amiloride bloccano direttamente o indirettamente l’azione dell’aldosterone, causando ipernatriuria associata ed
acidosi iperkaliemica.
Dal punto di vista genetico, i difetti di riassorbimento di NaCl nel
AAH determinano la sindrome di Bartter classica (fenotipo “similfurosemide”), i difetti genetici di riassorbimento di NaCl nel TCD
corrispondono alla sindrome di Gitelman (fenotipo “simil tiazidici”)
ed i difetti genetici di riassorbimento di NaCl nel DCC sono alla base
degli stati di pseudo-ipoaldosteronismo (fenotipo “simil-spironolactone”). In alcuni casi il difetto interessa diversi segmenti del tubulo
(mutazioni delle proteine ClC-Kb o barttina) ed il fenotipo clinico è
“intermedio” o “cumulativo” (fenotipo “simil-furosemide+tiazidici”).
All’inverso, mutazioni genetiche che incrementano il riassorbimento
di Na nel TCD e nel DCC causano rispettivamente la sindrome di
Gordon e gli stati di pseudo-iperaldosteronismo (che includono la
sindrome di Liddle).
I difetti di riassorbimento del Mg costituiscono invece un gruppo
eterogeneo di malattie, alcune delle quali sono inquadrabili nei
fenotipi “simil-furosemide” e “simil-tiazidici” sopramenzionati;
altre sono causate da mutazioni di specifiche proteine che intervengono nel trasporto di cationi divalenti (Mg++ e Ca++) o del solo
ione Mg.
Difetti del riassorbimento tubulare del sodio e del magnesio
Difetti di riassorbimento del Na nel AAH e nel TCD:
sindrome di Bartter e sindrome di Gitelman (Tab. I)
Ambedue queste sindromi sono caratterizzate da eccessiva perdita urinaria di NaCl associate ad iperreninemia, iperaldosteronismo
secondario ed ipokaliemia. La calciuria è un elemento importante
nella diagnosi differenziale. Salvo eccezioni, la pressione arteriosa è
sempre normale o bassa.
La sindrome di Bartter riconosce almeno 5 genotipi per mutazioni
nei geni SLC12A1, che codifica per il sinporto Na-K-2Cl (Bartter 1),
KCNJ1, che codifica per il canale ROMK (Bartter 2), CLCNKB che
codifica per il canale ClC-Kb (Bartter 3), BSND 4, che codifica per la
sub-unità “barttina” (Bartter 4) e la forma digenica CLCNKA/CLCNKB
(Bartter 5) (Fig. 1, Tab. I) (Seyberth, 2008).
Le forme neonatali comprendono le sindromi di Bartter tipo I, II e le
sindromi tipo IV e V, molto rare. Le caratteristiche principali sono il
polidramnios e la prematurità. La poliuria alla nascita può essere
molto intensa e richiedere sostituzioni di volumi molto importanti
di liquidi e sali nelle prime settimane di vita tramite sondino nasogastrico ed infusioni endovenose (fino anche a 600-800 ml/Kg/24h).
I pazienti hanno generalmente un fenotipo caratterizzato da facies
triangolare, fronte ampia e prominente, occhi grandi, scarse masse
muscolari. Nelle forme di tipo I e II si sviluppa nelle prime settimane
o nei primi mesi di vita una nefrocalcinosi secondaria all’ipercalciuria
intensa. Inoltre, pazienti con mutazioni della proteina ROMK (Bartter
II) possono presentare nel periodo neonatale una kaliemia normale
o anche aumentata per una relativa resistenza all’aldosterone. Nelle
forme di tipo IV e V, in cui il difetto molecolare si estende dall’AAH al
TCD, la poliuria e la perdita di NaCl è particolarmente importante (effetto cumulativo “simil-furosemide+tiazide”); l’escrezione urinaria
di calcio è, invece, moderata per neutralizzazione dell’ipercalciuria
“simil-furosemide” generata nell’AAH dall’ipocalciuria “simil-tiazide” risultante dal difetto di riassorbimento nel TCD; la nefrocalcinosi
è pertanto generalmente assente. Queste forme sono inoltre caratterizzate da sordità neurosensoriale severa; le proteine ClC-Ka, ClC-Kb
e barttina sono infatti espresse anche a livello dell’orecchio interno
dove interagiscono con altri trasportatori per mantenere un’elevata concentrazione di potassio nell’endolinfa (Seyberth, 2008). Sono
stati descritti casi eccezionali di malattia digenica secondaria a delezioni che interessano entrambi i canali ClC-Ka e ClC-Kb (sindrome
di Bartter di tipo V); il fenotipo è sovrapponibile a quello dei pazienti
con sindrome di Bartter di tipo IV.
Nelle forme non congenite, i sintomi compaiono nei primi anni di vita
e sono legati alla diuresi intensa associata a sottoidratazione cronica;
essi includono poliuria, polidipsia, vomito, stipsi, tendenza alla disidratazione e ritardo di crescita; generalmente le mutazioni interessano
la proteina ClC-Kb (sindrome di Bartter tipo III). La minor severità del
fenotipo è attribuibile, almeno in parte, alla possibilità di compenso
del difetto di trasporto di Cl tramite il canale ClC-Ka (Fig. 1). Anche in
questo caso, l’ipercalciuria e la nefrocalcinosi sono spesso moderate
o assenti, mentre può essere presente ipomagnesemia, rendendo difficile la diagnosi differenziale con la sindrome di Gitelman.
Quest’ultima sindrome ha un esordio nell’età scolare o nel giovane
adulto con comparsa di astenia e crisi tetaniche ipomagnesiemiche;
può anche rimanere asintomatica ed essere scoperta occasionalmente nel corso di esami di laboratorio. Dal punto di vista biologico,
è sempre associata ad ipocalciuria; benché asintomatica, l’ipopotassemia è probabilmente presente già nei primi mesi di vita e anche nel periodo neonatale, come recentemente descritto in alcuni
case-report (Tammaro, 2010). Sia l’ipomagnesiemia che l’ipocalciuria, tipiche della sindrome di Gitelman, non hanno ancora trovato
spiegazioni conclusive (Knoers, 2009).
Contrariamente alla sindrome di Bartter, la sindrome di Gitelman è
verosimilmente monogenica; tutte le mutazioni descritte finora coinvolgono il gene SLC12A3, codificante per il sinporto Na-Cl del TCD;
sono note oltre 180 mutazioni (Vargas-Poussou, 2011) con alcune zone
Tabella I.
Classificazione delle Sindromi di Bartter e Gitelman.
Sindrome
Gene
Proteina
Localizzazione
principale
OMIM* no.
Principali dati biochimici, strumentali e sintomi
Bartter I
SLC12A1
NKCC2
(cotrasportatore Na+K+-2Cl-)
AAH°
241200
IpoK, alcalosi metabolica, iper-reninemia in
normotensione; nefrocalcinosi; parto pre-termine,
polidramnios, crampi muscolari, astenia
Bartter II
KCNJ1
ROMK (canale del K+)
AAH°
601678
IperK neonatale, seguita da IpoK, alcalosi metabolica,
iper-reninemia in normotensione; nefrocalcinosi; parto
pre-termine, polidramnios, crampi muscolari, astenia
Bartter III
CLCNKB
ClC-Kb (canale del Cl-)
AAH°, TCD°°
602023
IpoK, alcalosi metabolica, iper-reninemia in
normotensione; deficit accrescimento, crampi
muscolari, astenia
Bartter IV
BSND
Barttina (subunità b di
ClC-Ka/ClC-Kb)
AAH°/ orecchio
interno
602522
IpoK, alcalosi metabolica, iper-reninemia in
normotensione; sordità, insufficienza renale cronica,
deficit accrescimento, crampi muscolari, astenia
CLC-Ka e CLC-Kb
AAH°, TCD°°
orecchio interno
601198
IpoK, alcalosi metabolica, iper-reninemia in
normotensione; sordità, insufficienza renale cronica,
deficit accrescimento, crampi muscolari, astenia
NCCT (cotrasportatore
Na+-Cl-)
TCD°°
263800
IpoK, alcalosi metabolica, iper-reninemia in
normotensione, ipomagnesiemia, ipocalciuria; tetania,
crampi muscolari, astenia
Bartter V** CLCNKA and CLCNKB
Gitelman
SLC12A3
* OMIM = Online Mendelian Inheritance in Man,database:htt://www.ncbi.nlm.nih.gov/Omim
° TAL = Tratto Ascendente dell’Ansa di Henle
°° TCD = Tubulo Convoluto Distale
** Sindrome digenica
77
F. Emma et al.
“hotspots”, ma non sono state riportate evidenti correlazioni genotipofenotipo (Herrero-Morín, 2010). Contrariamente alle sindromi di Bartter
neonatali, il potere di concentrazione urinaria è generalmente intatto o
solo lievemente compromesso nella sindrome di Gitelman; pertanto,
sintomi legati a disidratazione sono generalmente assenti.
Nelle urine, l’eliminazione di Na, K, e Cl è sempre aumentata. La
frazione escreta* del K è generalmente maggiore del 15%, quella
del Cl e del Na superano generalmente 1.5%; la frazione escreta
del magnesio è superiore al 4% nelle forme ipermagnesuriche, in
particolare nella sindrome di Gitelman.
Quando invece l’alcalosi ipokaliemica è associata a ridotta escrezione urinaria di NaCl, la perdita di elettroliti è extrarenale; in questi
casi è necessario escludere altre fonti di perdita di elettroliti, in particolare la fibrosi cistica.
Malgrado gli indubbi progressi nella comprensione di queste malattie, la terapia è rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi 30
anni. In entrambe le sindromi, le terapie si basano su supplementazioni di KCl per mantenere la kaliemia > 3 mEq/l, associate o meno
a supplementi di NaCl nelle forme di Bartter severe. Nella sindrome
di Bartter gli inibitori della sintesi delle prostaglandine (indometacina, ibuprofene) rappresentano farmaci sintomatici di prima scelta.
In particolare, l’indometacina è tuttora considerato il farmaco più
indicato (dosaggio 0,5-4 mg/kg/die) essendo in grado di ridurre la
poliuria e l’ipercalciuria, di migliorare la potassiemia e l’accrescimento staturo-ponderale. Nella sindrome di Gitelman con ipopotassiemia severa si possono utilizzare diuretici risparmiatori di potassio
quali lo spironolattone (25-300 mg) e l’amiloride (5-30 mg) (Colussi,
1994). Questi farmaci devono invece essere evitati nella sindrome
di Bartter, soprattutto nelle forme neonatali, a causa della poliuria
intensa e della sottoidratazione di questi pazienti. Se iniziate precocemente, queste terapie consentono alla maggior parte dei pazienti
con sindrome di Bartter di raggiungere una statura definitiva normale, anche se vi è spesso un ritardo puberale (Brochard, 2009). Benché siano stati descritti pochi pazienti, soggetti con Bartter di tipo IV
sembrano avere un ritardo di crescita staturo-ponderale maggiore.
La possibilità di caratterizzazione genetica ha consentito negli ultimi anni di definire meglio la prognosi a medio-lungo termine dei vari
sotto-tipi di sindrome di Bartter (Puricelli, 2010; Bettinelli, 2007; Brochard, 2009). Solo pochi pazienti con sindrome di Bartter di tipo I, II
e III, hanno un filtrato glomerulare ridotto all’età di 15-20 anni, e non
necessitano quasi mai di trattamento dialitico. Nelle forme di tipo IV,
casi di insufficienza renale sono stati descritti più frequentemente.
Le ipopotassiemie severe possono essere responsabili, sia nella sindrome di Bartter che in quella di Gitelman, seppure eccezionalmente, aritmie cardiache e/o crisi di rabdomiolisi (Cortesi, 2010).
Recentemente è stata anche rivalutata la prognosi a lungo termine della sindrome di Gitelman. Casi di insufficienza renale cronica sono eccezionali. Alcuni lavori su soggetti adulti hanno infine riportato alterazioni
della qualità di vita assimilabili, per impatto sulle attività quotidiane, ad
alterazioni osservate in soggetti affetti da malattie croniche più severe,
quali diabete mellito o scompenso cardiaco (Cruz, 2001); altri studi su
soggetti più giovani affetti da sindrome di Gitelman non confermano
tuttavia questo dato (Herrero-Morín, 2010).
Difetti di riassorbimento del Na nel DCC:
pseudoipoaldosteronismo tipo 1
Lo pseudoipoaldosteronismo renale di tipo 1 (PHA1) è una patologia
caratterizzata da una resistenza primitiva del rene all’azione dei mineralcorticoidi, la cui espressione clinica è variabile.
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Ad oggi sono state descritte due forme genetiche trasmesse per modalità autosomica dominante o recessiva. La variante più frequente,
autosomica dominante o sporadica (anche denominata “forma renale”), è secondaria a mutazioni inattivanti del gene NR3C2, che codifica per il RM. La forma autosomica recessiva (anche denominata
“forma generalizzata”) è associata invece a mutazioni delle subunità
α, β o γ del canale ENaC del sodio. Entrambe le forme sono caratterizzate da una resistenza del tubulo collettore all’azione dell’aldosterone con perdita di sali; nella forma autosomica recessiva, tuttavia,
questa interessa anche altri organi quali colon, ghiandole salivari e
sudoripare.
Nella maggior parte dei casi, i pazienti con forma renale presentano una perdita urinaria di sali più marcata nel periodo neonatale,
associata ad iperkaliemia, acidosi metabolica ed a livelli aumentati
di renina ed aldosterone plasmatici. Nei primi mesi di vita questi
lattanti tendono a perdere peso o a crescere con difficoltà ed a disidratarsi più facilmente. I sintomi migliorano durante il primo anno di
vita ed i bambini più grandi sono in genere asintomatici con crescita
e sviluppo psicomotorio normali (Bogdanović, 2009).
La forma generalizzata è invece severa. Oltre alla disidratazione,
ai frequenti vomiti ed al ritardo di crescita, questi pazienti sono a
rischio di aritmie cardiache severe, di collasso e di shock. L’iperkaliemia è sempre severa, spesso > 8 mEq/l, e la prognosi è riservata:
non si osserva, infatti, un miglioramento nel tempo come nella forma
renale.
A queste due formi genetiche di PHA1 si aggiunge nel lattante una
forma secondaria associata principalmente ad uropatie ostruttive o
infezioni urinarie ricorrenti (Roger, 2008). Sono riportati anche casi
associati a patologie tubulo-interstiziali croniche o forme iatrogene
causate da farmaci tossici per le cellule principali o che inibiscono la
loro sensibilità all’aldosterone, quali FANS, amiloride, pentamidina,
spironolattone o ciclosporina.
La diagnosi di PHA1 si basa sul riscontro di livelli aumentati di aldosterone e renina plasmatici in presenza di iperkaliemia con perdita urinaria di sali. Nella forma autosomica dominante l’aumento
dell’aldosterone plasmatico spesso persiste nell’età adulta, mentre
l’attività della renina si normalizza.
Il trattamento consiste nell’integrazione di sali e liquidi e nella correzione dell’iperkaliemia e dell’acidosi tramite supplementi alcalini
e l’uso di resine a scambio ionico (Kayexalate). Nella maggior parte
dei casi di forma renale questi trattamenti possono essere interrotti
verso l’età di 2 anni. Le forme secondarie rispondono principalmente
alla correzione della causa sottostante.
Eccesso di riassorbimento di Na nel TCD: sindrome
di Gordon (Pseudoipoaldosteronismo tipo 2)
Lo pseudoipoaldosteronismo renale tipo 2 (PHA2), o sindrome di
Gordon, è una patologia a trasmissione autosomica dominante,
caratterizzata da ipertensione arteriosa, iperpotassiemia e acidosi
metabolica ipercloremica. L’età di esordio dell’ipertensione è variabile, andando dall’età neonatale alla quinta decade di vita. Il fenotipo
della sindrome di Gordon è per molti aspetti “opposto” a quello della
sindrome di Gitelman; pertanto si è ipotizzato in passato che fosse
secondaria a mutazioni attivanti del sinporto Na-Cl. Le analisi genetiche hanno tuttavia rapidamente mostrato un linkage su altri loci
e portato alla identificazioni di due kinasi cellulari, WNK1 e WNK4,
espresse sia nel TCD che nel DCC (Wilson, 2001; Kahle, 2004). Studi
funzionali hanno successivamente mostrato che mutazioni di queste
proteine incrementano l’espressione del sinporto Na-Cl. L’eccessivo
Difetti del riassorbimento tubulare del sodio e del magnesio
riassorbimento di NaCl causa un’ipoaldosteronismo secondario con
acidosi iperkaliemica.
I progressi nella comprensione dei meccanismi fisiopatologici che
causano la sindrome di Gordon hanno confermato le osservazioni cliniche che indicavano i diuretici tiazidici come terapia di prima
scelta in questa malattia. Bloccando il sinporto Na-Cl, questi farmaci
consentono infatti di curare l’ipertensione e di correggere l’acidosi e
l’iperkaliemia, normalizzando i livelli di aldosterone e di renina.
Eccesso di riassorbimento di Na nel DCC: deficit di
11 beta steroido-deidrogenasi (11 β HSD)
e sindrome di Liddle
La sindrome da “eccesso apparente di mineralcorticoidi” è caratterizzata da alcalosi ipokaliemica associata ad ipertensione arteriosa con renina soppressa e livelli ridotti di aldosterone. È causata
da mutazioni recessive del gene che codifica per l’isoforma renale
dell’enzima 11βHSD (Mune, 1995). In condizioni normali questo
enzima è responsabile del metabolismo intracellulare del cortisolo
in cortisone, impedendo al cortisolo di attivare il RM e di esercitare un effetto mineralocorticoide simile all’aldosterone. Mutazioni
recessive di questo enzima causano pertanto una sintomatologia
clinica e biologica di pseudo-iperaldosteronismo, con incremento
dell’espressione del canale epiteliale del sodio (ENaC) nelle cellule
principali del DCC, incremento del riassorbimento di sodio, espansione del volume circolante e sviluppo d’ipertensione arteriosa. Ne
consegue l’inibizione della secrezione di renina e di aldosterone.
Comunemente pazienti con eccesso apparente di mineralcorticoidi
presentano ritardo di crescita staturo-ponderale, ma anche poliuria,
legata probabilmente all’ipokaliemia cronica. Sono stati riportati casi
di morte improvvisa per emorragia cerebrale o aritmia cardiaca.
La diagnosi viene effettuata attraverso l’analisi genetica e/o dimostrando la presenza di un elevato rapporto cortisolo/cortisone nelle
urine.
La terapia di scelta è la spironolactone che inibisce l’azione del cortisolo sul RM. Spesso è necessario aggiungere un secondo farmaco
anti-ipertensivo. È da rilevare che tutti i farmaci steroidei agiscono
sul RM. Trattamenti mirati a sopprimere la produzione endogena di
cortisolo con steroide a dosi sostitutive non sono pertanto efficaci.
Se gli effetti secondari del trattamento cronico con spironolactone
sono troppo pronunciati, può essere utilizzata l’amiloride che blocca
il riassorbimento di Na inibendo il canale ENaC.
Mutazioni “attivanti” delle sub-unità β o γ che compongono il canale
ENaC causano la sindrome di Liddle, anch’essa autosomica dominante e descritta per la prima volta nel 1963. I sintomi sono simili
all’eccesso apparente di mineralcorticoidi e possono comparire sin
dalla prima infanzia: includono ipertensione arteriosa, ipopotassiemia ed alcalosi metabolica con secrezione soppressa di renina ed
aldosterone. Le mutazioni responsabili della malattia sono localizzate nella porzione C-terminale delle subunità β o γ, con compromissione dell’interazione con la proteina Nedd4, che media l’endocitosi
e la degradazione del canale ENaC. Ne consegue una espressione
eccessiva sulla membrana cellulare, dovuta a ridotto turn-over, responsabile dell’eccessivo riassorbimento di sodio nel DCC. Contrariamente ai deficit di 11βHSD, la spironolattone è inefficace, mentre
l’amiloride o il triamterene rappresentano i farmaci di prima scelta
per la loro azione inibitoria sul canale ENaC.
Ipomagnesemie genetiche (Tab. II)
A. Ipomagnesiemia familiare con ipercalciuria e nefrocalcinosi
(FHHN)
L’ipomagnesiemia familiare con ipercalciuria e nefrocalcinosi (FHHN)
è una patologia a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata da grave deplezione di magnesio, ipercalciuria e nefrocalcinosi,
descritta per la prima volta da Michelis del 1972 (Michelis, 1972).
I pazienti sviluppano la caratteristica triade, da cui prende il nome
la patologia, in relazione alla eccessiva perdita renale di magnesio
e calcio. Molti pazienti presentano, inoltre, infezioni urinarie ricorrenti, poliuria/polidipsia e nefrolitiasi. In circa un terzo dei pazienti,
sono riportate anomalie oculari come nistagmo orizzontale, miopia,
calcificazioni corneali e corioretinite. Sono anche riportati iperparatiroidismo, acidosi tubulare distale ed ipocitraturia. Il decorso clinico
di questa patologia è associato nella maggior parte dei casi ad insuf-
Tabella II.
Classificazione delle Ipomagnesiemie renali in base agli studi di biologia molecolare.
Sindrome
Gene/i
Proteina
Localizzazione
principale
CLDN16/CLDN19
Claudina 16
Claudina 19
AAH°
248250
248190
Ipomagnesiemia, Ipercalciuria; insufficienza
renale; nefrocalcinosi, calcolosi; crampi
muscolari, astenia; anomalie oculari
Ipomagnesiemia renale
isolata (autosomica
dominante)
FXYD2
Subunità ψ Na-K
ATPasi
TCD°°
154020
Ipomagnesiemia, ipocalciuria; condrocalcinosi;
convulsioni
Ipomagnesiemia
renale isolata
(autosomica recessiva)
EGF
Epidermal growth
factor
TCD°°
---
TRPM6
TRPM6
TCD°°
602014
Ipomagnesiemia
famigliare con
ipercalciuria e
nefrocalcinosi
Ipomagnesiemia
famigliare con
secondaria
ipocalcemia
OMIM* no. Principali dati biochimici, strumentali
e sintomi
Ipomagnesiemia, normocalciuria; tetania,
convulsioni
Ipomagnesiemia, ipocalcemia; tetania,
convulsioni
*OMIM = Online Mendelian Inheritance in Man,database:htt://www.ncbi.nlm.nih.gov/Omim
°TAL = Tratto Ascendente dell’Ansa di Henle
°°TCD = Tubulo Convoluto Distale
79
F. Emma et al.
ficienza renale, che si sviluppa solitamente nelle prime due decadi
di vita. Il difetto molecolare è localizzato a livello dei geni CLDN-16
e CLDN-19 che codificano per le claudine 16 e 19 (Simon 1999,
Konrad 2008, Hampson 2008). Queste proteine sono espresse a livello renale nel AAH e nel TCD, dove co-localizzano con le occludine
delle giunzioni intercellulari. Claudine ed occludine sono componenti costitutivi delle “tight-junctions” dove avviene il riassorbimento
paracellulare di ioni divalenti (Fig. 1). Il ruolo delle claudine non è
tuttavia ancora del tutto delucidato. L’insufficienza renale cronica
dei pazienti con FHHN si associa, a differenza di altre tubulopatie,
ad un quadro di nefrite tubulo interstiziale progressiva, i cui meccanismi fisiopatologici non sono ancora del tutto noti. Pur essendo
il danno renale attribuibile in gran parte alla nefrocalcinosi (Praga,
1995), questa non appare più severa rispetto alla sindrome di Bartter neonatale che solo raramente si complica di insufficienza renale
cronica. È stata avanzata l’ipotesi che le claudine svolgano anche un
ruolo importante nel regolare la proliferazione e la differenziazione
delle cellule tubulari (Lee, 2006; Konrad, 2008).
Un altro aspetto emerso da studi recenti è l’interazione tra claudina
16 e claudina 19. Insieme, queste proteine si potenziano per determinare la permeabiltà ai cationi delle tight-junctions, ma la claudina 19 sembrerebbe essere associata all’interessamento oculare, in
particolare a severa miopia e coloboma maculare (Faguer, 2010). Il
trattamento di questi pazienti è particolarmente difficile e studi su
grandi casistiche non sono disponibili per la rarità di queste malattie. Oltre alla supplementazione di magnesio, si è tentato di ridurre
l’escrezione di calcio con diuretici di tipo tiazidico, per rallentare la
progressione della nefrocalcinosi ed impedire la formazione di calcoli. Nonostante la dimostrazione che la nefrocalcinosi correla con
la progressione del danno renale, la terapia con tiazidici consente di
ridurre l’escrezione urinaria di calcio ma non sembra influenzare in
modo significativo la progressione dell’insufficienza renale (Praga,
1995). Non vi è recidiva di malattia in caso di trapianto renale.
B. Ipomagnesiemia renale autosomica dominante
con ipocalciuria (IDH)
Questa patologia è caratterizzata da ipomagnesiemia secondaria ad
ipermagnesuria ed è associata ad ipocalciuria (Knoers, 2003). I pazienti affetti sviluppano generalmente convulsioni generalizzate, ma
possono anche restare asintomatici, ad eccezione della presenza di
condrocalcinosi in età più avanzata. Questa tubulopatia, descritta
per la prima volta da Geven nel 1987 (Geven, 1987), si trasmette
con modalità autosomica dominante ed è causata da mutazioni del
gene FXYD2, che codifica per la subunità γ della Na-K-ATPasi delle
cellule del TCD.
C. Ipomagnesiemia familiare con ipocalcemia secondaria (HSH)
Questa malattia a trasmissione autosomica recessiva è caratterizzata
da tetania ipomagnesiemica con ipocalcemia secondaria e da normale escrezione urinaria di magnesio. La causa di questo disturbo è
attribuibile ad un difetto di assorbimento intestinale di Mg. L’esordio
avviene generalmente nel neonato con sintomi di irrequietezza, tremore, tetania e crisi epilettiche. Se non trattata può essere letale o
condurre a gravi danni neurologici. Le mutazioni sono localizzate nel
gene TRPM6 che codifica per un canale della famiglia dei “transient
receptor potential channels” (TRPM) ed ha funzione di canale cationico per Ca e Mg e di protein kinasi. TRPM6 è espresso nell’epitelio
80
intestinale e nel rene. L’ipocalcemia in questi pazienti è secondaria ad
ipoparatiroidismo e/o resistenza periferica al PTH causata dalla deplezione severa di Mg. Il trattamento nel periodo neonatale ed in caso
di crisi comprende la somministrazione parenterale di Mg. In seguito,
alte dosi di Mg vengono somministrate per os sfruttando la possibilità
di riassorbimento paracellulare del Mg, indipendente da TRPM6. Per
il trattamento cronico, vengono generalmente utilizzati supplementi di
magnesio a dosi variabili di 10-20 mg/kg/die di magnesio (equivalenti
a 0,4-0,8 mmol) sotto forma di magnesio pidolato, cloruro, solfato, citrato o aspartato; spesso la somministrazione di questi supplementi è
gravata da alterazione dell’alvo in senso diarroico. Il trattamento nelle
crisi convulsive ipomagnesiemiche nel neonato o lattante comporta la
somministrazione di magnesio solfato (25-50 mg/kg = 0,1-0,2 mmol/
kg in un periodo di 20 minuti, ripetibile ogni 6-8 ore e seguita da una
infusione di 100-200 mg/kg/24 ore) (Konrad, 2008). L’ipocalcemia si
corregge con la correzione dell’ipomagnesiemia.
D. Ipomagnesemia isolata recessiva (IRH)
Questa forma estremamente rara di ipomagnesiemia si associa a
ritardo psicomotorio ed epilessia (Geven, 1987). Il difetto molecolare
corrisponde a mutazioni del gene EGF che codifica per il pro epidermal growth factor (proEGF) (Groenestage, 2007). Il legame del EGF
con il suo recettore EGFR è probabilmente essenziale per l’omeostasi del magnesio e per la funzione di TRPM6 nel rene. Le ipomagnesiemie riscontrate in pazienti con carcinoma del colon trattati
con anticorpi monoclonali anti-EGF (cetuximab) probabilmente riconoscono la stessa origine. In questa sindrome non sono riportate
alterazioni del metabolismo del calcio.
Considerazioni finali
Un’ultima considerazione riguarda la futura estensione della “proteomica” alla diagnostica delle malattie renali, di cui quelle di origine tubulare rappresentano un indubbio modello. Le ricerche attuali
si stanno focalizzando sullo studio degli “esosomi” urinari, piccole
vescicole (di diametro < tra 40 e 100 nm) che originano dai corpi
multivescicolari presenti nelle cellule tubulari renali, nei podociti e
delle cellule che situano nel sistema di drenaggio renale (Gonzales,
2009). Gli esosomi contengono molti dei canali responsabili per le
tubulopatie descritte in questa review e vengono liberati nelle urine
quando la membrana esterna dei corpi multivescicolari si fonde con
la membrana plasmatica apicale delle cellule epiteliali renali; nelle
urine possono essere analizzati tramite metodiche di spettrometria
di massa con centrifugazione differenziale che consentono di misurare la concentrazione di proteine di interesse. Oltre 1100 proteine
sono state identificate con queste metodiche, di cui 34 sono associate a malattie genetiche renali (sindrome di Bartter tipo I o sindrome di Gitelman, per esempio). È ipotizzabile che queste tecniche
consentano in futuro di diagnosticare rapidamente queste malattie e
anche di identificare nuove forme genetiche. Le tecniche attuali hanno comunque ancora molti limiti: gli studi sono stati effettuati finora
solo su casistiche limitate, i costi delle apparecchiature rimangono
molto elevati e non sono ancora stati sviluppati protocolli uniformi
di standardizzazione. Dati di proteomica urinaria sono accessibili sul
sito htt://dir.nhlbi.nih.gov/papers/lkem/exosome/.
Difetti del riassorbimento tubulare del sodio e del magnesio
Box di orientamento
Negli ultimi anni, grazie soprattutto agli studi di biologia molecolare, sono stati molto approfonditi i meccanismi di riassorbimento tubulare renale del
NaCl e Mg, permettendo una più particolare definizione delle sindromi correlate a tali alterazioni. Le ricadute sulla pratica clinica, molto limitate in
termini di nuove terapie, riguardano essenzialmente una più precisa definizione diagnostica e prognostica, almeno per il breve-medio termine.
Interessanti sviluppi sono prevedibili per le ricerche relative agli esosomi urinari ed a studi bambino-adulto sulla qualità della vita dei pazienti affetti
da queste malattie rare.
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Corrispondenza
Francesco Emma, Unità Operativa Complessa di Nefrologia e Dialisi, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, piazza Sant’Onofrio 4, 00165 Roma. Tel. +39
06 68592393. E-mail: [email protected]
81
F. Emma et al.
Principali abbreviazioni
AAH: tratto spesso dell’ansa ascendente di Henle
BSND 4: gene che codifica per la sub-unità “barttina” (mutazioni causano la
sindrome Bartter 4)
CLDN-16 e CLDN-19: geni che codificano per le claudina 16 e 19 (mutazioni
causano la FHNN)
CLCNKB: gene che codifica per il canale ClC-Kb (mutazioni causano la sindrome
Bartter 3)
CLCNKA/CLCNKB: forma digenica (mutazioni causano la sindrome Bartter 5)
DCC : dotti collettori nella loro porzione corticale
ENaC : canale epiteliale del sodio
FXYD2: gene che codifica per la subunità γ della Na-K-ATPasi delle cellule del
TCD (mutazioni causano la IDH)
FHNN: ipomagnesiemia familiare con ipercalciuria e nefrocalcinosi
82
HSD: Ipomagnesiemia familiare con ipocalcemia secondaria
KCNJ1: gene che codifica per il canale ROMK (mutazioni causano la sindrome
Bartter 2)
IDH: Ipomagnesiemia renale autosomica dominante con ipocalciuria
PHA1: pseudoipoaldosteronismo renale di tipo 1
PHA2: pseudoipoaldosteronismo renale tipo 2
RM: recettore per i mineralocorticoidi
SLC12A3: gene codificante per il sinporto Na-Cl del TCD (mutazioni causano la
sindrome di Gitelman)
SLC12A1: gene che codifica per il sinporto Na-K-2Cl (mutazioni causano la sindrome Bartter 1)
TCD: tubulo contorto distale
TRPM6 : gene che codifica per un canale della famiglia dei “transient receptor
potential channels” (mutazioni causano la sindrome HSD)
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 83-90
DERMAtoLoGIA
Novità in dermatologia pediatrica:
patogenesi e terapia
Lucia Restano, Stefano Cambiaghi, Carlo Gelmetti
Dipartimento di Anestesiologia, Terapia Intensiva e Scienze Dermatologiche, Università di Milano, Fondazione IRCCS
Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
Riassunto
È presentata una selezione di lavori usciti nell’ultimo periodo riguardanti novità di patogenesi e terapia di comuni affezioni dermatologiche pediatriche. Gli
articoli scelti sono stati pubblicati su riviste indicizzate (PUB MED - EMBASE) prevalentemente nel 2010.
La prima sezione comprende verruche e molluschi, pidocchi e scabbia. Le novità terapeutiche per queste malattie sono state corredate da informazioni
sintetiche sulle generalità della terapia e della diagnosi. Sono commentati alcuni studi su nuovi trattamenti proposti per le verruche e i molluschi, altri
lavori con ampia casistica sul trattamento dei pidocchi anche con nuovi prodotti a minore tossicità; sono proposti infine nuovi metodi diagnostici per
la scabbia.
Si illustra brevemente un nuovo di un metodo per la compressione degli emangiomi infantili non complicati che non richiedono terapia sistemica sviluppato
dagli Autori.
Vengono infine prese in considerazione la psoriasi e la dermatite atopica in seguito alla comparsa di nuovi studi sulla epidemiologia e comorbidità della
psoriasi infantile e sull’ impiego dei nuovi farmaci biologici. Viene presentata una panoramica sulle acquisizioni dell’ultimo decennio riguardo alla patogenesi della dermatite atopica, focalizzando la scoperta di mutazioni del gene della filaggrina con alterazione di funzione dello strato barriera dell’epidermide
in alcune popolazioni. Si accenna infine allo sviluppo di emollienti di nuova formulazione, e vengono illustrati alcuni studi sulla sicurezza degli inibitori della
calcineurina e sul nuovo schema proattivo di trattamento.
Summary
This article presents a selection of papers covering some novelties in the diagnosis and treatment of common dermatoses in pediatric age. The selected
articles are published in the indexed English literature (PUB MED - EMBASE).
Some new treatments for viral warts, molluscum and pediculosis are described, as well as a new non invasive diagnostic methods for the diagnosis of
scabies.
A brief comment is made on a novel method for the elastic compression of uncomplicated infantile hemangiomas.
New studies on the use of biological treatments for infantile psoriasis are presented, along with new studies on epidemiology and comorbidity. Recent
acquisitions on the pathogenesis of atopic dermatitis such as the role of skin-barrier function and the presence of mutations of the genes encoding for
filaggrin in different atopic and psoriasic population are discussed. As concerns atopic dermatitis treatment, some newly designed emollient are illustrated,
a study on the safety of treatment with tacrolimus are overwieved and a new proactive treatment scheme is illustrated.
Molluschi e verruche: imiquimod, ipertemia, ed altri
trattamenti
Nonostante siano in uso svariati trattamenti tradizionali per verruche
e molluschi, ancora oggi non è disponibile una terapia ideale, cioè
rapida, non invasiva e sempre efficace, per queste comuni affezioni
peraltro quasi invariabilmente ad andamento autorisolutivo, come si
evince dai sempre nuovi tentativi terapeutici che appaiono in letteratura. In Tabelle I e II sono sintetizzati i principali trattamenti rispettivamente per i molluschi e per le verruche, e il loro meccanismo
d’azione. La principale novità nel trattamento di verruche e molluschi è rappresentata dall’uso off label dell’imiquimod. L’imiquimod è
una sostanza per uso topico indicata per trattamento di alcune neoplasie cutanee, come il basalioma superficiale e le cheratosi attiniche e per le verruche genitali negli adulti. Il suo preciso meccanismo
d’azione è ancora da chiarire e comprende l’attivazione del sistema
immunitario tramite il toll-like receptor con liberazione di IFN-a, IL-6
e TNFα. Gli effetti collaterali a volte importanti, con irritazione locale
e più raramente sintomatologia sistemica ne rendono poco praticabile l’impiego in pediatria. Questo farmaco è stato comparato da
Al-Mutairi N et al. nel 2010 con la crioterapia con azoto liquido nel
trattamento dei molluschi contagiosi. I pazienti con imiquimod lo applicavano 5 volte/settimana fino a guarigione o fino ad un massimo
di 16 settimane, mentre i pazienti con crioterapia venivano trattati
una volta alla settimana. I risultati dopo 16 settimane sono stati rispettivamente del 90% e del 100% di successi nei gruppi dell’imiquimod e della crioterapia. La crioterapia si dimostrava anche più
rapida (guarigione del 70% dei casi in 3 settimane) anche, se, nota
dolente, soprattutto in pediatria, la tollerabilità era nettamente a favore dell’imiquimod. A causa dei potenziali effetti collaterali, tuttavia,
non vi è ancora l’indicazione dell’EMEA all’impiego dell’imiquimod
per questa indicazione.
Per quanto riguarda le verruche, interessanti sono i lavori sull’immunoterapia intralesionale. In un primo lavoro randomizzato contro
placebo, è stata verificata l’efficacia dell’iniezione intralesionale di
un vaccino polivalente (morbillo, rosolia, parotite) in un gruppo di
153 pazienti con verruche volgari. La terapia veniva fatta ogni 2 settimane fino a guarigione o fino ad un massimo di 5 volte. La scomparsa delle lesioni era osservata nel 80% dei pazienti trattati e solo
nel 27,5% dei controlli (Nofal et al., 2010). Anedottico ma sempre
interessante è il secondo lavoro su un singolo caso di un paziente
con verruche ad entrambe le mani, di lunga durata e resistenti a
83
L. Restano et al.
Tabella I.
Principali trattamenti del mollusco contagioso e meccanismo d’azione.
Terapia
Meccanismo per azione
Astensione terapeutica attiva
Autorisoluzione per immunità spontanea in 6-18 mesi nella maggioranza dei casi
Toccature con KOH
Necrosi coagulativa superficiale
Crioterapia
Necrosi superficiale da freddo
Curettage/asportazione con pinzetta (previa anestesia con Emla®)
Asportazione meccanica del corpuscolo del mollusco
Toccature con cantaridina
Vescicante (induzione di bolle inteapidermiche e necrosi cheratinocitaria)
Cimetidina
Immunomodulazione (inibizione linfociti T suppressor)
Podofillina
Arresto delle mitosi cellulari per danno ai microtubuli
Tabella II.
Principali trattamenti delle verruche e meccanismo d’azione.
Terapia
Meccanismo d’azione
Astensione terapeutica attiva
Autorisoluzione per immunità spontanea in 2-5 anni nella maggioranza dei casi
Cheratolitici (acido salicilico)
Necrosi coagulativa progressiva
Crioterapia
Necrosi acuta da freddo con distacco bolloso
Retinoidi topici e sistemici
Alterazione della cheratinizzazione + dermatite irritativa
Dye laser
Coagulazione selettiva dell’emoglobina contenuta nei vasi
Podofillina, podofilotossina
Arresto delle mitosi cellulari per danno ai microtubuli
Diatermocoagulazione
Necrosi acuta da calore
Cimetidina per os
Immunomodulazione (inibizione T suppressor)
Imiquimod crema 5%
Attivazione immunologica (agonista toll-like receptor)
Ipertermia locale
Attivazione dei fattori di trascrizione di IFN
Iniezione intralesionale di vaccino morbillo-parotite rosolia
Attivazione immunologica
Iniezione intralesionale di vaccino anti HPV
Attivazione immunologica
Occlusione (con scotch adesivo)
Sconosciuto (dermatite irritativa?)
Iniezioni intralesionali di bleomicina
Necrosi cellulare per danno al DNA
Iniezione intralesionale di antigene di Candida
Reazione di ipersensibilità ritardata con effetto adiuvante sul riconoscimento di HPV
moltissimi trattamenti inclusi crioterapia, podofillina, acido salicilico,
imiquimod, cimetidina. La somministrazione del vaccino tetravalente anti-HPV Gardasil® ha portato ad una scomparsa delle lesioni nei
mesi successivi (Venugopal et al., 2010).
Il calore (immersione in acqua calda o applicazione di impacchi caldi) è un trattamento noto da tempo per le verruche. Un gruppo cinese
ha trattato con ipertermia locale, in uno studio randomizzato contro
placebo in cieco semplice, un gruppo di 54 pazienti con verruche
plantari (ipertermia locale fino a 44C° per 30’ per 3 gg consecutivi e
ripetuti 15 gg più tardi). Dopo 3 mesi il gruppo di controllo presentava una scomparsa delle verruche nel 11% dei casi di fronte al 53%
dei trattati (Huo et al., 2010). Il meccanismo d’azione consisterebbe
in una alterazione dei fattori di trascrizione che interessano la via
dell’interferon.
Scabbia: diagnosi e terapia nel bambino molto
piccolo
La scabbia è ancora una malattia molto diffusa dato che si calcolano
almeno 300 milioni di infestati nel mondo. La diagnosi di scabbia nel
paziente pediatrico così come in quello adulto si basa dal punto di
vista clinico sulla storia di un prurito incoercibile, prevalentemente
serale-notturno, solitamente condiviso dai membri della famiglia e
84
associato a segni di grattamento distribuiti in sedi tipiche e al possibile ritrovamento dei cunicoli cutanei. La diagnosi di certezza si
ottiene mediante dimostrazione della presenza dell’acaro o dei suoi
derivati (uova o feci) all’esame microscopico diretto. Classicamente,
la raccolta del materiale da esaminare al microscopio ottico dopo
chiarificazione con lattofenolo o KOH, si esegue mediante grattamento della lesione sospetta con un bisturi o un cucchiaino tagliente; ciò può non essere agevole in un piccolo paziente spaventato o
poco disponibile all’esame e particolare attenzione va posta a non
ferire il bambino con lo strumento utilizzato. Inoltre, la tipicità delle
localizzazioni della parassitosi è inversamente proporzionale all’età
del paziente, per cui, nel neonato e nell’infante, essa è pressoché
nulla. Ciò rende difficile la diagnosi sul solo piano clinico e, in alcune
occasioni, richiede un accertamento strumentale.
In attesa di tecniche semplici ed economiche di diagnosi molecolare
(è stata recentemente sviluppata una tecnica per fare la diagnosi di
scabbia tramite la PCR (Ishimura, 2010) ma è richiesto comunque
un curettage di una lesione sospetta) è stato proposto l’uso del dermatoscopio per la diagnosi di scabbia, una tecnica non invasiva, non
pericolosa e non paurosa, di grande utilità in un contesto pediatrico (Dupuy et al., 2007). Il dermatoscopio è uno strumento manuale
di piccole dimensioni, costituito da una lente in grado di fornire un
ingrandimento di 10 o 20 x e da una fonte luminosa appropriata,
Novità in dermatologia pediatrica: patogenesi e terapia
inizialmente proposto come mezzo per la diagnosi delle lesioni pigmentate (nevi e melanomi). Nella scabbia, il ritrovamento di particolari figure a triangolo, associate a segmenti lineari e bollicine d’aria
all’osservazione dermatoscopica è considerato diagnostico.
Per quanto riguarda la terapia della scabbia nel bambino, si conferma l’efficacia e la sicurezza della permetrina topica al 5%. La
permetrina è una sostanza attiva antiparassitaria utilizzata come
presidio medico-chirurgico insetticida. Appartiene alla famiglia dei
piretroidi ed agisce come neurotossina, danneggiando la membrana
cellulare dei neuroni rallentando l’accesso degli ioni di sodio. Questa sostanza ha dimostrato di penetrare poco attraverso la cute e
di essere completamente eliminata nel giro di una settimana (Wolf
et al., 2010). I rari effetti collaterali potenziali includono sensazioni
di prurito o di bruciore ma sono solitamente autorisolutive. Quindi
la permetrina topica è raccomandata come terapia di prima scelta
nella scabbia anche nei bambini dopo i due mesi di vita. Prima di tale
età prodotti topici contenenti zolfo fino al 7% sono considerati sicuri
(Albakri et al., 2010).
Pediculosi: nuovi trattamenti ed usi innovativi
di vecchi prodotti
Svariati tentativi sono in corso al fine di disporre di nuove terapie
efficaci ma del tutto prive di tossicità per la pediculosi. Il passaggio
a terapie atossiche permetterebbe di acquisire un miglior profilo di
efficacia e sicurezza rispetto agli attuali presidi terapeutici che agiscono sul pidocchio mediante neurotossicità e di evitare il crescente
fenomeno della resistenza dei parassiti nei confronti dei pesticidi in
uso. Se da un lato si registra, in farmacia, un consistente aumento
numerico di rimedi “naturali” venduti a questo scopo, pochi sono
quelli per i quali sono stati prodotti studi che ne attestino l’efficacia
rispetto alle terapie tradizionali (permetrina 1%, altri piretroidi, malathion 0,5%). Nuovi prodotti sono all’orizzonte e alcuni sono già in
vendita in farmacia. Tra questi risultano interessanti i prodotti a base
di dimeticone e di alcol benzilico. La Tabella III riassume i prodotti
disponibili e il loro meccanismo d’azione.
Il dimeticone, già noto al pediatra per le sue proprietà antimeteoriche, è un derivato del silicone incolore, inodore e di consistenza
oleosa, disponibile in lozione al 4%. Dev’essere applicato sul cuoio
capelluto asciutto lungo tutta la lunghezza dei capelli e lasciato in
posa per 8 ore. Il dimeticone, inglobando il pidocchio, lo immobilizza
e ne determina la morte per soffocamento occludendo gli spiracoli
respiratori. L’attività pediculocida del dimeticone è quindi di tipo fisico e non chimico. Lo stesso principio d’azione sarebbe condiviso
da altre sostanze come il bicarbonato di sodio e il biossido di silicio,
per le quali però vi sono minori evidenze di efficacia. Il dimeticone si
è dimostrato più efficace di permetrina 1% in uno studio brasiliano
comparativo randomizzato in doppio cieco (Heukelbach et al., 2008)
e più efficace di malathion 0,5% in uno studio inglese (Burgess et
al., 2007). Un composto costituito da ciclometicone e isopropil-miristato (un emulsionante ed emolliente che si trova in basse concentrazioni in numerosi prodotti cosmetici) è disponibile dal 2005 in
Gran Bretagna e agirebbe in modo efficace uccidendo i pidocchi per
disidratazione, presumibilmente dissolvendone l’esoscheletro (Malcom et al., 2007). Un altro studio australiano che confronta un topico “soffocante” (composto da paraffina liquida, isopropil-miristato,
copolimeri vari, carthamus tinctorius e idrossitoluene mutilato) nei
confronti di una schiuma al malathion 1%, ha dimostrato anch’esso
una maggiore efficacia della tattica asfissiante rispetto a quella tradizionale (53,9% vs. 40,4%) (Greive et al., 2010). Un altro composto
costituito da ciclometicone e tocoferolo acetato (Vit. E) è disponibile
da poco con la stessa filosofia.
Il primo pediculocida non neurotossico approvato dalla FDA americana per il trattamento della pediculosi è però un altro. Si tratta di
una lozione a base di alcol benzilico al 5%, che viene indicata per il
trattamento di adulti e bambini sopra i 6 mesi. Il topico indurrebbe
anch’esso la morte per soffocamento/asfissia senza neurotossicità.
La quantità di prodotto applicato dev’essere adeguata alla massa e
alla lunghezza dei capelli, poichè l’efficacia dipende da un’adeguata
saturazione del capello; la lozione va sciacquata dopo 10 minuti. Il
prodotto non ha efficacia sulle uova e quindi il paziente deve essere
ritrattato dopo una settimana. Non sono riportati effetti collaterali
significativi eccetto irritazione locale nel 2,3% dei pazienti trattati
(Meinking et al., 2010).
Va anche ricordato che la ricerca del naturale a tutti i costi ha riportato alla ribalta una serie di rimedi “fai-da-te” o casalinghi. Alcuni
siti internet e rotocalchi a larga diffusione, ma anche pubblicazioni
su riviste scientifiche propongono rimedi a volte curiosi, definendoli
efficaci. Ad esempio alcuni oli essenziali di timo, lavanda, eucalipto, origano, etc. avrebbero proprietà antimicrobiche ed insetticide
dimostrabili ed una miscela di anice, noce di cocco e ylang-ylang
avrebbe un effetto pediculocida superiore a quello del malathion
(Gonzales Audino et al., 2007). Anche l’olio di neem (ottenuto dai
semi dell’omonima pianta) viene definito efficace. A tale riguardo
è bene ricordare che il CDC statunitense afferma che non vi sono
sufficienti evidenze scientifiche per determinare che rimedi popolari
come maionese, olio d’oliva, margarina e sostanze similari costituiscano una forma efficace di trattamento. Questo argomento è anche
stato comunque oggetto di un studio che ha dimostrato come la
semplice vaselina risulti più efficace dei precedenti “rimedi da tavola” (Takano-Lee et al., 2004).
Uno dagli studi più interessanti del 2010 è quello che ha confrontato l’efficacia dell’ivermectina orale (400 mcg/kg) nei confronti del
malathion in lozione allo 0,5% somministrati due volte a G1 e G8
su di una coorte di 800 pazienti (Chosidrow et al., 2010). Dopo due
settimane il gruppo trattato con ivermectina orale mostrava un tasso
di guarigione del 95,2% confronto al 85% del gruppo con malathion
Tabella III.
Principali trattamenti per i pidocchi e meccanismo d’azione.
Permetrina e altri piretroidi
Neurotossicità per blocco dei canali del sodio
Malathion
Accumulo di acetilcolina e paralisi respiratoria
Dimeticone lozione
Soffocamento per chiusura opercoli respiratori
Ciclometicone+isopropil-miristato
Disidratazione e danno all’esoscheletro
Alcool benzilico 5%
Soffocamento/asfissia
Ivermectina orale
Azione pro-GABA e microfilaricida
85
L. Restano et al.
topico. L’ivermectina si conferma dunque un prodotto molto efficace anche se gli autori non ne raccomandano l’impiego come prima
scelta data la possibilità di sviluppo di resistenze (già segnalate nella
cura della scabbia) e ne preconizzano quindi l’uso ai casi resistenti
ai trattamenti locali.
Poiché la letteratura sui nuovi pediculocidi atossici è piuttosto
scarsa e spesso basata su studi in vitro o in ambiente agricolo, e
poiché mancano studi a lungo termine che valutino i nuovi prodotti
dal punto di vista della sicurezza e dell’efficacia, si può concludere
raccomandando cautela nell’uso dei nuovi rimedi (Burgess, 2010).
Questi non possono essere ancora considerati di prima scelta nel
trattamento della pediculosi, anche se è molto probabile che lo saranno in un prossimo futuro.
Le raccomandazioni recenti della Accademia Americana di Pediatria (Frankowski et al., 2010) restano comunque quelle di utilizzare le pietrine o la permetrina e di usare i prodotti all’acool benzilico al 5% solo per i bambini di più di 6 mesi e quelli a base di
malathion 0.5% solo dopo i 2 anni di età. Se il paziente non vuole
o non può usare una antiparassitario e se sono state segnalate
resistenze ai piretroidi/piretrina, sono invece raccomandati i nuovi
prodotti “soffocanti”.
Psoriasi infantile: nuovi acquisizioni e farmaci
biologici
Lavori importanti sulla psoriasi infantile (PI) sono stati pubblicati nel
2010. Uno studio tedesco eseguito su di una base di 1,3 milioni di
abitanti ha dimostrato una prevalenza della PI dello 0,71% con un
aumento relativamente lineare dello 0,12% tra 1 e 18 anni (Augustin
et al., 2010). Ancora più importante è l’osservazione che i bambini
con psoriasi hanno un rischio doppio di avere comorbidità quali iperlipidemia, ipertensione, obesità e diabete di tipo 1 come era già stato
osservato nella psoriasi dell’adulto. Non vi sono invece dati certi sul
fatto che la PI predisponga ad una forma più grave nell’adulto (de
Jager et al., 2010).
La qualità di vita dei bambini con PI è significativamente alterata,
anche se non è in relazione con gli score obiettivi della malattia ed
appare quindi un fattore indipendente di cui bisogna tenere conto
nell’impostare una terapia (de Jager et al., 2010), sapendo che nei
pazienti con PI il rischio di depressione e di tentativi di suicidio è più
elevato (Kurd et al., 2010).
Interessanti sono due studi recenti sulla fototerapia: il primo (Zambreck et al., 2010) conferma l’efficacia degli UVB a banda stretta
nella cura della PI anche se, in media, sono necessarie 28 sedute
per ottenere un beneficio di circa 8 mesi, mentre il secondo (Pavlosky et al., 2010) evidenzia che un numero minore di sedute è meno
efficace e che, comunque, non va trascurato il potenziale aumento
dei tumori cutanei a lungo termine.
I farmaci biologici in dermatologia sono principalmente utilizzati per
il trattamento della PI e quelli più in uso sono rivolti contro il TNF-α,
presente in alta concentrazione nelle placche psoriasiche. Tra gli
anti-TNF-α in uso per il trattamento della psoriasi dell’adulto, infliximab e adalimumab sembrano avere un’efficacia più elevata rispetto
ad etanercept, ma l’esperienza maggiore nel paziente pediatrico si
ha con quest’ultimo farmaco, che presenta un miglior profilo di sicurezza rispetto ai precedenti. Il suo utilizzo in età pediatrica è stato
recentemente approvato nei paesi europei per pazienti affetti da PI
cronica grave sopra gli 8 anni, alla dose di 0,8 mg/kg/settimana
(dose massima 50mg/settimana). Il farmaco è somministrato mediante iniezione sottocutanea 2 volte la settimana x 3 mesi o più.
86
Uno studio randomizzato in doppio cieco coinvolgente 211 pazienti
di età compresa tra i 4 e i 17 anni ha dimostrato la capacità di etanercept di ridurre in modo significativo la severità della dermatosi
in bambini e adolescenti affetti da psoriasi da moderata a severa
(Paller, 2010).
La risposta clinica appare nettamente positiva nella maggioranza
dei pazienti e il farmaco permette la riduzione o l’eliminazione di
eventuali altre terapie immunosoppressive concomitanti (Kress et
al., 2006). Una riaccensione della malattia è peraltro frequente alcune settimane dopo la sospensione della terapia, che può essere
comunque ripresa in modo efficace anche se una certa diminuzione
della sua attività pare possibile. Lo stesso gruppo di studio ha nuovamente randomizzato i pazienti in uno studio durato 1 anno dove il
criterio di giudizio era il mantenimento di un PASI 75. Il trattamento è
stato nuovamente efficace dimostrando che l’etanercept può essere
usato anche per cure discontinue ottenendo lo stesso risultato del
primo ciclo (Siegfried et al., 2010). Il farmaco è stato anche utilizzato
con successo nel trattamento di un paziente di 22 mesi affetto da
PI sub-eritrodermica (Fabrizi et al., 2010). Gli eventi avversi più temibili di etanercept restano, come per tutti i biologici, quelli infettivi
(soprattutto infezioni delle alte e basse vie respiratorie) con particolare attenzione alle micobatteriosi (test della tubercolina obbligatorio
e vaccinazione con BCG consigliata prima della terapia). Reazioni
allergiche quali orticaria/angioedema alla somministrazione sono
possibili, ma vengono soprattutto registrate reazioni locali e dolore
nel sito di iniezione.
In conclusione, i biologici sono efficaci in molte malattie dermatologiche, tra cui la PI, ma sono per ora da riservarsi per il trattamento di
forme gravi e resistenti ad altre terapie. Nei pazienti pediatrici forse
più che in quelli adulti resta elevato il rischio, legato alla deplezione
o al blocco delle molecole bersaglio, di infezioni di variabile grado di
severità e resta ancora poco quantificabile il rischio dell’insorgenza
a lungo termine di neoplasie in generale e di linfomi/leucemie in
particolare (Patel, 2009).
Emangiomi infantili non complicati: una piccola
astuzia, la compressione con lamine di vinile
Gli emangiomi infantili (EI) sono un problema comune in età neonatale. Sebbene nella maggior parte dei casi siano lesioni di piccola dimensione, destinate alla completa regressione nel tempo
con restitutio ad integrum, rappresentando quindi solo un problema
cosmetico transitorio, in una significativa minoranza dei pazienti
gli EI possono avere un decorso complicato per il coinvolgimento
di zone particolari (EI periorifiziali o intraorbitrari, EI del volto) per
l’estensione dell’area interessata (EI segmentari), o per l’ulcerazione delle lesioni. Nei casi con decorso complicato per le dimensioni
della lesione o per la sede vi è in genere l’indicazione alla terapia
sistemica condotta in ambiente specialistico; quest’ultima, tradizionalmente basata sull’impiego di steroidi per os ad alto dosaggio, è
stata recentemente rivoluzionata dall’uso off label del propranololo
(vedi l’articolo specifico a seguire).
È importante tuttavia ricordare che anche gli EI relativamente piccoli, specie se esofitici, se lasciati non trattati possono dare origine
a un esito antiestetico permanente, dovuto alla sostituzione del tessuto angiomatoso con tessuto fibroadiposo, con persistente deformazione dell’area interessata. In questi casi le opzioni terapeutiche
disponibili comprendono l’impiego di steroidi topici ultrapotenti o
più recentemente tacrolimus, il trattamento con laser vascolare e la
compressione, mentre altre opzioni terapeutiche come la crioterapia
Novità in dermatologia pediatrica: patogenesi e terapia
e l’iniezione intralesionale forzata di soluzione fisiologica sono cadute in disuso per le possibili complicanze. In genere non consigliata
(sebbene ancora praticata!) l’escissione chirurgica.
La compressione è trattamento ben consolidato degli EI, noto da
decenni. Il suo preciso meccanismo d’azione non è ancora perfettamente chiarito, ed è probabilmente legato alla riduzione meccanica
del flusso ematico dell’EI. Si tratta di un metodo che se applicato in
modo corretto ha il vantaggio di essere virtualmente privo di effetti
collaterali (Kaplan et al., 1995). Tradizionalmente la compressione
è ottenuta con fasciature elastiche (agevoli solo per le lesioni nella
zona distale degli arti) o con appositi indumenti fatti su misura, del
tipo di quelli impiegato per le ustioni; tali tutori elastici sono molto efficaci, ma presentano numerosi svantaggio tra cui il costo, la
difficoltà di reperimento, la necessità di dovere essere adattati alla
crescita e, cosa più importante la scarsa accettabilità.
Recentemente abbiamo osservato (Gelmetti et al., 2010) che i cerotti adesivi commercializzati per il trattamento delle cicatrici possono essere utili nel fornire una compressione delicata ma efficace
di EI piccoli superficiali e non ulcerati. Si tratta di cerotti adesivi
elastici trasparenti, relativamente poco costosi che vanno applicati
durante il periodo di crescita dell’EI; in caso di lesioni esofitiche
risulta utile mantenere la compressione anche successivamente
per favorire l’involuzione della lesione con minor danno estetico.
Virtualmente non presentano controindicazioni, salvo la possibilità
di una dermatite irritativa facilmente risolvibile. Il cerotto può essere tagliato in misura adatta per la zona da trattare, e si adatta
facilmente anche a zone nelle quali ottenere una compressione in
altro modo è difficile, come la zona periorbitaria. Sebbene la compressione che si ottiene sia delicata, e probabilmente poco o nulla
efficace sulla componente profonda delle lesioni, la facilità d’uso
e il basso costo di tali cerotti li rendono una valida aggiunta all’armamentario terapeutico degli EI, utile sia quando si vuole offrire
un trattamento che acceleri la regressione di EI a basso rischio,
sia quando si voglia ottenere una compressione in zone “difficili”,
anche associata ad altre terapie. Essi non sono adatti alla applicazione in zone pelose come il capillizio, nell’area del pannolino
e in caso di lesioni ulcerate. Va sottolineato che la loro efficacia è
chiaramente limitata, la compressione che esercitano è lieve e il
loro impiego deve essere quindi riservato a lesioni non complicate
o nel caso di lesioni più importanti, considerato nel contesto di
un programma terapeutico completo che tenga presente anche le
altre opzioni. Nel caso di lesioni poco impegnative dove i genitori
rifiutino terapie “mediche” come i corticosteroidi o il propranololo,
questo sistema può essere considerato.
del primo anno di vita. Questi dati dimostrano nuovamente l’importanza della flora cutanea e, forse, digestiva, nell’eziopatogenesi
della DA. Altrettanto importante è lo studio tedesco su oltre 1500
bambini con DA che mirava a verificare i disturbi del sonno e le
difficoltà di apprendimento (Schmitt, 2010). I pazienti che avevano
o avevano avuto una DA presentano segni di iperattività o disturbi
dell’apprendimento maggiori dei controlli (OR: 1,78); e tale rischio
appare ancora maggiore in coloro che avevano avuto disturbi del
sonno (OR: 2,63).
Per quanto riguarda la patogenesi, la dermatite atopica è una malattia polifattoriale.Gli studi di linkage hanno identificato alcune regioni
cromosomiche ma il relativo gene non è stato definito.
La messe di dati raccolta negli ultimi anni ha comunque portato
all’ipotesi attuale per la quale una funzione barriera epidermica difettosa faciliti la sensibilizzazione allergica. In una recente lettura
magistrale della European Society of Pediatric Dermatology (ESPD),
John Harper, un’esperto riconosciuto sull’argomento, ha così riassunto le caratteristiche che accompagnano l’alterazione della cute
nella DA:
1. superficie cutanea secca e desquamante;
2. suscettibilità alle infezioni cutanee;
3. aumento della TEWL (Trans-Epidermal Water Loss);
4. aumento dell’assorbimento transcutaneo;
5. “pelle sensibile” per tutto l’arco della vita, con intolleranza alla
lana e ad alcuni cosmetici. (Harper, 2010).
L’ipotesi del difetto di funzione barriera nella DA trova il suo modello
esplicativo in una rara malattia genetica, la sindrome di Netherton;
in questa malattia il difetto di un singolo gene, lo SPINX5, un inibitore
di una proteasi (LEKT1) espressa negli strati più superficiali dell’epidermide, conduce ad una spiccata alterazione della barriera cutanea;
il quadro clinico che ne risulta è caratterizzato da una DA grave e
progressiva e dallo sviluppo di numerose allergie con altissimi livelli
di IgE. Sei diversi polimorfismi del gene SPINX5 sono stati identificati
finora; uno di essi, la variante Glu420-Lys, è risultata associata in
modo significativo alla DA e all’atopia (Walley et al., 2001).
Le conclusioni che si possono trarre dagli studi genetici sono attualmente le seguenti: 1. varianti nella composizione strutturale dell’epidermide rappresentano un fattore di rischio importante nella DA;
2) esistono mutazioni genetiche capaci di indurre un difetto nella
funzione barriera epidermica; 3) la componente IgE-mediata della
DA è secondaria.
Dermatite atopica: fattori epidemiologici,
alterazione della funzione barriera e novità
terapeutiche
L’argomento controverso della correlazione tra peso alla nascita e
sviluppo di dermatite atopica (DA) è stato affrontato in uno ampio
studio svedese sui gemelli (Ludklom et al., 2010). Gli autori, analizzando i dati di 10.132 gemelli e confrontandoli con una coorte
analoga, hanno dimostrato che la prevalenza della DA aumenta con
il peso alla nascita, dal 12,6% in gemelli di peso superiore o uguale
ai 2000 grammi al 17,3% in bambini di peso superiore o uguale
ai 3500 grammi. Per quanto riguarda il ruolo dell’esposizione agli
antibiotici nella genesi della DA, uno studio prospettico belga su 773
bambini (Dom et al., 2010) sembra dimostrare una correlazione positiva se l’antibioticoterapia è antenatale e negativa se è nel corso
figura 1.
S. di Netherton. Questa malattia rappresenta un modello per la dermatite atopica: un alterazione genetica della filaggrina provoca xerosi
cutanea e un’alterata funzione barriera, con sviluppo di alti livelli di IgE
e allergie multiple.
87
L. Restano et al.
Figura 2.
Visione ravvicinata di cute affetta da xerosi atopica. Si noti l’alterazione
della superficie cutanea, che caratterizza la cosiddetta “cute sensibile”.
figura 3.
Applicazione di una lamina di vinile per la compressione di un emangioma infantile non complicato della guancia al fine di accelerarne la
regressione.
Oltre ai difetti genetici, altri fattori rilevanti della barriera dell’epidermide sono recentemente stati oggetto di studio; tra di essi vanno
menzionati: un’aumentata proteolisi, l’uso di saponi o detergenti
aggressivi, il ruolo dello S. aureus e il trauma meccanico. È stato
inoltre evidenziato come l’alterazione della funzione barriera sia in
grado di interferire con la risposta immunologica. L’applicazione di
antigeni sulla cute dopo la rimozione dello strato corneo induce una
riposta infiammatoria prevalentemente TH2; l’iniezione di antigeni
nel derma dà origine ad una risposta prevalentemente TH1 (Strid et
88
al., 2004). Le lesioni acute di DA hanno un aumentata espressione
delle interleuchine (IL) 4 e 13, mentre le lesioni croniche sono caratterizzate da un aumentata espressione di interferon-γ. Studi recenti
hanno evidenziato una riduzione significativa dell’espressione del
gene della filaggrina in cheratinociti che si erano differenziati in presenza di IL-4 e IL-13, suggerendo che la neutralizzazione di queste
citochine potrebbe portare ad un miglioramento della funzione barriera dell’epidermide (Howell et al., 2009).
La ricaduta di queste nuove evidenze sulla terapia ha portato a indirizzare le strategie di trattamento su due obiettivi principali: trattare il difetto di barriera e trattare l’infiammazione, con una strategia
antiinfiammatoria a lungo termine per la prevenzione delle esacerbazioni. È stata inoltre prospettata la possibilità che trattare precocemente neonati “ad alto rischio” possa ridurre il loro potenziale di
sviluppo di sintomi allergici.
Quindi il progresso delle nozioni sulla funzione barriera dell’epidermide, con l’evidenziazione del razionale per l’uso degli emollienti, ha
portato allo sviluppo di prodotti formulati specificamente per ripristinare la funzione deficitaria. La correzione del difetto dell’epidermide
può prevenire le riaccensioni dovute a fattori infiammatori esterni,
inclusi i fattori allergici e infettivi, in particolar modo quelli dovuti allo
S. aureus. Alcune sostanze cosmeceuticamente attive come l’idrossidecina, la N-palmitoletanolamina e l’oleodistillato di semi di girasole, sono state sviluppate con l’intento di restaurare la barriera e
supplire alla riduzione della sintesi di lipidi da parte dell’epidermide.
L’idrossidecina, un acido grasso derivato dalla pappa reale, induce,
su epidermide ricostruita, la produzione di filaggrina e involucrina
e promuove la coesione delle lipoproteine dello strato corneo. La
N-palmitoletenolamina è un cannabinoide che agisce ricostituendo
i componenti naturali dello strato corneo e ristabilendo la funzione
barriera degli strati superficiali dell’epidermide. A questa azione “rigenerante” è associata un’azione antiossidante che ha una funzione
protettiva contro gli effetti nocivi dei radicali liberi (Eberlein et al.,
2008). L’oleodistillato di girasole contiene un estratto concentrato
di beta-sitosterolo e alfa-tocoferolo, che hanno ben note proprietà antiossidanti e antiinfiammatorie. L’oleodistillato al 2% di olio di
semi di girasole in crema esercita un effetto ristorativo inducendo la
neosintesi di lipidi da parte dell’epidermide (Msika et al., 2008).
In questo campo lo sviluppo di un particolare tipo di fibre tessili vegetali, di seta o di argento (vedi articolo dedicato) specificamente
ingegnerizzate ha portato a risultati molto promettenti (Stinco et al.,
2008). Uno studio su un piccolo numero di bambini che ha addirittura mostrato un’efficacia di un tessuto speciale pari a quella di uno
steroide locale (Senti et al., 2006). Questi risultati, se confermati,
potrebbero avere una grande rilevanza futura.
Poiché nei pazienti con DA la cute di aspetto normale è sede di un’infiammazione subclinica, gli effetti di una terapia antiinfiammatoria
a lungo termine sono stati valutati in alcuni studi che proponevano
un approccio razionale di prevenzione a lungo termine degli episodi
infiammatori (= trattamento proattivo) in contrasto con il tradizionale
approccio del trattamento a posteriori dell’episodio acuto (= trattamento reattivo) (Williams et al., 2010). Uno studio randomizzato
multicentrico in doppio cieco ha comparato l’impiego intermittente a
lungo termine di tacrolimus 0,03% su aree di cute precedentemente
affette da DA per la prevenzione delle riesacerbazioni. Lo studio ha
dimostrato chiaramente che indipendentemente dalla gravità della
malattia, l’applicazione bisettimanale di tacrolimus è efficace nella
prevenzione, nel ritardo e nella riduzione temporale degli episodi di
riaccensione acuta della DA. L’incidenza di effetti collaterali quali
prurito e infezioni cutanee con questo schema di terapia è stata bassa, paragonabile a quella di altri studi clinici (Thaci et al., 2008).
Novità in dermatologia pediatrica: patogenesi e terapia
Una della maggiori preoccupazioni dei pediatri riguardo all’utilizzo
di queste molecole è il rischio dello sviluppo di tumori e soprattutto
in pazienti affetti da DA trattati con tacrolimus. Uno studio inglese
caso-controllo su una popolazione di 3.500.194 individui ha individuato un aumento del rischio di linfoma nei pazienti con DA, ma
non ha evidenziato alcun caso di linfoma nei pazienti trattati con
tacrolimus. Tuttavia, i risultati dello studio suggeriscono che vi sia
un’associazione tra linfoma, soprattutto cutaneo, e uso di steroidi
topici. Tale rischio aumenta con la durata d’impiego e la potenza
degli steroidi applicati (Arellano et al., 2009).
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Corrispondenza
Carlo Gelmetti, Dipartimento di Anestesiologia, Terapia Intensiva e Scienze Dermatologiche, Università di Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Granda,
Ospedale Maggiore Policlinico, via Commenda 9, 20122 Milano. E-mail: [email protected]
90
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 91-94
DERMAtoLoGIA
Tessuti per l’abbigliamento e per il trattamento
di condizioni dermatologiche
Annalisa Patrizi, Iria Neri, Beatrice Raone
Dipartimento di Medicina Interna, dell’Invecchiamento e Malattie Nefrologiche, Sezione di Dermatologia, Università
di Bologna
Riassunto
Negli ultimi anni c’è stato un crescente interesse in dermatologia per i tessuti. Ciò è dovuto al fatto che alcuni tipi di tessuto possono irritare la pelle sensibile
del bambino, mentre altri possono contribuire a controllare le malattie infiammatorie della pelle. Per esempio il cotone, che spesso si consiglia durante
l’infanzia, può causare irritazione, perché la sua struttura contiene fibre corte che si espandono e si contraggono quando il tessuto è bagnato, causando un
sfregamento. Fibre sintetiche e di lana tendono a produrre irritazione e prurito sulla cute atopica. Infine le tinture, le resine acriliche, le gomme e metalli, utilizzati per la lavorazione dei tessuti possono promuovere una sensibilizzazione contatto. Recentemente, l’utilizzo di nuovi tessuti e non tessuti ha permesso
una migliore gestione della dermatite atopica e psoriasi. Questa revisione sarà incentrata su: 1) principali caratteristiche di tessuti e tessuti non tessuti 2)
dermatite irritativa ed allergica da contatto ai tessuti 3) tessuti ingegnerizzati 4) effetti tossici sugli esseri umani e l’ambiente dei tessuti ingegnerizzati.
Summary
In the last years there has been an increased interest in dermatology for fabrics. This interest is due to the fact that some types of fabric can irritate sensitive skin baby, while others may help to control the inflammatory skin diseases. For example cotton that is frequently recommended in childhood, can to
cause irritation, because its structure contains short fibers which expand and contract when the fabric is wet causing a rubbing that can irritate the skin.
Synthetic fabrics and wool tend to produce irritant reaction and itching in atopic skin. Finally the dyes, the acrylic resins, the rubbers and metals, used in
the processing of the tissues can promote a contact sensitization. Recently the use of new fabrics and nonwoven allowed better management of atopic
dermatitis and psoriasis. This review will focus on 1) main features of textiles and nonwoven fabrics 2) irritation and allergic contact dermatitis to tissues
3) tissue engineering 4) toxic effects on humans and the environment of tissue engineering.
Introduzione
La cute svolge la funzione di protezione del corpo dall’ambiente
esterno, garantendo così all’individuo il proprio benessere psicofisico. Gli indumenti, contribuendo alla stessa funzione protettiva
della cute devono essere, il più possibile, compatibili con essa. Per
scegliere l’indumento ideale per la cute del bambino sano è utile
quindi conoscere le proprietà delle varie fibre tessili, la possibilità che queste possano essere responsabili di dermatiti irritative da
contatto ed allergiche da contatto. È importante inoltre sapere che
sono disponibili tessuti ingegnerizzati tessuti non tessuti, utili presidi
nel controllo di dermatosi infiammatorie cutanee.
Tessuti per l’abbigliamento (Tab. I)
Di seguito si prenderanno in considerazione le caratteristiche peculiari delle varie fibre presenti in commercio considerando la loro
compatibilità con la cute.
Cotone
Il cotone, una fibra vegetale derivata dalla cellulosa, ampiamente
impiegato come materiale di abbigliamento, presenta buona conduzione del calore, facile tingibilità, ottimo assorbimento dell’umidità e
buona biodegradabilità. I maggiori inconvenienti di questa fibra sono
rappresentati dalla facile infiammabilità, la scarsa tenuta alla piega
e la tendenza all’attacco da parte di batteri e funghi.
Lunghezza della fibra, regolarità, elasticità, resistenza sono criteri con
cui si distinguono i diversi filati di cotone che possono condizionare le
caratteristiche del tessuto, rendendolo più o meno ruvido per la pelle.
In Italia ed in Germania sono state formulate linee di abbigliamento
intimo per bambini in puro filo di cotone, morbido, privo di cuciture,
per evitare irritazioni sulla pelle delicata.
Lana
È un tessuto derivato dai peli di alcuni animali ed è quindi costituito
da cheratina. Le sue caratteristiche principali sono l’isolamento termico, la buona capacità igroscopica, la non infiammabilità. Nonostante
presenti elevata resistenza alla rottura, può essere biodegradato facilmente da batteri e funghi e da tarme.
La morbidezza della lana è condizionata dal tipo di vello da cui viene prodotta. La lana merino ed il cachemire sono le più pregiate, ma quest’ultimo risulta più delicato e sensibile all’usura. Infine, dai peli di cammello,
vigogna ed alpaca si producono lane estremamente morbide.
Seta
È una fibra naturale ricavata dal bozzolo di un bruco. La seta presenta ottime capacità di isolamento termico e mantiene bene la piega.
La seta greggia è costituita da due bavelle di fibroina, rivestite in
un materiale gommoso, la sericina che è la sua componente allergenica. La sericina viene normalmente eliminata durante i processi
di lavorazione e pertanto i prodotti tessili finali sono, nella maggior
parte dei casi, ipoallergenici.
Negli ultimi anni la seta viene sempre più impiegata in ambiente
medico per le sue caratteristiche di biocompatibilità (97% proteine
3% grasso = ~al capello umano).Tuttavia, il tipo di tessuto di seta,
generalmente utilizzato per l’abbigliamento, non è indicato nella ge-
91
A. Patrizi et al.
Tabella I.
Classificazione delle fibre tessili.
Fibre naturali
Fibre chimiche o tecnofibre
Origine vegetale
(canapa, ìuta, cotone lino ecc)
Fibre artificiali (derivate dalla
raffinazione chimica di polimeri
organici di origine naturale)
(viscosa o rayon, acetato, lyocell)
Origine animale
(lana, seta)
Fibre sintetiche (prodotte da
polimeri di sintesi derivati dal
petrolio)
(poliammide, poliuretano,
poliestere, nylon)
stione di bambini con dermatite atopica, in quanto poco traspirante
e allergizzante.
Fibre artificiali
La più apprezzata è il Lyocell, ultima fibra approvata dalla “Commissione Federale Commerciale”. È prodotto dalla cellulosa frantumata
disciolta in NMMO-monoidrato, solvente non tossico, acquoso che
non comporta la formazione di derivati (Adorjan, 2004). Presenta
buona traspirabilità, morbidezza, assorbimento dell’umidità, tuttavia
i costi sono maggiori rispetto al cotone per via della lavorazione più
articolata.
Fibre sintetiche
Presentano molti vantaggi rispetto alle fibre naturali: resistenza
all’usura, non vengono attaccate dalle tarme, sono leggere ed
irrestringibili. Molte, tuttavia presentano alcuni svantaggi: non
sono igroscopiche e soprattutto sono meno compatibili con la
pelle.
Tessuti non tessuti o Nonwoven (Tab. II)
Per le loro proprietà, trovano innumerevoli campi di applicazione
nell’edilizia, nell’arredamento, nell’abbigliamento medico, in agricoltura, ed, ora, risultati promettenti sembrano osservarsi anche per il
loro impiego nella fabbricazione di capi di abbigliamento, in pazienti
con patologie dermatologiche.
Problemi irritativi ed allergici da contatto legati ai
tessuti (dermatite irritativa ed allergica da contatto)
L’evento negativo più frequente provocato dai capi di abbigliamento poco traspiranti nei bambini è una sensazione di disagio legata
al calore e all’eccesso di sudore che si accumula sulla superficie
corporea e che è causa di dermatite irritativa da contatto; anche il
cotone, sebbene ampiamente impiegato nella fabbricazione di indumenti per bambini, può talora essere irritante e causare dermatite
irritativa da contatto, specie nell’atopico. Infatti va tenuto presente
che, sul mercato, sono venduti tessuti di cotone derivati dai cascami
delle diverse operazioni di filatura di rifiuti di cotone, sia grezzo che
colorato, che possono presentare frammenti di fibre spezzate con
effetto irritante.
Frequente è anche l’irritazione da contatto, alla lana in particolare
nei soggetti atopici, tanto che l’intolleranza alla lana è stata inclusa
tra i criteri diagnostici minori per la diagnosi di dermatite atopica.
Sembra che i fenomeni irritativi indotti dalla lana siano determinati
dalla natura appuntita delle fibre che la costituiscono, mentre il prurito
provocato, nei soggetti atopici, sia correlato allo spessore della fibra.
Oltre al classico quadro di eczema essudante nella sede di contatto,
la dermatite da contatto da tessuti può manifestarsi con quadri peculiari, riassunti nella Tab. III. Le sedi più frequentemente coinvolte
sono le aree non protette dalla biancheria intima, aree più esposte
alla sudorazione e aree sottoposte al maggiore attrito con indumenti; quest’ultimo fattore spiegherebbe una maggiore insorgenza di
questa dermatite nei bambini sovrappeso.
La dermatite allergica da contatto ai tessuti è in aumento e colpisce
maggiormente i soggetti affetti da dermatite atopica, come dimostrato da uno studio condotto da Seidenari et al., 2005. Nella Tab.
IV sono riassunti i principali apteni causa di dermatite allergica da
contatto ai tessuti.
La parafenilendiamina risulta ancora la molecola più frequentemente coinvolta nel provocare sensibilizzazione allergica da contatto,
specie in soggetti atopici di sesso femminile che usano tessuti sintetici (Ryberg et al., 2009). Altra possibile fonte di sensibilizzazione
alla parafenilendiamina sono i tatuaggi temporanei: per tale motivo
se ne sconsiglia, l’uso specie nei bambini. Tale colorante può crossreagire con i coloranti dispersi, che generalmente formano legami
stabili con le fibre naturali ma meno con quelle sintetiche. Il più comune colorante disperso causa di dermatite allergica da contatto è
il disperso giallo 3, segue il disperso orange 3 ed il disperso blu 124.
Possibili sono le cross-reazioni fra i diversi coloranti dispersi.
Anche le resine impiegate nelle procedure di finissaggio per migliorare le caratteristiche del tessuti, come la formaldeide, possono essere responsabili di dermatite allergica da contatto. Attualmente tuttavia, si osserva più frequentemente dermatite allergica da contatto
ai derivati della formaldeide, in quanto come tale, l’Organizzazione
Mondiale della Sanità ne ha limitato l’impiego e le concentrazioni utilizzate non sono più sensibilizzanti. Nel 2005, tuttavia, venne
diffusa la notizia di partite di tessuti provenienti dalla Cina con un
quantitativo 900 volte superiore di formaldeide rispetto ai valori consentiti dalla legge. Recentemente, in capi di abbigliamento prodotti
da una nota marca internazionale sono state segnalate concentrazioni di metalli e di resine in con valori superiori a quelli approvati.
Da questi dati emerge la necessità di controlli nazionali che mirino a
regolamentare l’impiego di coloranti sensibilizzanti o di residui cancerogeni e tossici nella lavorazione e nel prodotto finito, soprattutto
per quei tessuti provenienti da aree extra Unione Europea, dove i
sistemi di fabbricazione sono desueti e non esistono controlli nel
ciclo di produzione.
Tabella II.
Caratteristiche dei tessuti non tessuti.
Modalità di sintesi
Fabbricazione
Proprietà
Prodotto industriale derivato da resine o
fibre sintetiche (specie poliestere) attraverso
procedimenti diversi dalla tessitura e dalla
maglieria
Fibre disposte a strati o incrociate unite insieme
meccanicamente con adesivi o processi termici
Idrorepellenza, resistenza ad alte e basse
temperature, morbidezza, non abrasività al tatto
92
tessuti per l’abbigliamento e per il trattamento di condizioni dermatologiche
Tabella III.
Varianti cliniche atipiche di dermatite da contatto ai tessuti.
Tabella V.
Nuovi presidi medici per la dermatite atopica.
Quadri clinici atipici di dermatite da contatto ai tessuti
Quali benefici?
Orticaria da contatto
Maggiore morbidezza e maggiore gradevolezza e tollerabilità sulla cute
atopica
Follicolite
Dermatite da contatto con quadro purpurico
Dermatite da contattto pigmentaria
Dermatite da contatto polimorfo-like
Dermatite da contatto fototossica
Riduzione della Transepidermal Water Loss con miglioramento
dell’idratazione cutanea
Miglioramento dello SCORAD in tempi brevi
Riduzione degli intervalli liberi da malattia con minor ricorso all’impiego
di steroidi topici
Dimostrata attività antimicrobica in vitro e per alcuni tessuti
ingegnerizzati anche in vivo contro lo Staphylococcus aureus
Tabella IV.
Cosa testare nella dermatite allergica da contatto da tessuti.
Principali apteni
Parafenilendiamina
Coloranti dispersi
Metalli (nichel, cromo) impiegati nella fabbricazione di bottoni, fibbie ecc.
Resine foramaldeidiche (usati come prodotti di finissaggio e colle nei
pannolini monouso)
Gomme (mercaprobenzotiazolo - specie nella Lucky Luke contact
dermatitis)
Infine, anche le sostanze gommose possono essere responsabile di
dermatite allergica da contatto. Nota nel bambino è la “Lucky Luke
contact dermatitis”, una caratteristica dermatite eczematosa interessante le sedi di contatto della cute con i dispositivi di fissaggio dei
pannolini “usa e getta”. Tale quadro, poco frequente è spesso la conseguenza dell’uso di gomme e colle nella fabbricazione di tali dispositivi.
Presidi medici per affezioni dermatologiche (Tab. V)
Attualmente sono disponibili in commercio alcuni tessuti con particolari caratteristiche e “tessuti ingegnerizzati, utili presidi per alcune
affezioni dermatologiche. Molti di questi presidi medici sono disponibili in Italia, solo attraverso contatti diretti con le ditte produttrici.
Al termine di “ tessuto ingegnerizzato” non si attribuisce una definizione
univoca, ma in questa categoria vengono compresi materiali che possiedono proprietà antimicrobiche e fungicide; pertanto il loro uso si sta
diffondendo in vari settori dell’industria tessile, sia per la realizzazione di
indumenti professionali in ambiente sanitario sia allo scopo di prevenire
sovrainfezioni in tutte quelle dermatosi come la dermatite atopica, dove
il rischio di sovrainfezione specie da Staphylococcus aureus è alta, determinando significativi peggioramenti del quadro clinico.
Per la dermatite atopica è disponibile un nuovo tipo di tessuto in
maglia di seta traspirante, leggermente elastico, privo di sericina.
Ricci et al., 2004 hanno dimostrato come l’impiego di indumenti fatti
con questo tessuto, provochi dopo una settimana di applicazione, un
significativo miglioramento dello SCORAD in bambini affetti da dermatite atopica, a differenza di quelli trattati con cotone. Senti et al., 2006
confermano l’efficacia di questo tessuto che riferiscono paragonabile
al mometasone furoato 0,5% in mono-applicazione. Per la dermatite
atopica è presente in commercio questo tipo di seta trattata, dotata
anche di attività antimicrobica, grazie all’impiego di un sistema, resistente all’acqua, il cui potere battericida sullo Staphylococcus aureus,
è determinato dalla polimerizzazione dell’ammonio quaternario. I dati
sulle proprietà antibatteriche, ampiamente dimostrate in vitro, di questo
tessuto nel controllo della dermatite atopica, sono ancora discordanti.
Ricci et al., 2006 in 12 bambini affetti da dermatite atopica bilaterale e
simmetrica osservavano che il sistema aggiunto alla seta non presentava un’attività antimicrobica significativa sulla cute affetta da dermatite
atopica, rispetto alla seta non trattata, impiegata come controllo. Koller
et al., 2007 evidenziavano invece l’efficacia del tessuto ingegnerizzato
sulla dermatite atopica anche dopo un lungo un follow-up della durata
di 3 mesi. Stinco et al., 2008 confermavano infine, come l’aggiunta del
sistema antimicrobico permetteva di ottenere un controllo a più lungo
termine della DA rispetto al solo uso della seta trattata, ad un follow-up
di 4 settimane.
Attualmente è presente anche in commercio un tessuto ingegnerizzato composto da materiale a piccole maglie (82% poliammide,
18% lycra) contenenti filamenti d’argento intrecciati con un contenuto totale d’argento del 20%.
L’effetto antimicrobico dei tessuti a base d’argento sulla colonizzazione batterica (Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa)
e micotica (Candida albicans) è stato dimostrato in vitro. Il meccanismo d’azione antimicrobico dell’argento non è ancora totalmente
compreso, tuttavia sembra che gli ioni d’argento portino al distacco della membrana plasmatica dalla parete cellulare batterica. Uno
studio condotto in soggetti affetti da dermatite atopica bilaterale e
simmetrica ha dimostrato una riduzione della colonizzazione batterica già dopo due giorni di utilizzo del tessuto contenete argento
con un mantenimento dei risultati rispetto al basale anche dopo una
settimana dalla rimozione del tessuto.
Il Lyocell è una fibra sintetica che presenta caratteristiche adatte
al suo impiego nei pazienti affetti da dermatite atopica. Love et al.,
2009, dimostrano in infatti una preferenza significativa per questo
materiale rispetto al cotone. Lyocell è quindi risultato superiore per
le sue caratteristiche intrinseche, ma equivalente al cotone per la
riduzione del prurito.
Una fibra sviluppata recentemente, incorpora alghe marine nella struttura cellulosica del Lyocell. Quest’ ultima fibra presenta proprietà antiinfiammatorie e antipruriginose, antivirali ed antibatteriche. Tale tessuto è stato recentemente testato in vivo in uno studio in doppio cieco
contro cotone su 37 pazienti affetti da dermatite atopica. Il tessuto ha
dimostrato di ridurre la carica di Staphylococcus aureus sull’epidermide e di ridurre la Transepidermal Water Loss) (Fluhr, 2009).
Recentemente, grazie alla collaborazione è nato un nuovo tessuto
non tessuto studiato per gli indumenti dei soggetti affetti da psoriasi.
Il tessuto è una fluoro-fibra sintetica (PoliTetraFluoroEtilene). Questo
nuovo tessuto non tessuto, riconosce talune delle caratteristiche richieste alla pelle dello psoriasico quali: oleo e idrorepellenza, capacità traspirante, freschezza, morbidezza.
Con gli indumenti realizzati con questo materiale, è stato eseguito
uno studio pilota, su pazienti affetti da psoriasi. Tali pazienti hanno
93
A. Patrizi et al.
dovuto indossare i capi di abbigliamento per 27 giorni consecutivi
e al termine hanno dovuto esprimere, su scala analogica, una valutazione di alcuni parametri di tollerabilità e gradevolezza. Il giudizio
finale è risultato altamente positivo.
Effetti tossici sull’ambiente e sull’uomo dei tessuti
ingegnerizzati
Per ogni tessuto ad attività antimicrobica deve essere dimostrato un
beneficio e devono essere attentamente valutati i potenziali rischi quali
sensibilizzazione da contatto, alterazione dell’omeostasi cutanea, effetti collaterali tossici dovuti ad assorbimento sistemico, citotossicità,
genotossicità, carcinogenicità, teratogenicità e ecotossicità. L’efficacia
dei tessuti con attività antimicrobica in campo dermatologico è stata,
come descritto nei precedenti paragrafi, suffragata da numerosi studi
clinici che dimostrano come il loro uso sia superiore o uguale ad altre misure profilattiche e terapeutiche nella gestione della dermatite
atopica, delle ferite chirurgiche, nella prevenzione delle infezioni nosocomiali, pertanto i vantaggi ottenuti dall’impiego di questi materiali
supera certamente gli eventuali eventi avversi.
Se andiamo ad esaminare gli effetti tossici dei vari presidi o materiali contenenti argento o derivati dell’ammonio quaternario questi
sembrerebbero essere determinati dalla struttura chimica con cui
sono ancorati al veicolo. Nei tessuti contenenti argento, lo ione è legato stabilmente alle fibre mediante polimeri, pertanto l’argento non
viene rilasciato nell’ambiente e sembrerebbe non produrre effetti
tossici. Lo ione argento libero è invece altamente tossico in quanto
causa un blocco della pompa Na+/K*, può accumularsi nella catena
alimentare acquatica, esercitando effetti tossici sull’ambiente.
Anche il legame dell’ammonio quaternario alle fibre di seta si ottiene
attraverso processi di polimerizzazione che garantiscono una sicurezza
per l’uomo e per l’ambiente. Infatti è dimostrato che in questa formula
chimica l’ammonio quaternario non si disperde nell’ambiente, neanche
in seguito ai lavaggi, non trasferisce alcuna sostanza sulla cute, né
altera la flora microbica commensale. Se invece consideriamo i derivati
dell’ammonio quaternario non polimerizzati si osserva che essi sono
composti a media/ alta tossicità, presentano potenziale sensibilizzante,
possono inoltre dare resistenza batterica.
In conclusione anche per i tessuti ingegnerizzati, sarebbe utile una
normativa europea univoca che regolamentasse i test in vitro e gli
studi preliminari di efficacia e tollerabilità.
Utile sarebbe, almeno per i presidi medici, indipendentemente
dalle indicazioni d’uso, segnalare la molecola e la concentrazione
dell’agente antimicrobico impiegato.
Box di orientamento
Fino a pochi anni l’abbigliamento dei bambini aveva lo scopo di garantire un’efficace regolazione termica ed igroscopica rispetto all’ambiente esterno
oltre che svolgere un’efficace barriera contro agenti microbici, irritanti esogeni e contro il fotodanneggiamento. Negli ultimi anni c’è stata un’attenzione
sempre maggiore all’identificazione di tessuti che fossero il più gradevoli possibile per il consumatore. È noto infatti che su cute irritata, la guarigione
della pelle è significativamente più veloce quando essa è posta a contatto con tessuti morbidi, piuttosto che con tessuti ruvidi; questi ultimi inoltre
possono essere responsabili di dermatite irritativa da contatto (DIC) e di peggioramento della dermatite atopica (DA), come anche di altre forme di
eczema. Un’attenzione particolare si è avuta anche nel segnalare, nell’ultimo decennio un incremento delle sensibilizzazioni allergiche da contatto ai
tessuti nei bambini.
Recentemente, si è assistito anche ad un avanzamento della ricerca scientifica mirante alla creazione di materiali ingegnerizzati, volti al trattamento di
specifiche patologie dermatologiche o massimamente biocompatibili con la cute sana. Tali tessuti sono diventati dei veri presidi medici atti, in particolari
condizioni, a migliorare da soli, la gravità della dermatite atopica o controllare la sintomatologia soggettiva ad essa associata.
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Corrispondenza
Prof.ssa Annalisa Patrizi, Dipartimento di Medicina Interna, dell’Invecchiamento e Malattie Nefrologiche, Sezione di Dermatologia, Università di Bologna,
Policlinico Sant’Orsola Malpighi, via Massarenti 1, 40138 Bologna. E-mail: [email protected]
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Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 95-101
DERMAtoLoGIA
Emangioma infantile e la rivoluzione
del propranololo
Ernesto Bonifazi, Antonella Milano, Valeria Colonna
Dermatologia Pediatrica, Università di Bari
Riassunto
L’emangioma è il più frequente tumore infantile che colpisce il 5% dei neonati. La sua storia naturale è caratterizzata da una fase di crescita che dura mesi
cui segue una fase di regressione spontanea che dura anni. Per questo motivo la maggior parte degli emangiomi non ha bisogno di alcun trattamento.
Necessitano di trattamento il 10% circa degli emangiomi perché mettono a repentaglio la vita, colpiscono un organo importante o provocano un grave
danno estetico. In questi casi il trattamento di elezione, rappresentato in passato dai corticosteroidi per os, è diventato dal 2008 il propranololo per os,
che ha un’efficacia pari o superiore ai corticosteroidi e minori effetti collaterali. La terapia con il propranololo deve essere continuata più a lungo di quella
cortisonica, in media fino al compimento di un anno di vita.
Summary
Hemangioma is the most frequent infantile tumor affecting 5% of the newborns. Its natural course is characterized by a growing phase lasting several
months and followed by a self-healing phase lasting several years. Due to their natural course most hemangiomas do not need any treatment. Only
10% of hemangiomas need a treatment because are life-threatening, affect an important organ or are responsible for severe esthetic damage. In
these cases oral corticosteroids were the first choice treatment in the past. Since 2008 propranolol became the first choice treatment of these cases.
It is more effective than corticosteroids and devoid of severe side effects. Treatment with oral propranolol should last longer than corticosteroids,
approximately till the age of 1 year.
Introduzione
Obiettivo della revisione
L’emangioma è un tumore benigno di cellule endoteliali formanti
vasi. È il più frequente tumore infantile nei primi mesi di vita, colpendo il 5% dei neonati a termine; predilige le femmine – 4:1 con
i maschi –, i caucasici rispetto agli afro-americani e i prematuri,
soprattutto di peso inferiore a 1.500 g (Frieden et al., 2009).
La sua storia naturale è caratterizzata da inizio pochi giorni dopo
la nascita, fase proliferativa e poi fase auto-involutiva, durante la
quale i vasi sono sostituiti da tessuto fibroadiposo. Vista questa
naturale autoinvoluzione, la maggior parte degli emangiomi non
deve essere trattata. Ci sono però emangiomi che richiedono un
trattamento (Frieden et al., 1997) perché mettono a repentaglio
la vita, colpiscono organi importanti o, interessando il volto, comportano gravi conseguenze estetiche. In questi casi fino a giugno
del 2008 il trattamento di elezione erano i corticosteroidi per os,
efficaci, ma gravati da noti effetti collaterali, cui a questa età della
vita si aggiungono inibizione della crescita e possibile interazione
con i programmi vaccinali. Nel giugno 2008 compare un lavoro
sul NEJM (Léauté-Labrèze et al., 2008) che parla dell’attività del
propranololo nella terapia dell’emangioma. Gli Autori stavano trattando con prednisolone per os un bambino con un emangioma
molto esteso del volto ed erano riusciti ad arrestarne la crescita
quando insorse come effetto collaterale una miocardiopatia ipertrofica ostruttiva che li portò a introdurre in terapia il propranololo
alla dose di 3 mg/kg/die. Il giorno successivo l’emangioma era
significativamente meno rosso e meno teso, sancendo l’efficacia
terapeutica del propranololo nell’emangioma.
Fare il punto su meccanismi di azione, efficacia, effetti collaterali,
prospettive future del propranololo nell’emangioma.
La ricerca bibliografica utilizzando il motore di ricerca PubMed e
digitando i seguenti termini “hemangioma and propranolol”.
Patogenesi dell’emangioma
La fase di crescita dell’emangioma raggiunge il massimo in genere tra il 3° e il 6° mese di vita ma può protrarsi fino a un anno
di vita e anche oltre. Da un punto di vista istologico l’emangioma
in fase proliferativa mostra una notevole proliferazione cellulare,
con gruppi di cellule esprimenti marcatori endoteliali e con piccoli
canali vascolari. Nella fase involutiva i gruppi di cellule attivamente proliferanti non sono più evidenti e prevale la deposizione di
matrice extracellulare (Boscolo et al., 2009).
Ciascuna fase evolutiva dell’emangioma è caratterizzata dall’espressione di molecole angiogeniche e anti-angiogeniche. In particolare
si è rilevato che la fase di crescita dell’emangioma è definita da
un’elevata espressione di fattori con funzione pro-angiogenica quali
VEGF (vascular endothelial growth factor), GLUT-1 (glucose transporter 1) e altri ancora. La fase involutiva, invece, si caratterizza
per elevati livelli di fattori inibenti l’angiogenesi. L’emangioma viene
quindi considerato un modello ideale per lo studio dell’angiogenesi
e dei suoi meccanismi regolatori.
La proliferazione di cellule endoteliali potrebbe originare da una
cellula endoteliale presente nella cute o da una cellula endoteliale
progenitrice/staminale (EPC) di derivazione midollare, circolante nel
sangue. Quest’ultima ipotesi è avvalorata da studi che dimostrano
come sezioni di emangioma infantile proliferante esprimono i mar-
95
E. Bonifazi et al.
catori caratteristici delle cellule progenitrici (Peichev et al., 2000; Yu
et al., 2004). Un dato clinico a favore della seconda ipotesi è anche
l’emangiomatosi, in cui centinaia di emangiomi possono essere presenti nella cute e/o in altri organi.
Lo stimolo che induce la proliferazione cellulare potrebbe essere l’ipossia. Uno stress scatenato dal ridotto apporto di ossigeno
(Léauté-Labrèze et al., 2008; Colonna et al., 2010; Gutierrez et
al., 2007), legato ad alterazioni placentari, prematurità, estrogeni
e caratteristiche fisiologiche del periodo perinatale, sarebbe responsabile dell’angiogenesi esagerata. Il più importante fattore
della risposta all’ipossia è l’HIF -hypoxia inducible factor-. L’HIF
stimola la secrezione cellulare di VEGF e questo a sua volta è in
grado, agendo sulle cellule endoteliali, di stimolarne la proliferazione (Colonna et al., 2009). La scoperta del ruolo terapeutico del
propranololo nell’emangioma ha parlato a favore dell’ipotesi che
l’ipossia e il rilascio di catecolamine siano implicati nella patogenesi dell’emangioma. Il propranololo e il carvedilolo sono in grado
di riportare alla norma l’espressione eccessiva di HIF-1α e VEGF
nel miocardio ipertrofico (Shyu et al., 2005).
Quando viene meno la condizione di ipossia grazie alla neoformazione di vasi che aumentano l’apporto di ossigeno si riduce la concentrazione intracellulare di HIF-1α e conseguentemente l’espressione
di VEGF, sicché l’emangioma inizia a regredire.
Il propranololo
Scoperto alla fine degli anni ’50 modificando la struttura dell’isoproterenolo (Fig. 1), il propranololo agisce sia sui recettori β1 che
β2. I recettori β1 si trovano su cuore e rene, i recettori β2 si
trovano su vasi, bronchi e utero; la stimolazione dei β2 provoca vasodilatazione, per cui il loro blocco può essere responsabile
di vasocostrizione. Questa potrebbe causare lo scolorimento e il
restringimento immediato sull’emangioma, mentre la diminuita
espressione del gene VEGF e l’incremento dell’apoptosi nelle cellule endoteliali a seguito del trattamento con propranololo potrebbero essere responsabili della progressiva riduzione dell’emangioma nel tempo. L’azione sui recettori β spiega anche i possibili
effetti collaterali del propranololo come broncocostrizione e disturbi cardiaci.
Introdotto per os, il farmaco è metabolizzato dal fegato ed escreto per
via renale. La clearance epatica del propranololo cambia significativamente in rapporto a variazioni individuali, alla contemporanea assunzione di cibo, alla somministrazione protratta, alla presenza di disfunzioni
epatiche e alla somministrazione di altri farmaci in grado di influenzare
il metabolismo epatico. Nonostante la sua breve emivita plasmatica
di 4 ore, l’attività inibente la tachicardia da sforzo del propranololo si
figura 1.
Il propranololo deriva dall’isoproterenolo.
96
mantiene per oltre 12 ore, rendendo possibile la somministrazione del
farmaco due volte al giorno (Bonifazi et al., 2008).
Efficacia terapeutica del propranololo
nell’emangioma
Il propranololo è efficace nell’emangioma cutaneo infantile almeno quanto i corticosteroidi (Figg. 2, 3): l’emangioma smette di
crescere fin dalla prima somministrazione, la sua componente
superficiale diventa meno rossa e la sua componente profonda si sgonfia (Gelmetti et al., 2010). Dopo 1 mese di terapia
si ottiene un miglioramento medio del 30% e il miglioramento
nei mesi successivi oscilla tra il 30 e il 90 % (Laforgia et al.,
2009). L’efficacia del propranololo è testimoniata dalla ricrescita
dell’emangioma in seguito alla sua sospensione precoce (Bonifazi et al., 2008).
Indicazioni del propranololo in altri angiomi
Il propranololo si è mostrato efficace, oltre che nell’emangioma
cutaneo, nell’emangioma infantile oculare, epatico e del tratto
respiratorio. Non sembra invece efficace nell’angioma lobulare
eruttivo Glut-1 negativo (Truong et al., 2010). La presenza di recettori per il Glut-1 nell’emangioma potrebbe spiegare l’azione
favorente del propranololo sull’apoptosi cellulare. Un insulto ipossico della cellula, attraverso l’attivazione dei recettori adrenergici, facilita il trasferimento del GLUT-1 da vescicole intracellulari
figure 2, 3.
Emagioma del naso, del filtro, delle labbra e della regione presternale
a 3 mesi di vita (Fig. 2) e dopo 6 mesi di trattamento con propranololo
2 mg/kg/die (Fig. 3).
Emangioma infantile e la rivoluzione del propranololo
alla membrana cellulare, difendendo così la cellula da un deficit
energetico: il propranololo blocca l’esposizione del GLUT-1 sulla
membrana cellulare e contribuisce quindi al processo di morte
cellulare (Colonna et al., 2010). In questo modo la mancanza di
recettori per il GLUT-1 nell’angioma congenito – angioma già pienamente sviluppato e tridimensionale alla nascita –, nell’angioma “tufted” e nell’angioma kaposiforme – varianti proliferative
benigne dell’emangioma – potrebbe spiegare la mancata attività del propranololo in questi angiomi e quindi nella sindrome di
Kasabach-Merritt.
Formulazione
In Europa esiste una sola formulazione orale per uso pediatrico
(Syprol®) contenente 40 mg/ml di propranololo; nel Nord America
esiste una soluzione orale di propranololo cloridrato per bambini,
contenente 20 o 40 mg/ml del farmaco (Denoyelle et al., 2009).
Una soluzione si può preparare anche a partire dalle compresse di propranololo cloridrato da 40 mg (Inderal®, Astra Zeneca
Spa, Milan, Italy) oppure con maggiore precisione e palatabilità
si può far preparare dal farmacista una soluzione contenente 5
mg/ml di propranololo (Tab. I). Si tratta comunque per ora di una
Tabella I.
Soluzione galenica di propranololo 5 mg/ml.
Propranololo
0,250 g
Saccarosio
12,5 g
Acido citrico
0,090 g
Acqua depurata
q.b. a 50 ml
formulazione “off label” che richiede un consenso informato e
l’autorizzazione dell’organo predisposto quando somministrata
in ospedale.
Dosaggio e modalità di somministrazione
Il dosaggio complessivo pro die è di 2-3 mg/kg (Léauté-Labrèze
et al., 2008), divisibile in 2-3 somministrazioni. Il propranololo
è stato introdotto in terapia nel 1964 e da allora è stato somministrato nel bambino con varie indicazioni al dosaggio di 1-6
mg/kg/die, senza che si sia mai verificato un evento mortale
(Love et al., 2004). Ciò non toglie che effetti collaterali come
bradicardia, ipotensione, broncospasmo e ipoglicemia siano
possibili, soprattutto in soggetti a rischio – prematuri, neonati, pazienti con malformazioni cardiovascolari –; bisogna anche
tener presente, vista l’alta prevalenza di emangioma, che un
bambino su 200 potrebbe in un prossimo futuro essere trattato
con propranololo e si potrebbero quindi rendere evidenti effetti
collaterali rari.
Alla luce delle attuali conoscenze, prima di iniziare il trattamento
sono consigliabili un esame clinico attento a problemi cardiologici,
atopici e al diabete, un ECG, un’ecografia cardiaca e una visita cardiologica (Léauté-Labrèze et al., 2008). La prima somministrazione di 1 mg/kg va eseguita in day hospital, misurando prima della
somministrazione e per le 4 ore successive pressione e frequenza
cardiaca ogni ora, glicemia dopo 2-3 ore; frequenza cardiaca e
glicemia sono misurate in seguito ogni 2-4 settimane (Fig. 4). Se
non è possibile il day hospital, si somministra una prima dose di
0,25 mg/kg, raddoppiando ogni giorno le dosi fino al raggiungimento della dose di 1 mg/kg 2 volte al giorno e controllando gli
stessi parametri.
figura 4.
Modalità di somministrazione e monitoraggio del propranololo nell’emangioma in fase di crescita.
97
E. Bonifazi et al.
Indicazioni al trattamento con propranololo
Innanzitutto le stesse indicazioni dei corticosteroidi per os, quindi
emangiomi potenzialmente letali, che compromettono un organo
importante o sono responsabili di un grave difetto estetico, durante
il periodo di crescita. Il fatto che gli effetti collaterali del propranololo
siano significativamente meno importanti degli altri farmaci o interventi terapeutici ha fatto candidare al trattamento emangiomi che
in passato non sarebbero mai stati trattati, per esempio emangiomi
mediamente larghi – > 3 cm – del volto e soprattutto (Li et al., 2010)
emangiomi nei quali si è già arrestata spontaneamente la fase di
crescita (Figg. 5, 6).
Durata del trattamento
Sin dall’inizio (Bonifazi et al., 2008) si è notato in alcuni casi che
alla sospensione del farmaco, specie se precoce, si aveva un parziale rigonfiamento dell’emangioma. Si è inizialmente pensato
che ciò dipendesse da una lunghezza variabile del periodo di crescita nei diversi emangiomi e si è detto che il periodo di crescita
di alcuni emangiomi può durare fino a 12, 18 o addirittura 24 mesi
(Bruckner et al., 2003): in realtà i corticosteroidi in passato non
erano mai prolungati per tanto tempo. Ancora oggi non sappiamo quanto a lungo deve durare il trattamento con propranololo
iniziato nei primi mesi di vita: secondo alcuni (Sans et al., 2009)
il trattamento deve durare fino alla completa regressione o, se
l’emangioma non regredisce del tutto, fino a 1 anno di vita. Quando l’emangioma si rigonfia in seguito alla sospensione, il propranololo viene di solito ripreso e nella maggior parte dei casi si mostra nuovamente efficace (Bonifazi et al., 2008; Sans et al., 2009);
ma è stato descritto un caso di resistenza ai betabloccanti, dopo
sospensione e ripresa del trattamento (Leboulanger et al., 2010).
Tanto meno sappiamo quanto deve durare il trattamento iniziato
tardivamente a crescita ultimata, perché la sperimentazione in
questi casi è iniziata più recentemente; non sappiamo neanche
se la sospensione del trattamento in questi casi si accompagna
a rigonfiamento dell’emangioma. È comunque logico ritenere che
i casi in cui il trattamento inizia a crescita ultimata siano trattati
fino a quando l’emangioma continua a migliorare, ma comunque
non oltre i 12 mesi.
Adeguamento della dose all’incremento ponderale
Quando in passato l’emangioma era trattato con i corticosteroidi,
una volta raggiunta la dose efficace nel bloccarne la crescita, tale
dose veniva mantenuta senza ulteriore incremento, comportando
quindi una riduzione della quantità di farmaco relativamente al
peso corporeo in continua crescita. Il fatto che non fosse necessario adeguare la dose all’incremento ponderale poteva in parte
spiegarsi con una minore durata del trattamento e con la ridotta
crescita generale. Durante il trattamento con propranololo 2 mg/
kg è invece necessario fin dai primi mesi adeguare il dosaggio
del farmaco all’incremento ponderale: ciò potrebbe spiegarsi con
il fatto che la dose di 2 mg/kg è vicina a quella minima efficace,
con la maggior durata del trattamento e la non inibizione dell’incremento ponderale.
Sospensione del propranololo
Il propranololo può essere sospeso più rapidamente dei corticosteroidi, ma anche per il propranololo si consiglia di evitare una
brusca sospensione onde prevenire possibili problemi cardiaci
(Lawley et al., 2009). Nei casi in cui è stato necessario sospendere bruscamente il farmaco per l’insorgenza di un effetto collaterale o per prevenire una possibile ipoglicemia in caso di digiuno
Tabella II.
Sintomi e segni di ipoglicemia.
Segni precoci di ipoglicemia
(possono essere nascosti dal
propranololo)
Segni tardivi
Sudore freddo, pallore
Difficoltà di risveglio Convulsioni
Agitazione, tremori
Letargia Apnea
Ansietà
Torpore Ipotermia
Fame
Astenia Atassia
Tachicardia
Pianto Emiparesi, paralisi
Midriasi
Inappetenza Perdita di coscienza
Segni di ipoglicemia nel neonato
Irritabilità Sudorazione Ipotonia
figure 5, 6.
Emangioma della palpebra inferiore destra a 18 mesi (Fig. 5) e dopo 6
mesi (Fig. 6) di trattamento con propranololo 2 mg/kg/die.
98
Spasmi mioclonici
Episodi di apnea Ipotermia
Cianosi Sonnolenza Convulsioni
Emangioma infantile e la rivoluzione del propranololo
protratto per problemi gastroenterici acuti, tali effetti non sono
stati finora riportati. Una ricrescita parziale – 10-20% rispetto alle
dimensioni iniziali – dell’emangioma alla sospensione del trattamento si osserva in almeno un terzo dei casi (Laforgia et al.,
2009).
Effetti collaterali e controindicazioni
Il propranololo, bloccando i recettori β1 e β2, può avere effetti
collaterali come bradicardia, ipotensione, alterazioni del sistema
di conduzione, vasocostrizione periferica, broncospasmo e ipoglicemia. Questi effetti possono essere più insidiosi perché il propranololo può rendere meno evidente la reazione dell’organismo
all’insufficienza cardiaca, ostacolando tachipnea e iperidrosi, e
all’ipoglicemia, rendendo meno evidente lo stato di agitazione.
Bradicardia e meno spesso ipotensione, in genere asintomatiche
(Sans et al., 2009), sono state riportate in circa l’1% dei bambini
trattati con propranololo. Bisogna stare soprattutto attenti a questi effetti cardiaci nei bambini con sindrome PHACE – sindrome
caratterizzata da emangioma segmentario del volto, malformazioni cardio-vascolari e anomalie della fossa posteriore – e con
emangiomi molto grossi o multipli (Lawley et al., 2009). Più importante a questa età della vita è l’effetto broncospastico indotto
dal propranololo. Nei primi 24 mesi la dispnea espiratoria, è un
sintomo molto frequente, per vari motivi anatomici e funzionali:
a questa età la componente ipersecretiva e congestiva è prevalente sul broncospasmo nella genesi della broncostruzione; i recettori beta2-agonisti sono stati dimostrati anche nelle vie aeree
del lattante, differentemente da quanto si riteneva in passato, ma
sono molto scarsi, come dimostra il fatto che i broncodilatatori funzionano meno bene che nell’adulto (Everard et al., 2005);
questi ultimi possono provocare nel bambino in trattamento con
propranololo un brusco aumento di volume dell’emangioma, pericoloso in caso di localizzazione subglottica (Blanchet et al., 2010).
Quindi una storia di bronchite asmatica non è una controindicaTabella III.
Istruzioni per i genitori.
Il propranololo è un farmaco indispensabile per arrestare la crescita
dell’emangioma, ma come tutti i farmaci eroici può presentare degli
effetti collaterali, che bisogna prevenire e riconoscere
La soluzione galenica di propranololo deve essere somministrata con
una siringa di plastica da 1 o 2,5 ml
La soluzione galenica va conservata a temperatura ambiente e ha una
validità di un mese
Procurarsi per tempo la soluzione di ricambio
In caso di somministrazione dopo il pasto, aspettare 15 minuti (dopo il ruttino)
L’ultima somministrazione che precede il digiuno notturno deve essere
seguita da un pasto
Non far rimanere senza cibo il bambino per oltre 6-8 ore dopo la
somministrazione di propranololo
Sospendere o ridurre il propranololo in caso di digiuno protratto oltre le
10 ore o broncospasmo
Segnalare al medico ogni sintomo strano, soprattutto sonnolenza e
difficoltà di risveglio al mattino
Seguire scrupolosamente le istruzioni del medico, presentandosi ai
controlli periodici con i dati richiesti (antropometrici, frequenza cardiaca,
glicemia)
Tabella IV.
Controindicazioni del propranololo.
Storia di broncopneumopatia
cronica ostruttiva
Gravi disturbi della circolazione
arteriosa periferica
Ipersensibilità individuale accertata Insufficienza renale
al principio attivo o a uno qualsiasi
degli eccipienti
Bradicardia
Blocco atrioventricolare
Riduzione significativa della portata
cardiaca e scompenso cardiaco
Ipotensione
Malattia del nodo del seno
Acidosi metabolica
Feocromocitoma
Digiuno prolungato
Predisposizione a ipoglicemia,
ad esempio dopo un digiuno
prolungato, o ridotta tolleranza al
glucosio
Controindicazione relativa:
bronchite asmatica infantile
zione assoluta all’impiego di propranololo, ma in caso di recidiva
dell’ostruzione bronchiale, il propranololo va temporaneamente
sospeso o ridotto, specialmente di notte.
L’effetto collaterale più temibile del propranololo a questa età è
l’ipoglicemia (Bonifazi et al., 2010), più probabile nel periodo neonatale, ma di cui esistono più di 20 casi documentati (Holland et
al., 2010) in bambini più grandi. Questa si verifica più facilmente
al mattino in seguito a condizioni che diminuiscono l’assunzione orale di glucosio, come il digiuno preoperatorio (Bush et al.,
1996) e notturno (Chavez et al., 1999), specialmente quando il
propranololo viene dato a dosaggi elevati, superiori a 4 mg/kg/
die, come succede nei problemi comportamentali; un’altra condizione favorente è un pregresso trattamento dell’emangioma con
corticosteroidi, responsabili di insufficienza surrenalica (Breur et
al., 2010) e quindi di mancata risposta cortisonica all’ipoglicemia.
Questa si può però verificare anche con dosaggi di 2 mg/kg/die e
può insorgere dopo 6 (Bonifazi et al., 2010) o 8 mesi (Holland et al.,
2010) di trattamento. Non sono descritti casi letali, ma possono residuare gravi danni cerebrali (Bush). È anche importante ricordare
che il propranololo può nascondere la risposta simpaticomimetica
all’ipoglicemia. Per prevenire l’ipoglicemia è necessario, soprattutto quando nel bambino più grande gli intervalli tra i pasti si
allungano, in particolare di notte, far seguire l’ultima dose serale di
propranololo da un pasto abbondante, misurare periodicamente la
glicemia dal dito per tutta la durata della terapia, allertare i genitori
a riconoscere i segni precoci di ipoglicemia (Tab. III), soprattutto la
difficoltà di risveglio al mattino dopo il digiuno notturno, la sudorazione, la fame eccessiva.
Tra gli effetti collaterali importanti in età pediatrica ricordiamo che
esistono dati sperimentali sul ratto (Paraskevopoulos et al., 1991)
che dimostrano un ritardo della crescita in ratti in età evolutiva trattati con propranololo: questo effetto è comunque reversibile alla
sospensione del propranololo. Per questo motivo è stato valutato il
ritmo di crescita prima di iniziare il trattamento con propranololo e
alla sua sospensione: nei casi che hanno completato il trattamento
non si è mai verificato un rallentamento dell’incremento staturoponderale (Laforgia et al., 2009).
Le controindicazioni al trattamento con propranololo sono indicate
nella Tabella IV.
99
E. Bonifazi et al.
Prospettive future
I corticosteroidi potrebbero essere associati al propranololo, dopo
che il bambino ha praticato le vaccinazioni di legge, per brevi periodi, nel tentativo di prevenire la ricrescita dell’emangioma alla
sospensione del propranololo, per abbreviare la durata del trattamento o per contrastarne gli effetti collaterali, per esempio in caso
di bronchite asmatica.
È ancora da precisare il dosaggio del propranololo, specie nei casi
che rispondono meno bene al trattamento, e la durata del trattamento. Ideale sarebbe disporre di parametri, per esempio livelli
plasmatici di VEGF, in grado di farci meglio capire quanto dura il
periodo di crescita dell’emangioma. È importante precisare anche
l’effetto del propranololo sull’emangioma che ormai ha smesso di
crescere: per far questo bisognerebbe conoscere in modo meno
ipotetico il meccanismo d’azione del farmaco, in particolare se
agisce anche accelerando l’apoptosi cellulare.
Come avvenne per i corticosteroidi, può essere utile precisare le
indicazioni al trattamento topico con propranololo (Bonifazi et al.,
2008).
Bisogna infine studiare meglio l’effetto sull’emangioma di altri betabloccanti, per esempio sprovvisti di effetto broncospastico come
l’acebutololo, che potrebbero sostituire il più noto propranololo in
caso di insorgenza di broncospasmo (Leboulanger et al., 2010).
Box di orientamento
La maggioranza dei casi di emangioma non deve essere trattata. Nei casi che necessitano di terapia il trattamento di elezione, rappresentato in passato
dai corticosteroidi per os, è diventato dal 2008 il propranololo.
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* Gli autori rivedono la letteratura su 40 anni di trattamento con propranololo nel lattante e non trovano nessun caso di morte o di gravi effetti
cardiaci.
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Abbreviazioni e acronimi
EPC: cellula endoteliale progenitrice/staminale
HIF: hypoxia inducile factor
VEGF: vascular endothelial growth factor
Corrispondenza
Ernesto Bonifazi, Dermatologia Pediatrica, Università di Bari, via Bitritto 131, 70124 Bari. E-mail: [email protected]
101
Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • pp. 102-107
FRoNtIERE
Le origini precoci della salute e della malattia:
una nuova sfida per i pediatri
Umberto Simeoni, Isabelle Grandvuillemin, Christophe Buffat
Division of Neonatology, Children Parents Pole, Assistance Publique Hôpitaux de Marselle, INSERM UMR608 & Chair
of Infancy, Environment and Health, The University Foundation, Université de la Méditerranée, Marsiglia, Francia
Riassunto
Negli ultimi due decenni la ricerca ha dimostrato che la maggior parte delle cause di mortalità in età adulta, tra cui le malattie cardiovascolari ed il diabete
di tipo 2, hanno radici in epoca pre e perinatale. Pertanto, il periodo di tempo compreso tra il concepimento e la prima infanzia è considerato un periodo
unico e sensibile, nel corso del quale l’esposizione ambientale può avere effetti duraturi e contribuire alla programmazione delle principali funzioni fisiologiche, ad aumentare il rischio di sviluppare malattie importanti in età adulta e a condizionare la salute dell’individuo per tutta la vita. L’esempio più citato
è rappresentato dall’associazione tra basso peso alla nascita ed il rischio di mortalità per malattia coronarica in età adulta. Tuttavia, sono stati identificati
vari altri elementi nutrizionali, patologici e ambientali, in grado di influenzare il rischio di sviluppare malattie, tra cui l’obesità, alcuni tipi di cancro, e alcune
malattie mentali. In questo articolo utilizzando l’esempio della programmazione fetale dell’ ipertensione, si esamineranno i meccanismi coinvolti, fisiologici
(soprattutto renali e vascolari) e molecolari, il continuum tra normalità e malattia, il ruolo dell’alimentazione e dello stile di vita sia precoce che tardivo
ed il ruolo di biomarcatori precoci e di meccanismi epigenetici, sui fattori di rischio cardiovascolari e metabolici dell’età adulta. L’impatto mondiale della
programmazione fetale sulla salute pubblica è notevole, soprattutto perché un certo numero di paesi emergenti stanno subendo importanti trasformazioni
nelle abitudini alimentari. Esistono diverse interessanti possibilità di prevenzione precoce, prima e durante la gravidanza, e si stanno studiando comportamenti precoci nell’alimentazione e nello stile di vita sia in modelli animali che in sperimentazioni nell’uomo. L’ipotesi che qualsiasi intervento nel periodo
dal concepimento alla prima infanzia possa condizionare il corso della vita degli individui e le corrispondenti possibilità di prevenzione rappresentano una
nuova e stimolante sfida per i pediatri e per tutti coloro che si dedicano alla cura dei bambini.
Summary
Research over the past two decades has shown that most of the principal causes of mortality, including cardiovascular disease and type 2 diabetes, have
roots in early and perinatal development. Thus, the time period from conception through early childhood is a unique, sensitive period during which environmental exposure can have lasting effects and contribute to the programming of principal physiologic functions, the risk of major diseases during adulthood,
and the health of the individual for life. The most cited example is the association between low birth weight and the risk of mortality from coronary disease
in adulthood. However, numerous other nutritional, pathologic, and environmental factors are recognized to influence the risk of a variety of diseases including obesity, certain cancers, and certain mental health disorders. Using the example of the developmental programming of hypertension, this review will
examine the physiologic (particularly renal and vascular) and molecular mechanisms involved, the continuum between normality and disease, the role of
early and later nutrition and lifestyle, and the role of early biomarkers and epigenetic mechanisms on later cardiovascular and metabolic risk factors. The
worldwide impact of the developmental origins of health and disease on public health is considerable, particularly as a number of emerging countries are
undergoing major transitions in their nutritional environments. There are several interesting early prevention possibilities before and during pregnancy, and
early nutritional and lifestyle behaviours are currently being explored in both animal models and human trials. The view that any intervention during the
period from conception to early infancy may condition the life course of individuals, and the corresponding possibilities for prevention pose a new, exciting
challenge to paediatricians and to all children health care providers.
Introduzione
Le origini delle malattie cardiovascolari e del diabete di tipo 2, entrambi principali cause di mortalità degli adulti nei paesi industrializzati, sono state inaspettatamente scoperte nelle prime fasi dello
sviluppo e della crescita. Il basso peso alla nascita e altri fattori
predisponenti sono stati identificati come fattori precoci di rischio
per malattie cardiovascolari, ipercolesterolemia, diabete di tipo 2,
obesità, fumo, e scarsa attività fisica in età adulta (Barker et al.,
1989; Gluckman et al., 2005). Il concetto, denominato ‘programmazione fetale’ di malattie croniche dell’adulto, o “Developmental
Origins of Health and Disease (DOHaD)”, afferma che alcune condizioni durante lo sviluppo del feto e del lattante, influenzano la
salute nell’età adulta. È anche noto che l’ambiente, l’alimentazione
e lo stile di vita periconcezionale dei genitori possono creare effetti
duraturi sulla salute della prole.
Le condizioni associate al rischio di malattie croniche in età adulta
102
agiscono in particolare attraverso fattori nutrizionali precoci, sia
prima che dopo la nascita. Il rischio di insorgenza in età adulta
di malattie cardiovascolari e malattie metaboliche croniche tipicamente è un effetto prodotto da un precoce deficit nutrizionale
durante la gravidanza, o perinatale, combinato con un’ eccessiva
crescita di recupero durante l’infanzia e l’adolescenza. Comunque,
disequilibri nutrizionali legati all’ sovrappeso o all’obesità materna
prenatale, in particolare se complicati da diabete, e molto probabilmente disequilibri nutrizionali pre- e periconcezionali materni e
paterni portano a simili conseguenze simili per la salute a lungo
termine del bambino.
L’impatto sulla salute pubblica mondiale, delle origini durante lo sviluppo della salute e della malattia in età adulta sono notevoli, in
particolare perché un numero considerevole di persone sta attraversando una cambiamento importante nelle proprie abitudini alimentari nei paesi economicamente emergenti.
Le origini precoci della salute e della malattia: una nuova sfida per i pediatri
1. Programmazione delle caratteristiche fisiologiche
e fisiopatologiche dell’ età adulta
durante lo sviluppo: il concetto generale
Studi di coorte di adulti nati tra il 1920 e il 1930, dei quali erano
note le caratteristiche antropometriche neonatali, hanno dimostrato
che la mortalità per malattia coronarica e l’incidenza di ipertensione
arteriosa e diabete di tipo 2 aumentava se il peso alla nascita era
basso. Questa relazione è stato trovata all’interno della popolazione
generale, compresi i pesi alla nascita, che risultavano nel range di
normalità (Barker, 1989).
Recentemente, è stata trovata, tra adulti nati prematuri, una correlazione inversa tra la pressione arteriosa in età adulta e l’età gestazionale, suggerendo che il basso peso alla nascita associato al
ritardo di crescita intrauterina (IUGR) o alla bassa età gestazionale,
potrebbe essere responsabile di conseguenze cardiovascolari a lungo termine (Irving et al., 2000). Altri fattori di rischio perinatali sono
l’esposizione intrauterina al diabete materno o all’iperossia. (Fig. 1)
(Simeoni et al., 2009).
La completa comprensione di questo fenomeno ha rivelato che la
plasticità dello sviluppo, e la risposta predittiva adattiva (Fig. 2),
potrebbero non rappresentare un beneficio a lungo termine. La risposta allo stress induce il feto all’adozione di caratteristiche che
cercano di permettere la sua sopravvivenza a breve termine, ma che
risultano inadatte a lungo termine (teoria dello “thrifty phenotype”)
(Gluckman et al., 2006). Il concetto di plasticità dello sviluppo, la
capacità di un genotipo di manifestare diversi fenotipi, si applica sia
alle condizioni normali (cioè, a quello che viene definito da criteri
standard, come la curva di crescita di riferimento) che alle situazioni
patologiche. L’adattamento umano si basa sulle condizioni del genotipo e dell’ambiente, tra cui le condizioni durante il periodo prenatale
fino all’età di due anni. Questa prima finestra di vulnerabilità, speci-
fica per il concepimento, la gravidanza e il primo periodo post-natale, è unica, in quanto un turbamento nutrizionale o ambientale, in
questo periodo, porta a conseguenze permanenti, mentre lo stesso
turbamento non porterebbe agli stessi cambiamenti, se si verificasse durante una fase successiva della vita. Questo periodo sensibile
è tipico degli esseri umani e di molte altre specie animali, come
dimostrato da diversi modelli sperimentali di mammiferi (Woods et
al., 2004; McMullen et al., 2005).
Tuttavia, questo paradigma non è più sufficiente a spiegare la programmazione in situazioni che non comportano uno stress cronico al feto, come il diabete materno, la prematurità, l’iperossia, e la
precoce esposizione a sostanze contaminanti tossiche. Il ruolo degli
adattamenti a livello molecolare nel corso di un periodo della vita
che è particolarmente sensibile a fattori ambientali e nutrizionali è
importante perché i cambiamenti epigenetici di solito hanno luogo
durante la fecondazione e le fasi precoci dello sviluppo (Fig. 1).
È possibile che queste alterazioni fisiologiche e biologiche programmate precocemente abbiano hanno l’obiettivo di conservare la
specie, favorendo la sopravvivenza degli individui fino all’età della
riproduzione. Tra gli esseri umani, questa fase è relativamente tardiva rispetto alla durata media della vita, consentendo quindi che
malattie croniche abbiano il tempo di svilupparsi.
Il fatto che il periodo prenatale e perinatale siano periodi cosi sensibili per quanto riguarda gli effetti sulla programmazione futura
può essere spiegata dal presupposto errato che tale programmazione possa aumentare la sopravvivenza dell’adulto. Questo
presupposto assume che l’ambiente postnatale fino all’epoca
della riproduzione sia simile all’ambiente in cui si è sviluppato nel
periodo sensibile.
L’ipotesi che i periodi prenatale e perinatale siano periodi sensibili
per tale programmazione a lungo termine può essere spiegata con
la particolare importanza delle modifiche epigenetiche che si appli-
figura 1.
Varie condizioni pre e perinatali influenzano la programmazione della fisiologia ed il rischio di disturbi e malattie croniche in età adulta, tramite
impronte epigenetiche.
103
U. Simeoni et al.
Patogenesi della programmazione precoce
dell’ipertensione
figura 2.
La plasticità del fenotipo, la risposte adattative e l’alterato programming
nelle fasi precoci dello sviluppo.
Il feto ed il neonato, sottomessi a condizioni ambientali sfavorevoli, adattano la loro fisiologia per sopravvivere; in questo periodo di particolare
sensibilità agli stimoli esterni, permane questa “ri-programmazione”
della fisiologia durante tutta la vita, malgrado condizioni ambientali ulteriori più favorevoli. Questo disequilibrio tra ambiente e programmazione
è considerato all’origine delle malattie dell’età adulta.
cano allo sviluppo dell’embrione e del feto, ed alla differenziazione
cellulare in questo periodo della vita.
Questa teoria è rafforzata dal fatto che il ruoli dei fattori genetici, in particolare per quanto riguarda la programmazione precoce del diabete,
che potrebbero introdurre alterazioni in questi risultati, appare limitato ed inoltre è rafforzata dal crescente riconoscimento del ruolo delle
modifiche nella durata dell’espressione genica grazie a meccanismi
epigenetici (Waterland et al., 2004). Modifiche epigenetiche, spesso di
origine nutrizionale o metabolica, come da contaminanti dall’ambiente,
tali i perturbatori endocrini, modificano l’espressione di determinati geni
senza alterare la loro sequenza nucleotidica. Queste modifiche sono trasmesse sia al momento della divisione cellulare che tra genitori e prole.
Recenti studi hanno dimostrato il carattere transgenerazionale della
programmazione del diabete e l’ipertensione arteriosa è stata associata
a condizioni perinatali in modelli animali differenti (Harrison et al., 2009).
È probabile che l’attuale pandemia globale del diabete di tipo 2 sia legata a questo fenomeno e sia aggravata dal fatto che un neonato esposto
in utero ad iperglicemia materna ha un rischio maggiore di sviluppare il
diabete di tipo 2 in età adulta.
Inoltre, le modifiche epigenetiche consentono di spiegare la diversità
biologica delle specie e possono chiarire gli elementi mancanti nella
teoria dell’evoluzione, riferibili essenzialmente alla selezione genetica legata ad un vantaggio selettivo.
2. Meccanismi sistemici particolari coinvolti
nelle cause precoci del rischio cardiovascolare
e metabolico
In questa sezione verrà discussi il ruolo di diversi sistemi ed organi
implicati nella programmazione precoce del rischio cardiovascolare
(in particolare l’ipertensione arteriosa, Fig. 3) e metabolico.
2.1. Il rene
Il rene è coinvolto nello sviluppo dell’ipertensione (HTN) associata
al basso peso alla nascita ed all’esposizione intrauterina a diabete
104
figura 3.
Esempio della programmazione precoce dell’ipertensione. Meccanismi
renali, vascolari, neuro-endocrini.
materno in particolare a causa della riduzione costituzionale dei
nefroni che accompagna queste condizioni. Anche il ritardo della crescita intrauterina è associato ad una riduzione permanente
del numero di nefroni alla nascita. Negli esseri umani, è stato
riscontrato un deficit di nefroni dell’ordine del 35% tra i neonati
che presentano ritardo di crescita intrauterino. In molti modelli
animali di sviluppo perinatale per HTN si riscontra una riduzione
di nefroni. La predisposizione alla HTN, lo sviluppo di lesioni glomerulosclerotiche (da iperfiltrazione glomerulare con proteinuria)
e l’alterazione della funzione renale tra gli adulti sembrano essere
legati ad una riduzione del numero di nefroni, se acquisita abbastanza presto nella vita. Gli adulti che presentano HTN hanno una
riduzione significativa del numero di nefroni. L’ iperfiltrazione a
carico dei singoli nefroni, quando il loro numero totale è ridotto,
spiega lo sviluppo dell’ ipertensione glomerulare, della proteinuria
e della progressione cronica verso l’insufficienza e l’ipertensione
arteriosa (Brenner et al., 1988).
2.2. Meccanismi vascolari
Anche i meccanismi vascolari sono fortemente implicati nella
programmazione precoce di HTN. Le alterazioni del flusso vascolare durante il periodo perinatale possono indurre modifiche nella
struttura a lungo termine e portare a una rigidità delle arterie.
Questo fenomeno è stato osservato sia nei bambini nati con arteria ombelicale unica e che nei gemelli donatori in caso di sindrome da trasfusione feto-fetale (Cheung et al., 2000). In studi
recenti, compresi gli studi nel nostro centro, hanno dimostrato
come l’elasticità delle arterie nei neonati prematuri sia inferiore
rispetto a quella dei neonati a termine e questa alterazione è stata
riscontrata anche per tutto il periodo di maturazione postnatale
(Tauzin et al., 2006; Rossi et al., 2006). Questi cambiamenti sembrerebbero connessi ad una ristrutturazione della parete arteriosa, e la conseguente rigidità arteriosa è considerata una base importante per lo sviluppo di HTN in età adulta. Durante lo sviluppo,
le fibre elastiche si accumulano nella parete vascolare, e questo
meccanismo potrebbe essere alterato dalla nascita prematura o
dal ritardo di crescita intrauterino.
Inoltre, diversi studi clinici e sperimentali hanno dimostrato che in
caso di basso peso (Norman, 2008) legato ad ipotrofia, come nel
caso di esposizione intrauterina a diabete materno il meccanismo
della vasodilatazione endotelio-dipendente subisce alterazioni durature. È, quindi, possibile che l’alterazione permanente dell’angio-
Le origini precoci della salute e della malattia: una nuova sfida per i pediatri
genesi e la rarefazione vascolare precoce, secondaria ad una disfunzione endoteliale, contribuisca ugualmente allo sviluppo di HTN
legata al basso peso alla nascita (Pladys et al., 2005).
2.3. Meccanismi neuroendocrini
La prova del ruolo del sistema renina-angiotensina-aldosterone
(RAAS), dell’asse corticotropo, e dei meccanismi neuroendocrini
di controllo dell’appetito e della massa grassa è stata verificata principalmente con modelli murini sperimentali di IUGR, provocato da iponutrizione materna (globale o proteica) durante la
gravidanza.
Una diminuzione moderata dell’apporto proteico materno (8,5% contro il 19% di calorie derivate dalle proteine) porta ad una riduzione
dell’espressione dei componenti RAAS (proteine e mRNA) nel rene
durante il periodo fetale e neonatale, ed è associata ad una riduzione
dei nefroni e ad un aumento della pressione arteriosa (Woods et al.,
2001). Durante l’età adulta, si osserva iperattività del RAAS, come
dimostra la reversibilità di talune forme di HTN che può essere ottenuta con l’impiego di ACE-inibitori.
Il coinvolgimento dell’asse corticotropo può essere legato alla riduzione dell’attività placentare della 11β-deidrogenasi di tipo 2 durante la restrizione proteica materna. La riduzione dell’attività di questo
enzima, che è coinvolto nella protezione del feto contro un eccesso
di cortisolo materno, potrebbe spiegare l’IUGR, la riduzione dei nefroni e il rischio di HTN negli adulti. Questo effetto è stato osservato
nei topi durante la somministrazione cronica di desametasone, che
sfugge al metabolismo placentare durante la gravidanza. In questi modelli sperimentali l’asse ipotalamico-ipofisario-surrenalico è
caratterizzato da una iperespressione dei recettori per i glucocorticoidi.
La supplementazione postnatale di leptina consente una inversione
nello sviluppo di obesità perinatale dei topi con basso peso alla nascita, indicando un ruolo per il controllo ipotalamico dell’appetito e
del dispendio energetico nella programmazione precoce di obesità e
iperinsulinemia (Vickers et al., 2005).
2.4. Insulino-resistenza
È stato dimostrato che alcuni gruppi di bambini nati prematuramente sviluppano una diminuzione della sensibilità all’insulina nell’adolescenza (Hofman et al., 2006). Questa resistenza all’insulina sembra essere legata ad un’alterazione duratura della composizione
corporea:una diminuzione della massa magra con ridistribuzione
centrale viscerale di tessuto adiposo, un’alterazione nella distribuzione dei canali di glucosio del muscolo, e alterazione dell’asse
ipotalamico-ipofisario-surrenalico con iperespressione dei recettori
dei glucocorticoidi (Boullu-Ciocca et al., 2005).
Nutrizione intensiva
figura 4.
Il doppio effetto possibile di una nutrizione intensiva durante le prime
fasi dell’infanzia.
luppo di un’adiposità rebound precoce associata a sovrappeso o
obesità.
Un’iperalimentazione precoce postnatale di neonati con basso peso
alla nascita favorisce le sviluppo neuro-cognitivo, ma accentua gli
effetti vascolari a lungo termine, soprattutto per quanto riguarda la
vasodilatazione dipendente dall’endotelio (Singhal et al., 2001) (Fig.
4). Abbiamo notato che tra i giovani adulti nati prematuramente,
l’aumento della pressione arteriosa del sangue è correlata con la
velocità di crescita durante i primi quattro mesi dopo la nascita, un
periodo in cui la crescita normalmente rallenta.
Inoltre, ricerche condotte nel nostro laboratorio, tra cui un modello
sperimentale di IUGR e HTN in ratti, basato sulla iponutrizione proteica materna in gravidanza e l’iperalimentazione nel periodo postnatale, hanno dimostrato che sia l’iperalimentazione globale che lo
specifico apporto iper-proteico (modello pup-in-the-cup con gastrostomia postnatale) accentua lo sviluppo di ipertensione arteriosa e
di alterazioni renali funzionali e strutturali in età adulta (Boubred et
al., 2009; Boubred et al., 2007). L’iperalimentazione postnatale, in
particolare di proteine, può aggravare la glomerulosclerosi a causa
dell’iperfiltrazione supplementare che comporta.
Molti studi attualmente in corso si propongono di determinare la nutrizione postnatale ottimale per i bambini nati con basso peso o per i neonati prematuri ricoverati in unità neonatali. Questi studi sono finalizzati ad evitare gli effetti deleteri di una nutrizione precoce insufficiente
o inadeguata sulla crescita e lo sviluppo neurocognitivo e, allo stesso
tempo, mirano ad evitare gli effetti nocivi di un’eccessiva crescita di
recupero sul rischio di malattia cronica in età adulta (Fig. 3).
3. Il ruolo della crescita post-natale
e della nutrizione
4. Meccanismi molecolari
La coorte studiata a Helsinki ha dimostrato che i soggetti che hanno presentato una ripresa dell’indice di massa corporea durante
l’infanzia dopo essere nati con un basso peso, presentavano un
più alto rischio di mortalità per malattia coronarica (Barker et al.,
2005). È stato possibile identificare le curve di crescita postnatali
che specificamente indicavano il conseguente rischio di HTN o di
episodi cerebro- vascolari. Da questi dati epidemiologici, emerge
che il periodo che va dallo sviluppo del feto fino all’età di due anni
costituisce la finestra di vulnerabilità durante la quale gli effetti
di un’eccessiva accelerazione della crescita post-natale possono
aumentare dopo questa età. Tale rischio è rafforzato dallo svi-
A livello molecolare, sono stati coinvolti differenti geni nella genesi
della riduzione dei nefroni, quali i geni la cui espressione è condizionata dal retinolo. Nella nostra esperienza abbiamo osservato
che il trascrittoma è in gran parte alterato in modelli sperimentali di
IUGR, con programmazione di HTN in età adulta (Buffat et al., 2007a;
Buffat et al., 2007b). Modifiche epigenetiche del DNA, secondarie
a effetti ambientali, influenzano in modo durevole l’espressione di
geni, anche per decenni. Inoltre queste modifiche possono essere
trasmesse attraverso le mitosi, e quindi trasmesse anche alla generazione successiva. L’epigenoma di un individuo quindi archivia
tutte le influenze dell’ambiente, nel corso della vita. I cambiamenti
105
U. Simeoni et al.
l’ambiente e l’alimentazione paterni, oltre quelli materni, possono
influire sulla vita della prole (Ng et al., 2010).
La disponibilità di gruppi metilici è legata allo stato nutrizionale, ed i processi di metilazione-demetilazione sono influenzati
anche dal rilascio di radicali liberi generati durante l’ipossia e
l’ischemia. È quindi probabile che meccanismi epigenetici intervengano in altri sistemi fisiologici coinvolti nella programmazione precoce.
Conclusione, conseguenze per la prevenzione
figura 5.
L’espressione di certi geni puo venire alterata stabilmente, ed in un
modo trasmissibile (attraverso le mitosi e la meiosi, quindi transgenerazionale) da fattori ambientali, tramite dei meccanismi epigenetici. Questi
consistono in processi di metilazione (del DNA, nelle isole citosina-guanosina CpG, o delle istoni), di deacetilazione (istoni) o di fosforilazione
(istoni), e d’interferenza da microRNA regolatori, i quali trasformano la
cromatina attiva in cromatina inattiva (compatta, inaccessibile ai fattori
di trascrizione) e reciprocamente. Queste modifiche epigenetiche sono
quanto più attive quanto intervengono in una fase più precoce dello
sviluppo dell’individuo.
epigenetici si verificano principalmente durante le prime fasi dello
sviluppo dell’embrione, in quanto sono responsabili del silenziamento di quella parte del genoma che non corrisponde al percorso del
particolare processo di differenziazione che le cellule staminali o
progenitrici seguiranno. L’epigenetica influenza l’espressione genica, ma non la sequenza del DNA, attraverso meccanismi di metilazione-demetilazione del DNA, o acetilazione o metilazione degli
istoni (H2A, H2B, H3, H4), rendendo la cromatina accessibile o meno
ai fattori di trascrizione. È anche evidente che i regolatori ad RNA
svolgono un ruolo importante nelle modificazioni epigenetiche (Fig.
5). La demetilazione del gene p53 e la sua attivazione nell’accelerazione dell’apoptosi sono state dimostrate a livello del rene durante
la restrizione di crescita inter-uterina, mediante legatura dell’arteria
uterina nel ratto (Pham et al., 2003). Inoltre, è stato recentemente
dimostrato nei ratti che i cambiamenti metabolici che interessano
il padre, come una dieta ricca di grassi, può predisporre la prole a
una disfunzione delle cellule- beta ed in seguito a un’ intolleranza al
glucosio, il che dimostra da un lato che l’ambiente preconcezionale
è importante per la salute della prole, e dall’altro lato che anche
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La sensibilità agli stimoli ambientali durante le fasi precoci della vita,
le sue conseguenze a lungo termine, e la sua trasmissibilità da una
generazione a quella successiva sconvolgono la nostra comprensione dell’epidemiologia e della patogenesi di numerose malattie del
sistema cardiovascolare in età adulta, di alcune forme di cancro e
di disturbi psichiatrici. Questo apre un nuovo campo di ricerca nella medicina riproduttiva, in ostetricia ed in pediatria. Il futuro di un
bambino è chiaramente e definitivamente influenzato dall’ambiente
in cui si sviluppa inizialmente.
Le ricerche in corso beneficiano di crescente contributi multidisciplinari e seguono numerose e differenziate aree di ricerca.
Un’area è rappresentata dalla caratterizzazione dei fenomeni di
programmazione in sistemi che sono stati solo recentemente
esplorati, come il sistema nervoso, il sistema immunitario e il
cancro, e la placenta. Un’altra linea di ricerca studia i dettagli
dei meccanismi di alterazioni a lungo termine, correlati a condizioni difficili, e l’influenza dei profili di accrescimento durante
l’infanzia, nella speranza finale di individuare percorsi terapeutici
farmacologici o nutrizionali. Questi potranno influenzare sia la
“programmazione” della salute e del benessere di ogni individuo, come pure contribuire a combattere le pandemie attuali di
malattie non trasmissibili, come l’obesità, il diabete, le malattie cardio-vascolari e certe forme di cancro, in un mondo che è
oggi in rapida mutazione. Uno sforzo maggiore nella ricerca sia
necessario prima di poter generalizzare certi tentativi, le piste
seguibili sono riassunte nella Tabella I. Altre ricerche esplorano
la identificazione di biomarcatori precoci di questo rischio, (Ligi
et al., 2010; Simeoni et al., 2011). Infine, si stanno svolgendo in
diversi paesi le prime sperimentazioni di interventi focalizzati su
modifiche dell’alimentazione,e dello stile di vita prima e durante
la gravidanza. Questo concetto apre chiaramente una nuova prospettiva all’azione dei pediatri e degli operatori sanitari. L’ipotesi
che qualsiasi intervento nel periodo dal concepimento alla prima
infanzia possa condizionare il corso della vita degli individui, e le
conseguenti possibilità di prevenzione rappresentano una sfida
nuova ed entusiasmante.
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** Questo lavoro è stato alla base del chiaramento del concetto di origini precoci, durante le sviluppo, della salute e delle principali malattia dell’età adulta.
Ricercando le cause di un’eccessiva mortalità da malattie cardio-vascolari in
una coorte di adult nel Hertfordshire, UK, David Barker ed il suo gruppo di
epidemiologisti dell’Università di Souhtampton hanno descritto il legame tra
il basso peso alla nascita, ed il rischio di decesso da mattia coronarica in età
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* Questa review recente permette di approfondire le conoscenze sui meccanismi generali del programma, e le conseguenze a lungo termine della nutrizione pre- e postnatale, in particolare in quanto riguarda il rene.
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** Il primo studio sperimentale dimostrando, in un modello di ricerca animale,
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figli, ed in particolare la funzione di produzione d’insulina delle cellule beta del
pancreas.
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Corrispondenza
Umberto Simeoni, Div. Neonatology, Hôpital de la Conception, 147 boulevard Baille, 13385 Marseille cedex, France. E-mail: [email protected]
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Finito di stampare nel mese di Maggio 2011
presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A.
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