a denti stretti

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a denti stretti
Fabio Rossi
“ A DENTI STRETTI ”
( Ricordi più o meno scolastici di un dentista )
OPERA PRIMA ET ULTIMA
L’illustrazione è opera di Giordano Bompadre (p.g.c.)
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PICCOLA NOTA INTRODUTTIVA
Non sono uno scrittore e non voglio neppure darmi arie di
essere tale, ho voluto solamente raccogliere in un piccolo
volume alcuni episodi di vita vissuta nei quali,
probabilmente, alcuni dei generosi lettori si potranno
riconoscere.
Ho qua e là aggiunto ai vari racconti una nota di enfasi, ma
in fondo neanche più di tanto, per dare un tocco di colore
che potesse rendere la lettura più piacevole e divertente.
Non me ne vogliano le persone che ho citato: sono esse,
congiuntamente al sottoscritto, gli attori principali di un
copione che per anni si è rappresentato nel grande teatro
della scuola e della vita.
Assieme a tutti coloro che vorranno darmi la libertà di fare
il loro nome, voglio ringraziare in modo sincero e profondo
mia moglie che, con la sua grande esperienza nel campo
della lettura e della scrittura ha avuto la pazienza di
correggere gli innumerevoli errori che con dovizia ho
cosparso nel testo; le chiedo inoltre scusa perché so
quanta pena si dia durante la correzione dei compiti dei
suoi allievi, e quindi intervenire su questo mio lavoro è
stato per lei un ulteriore sacrificio.
Un pensiero va anche alla memoria dei miei genitori
Mariuccia e Renato, che hanno saputo, con grande
sportività e senso ironico, fare fronte alle molteplici
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situazioni nelle quali li ho forse involontariamente
coinvolti.
Un’ultima piccola, ma necessaria, osservazione: non venga
tratto in inganno l’acuto lettore dal fatto che alcuni episodi
possano essere interpretati come sottile critica ad un
sistema educativo forse eccessivamente ferreo. Se questa
fosse la sensazione provata, si sappia che non era
assolutamente mia intenzione scrivere un libro di denuncia
ad un sistema didattico che, si voglia o no ammetterlo, ha
senza dubbio portato la maggior parte di noi studenti a
risultati degni di considerazione.
Fabio Rossi
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IO…IO…IO…e GLI ALTRI
…Eravamo in quattro.
Mio padre.
Mia madre.
Mio fratello ed io.
A volte compariva anche un cane…adesso grosso (Mirka), …
ora piccolo (Full) e poi di nuovo grosso, anzi grande, come il
suo nome, Pelè: così aveva deciso di chiamarlo mio padre,
non era stata indetta nessuna riunione di condominio per
scegliere il nome, ma a noi andava bene lo stesso, a noi
bastava il cane.
Me lo ricordo bene, era bianco a pois neri, ma non era un
dalmata: Pelè era uno come noi, poco aristocratico e senza
grilli per la testa, anche perché, se mai ce li avesse avuti, gli
toccava farseli passare, dato che trascorreva il tempo
segregato nel suo angolo, in attesa di essere slegato e
coccolato.
Ah! I cani di una volta… quelli sì che erano cani, niente
cappottino, niente cuscino vicino alla televisione né
crocchette specifiche per ogni razza , il cane doveva fare il
suo mestiere, il cane appunto.
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Le giornate trascorrevano lente, scandite da una mattinata
di scuola ed un pomeriggio in attesa della Tivù dei Ragazzi,
una trasmissioncina striminzita e tirata che durava poco
più di un’ora, ma a noi sembrava luunga luunga,
probabilmente ci accontentavamo di poco ma eravamo
sereni e il mondo ci sorrideva, e con lui anche i nostri vicini.
E sì, perché allora i vicini erano vicini davvero, in tutti i
sensi, fisicamente e spiritualmente.
La nostra casa confinava con quella della famiglia
Bartesaghi, il padre era una persona distinta e socievole al
pari della madre: Peppino lui, Anna lei e anche loro
avevano dei figli. Tre per la precisione, Gino e Franco che
erano pure gemelli, e poi il più piccolo, Paolo. Anche loro
possedevano un cane, un cocker di nome Kitty.
Kitty, poverina, soffriva di una grave patologia alle
orecchie, una insidiosa forma di otite che le procurava
dolore in continuazione; il signor Peppino la accudiva
costantemente con cure amorevoli, non passava giorno che
non le medicasse le orecchie con soluzioni e farmaci
appositamente comprati. L’otite della cockerina non
accennava a migliorare, ma Kitty continuava a sottoporsi
con pazienza alle terapie: probabilmente beneficiava più
delle cure del padrone che non dei farmaci.
I gemelli Bartesaghi dicevo, appunto: non so perché, ma a
me il fatto che loro fossero gemelli sembrava un privilegio:
loro avevano tutto doppio, uno uguale all’altro, si vestivano
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nello stesso modo, mangiavano allo stesso modo,
parlavano allo stesso modo, avevano sempre ragione loro
...allo stesso modo.
Con loro si era stabilito un rapporto profondo, un’amicizia
vera, fatta di litigi, botte e insulti, tutto quello che ci vuole
per condurre un’adolescenza vivace e frizzante.
I Caspani, invece, confinavano dall’altro lato della mia casa:
la mamma Lia, il papà Francesco e il figlio Roberto.
Roberto era fatto di un’altra pasta: rispettoso, educato,
pacato nel gioco… La prima volta che lo vidi fu in casa sua,
mia madre mi ci portò perché la mamma di Roby (così
veniva chiamato il giovane Caspani), faceva la sarta ed io
avevo bisogno di farmi stringere il grembiulino per la
scuola.
La prima cosa che notai in quella casa fu un meraviglioso
mitra di plastica gialla, uno di quegli arnesi che se venissero
proposti ad un bambino dei nostri giorni te lo tirerebbe sui
denti in men che non si dica, ma io ne fui colpito. Come mi
piaceva… lo fissavo, avrei avuto voglia di prenderlo e
giocarci anche solo per un momento.
Purtroppo mi resi conto immediatamente che quel
ragazzino chiamato Roby, rispettoso, educato e pacato nel
gioco, un vero modello comportamentale per tutti i bimbi
del Villaggio Giardino, aveva intercettato il mio pensiero e
come un fulmine si era avventato sul suo giocattolo,
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togliendolo definitivamente dalla mia vista: per la serie
“Questo è mio e tu gira al largo”.
L’ERBA E IL VICINO
Già, il Villaggio Giardino… così si chiamava la zona dove
abitavo: un’oasi di pace e di tranquillità, a ridosso della
collina di Cesano, venti casette tutte uguali nelle quali
vivevano venti famigliole più o meno uguali, lo stesso
modo di ben pensare, lo stesso modo di condurre una vita
semplice ma dignitosa, un’armonia tra tutti i vicini che non
doveva mai essere alterata.
Il principio sacro e indiscutibile era : convivenza civile e
mutuo rispetto.
Bei tempi: la mattina ci si incontrava, ci si salutava, ci si
inchinava perfino, si chiacchierava anche solo per qualche
secondo e poi via, ognuno per la sua strada.
Mi ricordo della signora Carla, sulla porta della sua casa
campeggiava una targa bianca a caratteri neri molto grossi:
LEVATRICE . Io continuavo a domandarmi per quale motivo
non l’avessero mai corretta quella targa: “Dovevano
scrivere LAVATRICE - ripetevo tra me e me - possibile che
nessuno glielo abbia mai detto?” . Tuttavia pensavo che il
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mestiere della lavatrice era talmente logico, che avrebbero
potuto anche lasciarla così quella targa, ormai tutti erano a
conoscenza del mestiere della signora Carla.
Fu mia madre che, senza volerlo, mi svelò il vero mestiere
della signora Carla, un giorno parlando con mio padre a
tavola durante il pranzo e in mia presenza:
“Sai Renato… la signora Carla ha fatto nascere un altro
bambino”
Ed io dentro di me pensavo “Ma come, con la lavatrice ?”
A quel punto fortunatamente mi decisi ad aprire la bocca e
chiesi finalmente a mia madre cosa c’entrasse il “fare la
lavatrice” col far nascere i bambini…….il resto ve lo lascio
immaginare.
Nell’angolo estremo del villaggio abitava un’altra signora
Carla, Oriani di cognome, un donnone grande grande e
robusto, ma con un viso dolce e sempre sorridente.
La signora Oriani si affacciava spesso al balcone di casa
quando noi bambini giocavamo, amava sentirci gridare,
schiamazzare, era rimasta vedova prematuramente e forse
noi con il nostro frastuono le tenevamo compagnia.
Nel giardino di casa sua c’era un grosso ciliegio, che per noi
costituiva una grande tentazione durante la stagione in cui
i frutti erano maturi. A turno noi piccoli ribelli facevamo
incursione sul povero albero, razziandolo non solo dei
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frutti, ma spesso anche di grossi tralci e rami mutilandolo
irrimediabilmente.
In quei momenti la signora Carla non usciva sul balcone e
noi pensavamo di averla fatta franca grazie alla nostra
furbizia: ancora non potevamo capire che la generosità di
quel donnone era pari alla grandezza della sua persona,
faceva finta di non vedere per non doverci sgridare.
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RITO INIZIATICO
…C’era poi Fiorenzo: abitava dirimpetto alla mia casa, era
“immigrato” - dicevamo noi- nella nostra terra dall’Emilia
con la madre e la sorella, la mamma era maestra
elementare e perciò, come tutte le maestre che si
rispettino, continuava ad esserlo anche fuori servizio, cioè
a casa.
Il povero Fiorenzo ne faceva le spese, essendo tenuto sotto
pressione costantemente dal maglio della madre, che lo
richiamava in continuazione al dovere non appena egli
scappava fuori a giocare con il nostro gruppetto.
La cosa peggiore tuttavia era il modo in cui veniva
richiamato all’ordine: infatti la madre si affacciava al
balconcino di casa e, dopo avere scrutato l’orizzonte ed
individuato il povero figliolo, emetteva con la bocca un
fischio lungo ed acuto che non poteva essere ignorato; ma
non finiva lì, al fischio seguiva il richiamo vocale :
“FIIIOOOREEE… FIIIOOOREEE”.
Fiore?
Eh, no! Fiore proprio no, non poteva andare! Noi, gruppo
compatto, non potevamo lasciarci scappare un’occasione
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tanto ghiotta per sottoporre il nuovo inquilino al famoso
rito iniziatico di benvenuto.
Dovevamo perciò assolutamente trovare un nome
sostitutivo, o meglio un soprannome, che salvasse il buon
“FIIIOOOREEE” da questa imbarazzante situazione.
Quando la pezza è peggio del buco : ecco come andarono i
fatti.
Si occupava dell’operazione assegnazione codici (o meglio
soprannomi) uno dei famigerati gemelli Bartesaghi, a
turno. Questa volta capitò a Gino che apparentemente era
più umano, ma a volte sapeva essere più pericoloso di un
serpente a sonagli.
Gino, dunque, con un’aria falsamente preoccupata,
passandosi la mano sinistra sul mento ed aggrottando la
fronte cominciò a fare finta di pensare: “Fiore… Fiore…
Fiore … no, Fiore proprio non va - ripeteva ecolalicamente dobbiamo trovare un nome che si addica a questo
ragazzo”.
Tra l’altro Fiorenzo era un marcantonio alto un metro e
ottanta, pesava poco meno di 70 kg, proprio un bel
ragazzone, come si usava dire. Ad un certo punto la mano
di Gino si ferma sul mento, i suoi occhi si sbarrano e la sua
voce grida imperiosamente “ GOZZILLA”.
E’ inutile dire che Fiorenzo non fu propriamente felice del
soprannome assegnatogli, tuttavia non poté far altro che
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cedere alle pressioni morali e fisiche, usate per cercare di
convincerlo che quello era proprio il nome adatto a lui.
Più tardi nel tempo, vista la sua buona condotta, gli venne
concessa una piccola “detassazione” sul nome e da quel
giorno Fiorenzo fu chiamato più amichevolmente “GO”.
Più avanti nel tempo il soprannome “GO” fu più
amichevolmente ed affettivamente trasformato in “JO”…
grande “JO”.
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MENS SANA IN CORPORE SANO…
Il pallone proprio non lo potevo sopportare, era un gioco
che a me personalmente non piaceva e non mi
appassionava, ma sembrava comunque l’unico passatempo
possibile nel nostro rione.
La squadra era composta dai più disparati ed anche
disperati soggetti del vicinato, che convogliavano in massa,
più o meno alle ore 17.00, presso il Villaggio per la
consueta partita di calcio pomeridiana.
Massimo e Federico Volpi, i fratelli Colombo di via
Nazionale dei Giovi, i fratelli Colombo vinai, Caspani
Roberto, i gemelli Bartesaghi, i fratelli Zardoni , Luigi
Beccalli detto Becca , io e mio fratello Ascanio ecc. ecc., ma
la punta di diamante era senza dubbio il nostro portiere:
Longoni Aldo detto Lungùn.
Il Lungùn si presentava all’appello vestito nel seguente
modo:
- Pantaloncino da portiere nero imbottito “anti urto”
- Maglioncino sulle cui maniche spiccavano due
gomitiere alla capitan Arlok
- Ginocchiere
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- Cappellino con visiera (sostitituito nella stagione
invernale da cuffietta in lana con pon-pon
- Guanti da sci rigorosamente riciclati ad uso portiere
di calcio
Unica nota assolutamente professionale erano un paio di
scarpette da calcio che noi tutti gli invidiavamo
silenziosamente.
Il Lungùn era l’unico del gruppo che per giocare si bardava
come un cosacco, ma questo gli consentiva di effettuare
parate stratosferiche con atterraggi sul campo di gioco che,
dimenticavo di dire, era un vialetto cosparso solamente di
ghiaietto ultrafine.
Ogni parata del Lungùn era seguita da un urlo di gioia della
folla ed uno di dolore del portiere stesso, nelle cui
ginocchia si infilavano inevitabilmente decine di sassetti
microscopici.
Ecco, sì ...il Lungùn era un vero martire del gioco del
pallone.
Il rito a seguire era quello dell’avulsione sassi dalle
ginocchia del povero portiere, il quale dopo essere stato
adagiato a terra, veniva trattenuto con forza da alcuni
volontari che gli facevano stringere tra i denti uno dei
famosi guanti da sci .
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Capitava anche che nelle nostre partite imperversasse il
ciclone Federico Pallavicini, detto Palla, che sfuggendo
all’occhio vigile della madre disertava per pochi minuti i
tavoli di studio per gettarsi sui “campi di gioco”.
Lo si vedeva correre come se avesse avuto le ali ai piedi, si
gettava nella mischia, tirava 3 o 4 calci al pallone e poi via,
come era venuto se ne andava, lasciando il gruppetto di
sparuti giocatori attoniti ed allibiti. Tornava alle sudate
carte, senza farsi chiamare neppure una volta dalla
mamma… Doveroso, anche se lievemente pleonastico,
aggiungere che il cursus honorum del buon Palla si è
rivelato brillantissimo, costellato di successi scolastici e
professionali, che lo hanno meritatamente condotto ad
essere primario al Policlinico Gemelli di Roma.
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LA PAURA FA 90
Una delle cose che mi ha sempre incuriosito è capire per
quale motivo alcuni adulti si divertano in modo particolare
a spaventare i bambini.
Ricordo che agli inizi degli anni ‘60, prima ancora di
trasferirci come abitazione presso il già citato “Villaggio
Giardino”, io e la mia famiglia abitavamo nel centro di
Cesano e più precisamente in Corso Libertà.
La famiglia Perego, illustre rappresentante della società
“bene” del paese, aveva gentilmente offerto a mio padre
l’opportunità di un piccolo appartamento nel quale ci
sistemammo comodamente per un paio di anni.
Con la gentile famiglia ospite si era intrecciato un legame di
amicizia destinato a mantenersi e consolidarsi negli anni.
Le serate primaverili venivano trascorse in piacevole
compagnia con il capofamiglia Carlo, la moglie Carla e i figli
Emanuele, Vittorio ed Elisabetta: i grandi parlavano delle
loro cose, mentre noi più piccoli giocavamo nel cortile del
grande caseggiato.
Una sera, stanchi di correre, noi folto gruppetto di bambini
ci radunammo in un angolo a parlare del più e del meno,
quando
sopraggiunse un ragazzo di nome Dario che a
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quel tempo lavorava come apprendista presso la stessa
famiglia Perego.
La Ditta Carlo Perego si occupava della vendita di laminati
plastici e affini; nei miei ricordi infatti è presente tuttora
quello strano odore di fòrmica, così era chiamato
comunemente
il
materiale
plastico
in
fogli
commercializzato dalla fiorente azienda.
Dario aveva su per giù una decina di anni in più di noi e
quindi veniva considerato da tutti un adulto pieno di
esperienza, un maestro di vita, un ragazzo dalle mille verità
in tasca.
Quella sera stranamente Dario mi prese in particolare
considerazione, anche se io ero il più piccolo, si mise a
parlare con me facendomi sentire immensamente
orgoglioso, mi raccontava di fatti di vita vissuta, delle sue
esperienze in campo sportivo, di fantastiche avventure
nelle quali aveva persino sfidato la morte.
Io ascoltavo a bocca aperta ignaro del vile piano che egli
stava tramando a mio danno.
Quando lo spietato individuo si rese conto di avermi cotto
a puntino, mi prese in disparte quasi per rendermi
partecipe di un segreto che solo a me voleva svelare.
“Fabio, oramai sei grande” (io avevo sì e no 5 anni) “e
bisogna che ti renda conto del pericolo che tu e la tua
famiglia state correndo”.
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La storia si faceva interessante, tuttavia quell’aria di velato
mistero mi procurava un brivido che mi percorreva tutta la
schiena.
“Hai notato” continuò il sordido individuo “quella
porticina di legno che c’è sul pianerottolo vicino alla
scala che porta a casa tua ?”
“ Si “ risposi io con un filo di voce.
In effetti quella porta che era perennemente chiusa mi
aveva incuriosito già da molto tempo, aveva un’aria di
mistero in virtù del quale non avevo mai osato chiedere
cosa ci fosse al di là di essa.
Dario mi aveva in pugno.
“Bene Fabio”, continuò il giovane truffaldino guardandosi
intorno con circospezione. In effetti egli si guardava intorno
non per mantenere segreta la nostra conversazione, ma
solo per assicurarsi di non essere sentito da orecchie
indiscrete in grado di demolire il suo diabolico piano.
“ Ecco tu sai perché è sempre chiusa quella porta ? “
incalzò Dario mentre vedeva che ora mai la sua vittima era
completamente in suo potere.
“No “ risposi io in modo secco, ma altrettanto preoccupato.
Mentre Dario con il dito indice mi indicava il luogo
incriminato io con lo sguardo cercavo di mettere a fuoco il
bersaglio ma con il cervello ero già partito facendo lavorare
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la mia fervida immaginazione. Questo era senza dubbio
l’obiettivo del “losco” individuo.
“Ebbene, al di la di quella porta vive una donna di circa 120
anni, vecchia brutta e tutta grinzosa che ha la mania di
mangiare i bambini, il suo nome è…il nome è…”.
Dario naturalmente non era stato sufficientemente pronto
ad inventarsi un nome che potesse incutere timore, ma ad
un certo punto esclamò:
“Il suo nome è MARY CLACK”.
La frittata era fatta.
MARY CLACK… una donna con un simile nome non poteva
essere altro che una mangiatrice di bambini pensai in
modo convinto, come non averci pensato prima che dietro
a quella porta potesse vivere indisturbato un simile mostro
e soprattutto , quale pericolo avevamo corso sino ad allora
non conoscendo quello che avrebbe potuto succedere a
me e a mio fratello Ascanio.
Comunque da quel momento in poi avremmo dovuto
vivere anzi convivere con quel problema cercando di
evitare l’incontro faccia a faccia con la vecchia donna.
Per tale motivo ogni volta che dovevo rientrare in casa
prendevo la rincorsa passando davanti alla “porta della
Mary Clack” (così ormai la chiamavo nei miei preoccupati
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soliloqui) ed infilando la scala a tutta velocità fino ad
arrivare sull’uscio della mia abitazione, sperando poi di
trovarlo aperto.
Inutile precisare che dietro quella porta non c’era proprio
nessuno, vi era solo un piccolo appartamentino sfitto
nascosto da una porticina in legno perennemente chiusa.
…
Passarono quei giorni di primavera ed arrivammo all’estate
e, come ogni estate, io e la mia famiglia partimmo per le
sospirate vacanze alla volta della Toscana.
Era abitudine di mio padre trascorrere un mese in
villeggiatura, ed un mese è lungo da passare, ed in quel
mese possono succedere molte cose.
Al nostro rientro venimmo accolti dalla gioiosa famiglia
Perego, la quale però dimenticò di informarci che nel
frattempo, durante la nostra assenza, avevano affittato il
piccolo appartamento ad una gentile signora in pensione
che viveva in solitudine ed in disparte.
Fu così che una sera rientrando a casa, ed inforcando
sempre di corsa la scala investii violentemente la povera
inquilina che in quel momento aveva deciso di uscire per
depositare la spazzatura nel cortile adiacente.
Fu un colpo terribile, lei da una parte ed io dall’altra stesi a
terra in uno stato di semi incoscienza, e sarebbe stato
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meglio che tale semi incoscienza fosse durata, perché non
appena ebbi il tempo di riavermi, alzandomi da terra e
vedendo la sagoma della vecchia signora ancora sdraiata
ed in favore delle tenebre cominciai ad urlare:
“Aiuto….Aiuto… la Mary Clack… mi mangia”.
Le mie urla e i miei pianti fecero accorrere oltre a mia
madre l’intero vicinato: tutti erano spaventati dal gran
baccano da me provocato e nel tentativo di calmarmi, ci
misero un bel po’ ad accorgersi che la povera vecchina era
stesa a terra.
Io continuavo a ripetere quel nome incomprensibile ai più,
mentre
Ci volle del bello e del buono per chiarire tutto l’increscioso
fatto ma con santa pazienza mia mamma riuscì a chiarire la
situazione trovando da parte della simpatica vicina tanta
generosità ed altrettanta comprensione.
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UOMINI e CAPORALI
Eravamo tanti ma mai troppi, era l’epoca in cui di figli se ne
facevano ancora molti ed i cortili, condominiali e non,
erano sempre pieni di bambini.
Talvolta ci si ritrovava a guardarsi l’un l’altro, annoiati
nell’attesa di trovare qualche cosa da fare e questo qualche
cosa aveva molto spesso il sapore della marachella… Nelle
lunghe serate estive, per esempio, lo sport nazionale era
quello di suonare i campanelli e fuggire.
Altre volte, invece, i più grandi si divertivano a raccontare
storie inverosimili ai più piccoli, che stavano così ad
ascoltare per ore, leggende nelle quali il fratello maggiore
millantava di essere stato nella giungla a caccia di leoni. La
morale era che alla fine il narratore era confuso più
dell’ascoltatore e pensava di esserci stato davvero nella
giungla.
E tra una storia e l’altra, tra una partita di pallone ed una
battaglia con i fucili ad elastico, le estati trascorrevano
veloci portandoci inesorabilmente al 1° di ottobre.
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Oggi questa è una data come un’altra ma una volta no, una
volta 1° ottobre significava primo giorno di scuola.
Il mio me lo ricordo forse sì o forse no, non so per quale
motivo: probabilmente qualche serio analista avrebbe la
sua da ridire… Ad ogni buon conto, se non ricordo bene il
primo, di certo non riesco a dimenticare tutti gli altri giorni
scolastici che seguirono.
Io con altri coetanei del Villaggio fummo iscritti, quasi
d’ufficio, alle scuole elementari delle famosissime Suore
Sacramentine, e fin qui niente da dire: era senza dubbio un
ambiente -come si dice- sano, l’educazione buona,
l’istruzione ottima. Tuttavia qualche particolare dei metodi
pedagogici utilizzati per inculcare le regole disciplinari
lasciava intuire – ma è solo un sospetto – velate impronte
del ventennio …
Io ero stato affidato, assieme ad altri malcapitati, alle
“amorevoli” cure di Suor Luigia Carla, la quale
probabilmente covava in seno il dispiacere di non essere
nata uomo per intraprendere la carriera militare.
La giornata scolastica iniziava sempre con l’alza bandiera,
un alza bandiera con una bandierina piccola piccola ed un
vecchio grammofono, che faceva risuonare imperterrito un
gracchiante inno di Mameli, e noi lì a marciare e cantare
nel cortile della scuola, sia che ci fosse il sole o che tirasse
un vento da cani e una neve da lupi.
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Il tutto avveniva rigorosamente all’aperto, nel cortile
adiacente alla palestra: una palestra grande, calda e
soprattutto… vuota. Era questo fatto che ci faceva
arrabbiare, lasciare una palestra vuota e noi fuori a
marciare al freddo e al gelo. Cosa avevamo fatto per
meritare tale castigo ?
D’altro canto, ben presto capimmo che era inutile
lamentarsi: la suora aveva avuto ordini superiori –mah?- di
forgiare il nostro carattere.
Inoltre ci fu anche detto che la giornata della protesta e
della lamentela era stata tassativamente abolita dal
regolamento scolastico .
La classe era formata da 52 dico cinquantadue bambini,
diversi tra loro per colore di capelli, occhi, statura , cervello
e … quattrini.
Io non brillavo particolarmente per nessuna di queste
caratteristiche, ero mediamente nella media, inoltre non vi
era giorno che non mi domandassi che cavolo ci stavo a
fare lì fermo nel mio banchetto, immobile per ore e ore
avendo da fare altre cose molto più importanti e
soprattutto divertenti. Il fatto è che probabilmente la
suora aveva capacità telepatiche, e penso che i miei
pensieri reconditi la irritassero in modo particolare, perché
non perdeva occasione per interrogarmi .
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Fu appunto in una di queste giornate che accadde un fatto
increscioso…...
Volle Iddio che quel giorno la suora decidesse di effettuare
un’interrogazione straordinaria in Scienze e sempre Iddio
volle che la suora decidesse di interrogare proprio me, ma
Iddio non volle che io fossi preparato, per cui la suora mi
esortò a consegnare il diario per l’annotazione della
meritata insufficienza.
Era consuetudine che alla regolare annotazione sul diario
seguisse una punizione corporale da parte della solerte
maestra e il tutto avveniva con la modalità di seguito
esposta ed ampiamente collaudata.
Dopo essere stato interrogato con esito negativo, il
candidato veniva invitato a presentarsi presso la cattedra
della suora, la quale con piglio fulmineo afferrava con la
mano sinistra il diario e con la destra il braccio del
malcapitato. Seguiva quindi prima una sorta di sberloni a
raffica e poi una serie di scossoni, a seguito dei quali
l’alunno non sapeva più se si trovava a nord o a sud della
classe. A seguire tutto ciò, avveniva l’assegnazione di voto
negativo sul diario e una serie d’insulti di varia natura, con
finale esposizione della vittima al pubblico ludibrio.
…..E nonostante tutto ciò crescemmo – si dice- fortificati
nel corpo e nello spirito.
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IL DIAVOLO FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI
L’orario scolastico era strutturato nel seguente modo:
- ore 8.30 inizio lezioni
- ore 11.00 ricreazione
- 0re 12.30 Pausa pranzo
- Ore 14.00 Rientro pomeridiano
- Ore 16.30 Fine lezioni
No, io quel giorno proprio non ce la facevo a sostenere il
quotidiano tour de force, e, subito prima dell’inizio delle
lezioni pomeridiane, mi rivolsi alla suora, comunicandole
con aria decisa che nel pomeriggio avrei dovuto… recarmi
dall’oculista per una visita di controllo.
Ricordo di avere letto sul suo volto un’espressione di scarso
convincimento ma, come fu o come non fu, so che ebbi
accordato il permesso richiesto.
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Bighellonai quelle poche ore che mi separavano dal
consueto orario di uscita dalla scuola e poi finalmente
rientrai a casa come al solito.
La sera stessa fui però colto da un senso di colpa per la
bugia detta e cercai quindi il mezzo per rimediare, ma
soprattutto per rendere credibile agli occhi della maestra il
fatto che mio fossi assentato per ragioni di salute.
Pensa e ripensa, rimasi di colpo folgorato da un’idea
brillantissima, corsi in camera e cercai sulla scrivania gli
occhiali da vista di mio fratello… li trovai, li provai e mi resi
conto immediatamente di avere ottenuto la soluzione a
tutti i miei problemi.
Mi presentai a scuola il giorno seguente sereno e
tranquillo e, non appena la suora con voce imperiosa
ordinò di prendere carta e penna per lo svolgimento del
dettato, io inforcai rapidamente gli occhiali di mio fratello,
lanciandole uno sguardo di sfida.
Purtroppo lo sguardo nelle intenzioni fu di sfida, ma nella
realtà fu solo annebbiato tanto che, non appena la suora
iniziò la dettatura, per poter scrivere qualche cosa di
decente fui costretto a guardare attraverso la montatura
degli occhiali, assumendo una postura talmente viziata da
suscitare un sicuro interesse da parte di chiunque si fosse
messo ad osservarmi.
Ma il peggio doveva ancora arrivare.
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Nel bel mezzo del dettato, si udì bussare alla porta.
“Avanti!” ordinò imperiosamente la suora. La porta si aprì
ed io capii di essere sull’orlo del baratro: era mia mamma,
che quel giorno inaspettatamente aveva voluto venire a
scuola per avere notizie sul mio profitto.
Non ricordo precisamente quale fu l’espressione della
genitrice, vedendomi con gli occhiali di mio fratello, ricordo
solo la domanda che mi pose in maniera chiarissima, ad
alta voce e senza alcuna possibilità di equivoco:
“ E TU…………………….COSA CI FAI CON GLI OCCHIALI DI TUO
FRATELLO?”.
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IL SACRIFICIO
Chi più chi meno avevamo tutti le nostre lacune, chi in
matematica chi in italiano e via dicendo, ma certamente io
facevo parte di un nutrito gruppetto quotidianamente
preso di mira dalla suora, che applicava sui poveri alunni le
più innovative strategie di recupero…
Ricordo in particolare di un ragazzino esile, educato e
timoroso di nome Roberto Righetto, che ogni giorno
puntualmente e inevitabilmente finiva sotto le grinfie della
nostra maestra.
Per l’appunto, quel giorno Roberto venne chiamato alla
lavagna per risolvere un problema ma purtroppo la
soluzione tardava a venire, ci voleva molta pazienza, tanta
pazienza, talmente tanta che ad un certo punto la suora
non ne ebbe più e, alzandosi dalla propria sedia e
dirigendosi verso la lavagna, fece intuire al povero ragazzo
che qualche cosa di non troppo simpatico stava per
accadere.
29
La suora raggiunse quindi l’alunno e, afferratagli la testa
con la mano sinistra per tenerla ben ferma, con la destra
agganciò la lavagna imprimendole un deciso moto
rotatorio facendola così finire… sulla testa del povero
Righetto.
Un tonfo sordo risuonò per tutta la classe lasciandoci
sbigottiti. Ma la faccenda non si concluse così: infatti,
Roberto ebbe la malaugurata idea di reagire, mosso da
chissà quale istinto di ribellione. Allora ebbe un moto di
stizza, del tutto lieve ma inaccettabile dalla suora di ferro,
che prontamente intervenne con un sonoro ceffone ,
facendo schizzare a terra gli occhiali del povero Righetto.
Nuovamente Righetto ebbe da ridire e mormorò la
seguente infelicissima frase : “Adesso, suora, me li paga…”.
La risposta a tale richiesta di indennizzo fu la seguente: “Ti
pago io!”, e afferrato nuovamente il malcapitato per il
braccio lo fece roteare due o tre volte per tutta la classe.
Un silenzio di tomba scese nell’aula e nei nostri cuori.
Nota eziologica: Il sacrificio di Righetto ha fatto sì che da
allora le lavagne siano rigorosamente appese al muro.
30
IL PICCOLO SCRIVANO CESANESE
Nel 1965 non esistevano computer, webcam e Messenger
e il telefono era riservato alle comunicazioni urgenti, per
cui quando si volevano scambiare quattro chiacchiere con
un amico non rimaneva che andarlo a trovare.
Quel giorno quindi, ricevuto il permesso dalla mamma, mi
recai a trovare presso la sua abitazione il mio amico “del
cuore” Gianni.
Giunsi a destinazione dopo lunga ed estenuante
camminata , venni quindi invitato dalla madre ad entrare in
casa e, dopo esserci scambiati i convenevoli di rito,
cominciammo a cercare Gianni.
Niente in sala... niente in cucina… niente in tinello…
cominciavo a pensare di avere fatto la strada per nulla.
Seguirono quindi le ricerche vocali: “Gianniii ,Gianniii”, io e
la signora Luisa all’unisono, ma niente.
31
Di nuovo riattaccammo: “Gianniii…”. Ad un certo punto, dal
fondo del corridoio, si sentì il tipico scricchiolio di una porta
che si apre ed ecco Gianni apparire con il volto di chi stesse
effettuando un’operazione di alta precisione e maestria.
La madre conosceva suo figlio
perciò, con un
atteggiamento misto di comprensione e copertura dei
misfatti, preferì non approfondire e mi spedì nella camera
di Gianni, sospingendomi delicatamente con la mano sulla
schiena.
Una sensazione di inquietudine mi attanagliava dentro, ma
dovetti mio malgrado andare a fondo della strana
situazione.
Varcata la porta della camera mi resi subito conto che
qualche cosa di “poco chiaro” era avvenuto o stava
avvenendo; la tapparella era totalmente abbassata e la
cameretta era illuminata unicamente da una di quelle
piccole lampade da tavolo che emettevano una luce fioca.
Il debole chiarore permetteva di vedere una serie di
quaderni aperti sui quali era appoggiata una penna bic
rossa simile, e dico simile, a quella che la nostra maestra
usava quotidianamente per segnare i voti sui nostri diari.
Il senso di inquietudine a quel punto sparì per lasciare
posto a una sensazione di profonda costernazione: cosa
mai stava facendo il “piccolo scrivano lombardo” prima che
io arrivassi ed irrompessi drammaticamente nella sua vita ?
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Mi girai di scatto e con il mio sguardo incrociai il suo……..
“Vedi Fabio - cominciò Gianni con voce da cospiratore del
periodo tardorisorgimentale - domani è la festa della
mamma ed io ho pensato che alle nostre avrebbe fatto
piacere ricevere in dono i nostri compiti con dei voti direi,
ecco direi …”. E lasciò la frase in sospeso, come un attore
consumato.
Il primo istinto fu quello di darmela a gambe, ma poi pensai
che tutto sommato un simile regalo alla mia mamma non lo
avevo mai fatto e decisi quindi di tenere bordone alla
perversa “Mente” ideatrice del diabolico piano.
Gianni si rimise quindi al posto di lavoro ed io, cavati i
quaderni dalla piccola cartella rossa che costantemente
portavo con me, li sottoposi alla sua attenzione. Il piccolo
falsario cominciò a lavorare di lena:
“Italiano… DIECI”
“Matematica… DIECI”
“Storia… OTT… ma no DIECI”
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COMPAGNI DI MERENDE
A scuola ci si doveva andare e basta. “ Il dovere è dovere,
bisogna impegnarsi e non si discute “ mi diceva sempre
mio padre, dall’alto della sua educazione militare. Io, però,
di andare a scuola non ne avevo proprio una grande voglia
e non ero l’unico a pensarla così: infatti, nel nutrito
gruppetto di potenziali disertori spiccava un alunno di
grandi capacità strategiche, in grado di escogitare piani di
fuga degni di “Papillon”, peccato che in questi piani spesso
non venisse considerato il cosiddetto effetto incognita. I
fatti, dunque, andarono più o meno così…
Come già detto precedentemente, l’orario scolastico era
strutturato in una mattina di lezione, un’ uscita per tornare
a casa e pranzare ed un rientro pomeridiano per il seguito
delle lezioni.
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Beh, quel fatidico giorno, dopo avere pranzato come al
solito a casa mi accinsi al rientro, mi diressi verso
l’abitazione del mio compagno ed amico Gianni ed arrivato
sotto casa sua suonai il campanello….
Gianni arrivò regolarmente e senza battere ciglio,
rivolgendomi un fugace saluto, mi precedette sul cammino
del rientro a scuola.
Il suo comportamento mi apparve subito strano, aveva
un’aria da cospiratore, sembrava quasi volermi nascondere
qualche cosa, tuttavia io Gianni lo conoscevo bene: con lui
non avevo alcuna possibilità né di parola né di decisione,
per cui, affidandomi totalmente in cuor mio alla Clemenza
Divina, lo seguii senza parlare.
Fatte solo poche decine di metri, Gianni
scartò
bruscamente a sinistra inforcando la via San Martino: ma
quella non era la strada che ogni giorno noi facevamo per
ritornare a scuola… I miei dubbi cominciarono a diventare
certezze: Gianni aveva in mente qualche cosa di strano.
Un senso d’inquietudine mi attanagliava, ma la curiosità di
sapere fin dove questa storia mi avrebbe portato era tanta
, quindi mi associai tacitamente al torbido piano.
Percorremmo fino in fondo tutta la via, poi girammo a
destra e subito a sinistra portandoci nella via Villafranca,
dove finalmente Gianni si fermò di scatto e guardandosi in
giro con circospezione disse: ”Bene qui è il posto giusto”.
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A questo punto, visto e considerato che avevo accettato
silenziosamente di aderire al subdolo piano, chiesi
cortesemente la parola e domandai : ”Scusa Gianni….ma se
è lecito sapere qui è il posto giusto per fare cosa?”.
Gianni mi si avvicinò e parlandomi sommessamente, quasi
mi volesse far dono di una spiegazione riservata a pochi
eletti , mi disse che quel giorno LUI aveva deciso che NOI
non saremmo andati a scuola.
Oh… finalmente avevo capito. Bene… avevo capito che mi
ero reso complice senza possibilità di scelta di un piano che
ci avrebbe sicuramente condotti al patibolo.
Davanti ai miei occhi in pochi secondi vidi fotogramma per
fotogramma quale sarebbe stato il mio destino:
La suora avverte mia madre della mia assenza…
Mia madre lo comunica mio padre …
Mio padre mi castiga e lo riferisce alla suora …
La suora è contenta … e mi castiga.
A quel punto mi resi conto che dovevo intervenire per
cercare di sanare in qualche modo la situazione.
Dimenticavo di dire che un altro problema emergeva da
questa storia: la cartella. E sì, perché con il rientro per il
pranzo la cartella rimaneva a scuola e logicamente qualche
anima pia avrebbe dovuto andare a riprenderla; peccato
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che per un fortuito caso le cartelle erano sempre quelle di
Gianni e Fabio o di Fabio e Gianni, e la suora cominciava ad
insospettirsi di questo fatto.
Va bene, lasciamo perdere questi particolari e continuiamo
con la narrazione.
Gianni quindi, come dicevo, decise che la “ location “ per
consumare il misfatto era ideale e si sedette dunque su un
piccolo muricciolo che faceva da cinta ad una vecchia villa e
con le braccia conserte tuonò : ”Bene ora non rimane che
aspettare”.
Le ore, ma che dico i minuti, cominciarono a trascorrere
lentamente, mentre nella mia testa si materializzava il film
di quello che sarebbe successo in seguito, e con il passare
dei minuti e delle ore cominciarono a farsi anche sentire i
morsi della fame e della sete.
Che cos’è il colpo di genio? Niente di trascendentale, è solo
un’idea geniale che di colpo può risolvere un problema
apparentemente irrisolvibile.
Ebbene io, nonostante tutto, avevo di tanto in tanto degli
sprazzi di lucidità, mediante i quali riuscivo a risolvere
brillantemente situazioni complesse, ed anche quel giorno
in quel preciso momento ebbi l’idea luminosa.
“Che ne diresti - dissi io rivolgendomi a Gianni - se
andassimo da mia cugina Lina a fare merenda?”
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Alla risposta affermativa del mio amico, che mai avrebbe
opposto rifiuto ad un invito tanto allettante, ebbe inizio la
terza fase della inquietante storia, nella quale stava per
essere inesorabilmente incastrata l’ignara e generosa
cugina.
La mia simpatica parente abitava a poche decine di metri
ed era l’unica nostra ancora di salvezza. Ci dirigemmo
quindi verso la sua abitazione e, giunti davanti al portone di
casa, dopo esserci reciprocamente guardati negli occhi
esprimendo un silente uno per tutti e tutti per uno…. io e
Gianni suonammo il campanello.
Alla risposta “Chi è?” di mia cugina entrambi rispondemmo
all’unisono “NOI”, attendendo pazientemente l’apertura
del portone del palazzo. Pochi ma interminabili secondi
trascorsero, ma finalmente la serratura scattò …eravamo
salvi.
Lina era ed è tuttora una persona di gran cuore, per cui
quando ci vide “baluginare” davanti alla porta di casa non
esitò a farci entrare facendoci accomodare in cucina….
“Cosa fate di bello in giro a quest’ora - ci chiese l’ignara
parente - non dovreste essere a scuola?”..
Vi ricordate del colpo di genio di cui vi parlai poc’anzi? …
Era il momento di farne partire un altro.
“Vedi Lina” mi affrettai a rispondere prima che lo facesse
quel pasticcione di Gianni e rovinasse tutto, “Oggi … ecco
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vedi ... c’è il funerale del papà di un nostro compagno e …
tu … Sai … insomma mi veniva da piangere……”. A quel
punto Lina, dotata di grande sensibilità, mi abbracciò
cercando di consolarmi.
La buona e simpatica parente preferì, inoltre, non
approfondire l’argomento e diede inizio al … banchetto.
Quello che in pochi minuti apparve sul tavolo ve lo lascio
solo immaginare …
Cioccolata calda.
Torte di ogni tipo e qualità.
Bevande deliziose.
Biscotti e … chi più ne ha più ne metta.
Io ed il mio amico cominciammo ad abbuffarci, lanciandoci
di tanto in tanto fugaci occhiate di traverso, badando bene
che nulla di ciò che avevamo in animo trapelasse dai nostri
sguardi.
Epilogo della triste e strana storia.
Giunto a casa dopo avere salutato il compagno di merende,
trovai un’aria di insolita lieta accoglienza da parte dei miei,
che cominciarono a pormi strane domande sul come fosse
andata la giornata scolastica.
Cercai allora di raccontare di un ipotetico pomeriggio di
scuola infarcendo la narrazione di particolari bizzarri e
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bugie assurde, ignorando però (come potete bene
immaginare) che il mio rientro fosse stato preceduto da
una telefonata da parte della solerte suora.
Preso dalla foga non mi accorsi, mio malgrado, che mio
padre si era già cavato la cinta dei pantaloni avvicinandosi
alla mia persona insidiosamente……..
DELITTO E CASTIGO
Per l’appunto quel dì la suora ci ordinò di prendere carta e
penna per una verifica estemporanea sulle equivalenze:
era quello un argomento che, insieme a tanti altri, a me
proprio non voleva entrare in testa.
La suora aveva una pessima abitudine, quella di girare tra i
banchi e verificare all’istante (in tempo reale, si direbbe
oggi) come procedessero i compiti e, qualora non si
ritenesse soddisfatta sull’andamento, impartiva seduta
stante una punizione rappresentata da una serie di
nocchini sulla testa del malcapitato.
Fui io quel giorno l’estratto a sorte, per cui, visto che il
compito al quale stavo alacremente lavorando, non
piacque per niente alla diligente maestra, fui costretto a
sorbirmi l’amaro castigo.
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Il mio “simpatico” compagno di banco di nome Fulvio ,
probabilmente, fu divertito molto dalla situazione nella
quale mi trovai coinvolto, e si lasciò scappare una leggera
risata alla quale io, irritato più che mai, replicai con
l’infelice quanto mai inopportuna frase : “La suora è
scema”.
A quelle parole, Fulvio non seppe trattenere una seconda
ondata di risate richiamando l’attenzione della suora, la
quale chiese repentinamente al ragazzo: “ Fulvio, che cosa
ti ha detto Rossi?”.
Fulvio cercò di scoraggiare l’insistente curiosità della nostra
maestra, tentò e ritentò più volte di lasciare cadere
l’argomento, ma quando la suora, ormai sull’orlo di una
crisi isterica e rossa come un pomodoro, urlò a Fulvio: “Ti
metto 4 in condotta”, il fanciullo dovette proprio
arrendersi e, stimolato dalla paura della insufficienza sul
profitto, esclamò. “Rossi ha detto che… ha detto che.. la
suora…la suora è scema”.
Un profondo senso di costernazione avvolse l’intera aula
lasciando intuire che qualche cosa di brutto sarebbe
accaduto da lì a poco al povero Rossi.
La suora impietrita mi ordinò di portare immediatamente il
diario: così feci tenendomi, per i motivi già esposti in
precedenza, a debita distanza di sicurezza.
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Afferrato il diario, dopo avere lisciata con il palmo della
mano più e più volte la pagina riportante la data di quel
giorno funesto, la suora di ferro vergò di proprio pugno la
seguente annotazione:
“L’ALUNNO ROSSI FABIO HA OFFESO LA SUA INSEGNANTE,
EQUIPARATA AD UFFICIALE NEL PIENO ESERCIZIO DELLE
SUE FUNZIONI.
CONDOTTA QUATTRO”
A tale ormai certa condanna di morte seguì la seguente
frase detta con voce tuonante:
“ Fare firmare dai genitori”.
Ero spacciato.
Attesi la fine delle lezioni domandandomi quale sarebbe
stata la mia sorte, di certo mio padre non mi avrebbe
concesso il piacere dell’ultima sigaretta, e poi io neppure
fumavo.
All’uscita della scuola mi incamminai lentamente verso
casa , cercando di trovare le parole più adatte per dare
spiegazioni sulla vicenda, ma – ahimè - non riuscivo a
districare l’ingarbugliata matassa.
Giunto a destinazione, venni accolto da mio fratello
Ascanio il quale, vedendomi profondamente turbato nel
volto e nell’animo, mi chiese che cosa fosse accaduto.
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Gli spiegai i fatti e gli antefatti e lui, dopo avere ascoltato in
religioso silenzio i termini dell’amara vicenda, esclamò: “
Non preoccuparti, firmerò io la nota, so imitare bene la
calligrafia del babbo”.
E fu così che dopo cena io e mio fratello, senza fiatare,
andammo in camera nostra: Ascanio estrasse dal cassetto
della scrivania un foglio di carta carbone, lo adagiò sulla
pagina del diario sulla quale era stata apposta la nota, la
stese ben bene e vi fece combaciare sopra un altro foglio
sul quale compariva la firma del papà.
Io osservavo l’operazione con stupore…come non averci
pensato io personalmente…per quale motivo la mia mente
diabolica non aveva pensato a tale espediente ?
Guardavo mio fratello con grande fiducia, egli aveva in
mano la chiave della soluzione a tutti i miei problemi, ed io
già mi preparavo alla commedia che avrei dovuto
rappresentare il giorno seguente al cospetto della suora.
Ad opera compiuta, Ascanio diede un’ultima guardata di
fino al suo capolavoro e mi consigliò vivamente di
cancellare quelle piccole sbavature rimaste attorno alla
firma “contraffatta” del babbo, evitando di farsi scoprire
dall’occhio vigile della maestra.
Il giorno seguente di buon’ora mi alzai e, dopo avere fatto
un’abbondante colazione, mi apprestai a raggiungere la
scuola.
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La suora mi aspettava con ansia, ed io non vedevo l’ora di
raccontarle quanto fosse stato duro il castigo impartitomi
da mio padre.
Cominciai quindi a narrare tutto con dovizia di
particolari…scaturiti dalla mia fervida fantasia.
La suora mi osservava con grande attenzione ma, non
appena aperto il diario, guardando la firma , in una frazione
di secondo scoprì l’arcano e sentendosi nuovamente presa
in giro non potè esimersi dal vergare con mano sicura una
seconda nota:
“ L’ALUNNO ROSSI FABIO HA FALSIFICATO LA FIRMA DEL
PADRE QUANTUNQUE VIETATO DAL CODICE PENALE”.
e per la seconda volta aggiunse con voce tuonante:
“ FARE FIRMARE VERAMENTE DAI GENITORI”
Questa volta però non si fermò alle parole, ma fece
precedere il mio rientro da una telefonata a casa.
Al mio rientro trovai mio padre sull’uscio che mi aspettava
con aria minacciosa…
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LIBERTE’ EGALITE’ FRATERNITE’
O tempora o mores !
La locuzione latina o tempora o mores!, tradotta letteralmente, significa
Che tempi...! Che costumi...! (Cicerone, Catilinaria, I)
In effetti i tempi sono cambiati, eccome, alcune sere fa ho
avuto una breve discussione con mio figlio Filippo, la
ragione del contendere stava sulla scelta della
programmazione televisiva per la serata.
Inutile dire che ho dovuto, mio malgrado, abdicare per
evitare di commettere un omicidio.
Mi sono quindi rintanato nel mio “studiolo” per dedicarmi
ad interessi più costruttivi e gratificanti che non vedere le
enormi scempiaggini che spesso ci propinano alla tivù.
…
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Ripensando a tutta la situazione mi venne in mente a
quanto l’episodio fosse simile a quello che accadeva con
mio padre: stessa modalità, stessi futili motivi.
Solo l’epilogo era profondamente diverso e l’esclamazione
proferita da mio padre per porre termine alla discussione
era uno stentoreo e inappellabile
BUONA NOTTE !!!
…ed io andavo a letto.
PUSCHER IN ERBA
In quegli anni andava molto di moda, non so bene per
quale ragione ma, mandare i figli in colonia a trascorrere
un periodo di vacanza in compagnia dei coetanei pareva
essere diventato lo sport nazionale.
E fu così che anche a me successe di rientrare nel folto
numero dei fortunati prescelti che armi e bagagli in spalla
dovettero partire alla volta di una delle Colonie estive
gestite dal Comune di Cesano Maderno.
La località si chiamava e si chiama tutt’oggi Guello, un
ridente paesino nelle vicinanze del Monte S. Primo in
provincia di Como.
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Il viaggio in pullman rappresentò per me un vero e proprio
calvario, tra bambini che vomitavano da una parte ed un
gran puzzo di sudore dall’altra, ma nonostante tutto volle
Iddio che si arrivasse a destinazione.
Un grande cancello ed una cinta grigia delimitavano il
perimetro del giardino del caseggiato adibito a dormitorio
e refettorio: la mia sensazione fu immediatamente quella
di essere un deportato condannato ai lavori forzati.
Da quel momento in poi devo dire che i ricordi si fanno un
po’ confusi (brutto segno) tuttavia un solo episodio mi si è
fissato nella mente.
In un assolato pomeriggio durante l’ora della merenda me
ne stavo seduto in mezzo al prato del giardino scrutando
l’orizzonte, continuavo a domandarmi per quale motivo i
miei genitori mi avessero spedito in colonia a passare quel
periodo di “emme”.
Ad un certo punto un altro bambino si sedette vicino a me,
io continuai a scrutare l’orizzonte ma non so perché mi
sentivo osservato, girando il mio sguardo di scatto incrociai
il suo…mi fissava in modo ossessivo…ci fu un lungo periodo
di silenzio ma ad un certo punto egli continuando a fissarmi
mi disse:
“ SCIUSCIA L’ERBA “
“ PRENDI L’ERBA E SCIUSCIALA “
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E di nuovo, ma questa volta con insistenza:
“ SCIUSCIA L’ERBA “
“ PRENDI L’ERBA E SCIUSCIALA “
Tu ordini a me di sciusciare l’erba?
Non so per quale recondito motivo, forse sarà stato il mio
stato d’animo in quel momento o forse le circostanze che
in quei giorni non giocavano a mio favore, ma sentirmi
impartire tale ordine da uno che poi non sapevo neanche
chi fosse, innescò in me una reazione per la quale gli saltai
addosso riempiendolo di pugni in testa.
L’epilogo della vicenda ve lo lascio immaginare, non solo mi
fu attribuita la responsabilità dell’evento ma dovetti altresì
scontare una punizione esemplare venendo sospeso dalla
visione del film serale proiettato all’aperto.
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FEDE E POLITICA
Ma chi l’ha detto, dove sta scritto che un comunista non
può credere in Dio o nella Madonna?
Beh, che ci crediate o no io ho sperimentato sulla mia pelle
la fede religiosa di mio zio Morando.
Voi a questo punto vi chiederete:
“ E chi cavolo è questo tuo zio Morando?”
Bene, cominciamo dall’inizio.
L’estate come si sa ed ho già detto è periodo di vacanze ed
io, assieme alla mia famiglia, trascorrevamo lunghi
soggiorni in Toscana, a Vivo D’Orcia, paese natale di mio
padre.
Bisogna specificare che il paese allora contava un esiguo
numero di anime, circa 1200, delle quali gran parte erano a
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noi strette da un legame di parentela. Il sindaco del paese
era, appunto, lo zio Morando, uomo di provata ed
incrollabile fede comunista: i “fatti di Ungheria” non
l’avevano minimamente scosso ed altrettanto dicasi per la
“primavera di Praga”. Egli imperterrito esercitava il suo
mandato nel piccolo paese della provincia senese.
Lo zio Morando era il marito di Zia Velia , sorella minore di
mio padre; egli per sbarcare il lunario esercitava una serie
di attività tra cui:
- Una fabbrichetta di scope chiamata Rossiscope, la
cui produzione era effettuata nel garage di casa mia,
con il solo inconveniente che la lavorazione
implicava necessariamente un rumore talmente
fastidioso (tum…tum…tum) da impedire persino il
sonno mattutino.
- Commercio di formaggio pecorino, conservato
sempre nel garage di casa mia, con il solo
inconveniente di creare una tale puzza che si
propagava per tutta l’area compresa quella del
vicinato.
- Consegna a domicilio del pane prodotto da mia Zia
Velia nel suo forno.
Ecco è proprio della terza occupazione di mio zio che vorrei
parlarvi.
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Nelle lunghe mattine d’estate, per ingannare il tempo io
accompagnavo appunto mio zio a consegnare il pane.
Caricavamo le ceste sul suo motofurgone Ape Piaggio e
cominciavamo il giro dei clienti.
La frase tipica che veniva pronunciata ad ognuno degli
acquirenti era la seguente:
“Quanto ne voi ? Un panetto, due o mezzo ?”
E così via si continuava il giro.
Tutto filava liscio fino a quando immancabilmente il
furgoncino, sovraccarico di ceste di pane, dovendo
percorrere delle strade piuttosto ripide si spegneva. A quel
punto lo zio Morando tirando un paio di “porconi” come si
addice ad ogni buon toscano, frenava il mezzo in centro
alla strada e continuando a bestemmiare tentava di farlo
ripartire manovrando quella leva manuale situata a fianco
del sedile di guida.
Non vi dico il rosario che ero costretto a sentire sino a
quando l’Ape non si metteva in moto…un colpo di leva e
una bestemmia, un altro colpo di leva e giù un’altra
bestemmia,e poi soprattutto bestemmie di qualità una
diversa dall’altra in uno sciorinare pieno di fantasia e
colore.
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Finalmente, il velocipede si rimetteva in moto e noi
potevamo riprendere il cammino verso nuove esilaranti
avventure.
Ora viene il bello.
Lo zio Morando aveva una caratteristica che era sì quella di
essere un bestemmiatore di ottima fattura ma anche
quella di avere una certa devozione per la Madonna.
Si da il caso che lungo il tragitto noi passassimo davanti ad
una cappellina nella quale era appunto custodita
un’immagine raffigurante una Madonna con in braccio il
Bambino Gesù.
Non appena il furgoncino si trovava a transitare davanti a
questo piccolo tempietto, lo zio cominciava a farsi segni
della croce uno dopo l’altro, togliendo naturalmente le
mani dal manubrio del mezzo che privo di controllo
cominciava a sbandare a destra e a sinistra.
Più volte devo dire che fummo assistiti dalla fortuna, in
quanto questo rito si ripeteva quotidianamente.
Purtroppo un brutto giorno lo zio, finito di segnarsi la
fronte e nell’atto di riprendere il controllo del mezzo, non
trovò il manubrio nella posizione sperata e non riuscì
quindi a mantenere la traiettoria dovuta: finimmo quindi in
un fosso che fiancheggiava la carreggiata della strada.
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Il biroccio si mise in bilico con una ruota nel fossetto ed
una sulla strada , cosicché l’inclinazione a mio sfavore mi
fece scivolare lo zio Morando addosso, mentre io venivo
schiacciato verso lo sportello.
Ci volle la mano di Dio per cavarsi d’impiccio, infatti lo
sportello dal quale si doveva uscire era esattamente quello
situato dalla parte opposta.
L’interpretazione dell’episodio fu istantaneamente fornita
dallo zio : dopo un numero imprecisato di blasfeme
invocazioni, dichiarò – ed era sincero, lo giuro - che era
proprio stata la Madonna a salvarci in quel frangente, in
virtù dei suoi devoti segni di croce.
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ANCHE LA LINGUA NON AMMETTE IGNORANZA
Arrivati sin qui, potremmo fare il punto della situazione e
renderci conto che la scuola di un tempo avrebbe avuto
bisogno certamente di una riforma, operazione a cui si
sono dedicati negli ultimi anni diversi ministri… Ma non è
questa la sede per affrontare una questione così spinosa.
E’ vero, anche noi davamo del filo da torcere ai nostri
insegnanti ma, per dirla tutta, i metodi educativi adottati
da questi ultimi non erano molto ortodossi.
Era proprio in conseguenza a questi metodi
eccessivamente coercitivi che probabilmente io vivevo in
uno stato di perenne ansia, tanto da essere assalito con
estrema frequenza da crisi parossistiche di tics nervosi: ora
strizzavo gli occhi, ora tiravo il collo oppure ancora
arricciavo il naso.
Un bel giorno, in seguito ad uno di questi attacchi, mio
padre decise di portarmi dal medico: “Se continui così, il
dottor Missaglia sarà costretto a tagliartelo quel naso! - mi
disse mio papà con voce stentorea - Comunque andiamo
da lui e sentiamo cosa si può fare”. Così dicendo, mi prese
54
per mano e ci incamminammo lentamente verso
l’ambulatorio del nostro medico di famiglia.
Giungemmo a destinazione dopo una lunga camminata,
durante la quale il mio cervello non smetteva di rimuginare
le parole di mio padre… “te lo taglierà quel naso” e più
pensavo, più la paura mi attanagliava, figurandomi come
sarei potuto sopravvivere senza il mio naso, e più
aumentava la paura più arricciavo il naso: ero entrato
oramai nella spirale del terrore.
Seduto nella sala d’aspetto del medico, fissavo
ossessivamente la porta chiusa, attendevo con ansia che si
aprisse, immaginandomi comparire il Dottore armato di
una grossa forbice con la quale avrebbe operato sul mio
naso, ponendo fine alle mie sofferenze.
La porta finalmente si aprì ed io notai con grande stupore
che il dottor Missaglia quel giorno aveva un’aria
estremamente bonaria. Possibile, pensai tra me e me, che
quell’uomo dall’aria così pacifica potesse utilizzare metodi
così trucidi come quelli evocati da mio padre?
Il medico ci fece accomodare e, quando fummo entrati nel
suo studio privato, richiuse dietro di noi la porta.
Si informò quindi della ragione per la quale ci fossimo
recati da lui e, dopo avere ascoltato con estrema
attenzione le parole di mio padre, si girò di scatto verso di
me: i nostri sguardi si incrociarono… il desiderio di
55
arricciare il naso cresceva in me con il passare di un tempo
che a me pareva infinito, ma io nonostante tutto resistevo,
non volevo dare l’occasione al medico di intervenire sul
mio organo olfattivo.
Ahimè, troppo a lungo il dottore si soffermò a guardarmi
ed io a quel punto fui vinto dal desiderio di dare sfogo
all’ansia ed arricciai il naso. Lo arricciai, sì, poi lo arricciai
ancora e ancora, in una sequenza di arricciature degne di
un tessuto plissé (che in quegli anni era parecchio di
moda).
Fu allora che l’illustre clinico, ritraendosi di scatto urlò: ”Ti
ho visto, hai stortato il naso, ho capito tutto”.
Si girò quindi verso mio padre e con voce sommessa emanò
il verdetto sulla terapia:
“ Vede, signor Rossi, il ragazzo è piccolo… tuttavia un
blando SEDATIVO non potrà che giovargli”.
A quel punto io che, timoroso di dovere subire un cruento
intervento di chirurgia demolitiva sul mio naso, non mi ero
voluto lasciare scappare una sola parola sull’esito della
visita ed avevo quindi aguzzato le mie orecchie, sentendo
la parola “sedativo”, di cui ovviamente ignoravo il
significato, non potei far altro che equivocare e,
scoppiando in un pianto dirotto, cercai di correre verso la
via d’uscita più vicina gridando:
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“ NO…IL SEGATIVO NO…NON VOGLIO IL SEGATIVO AL
NASO”
Vano fu ogni tentativo di rassicurazione da parte di mio
padre, la frittata era fatta, non rimase altro che salutare
frettolosamente il medico, assolutamente sbigottito dagli
eventi, e riprendere la via del ritorno.
57
FEDE E’… RELIGIONE ?
Quel fatidico giorno la nostra maestra Suor Luigia Carla
aveva deciso di affrontare in classe l’annoso tema della
religione.
Iniziò quindi la sua prolusione partendo dall’Antico
Testamento, volteggiò quindi sul Nuovo, fece una rapida
cabrata lessicale sugli Atti degli Apostoli passando
rapidamente per S. Agostino ed atterrò infine sul problema
della fede.
“Voi non avete neanche idea di che cosa significhi credere”
tuonò la saggia maestra dirigendo lo sguardo fulminante
ora a destra ora a sinistra della piccola aula e, facendo
sentire ogni alunno un piccolo Giordano Bruno, continuò
dicendo: “La nostra è una religione comoda, dove ognuno
di noi può fare quello che vuole, tanto poi c’è sempre il
sacramento della confessione”. Dopo una sapiente pausa,
in cui ciascuno di noi si interrogava silenziosamente sul
senso di quelle ispirate parole, riprese: “Quando un
musulmano entra nella moschea, si toglie le scarpe e
quando esce non gira assolutamente le spalle al suo Dio”.
58
Il sermone continuò per un’altra mezz’ora abbondante, con
riflessioni di notevole portata teologica che, pur se
comprese solo in parte, non mancarono di suscitare nelle
nostre giovani menti interrogativi imponenti, uniti a sensi
di colpa profondissimi per la nostra radicata mancanza di
fede (sic!). Finalmente, però, la campanella sollevò i nostri
animi e ci offrì l’attesa salvezza, segnando l’inizio della
pausa ricreazione.
Durante il periodo di ricreazione, tra me ed il mio amico
del cuore Gianni ci fu una sorta di comune riflessione su
quanto avevamo da poco udito in classe, ed essendo noi
particolarmente recettivi alle osservazioni che la nostra
beneamata maestra usava inculcare nelle nostre menti sia
con le buone che con le ... decidemmo seduta stante che,
all’uscita della scuola, ci saremmo fermati in chiesa per un
sano momento di raccoglimento ad espiazione dei nostri
peccati…
E così fu che, cartella in spalla e passo marziale, arrivammo
davanti al sagrato della chiesa parrocchiale e, dopo esserci
per l’ultima volta guardati facendo un cenno di reciproca
intesa con la testa, entrammo in chiesa con aria contrita.
Nella chiesa non c’era praticamente nessuno, per cui
lentamente ci portammo verso l’altare principale,
facemmo una composta genuflessione,un segno della
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croce e poi giù in ginocchio per una serie di Ave Maria e
Padre Nostro.
Trascorsero all’incirca 15 o 20 minuti, durante i quali
pregammo con assiduo fervore, poi Gianni alzandosi diede
l’ok sul termine del tempo per le orazioni e cominciammo
così ad incamminarci versi l’uscita.
E purtroppo qui scattò
nuovamente quell’insano
meccanismo che fa mettere da parte l’uso del cervello a
discapito degli eventi.
Di colpo mi vennero in mente le parole della Suora su come
alcuni fedeli di altre religioni usino uscire dal tempio del
Signore: quindi, detto fatto, girai sui tacchi e mostrando il
viso all’altare principale cominciai a camminare come i
gamberi, all’indietro, portandomi verso l’uscita principale.
Ero fiero di me, Dio avrebbe apprezzato quel profondo atto
di deferenza, e continuando imperterrito a camminare
all’indietro mi rivolsi con lo sguardo fiero verso Gianni il
quale aveva invece cominciato a farmi dei segni strani con
le mani, come per dirmi qualche cosa che comunque io non
capivo.
Il mio amico si sbracciava e si sbatteva come fosse stato
improvvisamente posseduto dal demonio nel vano
tentativo di fermarmi, ma io purtroppo non riuscivo ad
interpretare i suoi gesti e continuavo imperterrito il mio
cammino a ritroso.
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Ad un certo punto, il religioso silenzio che regnava in tutta
la chiesa, fu rotto da un terribile fragore: infatti,
camminando all’indietro, non mi ero accorto che al centro
della corsia era stata lasciata una colonnina di legno alta
circa 1 metro nella quale venivano deposte le offerte dei
fedeli ed io, non avendola notata prima e non potendola
notare in quel frangente, l’avevo urtata facendola cadere
pesantemente a terra.
Non vi dico quello che in un attimo si rovesciò sul
pavimento, centinaia e centinaia di monetine che con il
loro rumore avevano richiamato l’attenzione del
sacrestano il quale uscendo dalla sagrestia cominciò ad
urlare: “Al ladro, al ladro”.
Gianni smise a quel punto di sbracciare, per darsela
coraggiosamente a gambe, mentre io cercavo con stolida
testardaggine di raccogliere quante più monetine potevo,
per rimetterle al loro posto.
Dovetti però alla fine lasciare la mia opera incompiuta,
dato che le urla del sacrestano avevano richiamato
l’attenzione di alcuni parrocchiani ai quali sarebbe stato
difficile spiegare la ragione dell’accaduto.
61
..UN PIETOSO VELO
Gli anni passarono anche per noi e, nonostante tutto,
lasciammo a malincuore la nostra amata scuola elementare
per continuare il corso degli studi alle medie.
Il nostro gruppo si frantumò, per il fatto che alcuni si
iscrissero alle scuole statali, altri ad istituti privati.
Io fui iscritto, unitamente ad altri pochi compagni, presso
l’Istituto dei Fratelli Maristi di Cesano Maderno.
Fu questo per me un periodo talmente ricco di situazioni
spiacevoli e drammaticamente incomprensibili, che il
raccontarle comprometterebbe il profondo spirito
umoristico con il quale intenzionalmente ho iniziato a
scrivere il mio libro.
Lascerò quindi volutamente una pagina vuota nella quale
ognuno di voi potrà leggere ciò che vuole: farò come un
pittore che, dopo avere dato una mano di colore uniforme
su una tela, lascia all’osservatore il compito di interpretare
ciò che avrebbe voluto trasmettere.
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E’ CAMBIATO IL TRENO MA NON IL MACCHINISTA
Primo giorno di scuola alle superiori, ci sentivamo grandi,
erano passati come un fulmine i mesi e gli anni trascorsi sui
banchi delle elementari e delle medie.
Il clima che si respirava adesso era diverso, o almeno a noi
sembrava così.
Appena entrati nella nuova aula, ci eravamo sistemati così,
a casaccio, mossi solo da una istintiva quanto epidermica
sensazione di simpatia con quello che avrebbe dovuto
essere il compagno di viaggio per un intero anno scolastico.
Il mio si chiamava Ciullo, Ciullo Nicola, un giovanottello dal
viso simpatico ed eternamene sorridente: quell’aria paffuta
da bravo ragazzo mi aveva immediatamente fatto sperare
in un fedele alleato per quelli che avrebbero dovuto essere
“compiti in condominio”.
La prima insegnante che si prese la briga di darci il
benvenuto fu la professoressa Arisi.
Entrata nella classe dove nel frattempo si era fatto un
silenzio di tomba, si mise a squadrarci uno per uno, senza
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dire una sola parola, i secondi che trascorsero furono
interminabili, per un attimo ebbi l’impressione di essere
catapultato indietro di 5 anni.
Il viso della nuova professoressa subiva ai miei occhi una
sorta di metamorfosi dove di colpo diventava quello della
vecchia insegnante elementare “Suor Luigia Carla”.
Ad un certo punto il silenzio fu però rotto dalla voce calda e
gentile dell’insegnante che, dopo essersi cortesemente
presentata, disse: “ Cari ragazzi, comincia per voi oggi un
percorso che dovrà portarvi al conseguimento del diploma,
pertanto studiate con profitto quotidianamente”.
E continuò: “ Lo studio dovrà essere costante, non ci
saranno ragioni valide per le quali io vi trovi impreparati,
tuttavia qualora questo succedesse sappiate che io vi
giustificherò … solo nel caso in cui voi mi dimostriate di
essere morti e resuscitati”.
Io e Ciullo ci guardammo in faccia con l’espressione tipica
di chi è convinto di essere condannato ai lavori forzati,
tuttavia lì eravamo e lì dovevamo stare, pertanto, armati di
coraggio, appoggiammo contemporaneamente sul banco il
capo in un unico atto di mesta rassegnazione.
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CHI TROVA UN AMICO… TROVA UN TESORO
Il corso di studi delle superiori non fu per me tutto rose e
fiori, e così in seconda decisi che sarebbe stato opportuno
prendersi una pausa di riflessione ripetendo
“volontariamente” l’anno.
Cambiarono quindi gli orizzonti e con quelli anche il
panorama dei compagni.
Conobbi in quel frangente tale Veronesi Claudio, destinato
a diventare uno dei miei migliori amici.
Per la verità fu lui che decise per primo di diventare mio
“migliore amico” e quale mezzo più efficace che non quello
di farmi pervenire a casa i compiti quando ero ammalato?
Ma chi glieli aveva mai chiesti quei benedetti compiti? Se
me lo avesse domandato sarei diventato suo migliore
amico anche se non me li avesse recapitati a domicilio.
Ma dato che lui aveva deciso così …
E fu così che non c’era estate o inverno che tenesse che il
temerario compagno Veronesi si presentava a casa mia
nelle giornate in cui io ero assente dalle lezioni scolastiche,
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e mi consegnava prontamente la “nota” con gli esercizi da
eseguire .
Ricordo che in una giornata in cui la neve avrebbe fermato
perfino l’armata rossa, ed io ormai tranquillo che avrei
potuto stare neghittoso senza alcuna rottura di scatole, me
lo vidi comparire con il volto coperto da un passamontagna
blu.
Si pulì come al solito gli scarponi, in quel frangente zuppi di
neve e di fango, nel prezioso Bukara che mia madre con
malcelato comprensibile orgoglio esibiva nell’ingresso.
Le prime parole che mi disse senza scoprirsi il capo – non
era ancora entrata in vigore la famosa legge antiterrorismo
- furono: “Sei stato fortunato, a momenti non sarei potuto
venire perché avevo bucato la bicicletta, ma poi mio cugino
molto gentilmente mi ha prestato la sua e allora… eccomi
qua”.
Fu allora che mi venne in mente il famoso proverbio
FRATELLI COLTELLI e PARENTI SERPENTI
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SFOGGIO DI IGNORANZA
Nonostante le vicissitudini che quotidianamente mi trovavo
ad attraversare, l’umorismo e l’autoironia non mi
abbandonavano mai.
Fu così che durante l’ora di Inglese, nella fase di traduzione
di un testo, dall’Inglese all’italiano, la professoressa
Andreina Giussani mi chiese di tradurre il termine
archbishop.
Cercai e ricercai con sguardo pietoso un benevolo aiuto da
parte dei miei compagni, ma niente, nessuno pareva capire
il mio stato di difficoltà
Ed ecco che come spesso accade, quando l’essere umano
messo a dura prova rischia di collassare in una dura e
penosa figuraccia, racimola tutte le sue potenzialità e con
un guizzo d’ingegno esce dalla situazione di disagio
guadagnandosi altresì il plauso degli astanti.
La risposta fu una sorta di collage cavato da chissà quale
dizionario mentale:
ARCH STRA
BI
DOPPIO
SHOP
NEGOZIO
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Quindi: Stradoppionegozio
Non so come gli occhi della professoressa Giussani
potessero rimanere ancorati nelle orbite, ma dopo una
pausa di silenzio, scoppiò in una fragorosa risata
risollevando il morale degli astanti che era di colpo, dopo
l’ardita risposta, piombato in un perplesso silenzio.
Nella stessa giornata di fervida creatività furono inanellate
ulteriori perle di saggezza che qui di seguito vado ad
elencare:
Alla consegna del compito in classe in seguito ad un
inaspettato sette, alla domanda rivoltami dai compagni di
come avessi potuto meritare tale giudizio risposi
repentinamente:
“ Sette mi diede e detti questo detto…Non meritato fu ma
ben accetto”.
E sempre nella stessa ora d’Inglese, tornando al posto,
mentre la professoressa Giussani chiamava una allieva col
proprio cognome “Contento”, pensando che mi fosse
rivolta una domanda specifica sul mio stato d’umore,
risposi di getto:
“OOh… come una pasqua !
Fortunatamente l’ora d’inglese terminò prima che
l’eccessivo stato di allegria potesse portarmi nocumento.
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A CIASCUNO IL SUO
Vi ricordate dei famosi soprannomi che i famigerati gemelli
Bartesaghi attribuivano ai vari componenti del nostro
gruppo ?
Beh, passarono gli anni ma la buona abitudine rimase.
A perpetuare la goliardica usanza fu però Franco, il quale
enfatizzando sapientemente le caratteristiche fisiche e
caratteriali di ciascun soggetto, seppe attribuire il
soprannome giusto ad ognuno di noi.
Il mio fu “NAKERINO” per il fatto di avere , come già detto
in precedenza, un tic nervoso caratterizzato dallo sbattere
le dita della mano emettendo il suono tipico delle nacchere
spagnole. In seguito fu abbreviato “per comodità” a
NAKERO.
Mio fratello Ascanio, carattere fortemente vivace, fu
soprannominato “ ZCANO il turbolento”. In seguito, solo
ZCANO.
Gino fu chiamato “NGHINO PEPETE” solo per il fatto di
avere una corporatura leggermente più bassa di quella del
fratello Franco. Ci fu anche un tentativo di chiamarlo
“GNOMIX”, ma Gino fu decisamente contrario, tanto
70
contrario da dovere convincere il fratello Franco con mezzi
non del tutto ortodossi.
Uno degli amici dei gemelli, tale Angelo Cermenati fu
chiamato invece “GIOLENKO” .
Giolenko era ed è tuttora un tipo silenzioso, come
potrebbe essere un rappresentante del KGB.
71
BACIO FRATERNO
“Nonostante tutto” io e Claudio Veronesi continuavamo a
vederci anche dopo il consueto orario delle lezioni.
Avevamo fatto amicizia con un anziano professore, del
quale preferisco omettere il nome per ragioni di rispetto,
che spesso ci invitava a casa sua per trascorrere alcune ore
di sana conversazione.
Per noi ragazzi rappresentava un motivo di orgoglio essere
tenuti in cotanta considerazione da un docente del nostro
corso di studi, mentre per Lui significava avere un
momento di respiro e di sfogo lontano dalle grinfie della
moglie.
Il Prof. in effetti viveva una situazione di sudditanza nei
confronti della coniuge, rifugiandosi per interi pomeriggi
nel suo studio appartato, situato nello scantinato della sua
bellissima abitazione.
Era questo il suo regno, un regno fatto di confusione, di
libri accatastati uno sull’altro in una sorta di piramidi
vacillanti, di fotografie di persone defunte a lui care,
appese all’interno di un armadio come in un perenne
altare alla memoria.
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Di tanto in tanto il nostro professore telefonava a me o a
Claudio per invitarci congiuntamente ad una sorta di
convivio durante il quale egli si sfogava raccontandoci,
probabilmente con molta enfasi, di discussioni intraprese
con la moglie sfociate poi in furibonde liti.
Io e Claudio ci sentivamo quindi un po’ paladini del povero
professore e consideravamo in fondo la nostra un po’ una
missione, dare insomma una sorta di aiuto morale a chi
naturalmente ci avrebbe anche tenuto in considerazione
durante le interrogazioni.
Va bene, avete ragione, il nostro era soprattutto un sano
opportunismo.
Fu così che una sera di primavera inoltrata ricevetti una
telefonata da Claudio, che mi riferì di averne a sua volta
ricevuta una dal Prof. il quale ci convocava per un caffè ed
una chiacchierata in amicizia.
Ci recammo quindi all’appuntamento con il nostro
interlocutore di fiducia, giungemmo puntuali a
destinazione e suonammo il campanello rimanendo in
ossequiosa attesa.
La casa era completamente buia.
Passarono pochi ma interminabili secondi, durante i quali
io ed il mio amico ci guardavamo dubbiosi di esserci intesi
sul giorno e l’ora dell’incontro, mai poi si udì il rumore
dello scatto della serratura del cancelletto d’entrata.
73
Entrammo quindi nel giardino percorrendo il lungo vialetto
che conduceva al portoncino d’entrata, lo varcammo e ci
trovammo di fronte alla lunga scala che portava al primo
piano della lussuosa abitazione.
La luce che sino a quel momento era spenta si accese e
dalla sommità della scala si vide apparire il nostro
professore che ci fece salire ed accomodare in salotto.
L’anziana persona ci apparve subito strana, come in uno
stato di obnubilamento mentale di chi ha bevuto
probabilmente un bicchiere di troppo. Il suo modo di
parlare solitamente lento e pacato si era tramutato in una
sorta di logorrea nella quale i discorsi e i ricordi si
rovesciavano su me e Claudio come secchiate di acqua
gelida.
Venni a quel punto assalito dalla tremenda sensazione di
chi si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Purtroppo il peggio doveva ancora venire.
Infatti, i discorsi del nostro interlocutore cominciarono, col
passare del tempo , a farsi sempre più sconclusionati e
confusi sino a quando alzandosi di scatto e dirigendosi su di
me si fece scappare la seguente esclamazione:
“Grazie amici cari per essermi vicini in questo momento di
solitudine, suggelliamo la nostra amicizia con un bacio alla
russa”, e prendendo con forza la mia testa fra le sue mani
74
tentò con mossa fulminea di mettere in pratica la vecchia
usanza del bacio a stampo.
Probabilmente riuscii ad intepretare con anticipo le
intenzioni del vecchio Prof. dribblando per un soffio le sue
labbra .
Non mi rimase altro che alzarmi di scatto per guadagnare
rapidamente l’uscita assecondato dal fido Veronesi, con cui
imbastimmo lì per lì non so quale scusa per potere schivare
l’imbarazzo in cui ci sentivamo immersi fino al collo.
Ci furono naturalmente altri incontri , altre serate in cui si
parlava del più e del meno, ma nessuno di noi cercò mai di
dare o di trovare una spiegazione a quanto “era o non era”
accaduto in quella famosa sera: l’evento sembrava caduto
in prescrizione.
Di questo fatto non si parlò più per gli anni a seguire, finché
la notizia della morte improvvisa del Professore colse
Claudio e me impreparati.
Con dolore misto a nostalgia rievocammo i bei momenti
trascorsi insieme, e riaffiorò alla memoria anche
quell’episodio rimasto per anni nell’oblio: capimmo
finalmente, nonostante il nostro imbarazzo di allora,
quanta solitudine abitasse nel cuore del caro amico
scomparso.
75
L’ALTRUI STIMA
I Grilli, paragonati alle Formiche chi dubita che non sieno
Giganti? Chi misura quello che sa, ancorché pochissimo,
con quello che sa chi non sa nulla, si crederà d’essere
assolutamente ciò che non è senon a paragone dottissimo.
Daniello Bartoli (Ferrara, 12 febbraio 1608 – Roma, 13 gennaio 1685) è
stato un gesuita, storico e scrittore italiano. Insegnante di Retorica.
Il caro amico Paolo Bartesaghi è venuto in data odierna a
farci visita nella nostra umile dimora.
E’ egli persona di spiccato spirito umoristico soprattutto
quando si tratta di giudicare atteggiamenti o fatti
riguardanti altre persone.
Rimane tuttavia un amico e agli amici si sa si perdona
tutto.
Venuto egli a conoscenza del fatto che mi fossi messo a
“produrre qualche pagina scritta” non ha perso l’occasione
per lanciare una piccola frecciata:
“ Si dice che ciò che scrivi non sia tutta farina del tuo
sacco”
“Fortunato te che hai una moglie dotta, in grado di
correggere ogni tuo strafalcione”
76
Ad ogni buon conto io mi sono sentito in obbligo di
puntualizzare che il mio Zibaldone altro non é che un
modesto esperimento finalizzato, nella migliore delle
ipotesi, a suscitare divertimento.
La lapidaria risposta del buontempone fu la seguente:
“ Beh, se cerchi di fare ridere allora esonera tua moglie
dall’ingrato compito
di correggerti la bozza, così
raggiungerai senza dubbio lo scopo che ti sei prefissato”.
E’ un vero conforto sapere che c’é qualcuno che mi stima in
modo incondizionato.
77
CONSEGNE A DOMCILIO
Il periodo universitario rappresentava per ognuno di noi
una svolta esistenziale, eravamo oramai con il corpo e con
la mente proiettati verso il dorato mondo degli intellettuali.
Confrontandoci con i nostri coetanei che non avevano, per
vari motivi, continuato il corso di studi, ci sentivamo un po’
come dei cavalli di razza obbligati a convivere con dei
ronzini.
Ammettiamolo, eravamo dei GRANDI PRESUNTUOSI.
La nostra grandezza finiva comunque nel momento in cui,
frugandoci in tasca, trovavamo solamente in quella destra
il fazzoletto e in quella sinistra un buco dal quale,
comunque, non potevamo perdere altro che qualche
spicciolo, raggranellato qua e là o generosamente regalato
dai genitori.
Durante la frequenza ai corsi universitari di Medicina
presso l’Ateneo di Milano, ebbi modo di conoscere un
amico compaesano di nome Alberto, Alberto Dal Cero.
Con lui intrecciammo una solida amicizia fatta di partite a
tennis, visioni televisive notturne del Roland Garros,
spaghettate a mezza notte e via dicendo, tutte attività
ludiche che ci permisero di laurearci in un tempo record di
circa 10 anni .
78
Fu tuttavia un periodo da non dimenticare, a parte le
sessioni d’esame vissute in stato di profonda ansia, fedele
compagna di notti insonni e giorni febbrili.
Eravamo entrambi appassionati di tennis, ci distinguevamo
solo dal fatto che lui giocava da dio mentre io ero, mi si
passi il termine, una vera “sega”.
Fu proprio questa comune passione che ci introdusse nel
magico mondo degli affari.
Un pomeriggio d’autunno, mentre eravamo alle prese io
con Fisiologia, esame dato per ben otto volte, e lui con
Patologia Medica, Alberto si rivolse a me dicendomi:
“Oh… ho scoperto che a Caltignaga in provincia di Novara
c’e’ lo spaccio della Tacchini”.
Io, che in quel momento ero alle prese con il grafico sulla
pressione e volume nell’alveolo polmonare, gli risposi in
modo secco:
“Alberto…mi dici che cazzo c’entra questo con la legge di
Laplace ?”
Il “compagno di giochi” continuò:
“No…pensavo… ma se noi raduniamo un po’…diciamo di
ordini, nel senso che… se noi diciamo ai nostri amici….”
Come al solito Alberto aveva poche idee in testa e ben
confuse.
79
Meno male che io riuscivo sempre ad “interpretare” quello
che voleva dire, e quella volta mi sembrò proprio che
l’amico avesse avuto una buona idea.
In poche parole, il concentratissimo studioso, aveva avuto
una folgorante illuminazione: se avessimo radunato un
cospicuo numero di ordini per l’acquisto di magliette o
tute Tacchini, avremmo potuto ricavare anche qualche
soldarello .
Pecunia non olet
(Vespasiano)
Bisognava battere il ferro finchè era caldo e quindi, seduta
stante, decidemmo di comune accordo e senza eccessiva
sofferenza, la sospensione dei lavori intellettuali per
dedicarci “anema e core” a quelli con sfondo volgarmente
economico.
Presi carta e penna e cominciai a stilare una lista dei
possibili acquirenti:
“ Paolo Cocco, Barzaghi Angelo, Franco Villa……. “
A lavoro finito, ci accorgemmo di avere ottenuto una
discreta lista di clienti che avrebbero potuto lanciarci nel
mondo del commercio.
L’organizzazione Dal Cero/Rossi si sarebbe preoccupata di
acquistare
la
merce
controllandola,
pagandola
anticipatamente
e
consegnandola
a
domicilio
all’acquirente riscuotendo il ben meritato compenso.
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Postal Market al nostro confronto era roba da dilettanti.
Il primo di una lunga serie di pellegrinaggi in quel di
Caltignaga ebbe luogo in una gelida mattina autunnale con
partenza alle ore 5 e 30 precise.
Alberto si presentò davanti casa mia alla guida della sua
automobile.
Lo rivedo ancora… allora il giovane aspirante chirurgo
possedeva una volkswagen maggiolino, di colore ormai
indefinibile, sepolto com’era da una crosta di ruggine che
sovrastava l’intera carrozzeria.
Il motore, un quattro cilindri di fabbricazione tedesca, un
piccolo gioiello di meccanica, si dimenticava a tratti la
propria genia e cominciava a scoppiettare ed andare a 3
cilindri, ma il peggio del peggio lo si trovava all’interno
dell’abitacolo…un freddo, ma un freddo che mancavano
solo i lupi siberiani a fargli compagnia.
Riuscii solo ad intravedere la sagoma del conducente
attraverso un vetro che sembrava zuccherato da quanto
era ghiacciato, ma quando, aprendo la portiera lo vidi
intabarrato da un plaid scozzese che lo copriva sino al capo,
venni praticamente colto dallo sconforto.
“ Sali, prendi la coperta che c’è sul sedile di dietro e
avvolgiti, il riscaldamento non funziona” .
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Queste furono le prime parole che Alberto mi rivolse
facendomi salire sulla sua vettura e credo che non ne
sentii altre per tutto il viaggio, non era possibile parlare, dal
freddo le parole si gelavano nella bocca prima ancora di
uscirne, anzi , prima ancora delle parole si gelavano i
pensieri.
Non ricordo quanto durò il viaggio,so solo che a me
sembrò interminabile.
All’arrivo ci fiondammo in un bar per concederci il piacere
di un cappuccino caldo e potere riacquistare le umane
sembianze , il rigor mortis ci aveva letteralmente
trasfigurati ed a fatica riuscivamo ad emettere solo pochi
languidi vocalizzi.
Il barista ci osservava con una strana aria a metà strada tra
la compassione e la commiserazione, mentre noi
sorseggiavamo la bevanda calda rimanendo attaccati ad
un termosifone che seppur quasi freddo a noi sembrava
bollente.
Il viaggio a “Mosca” si concluse con l’acquisto della merce
ed il rientro a casa, il tiepido sole di Novembre riuscì
seppure poco a riscaldare l’abitacolo della macchina
permettendoci di viaggiare in un clima un po’ più umano.
Con i proventi della vendita coprimmo le spese riuscendo a
pagare anche qualche capo d’abbigliamento a nostro uso e
consumo.
82
Per i successivi pellegrinaggi decidemmo di attendere il
periodo estivo..
83
AI VECCHI TEMPI…
Alberto si laureò alcuni anni prima di me.
Ricordo che venne a trovarmi il pomeriggio stesso nel
quale aveva discusso la tesi.
Si sedette sul divano in sala vicino a me e a mia madre,
aveva un’aria distesa ma nel contempo il suo aspetto era
quello di sempre, intronato, confuso nella parola e nel
pensiero.
Dopo avermi fatto un breve riassunto su come si erano
svolti i fatti durante la sessione di tesi, mi propose un invito
a pranzo che io non mi lasciai certamente sfuggire.
Ci accordammo quindi per il giorno dopo alle ore 12,
località Milano, ristorante “Cino e Franco”.
Scelsi per l’occasione un abbigliamento elegante, giacca
blu, camicia bianca e cravatta regimental, pantalone grigio
ferro.
Alberto si presentò vestito nello stesso modo, manco ci
fossimo messi d’accordo.
Sembravamo due Martinitt usciti dal collegio per il
pomeriggio di festa.
Nota esplicativa: Quella dei Martinitt è una storia antica, che da
quasi cinquecento anni procede di pari passo con quella della città
che li ospita, Milano. Martinitt è il nome di un ente di assistenza
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milanese la cui istituzione risale al XVI secolo. Martinitt è il plurale
di Martinin.
Ci recammo quindi con passo affrettato presso il ristorante
prescelto.
Varcammo la porta venendo accolti da un cameriere
alquanto cerimonioso il quale ci fece accomodare in un
tavolo precedentemente prenotato dal Neo MedicoChirurgo.
Ci sedemmo quindi uno di fronte all’altro, e dopo avere
controllato che la nostra postura fosse consona
all’ambiente decisamente raffinato, prendemmo in mano
la carta delle ordinazioni stando bene attenti al prezzo
delle relative pietanze, onde evitare spiacevoli sorprese nel
momento di pagare il conto.
Cominciammo con l’antipasto: il cameriere ci fece scivolare
sul tavolo due grandi piatti nei quali erano
malinconicamente adagiate solo due fettine di prosciutto
crudo accompagnate da una foglia di insalata dal colore
sbiadito.
Notai con terrore l’espressione dell’amico che nel giro di
pochi minuti aveva subito una evoluzione tendente al
peggioramento.
Alberto era uno sportivo, un fisico dall’appetito robusto,
era abituato per così dire a porzioni da carrettiere e quelle
non lo erano di certo: stava infatti prendendo piede a
Milano in quegli anni la moda della nouvelle cuisine, e
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probabilmente lo chef del ristorante, a modo suo, cercava
di adeguarsi alle nuove tendenze.
Tant’è che anche il primo piatto, rappresentato da tortellini
alla panna serviti in numero esiguo, non smentì le scelte
culinarie del ristoratore: a questo punto Il morale dei
commensali ed in particolare quello di Alberto ebbe un
brusco tracollo.
Con un gesto imperioso misto a stizza a stento trattenuta, il
giovane medico chiamò al tavolo il cameriere
apostrofandolo con una frase rimasta negli annali:
“Scusi, ma per caso vi trovate in ristrettezze oppure state
conservando il cibo per il prossimo cenone di capodanno?”
Il cameriere comprendendo in un baleno la situazione
cercò di placare le ire del cliente assicurandogli maggiore
attenzione e porzoni più abbondanti nei piatti a seguire.
Per il secondo mi premurai di consigliare ad Alberto il mio
amatissimo filetto al pepe verde (che da qualche mese
mamma Mariuccia, assidua lettrice della famosa rivista
“Cucina Italiana” mi preparava con grande frequenza): il
piatto in questione risultava peraltro sconosciuto al mio
caro amico, che comunque si fidò del mio consiglio.
Non appena il piatto contenente la carne fu deposto sul
tavolo ed Alberto mise in bocca una generosa forchettata
di pepe che gli scricchiolò sotto i denti, partirono all’istante
da quella bocca improperi ed insulti che fecero accorrere il
povero cameriere al nostro tavolo.
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Io ero sull’orlo di una crisi di nervi non comprendendo
ancora cosa potesse essere accaduto, ma la frase di Alberto
risolse immediatamente il mio dubbio:
“Cameriere, perdio, potevate cuocere meglio questi
pisellini, non riesco a masticarli”.
Oramai eravamo veramente avviati verso il baratro.
Ma il top dei top lo si raggiunse quando vennero serviti i
formaggi.
Devo premettere, e non sarà difficile al cortese lettore
crederlo, che la mia vena umoristica ed un pochino
bastarda non si fece attendere a lungo dopo gli episodi
sopra citati.
Alberto era solito chiamare telefonicamente la fidanzata
Lidia che lo teneva sotto serrato controllo durante le ore
della giornata; e fu così che quel giorno, come ogni giorno,
il giovane medico rampante si assentò alcuni minuti per
conferire telefonicamente con l’altra metà della mela.
N.B. Allora non esistevano ancora i telefoni cellulari.
Proprio in quel frangente il cameriere servì al tavolo il
piatto con i formaggi che, stranamente, erano stati deposti
sul piatto in grande quantità.
Ma come lasciarsi scappare una simile occasione, come
non sfruttare il magico momento per mettere legna al
fuoco e gustarsi un teatrino delizioso a coronamento della
magica giornata?
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Approfittai quindi del momento di solitudine e, dopo
essermi assicurato che nessuno, dico proprio nessuno,
potesse vedermi, sottrassi dal piatto di Alberto una buona
parte dei formaggi lasciando solamente al centro una
fettina esile esile di pecorino toscano.
Fatto questo mi misi in trepidante attesa…
Alberto non si fece attendere a lungo e, dopo essersi
nuovamente seduto ed avere spiegato con eleganza il
tovagliolo sulle ginocchia si mise ad osservare il suo piatto
con aria di disappunto.
Uno schiocco di dita fece accorrere nuovamente il solerte
cameriere che, come vuole la tradizione alberghiera, senza
fiatare od opporre resistenza dovette subirsi la fila di insulti
che il belligerante medico gli vomitò addosso in men che
non si dica.
L’epilogo ve lo lascio immaginare.
…
Il dolce fu gentilmente offerto dalla casa.
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“LITTERAE NON DANT PANEM”, POVERI SCRITTORI !
Qui vuol mie sorte c'anzi tempo i' dorma
(Michelangelo-Rime)
…
L’ora s’è fatta tarda ed io devo partire, quasi a parafrasare
un detto del cugino Sergio di Roma il quale, infilandosi un
maglione e montando in macchina per raggiungere alcuni
amici al mare disse con tipica cadenza romanesca:
“ Quando èlllòra èlllòra “.
Ebbene, anch’io penso sia venuta l’ora di chiudere questa
mia simil-fatica letteraria magari raccontando l’ultimo atto
del mio corso di studi, ovvero la fatidica giornata in cui
discussi la tanto sospirata tesi.
E sì, perché gli anni passarono e finalmente anche io
raggiunsi l’ambito traguardo con buona pace dei miei
genitori che tirarono un sospiro di sollievo.
Ma come potevo congedarmi dalle scene senza lasciare un
ennesimo segno del mio passaggio in esse ?
Come già vi ho raccontato in altra storia, il mio carattere
particolarmente emotivo ebbe modo di darmi in più eventi
qualche problema nel campo delle relazioni sociali.
Nel caso specifico, avvenne che dovendo io discutere la tesi
– come ogni laureando che si rispetti - di fronte ad un
cospicuo numero di Docenti, e soffrendo di una fastidiosa
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quanto
inopportuna
forma scialorroica
causata
verosimilmente da uno stato di profonda inadeguatezza nei
confronti di persone che io giudico superiori, dovetti
affrontare il problema facendo ricorso a rimedi
farmacologici non privi di effetti collaterali.
(Scialorrea deriva dal greco sialon, saliva e rhoia, scorrere.)
In parole povere succede che, ogni qual volta io mi
appresto a parlare in pubblico, sono colto da una fastidiosa
ipersalivazione con relativo aumento del fenomeno di
deglutizione che innescano un ciclo vizioso per il quale io
non riesco più a parlare.
Non solo, ma qualora io tenti di sforzarmi per emettere
una sola parola, il risultato è che la voce esce distorta al
punto tale da non sembrare neanche la mia. (vedi
esorcista)
Non vi dico l’imbarazzo… Inoltre essendo questo un
fenomeno fisiologico innescato da uno stato di forte ansia
e stress, viene a crearsi un circolo vizioso attraverso il quale
l’ansia produce la scialorrea, la scialorrea mi mette in
imbarazzo e quindi aumenta lo stato di ansia la quale
stimola il sistema parasimpatico vagale innescando un
ulteriore aumento della salivazione con relativa
deglutizione forzata.
Il rimedio a ciò è quindi quello di assumere un farmaco in
grado di inibire il sistema parasimpatico creando una
vasocostrizione a livello delle ghiandole salivari.
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L’atropina fu quindi la giusta, più o meno, soluzione al mio
problema.
Peccato che assieme a tutti i benefici effetti non considerai,
da laureando, gli altri effetti chiamati collaterali.
Ma diamo tempo al tempo.
E venne allora il fatidico 12 Ottobre 1987, giorno della
proclamazione del sottoscritto a Dottore in Medicina e
Chirurgia.
Mi alzai di buon mattino, anche perché non avevo dormito
tutta la notte, decidendo di fare una bella passeggiata
distensiva attraverso i boschi del Parco Groane.
La sensazione che provavo era quella di essere il nuovo
Amatore Sciesa condotto alla forca.
Lo stato di ansia cresceva di ora in ora provocando in me
quel fastidioso sintomo di cui vi ho già parlato, per cui
decisi di affrontare il problema prematuramente
ingurgitando la prima compressa di atropina.
Il rientro dalla salutare passeggiata fu seguito da un
ulteriore rito preparatorio, il famoso bagno benefico a base
di alghe et erbe eccellentissime.
A quel punto, il calore dell’acqua ebbe un effetto
antagonizzante al farmaco appena assunto, per cui lo stato
di vasodilatazione dovuta appunto alla caloria dell’acqua
ebbe un effetto sinergico sullo sgradevole disturbo di
ipersalivazione rendendo necessaria una ulteriore
assunzione del magnifico farmaco.
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Una nuova compressa venne quindi da me ingurgitata.
Col passare delle ore lo stato di grande eccitazione tendeva
a vincere sul mio autocontrollo, stava oramai per scattare
l’ora x e a tal proposito ritenni necessario un rinforzino alla
terapia che mi ero prescritto, fu il momento quindi della
terza somministrazione di atropina.
Alle ore 15.00 io ed il corteo dei familiari e parenti
gentilmente invitati ad assistere alla cerimonia partimmo
alla volta di Milano.
Giungemmo con discreto anticipo presso la sede
universitaria, un anticipo appena appena necessario ad
innescare ulteriore stato di agitazione che venne
combattuto con l’ultima compressa di atropina.
Quando giunse il momento di entrare in aula in seguito alla
chiamata ufficiale per la discussione della tesi, reduce da
ben quattro somministrazioni consecutive di atropina, mi
accorsi che la mia bocca era praticamente in preda ad uno
stato di siccità peggiore di quella che colpì l’africa subsahariana compresa la fascia del Sahel tra gli anni 70 e 90.
Non riuscivo a spiccicare una parola, sembravo in preda ad
uno stato di patologia neurologica per cui la parola tende
per così dire a rotolare, come accade anche quando parla
un ubriaco.
I cattedratici seduti in fila al di là della cattedra mi
osservavano e si osservavano a loro volta quasi per
domandarsi quale forma di parossistica sindrome mi avesse
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colto in quell’istante lasciandomi comunque continuare la
quanto mai sofferta discussione della tesi.
Devo precisare una cosa: nella fase di stesura della tesi, il
candidato col relativo relatore si accordano su un progetto
fatto di domande e risposte, che verrà attuato in aula
durante l’esposizione della tesi stessa. In questo modo, il
gioco di reciproche domande/risposte fa sì che il tema in
discussione possa essere approfondito il più possibile e
nello stesso tempo reso più comprensibile ad ogni
ascoltatore.
Bè, vi basti questo… il mio stato di confusione mentale era
tale che, una volta partito per la tangente nella discussione
del mio lavoro, cominciai a farmi le domande in modo
autonomo e, altrettanto autonomamente, mi davo le
risposte spiazzando in modo catastrofico l’intera
commissione.
Il mio relatore, guardandomi con aria di profonda
commiserazione e posizionando la mano destra a mo’ di
pistola, mi fece intuire chiaramente quello che avrebbe
voluto farmi in quel momento; si girò quindi verso gli esimi
colleghi, formulando la seguente domanda:
“ Qualcuno ha qualche cosa da chiedere al candidato ? “
A tale domanda rispose laconicamente il presidente di
commissione:
“ Niente…Professore, il candidato ha già detto tutto,
possiamo congedarlo “.
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Mi alzai dalla sedia lasciando su di essa la mia sindone e,
rivolgendomi al nutrito gruppo di fans che evidentemente
si aspettava da me un epilogo significativo, feci un cenno di
cortese e ossequioso saluto, uscendo dalla scena come si
conviene ad ogni buono e bravo attore.
Nessuno, forse, si era accorto di nulla.
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