a denti stretti
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Fabio Rossi “ A DENTI STRETTI ” ( Ricordi più o meno scolastici di un dentista ) OPERA PRIMA ET ULTIMA L’illustrazione è opera di Giordano Bompadre (p.g.c.) 1 PICCOLA NOTA INTRODUTTIVA Non sono uno scrittore e non voglio neppure darmi arie di essere tale, ho voluto solamente raccogliere in un piccolo volume alcuni episodi di vita vissuta nei quali, probabilmente, alcuni dei generosi lettori si potranno riconoscere. Ho qua e là aggiunto ai vari racconti una nota di enfasi, ma in fondo neanche più di tanto, per dare un tocco di colore che potesse rendere la lettura più piacevole e divertente. Non me ne vogliano le persone che ho citato: sono esse, congiuntamente al sottoscritto, gli attori principali di un copione che per anni si è rappresentato nel grande teatro della scuola e della vita. Assieme a tutti coloro che vorranno darmi la libertà di fare il loro nome, voglio ringraziare in modo sincero e profondo mia moglie che, con la sua grande esperienza nel campo della lettura e della scrittura ha avuto la pazienza di correggere gli innumerevoli errori che con dovizia ho cosparso nel testo; le chiedo inoltre scusa perché so quanta pena si dia durante la correzione dei compiti dei suoi allievi, e quindi intervenire su questo mio lavoro è stato per lei un ulteriore sacrificio. Un pensiero va anche alla memoria dei miei genitori Mariuccia e Renato, che hanno saputo, con grande sportività e senso ironico, fare fronte alle molteplici 2 situazioni nelle quali li ho forse involontariamente coinvolti. Un’ultima piccola, ma necessaria, osservazione: non venga tratto in inganno l’acuto lettore dal fatto che alcuni episodi possano essere interpretati come sottile critica ad un sistema educativo forse eccessivamente ferreo. Se questa fosse la sensazione provata, si sappia che non era assolutamente mia intenzione scrivere un libro di denuncia ad un sistema didattico che, si voglia o no ammetterlo, ha senza dubbio portato la maggior parte di noi studenti a risultati degni di considerazione. Fabio Rossi 3 IO…IO…IO…e GLI ALTRI …Eravamo in quattro. Mio padre. Mia madre. Mio fratello ed io. A volte compariva anche un cane…adesso grosso (Mirka), … ora piccolo (Full) e poi di nuovo grosso, anzi grande, come il suo nome, Pelè: così aveva deciso di chiamarlo mio padre, non era stata indetta nessuna riunione di condominio per scegliere il nome, ma a noi andava bene lo stesso, a noi bastava il cane. Me lo ricordo bene, era bianco a pois neri, ma non era un dalmata: Pelè era uno come noi, poco aristocratico e senza grilli per la testa, anche perché, se mai ce li avesse avuti, gli toccava farseli passare, dato che trascorreva il tempo segregato nel suo angolo, in attesa di essere slegato e coccolato. Ah! I cani di una volta… quelli sì che erano cani, niente cappottino, niente cuscino vicino alla televisione né crocchette specifiche per ogni razza , il cane doveva fare il suo mestiere, il cane appunto. 4 Le giornate trascorrevano lente, scandite da una mattinata di scuola ed un pomeriggio in attesa della Tivù dei Ragazzi, una trasmissioncina striminzita e tirata che durava poco più di un’ora, ma a noi sembrava luunga luunga, probabilmente ci accontentavamo di poco ma eravamo sereni e il mondo ci sorrideva, e con lui anche i nostri vicini. E sì, perché allora i vicini erano vicini davvero, in tutti i sensi, fisicamente e spiritualmente. La nostra casa confinava con quella della famiglia Bartesaghi, il padre era una persona distinta e socievole al pari della madre: Peppino lui, Anna lei e anche loro avevano dei figli. Tre per la precisione, Gino e Franco che erano pure gemelli, e poi il più piccolo, Paolo. Anche loro possedevano un cane, un cocker di nome Kitty. Kitty, poverina, soffriva di una grave patologia alle orecchie, una insidiosa forma di otite che le procurava dolore in continuazione; il signor Peppino la accudiva costantemente con cure amorevoli, non passava giorno che non le medicasse le orecchie con soluzioni e farmaci appositamente comprati. L’otite della cockerina non accennava a migliorare, ma Kitty continuava a sottoporsi con pazienza alle terapie: probabilmente beneficiava più delle cure del padrone che non dei farmaci. I gemelli Bartesaghi dicevo, appunto: non so perché, ma a me il fatto che loro fossero gemelli sembrava un privilegio: loro avevano tutto doppio, uno uguale all’altro, si vestivano 5 nello stesso modo, mangiavano allo stesso modo, parlavano allo stesso modo, avevano sempre ragione loro ...allo stesso modo. Con loro si era stabilito un rapporto profondo, un’amicizia vera, fatta di litigi, botte e insulti, tutto quello che ci vuole per condurre un’adolescenza vivace e frizzante. I Caspani, invece, confinavano dall’altro lato della mia casa: la mamma Lia, il papà Francesco e il figlio Roberto. Roberto era fatto di un’altra pasta: rispettoso, educato, pacato nel gioco… La prima volta che lo vidi fu in casa sua, mia madre mi ci portò perché la mamma di Roby (così veniva chiamato il giovane Caspani), faceva la sarta ed io avevo bisogno di farmi stringere il grembiulino per la scuola. La prima cosa che notai in quella casa fu un meraviglioso mitra di plastica gialla, uno di quegli arnesi che se venissero proposti ad un bambino dei nostri giorni te lo tirerebbe sui denti in men che non si dica, ma io ne fui colpito. Come mi piaceva… lo fissavo, avrei avuto voglia di prenderlo e giocarci anche solo per un momento. Purtroppo mi resi conto immediatamente che quel ragazzino chiamato Roby, rispettoso, educato e pacato nel gioco, un vero modello comportamentale per tutti i bimbi del Villaggio Giardino, aveva intercettato il mio pensiero e come un fulmine si era avventato sul suo giocattolo, 6 togliendolo definitivamente dalla mia vista: per la serie “Questo è mio e tu gira al largo”. L’ERBA E IL VICINO Già, il Villaggio Giardino… così si chiamava la zona dove abitavo: un’oasi di pace e di tranquillità, a ridosso della collina di Cesano, venti casette tutte uguali nelle quali vivevano venti famigliole più o meno uguali, lo stesso modo di ben pensare, lo stesso modo di condurre una vita semplice ma dignitosa, un’armonia tra tutti i vicini che non doveva mai essere alterata. Il principio sacro e indiscutibile era : convivenza civile e mutuo rispetto. Bei tempi: la mattina ci si incontrava, ci si salutava, ci si inchinava perfino, si chiacchierava anche solo per qualche secondo e poi via, ognuno per la sua strada. Mi ricordo della signora Carla, sulla porta della sua casa campeggiava una targa bianca a caratteri neri molto grossi: LEVATRICE . Io continuavo a domandarmi per quale motivo non l’avessero mai corretta quella targa: “Dovevano scrivere LAVATRICE - ripetevo tra me e me - possibile che nessuno glielo abbia mai detto?” . Tuttavia pensavo che il 7 mestiere della lavatrice era talmente logico, che avrebbero potuto anche lasciarla così quella targa, ormai tutti erano a conoscenza del mestiere della signora Carla. Fu mia madre che, senza volerlo, mi svelò il vero mestiere della signora Carla, un giorno parlando con mio padre a tavola durante il pranzo e in mia presenza: “Sai Renato… la signora Carla ha fatto nascere un altro bambino” Ed io dentro di me pensavo “Ma come, con la lavatrice ?” A quel punto fortunatamente mi decisi ad aprire la bocca e chiesi finalmente a mia madre cosa c’entrasse il “fare la lavatrice” col far nascere i bambini…….il resto ve lo lascio immaginare. Nell’angolo estremo del villaggio abitava un’altra signora Carla, Oriani di cognome, un donnone grande grande e robusto, ma con un viso dolce e sempre sorridente. La signora Oriani si affacciava spesso al balcone di casa quando noi bambini giocavamo, amava sentirci gridare, schiamazzare, era rimasta vedova prematuramente e forse noi con il nostro frastuono le tenevamo compagnia. Nel giardino di casa sua c’era un grosso ciliegio, che per noi costituiva una grande tentazione durante la stagione in cui i frutti erano maturi. A turno noi piccoli ribelli facevamo incursione sul povero albero, razziandolo non solo dei 8 frutti, ma spesso anche di grossi tralci e rami mutilandolo irrimediabilmente. In quei momenti la signora Carla non usciva sul balcone e noi pensavamo di averla fatta franca grazie alla nostra furbizia: ancora non potevamo capire che la generosità di quel donnone era pari alla grandezza della sua persona, faceva finta di non vedere per non doverci sgridare. 9 RITO INIZIATICO …C’era poi Fiorenzo: abitava dirimpetto alla mia casa, era “immigrato” - dicevamo noi- nella nostra terra dall’Emilia con la madre e la sorella, la mamma era maestra elementare e perciò, come tutte le maestre che si rispettino, continuava ad esserlo anche fuori servizio, cioè a casa. Il povero Fiorenzo ne faceva le spese, essendo tenuto sotto pressione costantemente dal maglio della madre, che lo richiamava in continuazione al dovere non appena egli scappava fuori a giocare con il nostro gruppetto. La cosa peggiore tuttavia era il modo in cui veniva richiamato all’ordine: infatti la madre si affacciava al balconcino di casa e, dopo avere scrutato l’orizzonte ed individuato il povero figliolo, emetteva con la bocca un fischio lungo ed acuto che non poteva essere ignorato; ma non finiva lì, al fischio seguiva il richiamo vocale : “FIIIOOOREEE… FIIIOOOREEE”. Fiore? Eh, no! Fiore proprio no, non poteva andare! Noi, gruppo compatto, non potevamo lasciarci scappare un’occasione 10 tanto ghiotta per sottoporre il nuovo inquilino al famoso rito iniziatico di benvenuto. Dovevamo perciò assolutamente trovare un nome sostitutivo, o meglio un soprannome, che salvasse il buon “FIIIOOOREEE” da questa imbarazzante situazione. Quando la pezza è peggio del buco : ecco come andarono i fatti. Si occupava dell’operazione assegnazione codici (o meglio soprannomi) uno dei famigerati gemelli Bartesaghi, a turno. Questa volta capitò a Gino che apparentemente era più umano, ma a volte sapeva essere più pericoloso di un serpente a sonagli. Gino, dunque, con un’aria falsamente preoccupata, passandosi la mano sinistra sul mento ed aggrottando la fronte cominciò a fare finta di pensare: “Fiore… Fiore… Fiore … no, Fiore proprio non va - ripeteva ecolalicamente dobbiamo trovare un nome che si addica a questo ragazzo”. Tra l’altro Fiorenzo era un marcantonio alto un metro e ottanta, pesava poco meno di 70 kg, proprio un bel ragazzone, come si usava dire. Ad un certo punto la mano di Gino si ferma sul mento, i suoi occhi si sbarrano e la sua voce grida imperiosamente “ GOZZILLA”. E’ inutile dire che Fiorenzo non fu propriamente felice del soprannome assegnatogli, tuttavia non poté far altro che 11 cedere alle pressioni morali e fisiche, usate per cercare di convincerlo che quello era proprio il nome adatto a lui. Più tardi nel tempo, vista la sua buona condotta, gli venne concessa una piccola “detassazione” sul nome e da quel giorno Fiorenzo fu chiamato più amichevolmente “GO”. Più avanti nel tempo il soprannome “GO” fu più amichevolmente ed affettivamente trasformato in “JO”… grande “JO”. 12 MENS SANA IN CORPORE SANO… Il pallone proprio non lo potevo sopportare, era un gioco che a me personalmente non piaceva e non mi appassionava, ma sembrava comunque l’unico passatempo possibile nel nostro rione. La squadra era composta dai più disparati ed anche disperati soggetti del vicinato, che convogliavano in massa, più o meno alle ore 17.00, presso il Villaggio per la consueta partita di calcio pomeridiana. Massimo e Federico Volpi, i fratelli Colombo di via Nazionale dei Giovi, i fratelli Colombo vinai, Caspani Roberto, i gemelli Bartesaghi, i fratelli Zardoni , Luigi Beccalli detto Becca , io e mio fratello Ascanio ecc. ecc., ma la punta di diamante era senza dubbio il nostro portiere: Longoni Aldo detto Lungùn. Il Lungùn si presentava all’appello vestito nel seguente modo: - Pantaloncino da portiere nero imbottito “anti urto” - Maglioncino sulle cui maniche spiccavano due gomitiere alla capitan Arlok - Ginocchiere 13 - Cappellino con visiera (sostitituito nella stagione invernale da cuffietta in lana con pon-pon - Guanti da sci rigorosamente riciclati ad uso portiere di calcio Unica nota assolutamente professionale erano un paio di scarpette da calcio che noi tutti gli invidiavamo silenziosamente. Il Lungùn era l’unico del gruppo che per giocare si bardava come un cosacco, ma questo gli consentiva di effettuare parate stratosferiche con atterraggi sul campo di gioco che, dimenticavo di dire, era un vialetto cosparso solamente di ghiaietto ultrafine. Ogni parata del Lungùn era seguita da un urlo di gioia della folla ed uno di dolore del portiere stesso, nelle cui ginocchia si infilavano inevitabilmente decine di sassetti microscopici. Ecco, sì ...il Lungùn era un vero martire del gioco del pallone. Il rito a seguire era quello dell’avulsione sassi dalle ginocchia del povero portiere, il quale dopo essere stato adagiato a terra, veniva trattenuto con forza da alcuni volontari che gli facevano stringere tra i denti uno dei famosi guanti da sci . 14 Capitava anche che nelle nostre partite imperversasse il ciclone Federico Pallavicini, detto Palla, che sfuggendo all’occhio vigile della madre disertava per pochi minuti i tavoli di studio per gettarsi sui “campi di gioco”. Lo si vedeva correre come se avesse avuto le ali ai piedi, si gettava nella mischia, tirava 3 o 4 calci al pallone e poi via, come era venuto se ne andava, lasciando il gruppetto di sparuti giocatori attoniti ed allibiti. Tornava alle sudate carte, senza farsi chiamare neppure una volta dalla mamma… Doveroso, anche se lievemente pleonastico, aggiungere che il cursus honorum del buon Palla si è rivelato brillantissimo, costellato di successi scolastici e professionali, che lo hanno meritatamente condotto ad essere primario al Policlinico Gemelli di Roma. 15 LA PAURA FA 90 Una delle cose che mi ha sempre incuriosito è capire per quale motivo alcuni adulti si divertano in modo particolare a spaventare i bambini. Ricordo che agli inizi degli anni ‘60, prima ancora di trasferirci come abitazione presso il già citato “Villaggio Giardino”, io e la mia famiglia abitavamo nel centro di Cesano e più precisamente in Corso Libertà. La famiglia Perego, illustre rappresentante della società “bene” del paese, aveva gentilmente offerto a mio padre l’opportunità di un piccolo appartamento nel quale ci sistemammo comodamente per un paio di anni. Con la gentile famiglia ospite si era intrecciato un legame di amicizia destinato a mantenersi e consolidarsi negli anni. Le serate primaverili venivano trascorse in piacevole compagnia con il capofamiglia Carlo, la moglie Carla e i figli Emanuele, Vittorio ed Elisabetta: i grandi parlavano delle loro cose, mentre noi più piccoli giocavamo nel cortile del grande caseggiato. Una sera, stanchi di correre, noi folto gruppetto di bambini ci radunammo in un angolo a parlare del più e del meno, quando sopraggiunse un ragazzo di nome Dario che a 16 quel tempo lavorava come apprendista presso la stessa famiglia Perego. La Ditta Carlo Perego si occupava della vendita di laminati plastici e affini; nei miei ricordi infatti è presente tuttora quello strano odore di fòrmica, così era chiamato comunemente il materiale plastico in fogli commercializzato dalla fiorente azienda. Dario aveva su per giù una decina di anni in più di noi e quindi veniva considerato da tutti un adulto pieno di esperienza, un maestro di vita, un ragazzo dalle mille verità in tasca. Quella sera stranamente Dario mi prese in particolare considerazione, anche se io ero il più piccolo, si mise a parlare con me facendomi sentire immensamente orgoglioso, mi raccontava di fatti di vita vissuta, delle sue esperienze in campo sportivo, di fantastiche avventure nelle quali aveva persino sfidato la morte. Io ascoltavo a bocca aperta ignaro del vile piano che egli stava tramando a mio danno. Quando lo spietato individuo si rese conto di avermi cotto a puntino, mi prese in disparte quasi per rendermi partecipe di un segreto che solo a me voleva svelare. “Fabio, oramai sei grande” (io avevo sì e no 5 anni) “e bisogna che ti renda conto del pericolo che tu e la tua famiglia state correndo”. 17 La storia si faceva interessante, tuttavia quell’aria di velato mistero mi procurava un brivido che mi percorreva tutta la schiena. “Hai notato” continuò il sordido individuo “quella porticina di legno che c’è sul pianerottolo vicino alla scala che porta a casa tua ?” “ Si “ risposi io con un filo di voce. In effetti quella porta che era perennemente chiusa mi aveva incuriosito già da molto tempo, aveva un’aria di mistero in virtù del quale non avevo mai osato chiedere cosa ci fosse al di là di essa. Dario mi aveva in pugno. “Bene Fabio”, continuò il giovane truffaldino guardandosi intorno con circospezione. In effetti egli si guardava intorno non per mantenere segreta la nostra conversazione, ma solo per assicurarsi di non essere sentito da orecchie indiscrete in grado di demolire il suo diabolico piano. “ Ecco tu sai perché è sempre chiusa quella porta ? “ incalzò Dario mentre vedeva che ora mai la sua vittima era completamente in suo potere. “No “ risposi io in modo secco, ma altrettanto preoccupato. Mentre Dario con il dito indice mi indicava il luogo incriminato io con lo sguardo cercavo di mettere a fuoco il bersaglio ma con il cervello ero già partito facendo lavorare 18 la mia fervida immaginazione. Questo era senza dubbio l’obiettivo del “losco” individuo. “Ebbene, al di la di quella porta vive una donna di circa 120 anni, vecchia brutta e tutta grinzosa che ha la mania di mangiare i bambini, il suo nome è…il nome è…”. Dario naturalmente non era stato sufficientemente pronto ad inventarsi un nome che potesse incutere timore, ma ad un certo punto esclamò: “Il suo nome è MARY CLACK”. La frittata era fatta. MARY CLACK… una donna con un simile nome non poteva essere altro che una mangiatrice di bambini pensai in modo convinto, come non averci pensato prima che dietro a quella porta potesse vivere indisturbato un simile mostro e soprattutto , quale pericolo avevamo corso sino ad allora non conoscendo quello che avrebbe potuto succedere a me e a mio fratello Ascanio. Comunque da quel momento in poi avremmo dovuto vivere anzi convivere con quel problema cercando di evitare l’incontro faccia a faccia con la vecchia donna. Per tale motivo ogni volta che dovevo rientrare in casa prendevo la rincorsa passando davanti alla “porta della Mary Clack” (così ormai la chiamavo nei miei preoccupati 19 soliloqui) ed infilando la scala a tutta velocità fino ad arrivare sull’uscio della mia abitazione, sperando poi di trovarlo aperto. Inutile precisare che dietro quella porta non c’era proprio nessuno, vi era solo un piccolo appartamentino sfitto nascosto da una porticina in legno perennemente chiusa. … Passarono quei giorni di primavera ed arrivammo all’estate e, come ogni estate, io e la mia famiglia partimmo per le sospirate vacanze alla volta della Toscana. Era abitudine di mio padre trascorrere un mese in villeggiatura, ed un mese è lungo da passare, ed in quel mese possono succedere molte cose. Al nostro rientro venimmo accolti dalla gioiosa famiglia Perego, la quale però dimenticò di informarci che nel frattempo, durante la nostra assenza, avevano affittato il piccolo appartamento ad una gentile signora in pensione che viveva in solitudine ed in disparte. Fu così che una sera rientrando a casa, ed inforcando sempre di corsa la scala investii violentemente la povera inquilina che in quel momento aveva deciso di uscire per depositare la spazzatura nel cortile adiacente. Fu un colpo terribile, lei da una parte ed io dall’altra stesi a terra in uno stato di semi incoscienza, e sarebbe stato 20 meglio che tale semi incoscienza fosse durata, perché non appena ebbi il tempo di riavermi, alzandomi da terra e vedendo la sagoma della vecchia signora ancora sdraiata ed in favore delle tenebre cominciai ad urlare: “Aiuto….Aiuto… la Mary Clack… mi mangia”. Le mie urla e i miei pianti fecero accorrere oltre a mia madre l’intero vicinato: tutti erano spaventati dal gran baccano da me provocato e nel tentativo di calmarmi, ci misero un bel po’ ad accorgersi che la povera vecchina era stesa a terra. Io continuavo a ripetere quel nome incomprensibile ai più, mentre Ci volle del bello e del buono per chiarire tutto l’increscioso fatto ma con santa pazienza mia mamma riuscì a chiarire la situazione trovando da parte della simpatica vicina tanta generosità ed altrettanta comprensione. 21 UOMINI e CAPORALI Eravamo tanti ma mai troppi, era l’epoca in cui di figli se ne facevano ancora molti ed i cortili, condominiali e non, erano sempre pieni di bambini. Talvolta ci si ritrovava a guardarsi l’un l’altro, annoiati nell’attesa di trovare qualche cosa da fare e questo qualche cosa aveva molto spesso il sapore della marachella… Nelle lunghe serate estive, per esempio, lo sport nazionale era quello di suonare i campanelli e fuggire. Altre volte, invece, i più grandi si divertivano a raccontare storie inverosimili ai più piccoli, che stavano così ad ascoltare per ore, leggende nelle quali il fratello maggiore millantava di essere stato nella giungla a caccia di leoni. La morale era che alla fine il narratore era confuso più dell’ascoltatore e pensava di esserci stato davvero nella giungla. E tra una storia e l’altra, tra una partita di pallone ed una battaglia con i fucili ad elastico, le estati trascorrevano veloci portandoci inesorabilmente al 1° di ottobre. 22 Oggi questa è una data come un’altra ma una volta no, una volta 1° ottobre significava primo giorno di scuola. Il mio me lo ricordo forse sì o forse no, non so per quale motivo: probabilmente qualche serio analista avrebbe la sua da ridire… Ad ogni buon conto, se non ricordo bene il primo, di certo non riesco a dimenticare tutti gli altri giorni scolastici che seguirono. Io con altri coetanei del Villaggio fummo iscritti, quasi d’ufficio, alle scuole elementari delle famosissime Suore Sacramentine, e fin qui niente da dire: era senza dubbio un ambiente -come si dice- sano, l’educazione buona, l’istruzione ottima. Tuttavia qualche particolare dei metodi pedagogici utilizzati per inculcare le regole disciplinari lasciava intuire – ma è solo un sospetto – velate impronte del ventennio … Io ero stato affidato, assieme ad altri malcapitati, alle “amorevoli” cure di Suor Luigia Carla, la quale probabilmente covava in seno il dispiacere di non essere nata uomo per intraprendere la carriera militare. La giornata scolastica iniziava sempre con l’alza bandiera, un alza bandiera con una bandierina piccola piccola ed un vecchio grammofono, che faceva risuonare imperterrito un gracchiante inno di Mameli, e noi lì a marciare e cantare nel cortile della scuola, sia che ci fosse il sole o che tirasse un vento da cani e una neve da lupi. 23 Il tutto avveniva rigorosamente all’aperto, nel cortile adiacente alla palestra: una palestra grande, calda e soprattutto… vuota. Era questo fatto che ci faceva arrabbiare, lasciare una palestra vuota e noi fuori a marciare al freddo e al gelo. Cosa avevamo fatto per meritare tale castigo ? D’altro canto, ben presto capimmo che era inutile lamentarsi: la suora aveva avuto ordini superiori –mah?- di forgiare il nostro carattere. Inoltre ci fu anche detto che la giornata della protesta e della lamentela era stata tassativamente abolita dal regolamento scolastico . La classe era formata da 52 dico cinquantadue bambini, diversi tra loro per colore di capelli, occhi, statura , cervello e … quattrini. Io non brillavo particolarmente per nessuna di queste caratteristiche, ero mediamente nella media, inoltre non vi era giorno che non mi domandassi che cavolo ci stavo a fare lì fermo nel mio banchetto, immobile per ore e ore avendo da fare altre cose molto più importanti e soprattutto divertenti. Il fatto è che probabilmente la suora aveva capacità telepatiche, e penso che i miei pensieri reconditi la irritassero in modo particolare, perché non perdeva occasione per interrogarmi . 24 Fu appunto in una di queste giornate che accadde un fatto increscioso…... Volle Iddio che quel giorno la suora decidesse di effettuare un’interrogazione straordinaria in Scienze e sempre Iddio volle che la suora decidesse di interrogare proprio me, ma Iddio non volle che io fossi preparato, per cui la suora mi esortò a consegnare il diario per l’annotazione della meritata insufficienza. Era consuetudine che alla regolare annotazione sul diario seguisse una punizione corporale da parte della solerte maestra e il tutto avveniva con la modalità di seguito esposta ed ampiamente collaudata. Dopo essere stato interrogato con esito negativo, il candidato veniva invitato a presentarsi presso la cattedra della suora, la quale con piglio fulmineo afferrava con la mano sinistra il diario e con la destra il braccio del malcapitato. Seguiva quindi prima una sorta di sberloni a raffica e poi una serie di scossoni, a seguito dei quali l’alunno non sapeva più se si trovava a nord o a sud della classe. A seguire tutto ciò, avveniva l’assegnazione di voto negativo sul diario e una serie d’insulti di varia natura, con finale esposizione della vittima al pubblico ludibrio. …..E nonostante tutto ciò crescemmo – si dice- fortificati nel corpo e nello spirito. 25 IL DIAVOLO FA LE PENTOLE MA NON I COPERCHI L’orario scolastico era strutturato nel seguente modo: - ore 8.30 inizio lezioni - ore 11.00 ricreazione - 0re 12.30 Pausa pranzo - Ore 14.00 Rientro pomeridiano - Ore 16.30 Fine lezioni No, io quel giorno proprio non ce la facevo a sostenere il quotidiano tour de force, e, subito prima dell’inizio delle lezioni pomeridiane, mi rivolsi alla suora, comunicandole con aria decisa che nel pomeriggio avrei dovuto… recarmi dall’oculista per una visita di controllo. Ricordo di avere letto sul suo volto un’espressione di scarso convincimento ma, come fu o come non fu, so che ebbi accordato il permesso richiesto. 26 Bighellonai quelle poche ore che mi separavano dal consueto orario di uscita dalla scuola e poi finalmente rientrai a casa come al solito. La sera stessa fui però colto da un senso di colpa per la bugia detta e cercai quindi il mezzo per rimediare, ma soprattutto per rendere credibile agli occhi della maestra il fatto che mio fossi assentato per ragioni di salute. Pensa e ripensa, rimasi di colpo folgorato da un’idea brillantissima, corsi in camera e cercai sulla scrivania gli occhiali da vista di mio fratello… li trovai, li provai e mi resi conto immediatamente di avere ottenuto la soluzione a tutti i miei problemi. Mi presentai a scuola il giorno seguente sereno e tranquillo e, non appena la suora con voce imperiosa ordinò di prendere carta e penna per lo svolgimento del dettato, io inforcai rapidamente gli occhiali di mio fratello, lanciandole uno sguardo di sfida. Purtroppo lo sguardo nelle intenzioni fu di sfida, ma nella realtà fu solo annebbiato tanto che, non appena la suora iniziò la dettatura, per poter scrivere qualche cosa di decente fui costretto a guardare attraverso la montatura degli occhiali, assumendo una postura talmente viziata da suscitare un sicuro interesse da parte di chiunque si fosse messo ad osservarmi. Ma il peggio doveva ancora arrivare. 27 Nel bel mezzo del dettato, si udì bussare alla porta. “Avanti!” ordinò imperiosamente la suora. La porta si aprì ed io capii di essere sull’orlo del baratro: era mia mamma, che quel giorno inaspettatamente aveva voluto venire a scuola per avere notizie sul mio profitto. Non ricordo precisamente quale fu l’espressione della genitrice, vedendomi con gli occhiali di mio fratello, ricordo solo la domanda che mi pose in maniera chiarissima, ad alta voce e senza alcuna possibilità di equivoco: “ E TU…………………….COSA CI FAI CON GLI OCCHIALI DI TUO FRATELLO?”. 28 IL SACRIFICIO Chi più chi meno avevamo tutti le nostre lacune, chi in matematica chi in italiano e via dicendo, ma certamente io facevo parte di un nutrito gruppetto quotidianamente preso di mira dalla suora, che applicava sui poveri alunni le più innovative strategie di recupero… Ricordo in particolare di un ragazzino esile, educato e timoroso di nome Roberto Righetto, che ogni giorno puntualmente e inevitabilmente finiva sotto le grinfie della nostra maestra. Per l’appunto, quel giorno Roberto venne chiamato alla lavagna per risolvere un problema ma purtroppo la soluzione tardava a venire, ci voleva molta pazienza, tanta pazienza, talmente tanta che ad un certo punto la suora non ne ebbe più e, alzandosi dalla propria sedia e dirigendosi verso la lavagna, fece intuire al povero ragazzo che qualche cosa di non troppo simpatico stava per accadere. 29 La suora raggiunse quindi l’alunno e, afferratagli la testa con la mano sinistra per tenerla ben ferma, con la destra agganciò la lavagna imprimendole un deciso moto rotatorio facendola così finire… sulla testa del povero Righetto. Un tonfo sordo risuonò per tutta la classe lasciandoci sbigottiti. Ma la faccenda non si concluse così: infatti, Roberto ebbe la malaugurata idea di reagire, mosso da chissà quale istinto di ribellione. Allora ebbe un moto di stizza, del tutto lieve ma inaccettabile dalla suora di ferro, che prontamente intervenne con un sonoro ceffone , facendo schizzare a terra gli occhiali del povero Righetto. Nuovamente Righetto ebbe da ridire e mormorò la seguente infelicissima frase : “Adesso, suora, me li paga…”. La risposta a tale richiesta di indennizzo fu la seguente: “Ti pago io!”, e afferrato nuovamente il malcapitato per il braccio lo fece roteare due o tre volte per tutta la classe. Un silenzio di tomba scese nell’aula e nei nostri cuori. Nota eziologica: Il sacrificio di Righetto ha fatto sì che da allora le lavagne siano rigorosamente appese al muro. 30 IL PICCOLO SCRIVANO CESANESE Nel 1965 non esistevano computer, webcam e Messenger e il telefono era riservato alle comunicazioni urgenti, per cui quando si volevano scambiare quattro chiacchiere con un amico non rimaneva che andarlo a trovare. Quel giorno quindi, ricevuto il permesso dalla mamma, mi recai a trovare presso la sua abitazione il mio amico “del cuore” Gianni. Giunsi a destinazione dopo lunga ed estenuante camminata , venni quindi invitato dalla madre ad entrare in casa e, dopo esserci scambiati i convenevoli di rito, cominciammo a cercare Gianni. Niente in sala... niente in cucina… niente in tinello… cominciavo a pensare di avere fatto la strada per nulla. Seguirono quindi le ricerche vocali: “Gianniii ,Gianniii”, io e la signora Luisa all’unisono, ma niente. 31 Di nuovo riattaccammo: “Gianniii…”. Ad un certo punto, dal fondo del corridoio, si sentì il tipico scricchiolio di una porta che si apre ed ecco Gianni apparire con il volto di chi stesse effettuando un’operazione di alta precisione e maestria. La madre conosceva suo figlio perciò, con un atteggiamento misto di comprensione e copertura dei misfatti, preferì non approfondire e mi spedì nella camera di Gianni, sospingendomi delicatamente con la mano sulla schiena. Una sensazione di inquietudine mi attanagliava dentro, ma dovetti mio malgrado andare a fondo della strana situazione. Varcata la porta della camera mi resi subito conto che qualche cosa di “poco chiaro” era avvenuto o stava avvenendo; la tapparella era totalmente abbassata e la cameretta era illuminata unicamente da una di quelle piccole lampade da tavolo che emettevano una luce fioca. Il debole chiarore permetteva di vedere una serie di quaderni aperti sui quali era appoggiata una penna bic rossa simile, e dico simile, a quella che la nostra maestra usava quotidianamente per segnare i voti sui nostri diari. Il senso di inquietudine a quel punto sparì per lasciare posto a una sensazione di profonda costernazione: cosa mai stava facendo il “piccolo scrivano lombardo” prima che io arrivassi ed irrompessi drammaticamente nella sua vita ? 32 Mi girai di scatto e con il mio sguardo incrociai il suo…….. “Vedi Fabio - cominciò Gianni con voce da cospiratore del periodo tardorisorgimentale - domani è la festa della mamma ed io ho pensato che alle nostre avrebbe fatto piacere ricevere in dono i nostri compiti con dei voti direi, ecco direi …”. E lasciò la frase in sospeso, come un attore consumato. Il primo istinto fu quello di darmela a gambe, ma poi pensai che tutto sommato un simile regalo alla mia mamma non lo avevo mai fatto e decisi quindi di tenere bordone alla perversa “Mente” ideatrice del diabolico piano. Gianni si rimise quindi al posto di lavoro ed io, cavati i quaderni dalla piccola cartella rossa che costantemente portavo con me, li sottoposi alla sua attenzione. Il piccolo falsario cominciò a lavorare di lena: “Italiano… DIECI” “Matematica… DIECI” “Storia… OTT… ma no DIECI” 33 COMPAGNI DI MERENDE A scuola ci si doveva andare e basta. “ Il dovere è dovere, bisogna impegnarsi e non si discute “ mi diceva sempre mio padre, dall’alto della sua educazione militare. Io, però, di andare a scuola non ne avevo proprio una grande voglia e non ero l’unico a pensarla così: infatti, nel nutrito gruppetto di potenziali disertori spiccava un alunno di grandi capacità strategiche, in grado di escogitare piani di fuga degni di “Papillon”, peccato che in questi piani spesso non venisse considerato il cosiddetto effetto incognita. I fatti, dunque, andarono più o meno così… Come già detto precedentemente, l’orario scolastico era strutturato in una mattina di lezione, un’ uscita per tornare a casa e pranzare ed un rientro pomeridiano per il seguito delle lezioni. 34 Beh, quel fatidico giorno, dopo avere pranzato come al solito a casa mi accinsi al rientro, mi diressi verso l’abitazione del mio compagno ed amico Gianni ed arrivato sotto casa sua suonai il campanello…. Gianni arrivò regolarmente e senza battere ciglio, rivolgendomi un fugace saluto, mi precedette sul cammino del rientro a scuola. Il suo comportamento mi apparve subito strano, aveva un’aria da cospiratore, sembrava quasi volermi nascondere qualche cosa, tuttavia io Gianni lo conoscevo bene: con lui non avevo alcuna possibilità né di parola né di decisione, per cui, affidandomi totalmente in cuor mio alla Clemenza Divina, lo seguii senza parlare. Fatte solo poche decine di metri, Gianni scartò bruscamente a sinistra inforcando la via San Martino: ma quella non era la strada che ogni giorno noi facevamo per ritornare a scuola… I miei dubbi cominciarono a diventare certezze: Gianni aveva in mente qualche cosa di strano. Un senso d’inquietudine mi attanagliava, ma la curiosità di sapere fin dove questa storia mi avrebbe portato era tanta , quindi mi associai tacitamente al torbido piano. Percorremmo fino in fondo tutta la via, poi girammo a destra e subito a sinistra portandoci nella via Villafranca, dove finalmente Gianni si fermò di scatto e guardandosi in giro con circospezione disse: ”Bene qui è il posto giusto”. 35 A questo punto, visto e considerato che avevo accettato silenziosamente di aderire al subdolo piano, chiesi cortesemente la parola e domandai : ”Scusa Gianni….ma se è lecito sapere qui è il posto giusto per fare cosa?”. Gianni mi si avvicinò e parlandomi sommessamente, quasi mi volesse far dono di una spiegazione riservata a pochi eletti , mi disse che quel giorno LUI aveva deciso che NOI non saremmo andati a scuola. Oh… finalmente avevo capito. Bene… avevo capito che mi ero reso complice senza possibilità di scelta di un piano che ci avrebbe sicuramente condotti al patibolo. Davanti ai miei occhi in pochi secondi vidi fotogramma per fotogramma quale sarebbe stato il mio destino: La suora avverte mia madre della mia assenza… Mia madre lo comunica mio padre … Mio padre mi castiga e lo riferisce alla suora … La suora è contenta … e mi castiga. A quel punto mi resi conto che dovevo intervenire per cercare di sanare in qualche modo la situazione. Dimenticavo di dire che un altro problema emergeva da questa storia: la cartella. E sì, perché con il rientro per il pranzo la cartella rimaneva a scuola e logicamente qualche anima pia avrebbe dovuto andare a riprenderla; peccato 36 che per un fortuito caso le cartelle erano sempre quelle di Gianni e Fabio o di Fabio e Gianni, e la suora cominciava ad insospettirsi di questo fatto. Va bene, lasciamo perdere questi particolari e continuiamo con la narrazione. Gianni quindi, come dicevo, decise che la “ location “ per consumare il misfatto era ideale e si sedette dunque su un piccolo muricciolo che faceva da cinta ad una vecchia villa e con le braccia conserte tuonò : ”Bene ora non rimane che aspettare”. Le ore, ma che dico i minuti, cominciarono a trascorrere lentamente, mentre nella mia testa si materializzava il film di quello che sarebbe successo in seguito, e con il passare dei minuti e delle ore cominciarono a farsi anche sentire i morsi della fame e della sete. Che cos’è il colpo di genio? Niente di trascendentale, è solo un’idea geniale che di colpo può risolvere un problema apparentemente irrisolvibile. Ebbene io, nonostante tutto, avevo di tanto in tanto degli sprazzi di lucidità, mediante i quali riuscivo a risolvere brillantemente situazioni complesse, ed anche quel giorno in quel preciso momento ebbi l’idea luminosa. “Che ne diresti - dissi io rivolgendomi a Gianni - se andassimo da mia cugina Lina a fare merenda?” 37 Alla risposta affermativa del mio amico, che mai avrebbe opposto rifiuto ad un invito tanto allettante, ebbe inizio la terza fase della inquietante storia, nella quale stava per essere inesorabilmente incastrata l’ignara e generosa cugina. La mia simpatica parente abitava a poche decine di metri ed era l’unica nostra ancora di salvezza. Ci dirigemmo quindi verso la sua abitazione e, giunti davanti al portone di casa, dopo esserci reciprocamente guardati negli occhi esprimendo un silente uno per tutti e tutti per uno…. io e Gianni suonammo il campanello. Alla risposta “Chi è?” di mia cugina entrambi rispondemmo all’unisono “NOI”, attendendo pazientemente l’apertura del portone del palazzo. Pochi ma interminabili secondi trascorsero, ma finalmente la serratura scattò …eravamo salvi. Lina era ed è tuttora una persona di gran cuore, per cui quando ci vide “baluginare” davanti alla porta di casa non esitò a farci entrare facendoci accomodare in cucina…. “Cosa fate di bello in giro a quest’ora - ci chiese l’ignara parente - non dovreste essere a scuola?”.. Vi ricordate del colpo di genio di cui vi parlai poc’anzi? … Era il momento di farne partire un altro. “Vedi Lina” mi affrettai a rispondere prima che lo facesse quel pasticcione di Gianni e rovinasse tutto, “Oggi … ecco 38 vedi ... c’è il funerale del papà di un nostro compagno e … tu … Sai … insomma mi veniva da piangere……”. A quel punto Lina, dotata di grande sensibilità, mi abbracciò cercando di consolarmi. La buona e simpatica parente preferì, inoltre, non approfondire l’argomento e diede inizio al … banchetto. Quello che in pochi minuti apparve sul tavolo ve lo lascio solo immaginare … Cioccolata calda. Torte di ogni tipo e qualità. Bevande deliziose. Biscotti e … chi più ne ha più ne metta. Io ed il mio amico cominciammo ad abbuffarci, lanciandoci di tanto in tanto fugaci occhiate di traverso, badando bene che nulla di ciò che avevamo in animo trapelasse dai nostri sguardi. Epilogo della triste e strana storia. Giunto a casa dopo avere salutato il compagno di merende, trovai un’aria di insolita lieta accoglienza da parte dei miei, che cominciarono a pormi strane domande sul come fosse andata la giornata scolastica. Cercai allora di raccontare di un ipotetico pomeriggio di scuola infarcendo la narrazione di particolari bizzarri e 39 bugie assurde, ignorando però (come potete bene immaginare) che il mio rientro fosse stato preceduto da una telefonata da parte della solerte suora. Preso dalla foga non mi accorsi, mio malgrado, che mio padre si era già cavato la cinta dei pantaloni avvicinandosi alla mia persona insidiosamente…….. DELITTO E CASTIGO Per l’appunto quel dì la suora ci ordinò di prendere carta e penna per una verifica estemporanea sulle equivalenze: era quello un argomento che, insieme a tanti altri, a me proprio non voleva entrare in testa. La suora aveva una pessima abitudine, quella di girare tra i banchi e verificare all’istante (in tempo reale, si direbbe oggi) come procedessero i compiti e, qualora non si ritenesse soddisfatta sull’andamento, impartiva seduta stante una punizione rappresentata da una serie di nocchini sulla testa del malcapitato. Fui io quel giorno l’estratto a sorte, per cui, visto che il compito al quale stavo alacremente lavorando, non piacque per niente alla diligente maestra, fui costretto a sorbirmi l’amaro castigo. 40 Il mio “simpatico” compagno di banco di nome Fulvio , probabilmente, fu divertito molto dalla situazione nella quale mi trovai coinvolto, e si lasciò scappare una leggera risata alla quale io, irritato più che mai, replicai con l’infelice quanto mai inopportuna frase : “La suora è scema”. A quelle parole, Fulvio non seppe trattenere una seconda ondata di risate richiamando l’attenzione della suora, la quale chiese repentinamente al ragazzo: “ Fulvio, che cosa ti ha detto Rossi?”. Fulvio cercò di scoraggiare l’insistente curiosità della nostra maestra, tentò e ritentò più volte di lasciare cadere l’argomento, ma quando la suora, ormai sull’orlo di una crisi isterica e rossa come un pomodoro, urlò a Fulvio: “Ti metto 4 in condotta”, il fanciullo dovette proprio arrendersi e, stimolato dalla paura della insufficienza sul profitto, esclamò. “Rossi ha detto che… ha detto che.. la suora…la suora è scema”. Un profondo senso di costernazione avvolse l’intera aula lasciando intuire che qualche cosa di brutto sarebbe accaduto da lì a poco al povero Rossi. La suora impietrita mi ordinò di portare immediatamente il diario: così feci tenendomi, per i motivi già esposti in precedenza, a debita distanza di sicurezza. 41 Afferrato il diario, dopo avere lisciata con il palmo della mano più e più volte la pagina riportante la data di quel giorno funesto, la suora di ferro vergò di proprio pugno la seguente annotazione: “L’ALUNNO ROSSI FABIO HA OFFESO LA SUA INSEGNANTE, EQUIPARATA AD UFFICIALE NEL PIENO ESERCIZIO DELLE SUE FUNZIONI. CONDOTTA QUATTRO” A tale ormai certa condanna di morte seguì la seguente frase detta con voce tuonante: “ Fare firmare dai genitori”. Ero spacciato. Attesi la fine delle lezioni domandandomi quale sarebbe stata la mia sorte, di certo mio padre non mi avrebbe concesso il piacere dell’ultima sigaretta, e poi io neppure fumavo. All’uscita della scuola mi incamminai lentamente verso casa , cercando di trovare le parole più adatte per dare spiegazioni sulla vicenda, ma – ahimè - non riuscivo a districare l’ingarbugliata matassa. Giunto a destinazione, venni accolto da mio fratello Ascanio il quale, vedendomi profondamente turbato nel volto e nell’animo, mi chiese che cosa fosse accaduto. 42 Gli spiegai i fatti e gli antefatti e lui, dopo avere ascoltato in religioso silenzio i termini dell’amara vicenda, esclamò: “ Non preoccuparti, firmerò io la nota, so imitare bene la calligrafia del babbo”. E fu così che dopo cena io e mio fratello, senza fiatare, andammo in camera nostra: Ascanio estrasse dal cassetto della scrivania un foglio di carta carbone, lo adagiò sulla pagina del diario sulla quale era stata apposta la nota, la stese ben bene e vi fece combaciare sopra un altro foglio sul quale compariva la firma del papà. Io osservavo l’operazione con stupore…come non averci pensato io personalmente…per quale motivo la mia mente diabolica non aveva pensato a tale espediente ? Guardavo mio fratello con grande fiducia, egli aveva in mano la chiave della soluzione a tutti i miei problemi, ed io già mi preparavo alla commedia che avrei dovuto rappresentare il giorno seguente al cospetto della suora. Ad opera compiuta, Ascanio diede un’ultima guardata di fino al suo capolavoro e mi consigliò vivamente di cancellare quelle piccole sbavature rimaste attorno alla firma “contraffatta” del babbo, evitando di farsi scoprire dall’occhio vigile della maestra. Il giorno seguente di buon’ora mi alzai e, dopo avere fatto un’abbondante colazione, mi apprestai a raggiungere la scuola. 43 La suora mi aspettava con ansia, ed io non vedevo l’ora di raccontarle quanto fosse stato duro il castigo impartitomi da mio padre. Cominciai quindi a narrare tutto con dovizia di particolari…scaturiti dalla mia fervida fantasia. La suora mi osservava con grande attenzione ma, non appena aperto il diario, guardando la firma , in una frazione di secondo scoprì l’arcano e sentendosi nuovamente presa in giro non potè esimersi dal vergare con mano sicura una seconda nota: “ L’ALUNNO ROSSI FABIO HA FALSIFICATO LA FIRMA DEL PADRE QUANTUNQUE VIETATO DAL CODICE PENALE”. e per la seconda volta aggiunse con voce tuonante: “ FARE FIRMARE VERAMENTE DAI GENITORI” Questa volta però non si fermò alle parole, ma fece precedere il mio rientro da una telefonata a casa. Al mio rientro trovai mio padre sull’uscio che mi aspettava con aria minacciosa… 44 LIBERTE’ EGALITE’ FRATERNITE’ O tempora o mores ! La locuzione latina o tempora o mores!, tradotta letteralmente, significa Che tempi...! Che costumi...! (Cicerone, Catilinaria, I) In effetti i tempi sono cambiati, eccome, alcune sere fa ho avuto una breve discussione con mio figlio Filippo, la ragione del contendere stava sulla scelta della programmazione televisiva per la serata. Inutile dire che ho dovuto, mio malgrado, abdicare per evitare di commettere un omicidio. Mi sono quindi rintanato nel mio “studiolo” per dedicarmi ad interessi più costruttivi e gratificanti che non vedere le enormi scempiaggini che spesso ci propinano alla tivù. … 45 Ripensando a tutta la situazione mi venne in mente a quanto l’episodio fosse simile a quello che accadeva con mio padre: stessa modalità, stessi futili motivi. Solo l’epilogo era profondamente diverso e l’esclamazione proferita da mio padre per porre termine alla discussione era uno stentoreo e inappellabile BUONA NOTTE !!! …ed io andavo a letto. PUSCHER IN ERBA In quegli anni andava molto di moda, non so bene per quale ragione ma, mandare i figli in colonia a trascorrere un periodo di vacanza in compagnia dei coetanei pareva essere diventato lo sport nazionale. E fu così che anche a me successe di rientrare nel folto numero dei fortunati prescelti che armi e bagagli in spalla dovettero partire alla volta di una delle Colonie estive gestite dal Comune di Cesano Maderno. La località si chiamava e si chiama tutt’oggi Guello, un ridente paesino nelle vicinanze del Monte S. Primo in provincia di Como. 46 Il viaggio in pullman rappresentò per me un vero e proprio calvario, tra bambini che vomitavano da una parte ed un gran puzzo di sudore dall’altra, ma nonostante tutto volle Iddio che si arrivasse a destinazione. Un grande cancello ed una cinta grigia delimitavano il perimetro del giardino del caseggiato adibito a dormitorio e refettorio: la mia sensazione fu immediatamente quella di essere un deportato condannato ai lavori forzati. Da quel momento in poi devo dire che i ricordi si fanno un po’ confusi (brutto segno) tuttavia un solo episodio mi si è fissato nella mente. In un assolato pomeriggio durante l’ora della merenda me ne stavo seduto in mezzo al prato del giardino scrutando l’orizzonte, continuavo a domandarmi per quale motivo i miei genitori mi avessero spedito in colonia a passare quel periodo di “emme”. Ad un certo punto un altro bambino si sedette vicino a me, io continuai a scrutare l’orizzonte ma non so perché mi sentivo osservato, girando il mio sguardo di scatto incrociai il suo…mi fissava in modo ossessivo…ci fu un lungo periodo di silenzio ma ad un certo punto egli continuando a fissarmi mi disse: “ SCIUSCIA L’ERBA “ “ PRENDI L’ERBA E SCIUSCIALA “ 47 E di nuovo, ma questa volta con insistenza: “ SCIUSCIA L’ERBA “ “ PRENDI L’ERBA E SCIUSCIALA “ Tu ordini a me di sciusciare l’erba? Non so per quale recondito motivo, forse sarà stato il mio stato d’animo in quel momento o forse le circostanze che in quei giorni non giocavano a mio favore, ma sentirmi impartire tale ordine da uno che poi non sapevo neanche chi fosse, innescò in me una reazione per la quale gli saltai addosso riempiendolo di pugni in testa. L’epilogo della vicenda ve lo lascio immaginare, non solo mi fu attribuita la responsabilità dell’evento ma dovetti altresì scontare una punizione esemplare venendo sospeso dalla visione del film serale proiettato all’aperto. 48 FEDE E POLITICA Ma chi l’ha detto, dove sta scritto che un comunista non può credere in Dio o nella Madonna? Beh, che ci crediate o no io ho sperimentato sulla mia pelle la fede religiosa di mio zio Morando. Voi a questo punto vi chiederete: “ E chi cavolo è questo tuo zio Morando?” Bene, cominciamo dall’inizio. L’estate come si sa ed ho già detto è periodo di vacanze ed io, assieme alla mia famiglia, trascorrevamo lunghi soggiorni in Toscana, a Vivo D’Orcia, paese natale di mio padre. Bisogna specificare che il paese allora contava un esiguo numero di anime, circa 1200, delle quali gran parte erano a 49 noi strette da un legame di parentela. Il sindaco del paese era, appunto, lo zio Morando, uomo di provata ed incrollabile fede comunista: i “fatti di Ungheria” non l’avevano minimamente scosso ed altrettanto dicasi per la “primavera di Praga”. Egli imperterrito esercitava il suo mandato nel piccolo paese della provincia senese. Lo zio Morando era il marito di Zia Velia , sorella minore di mio padre; egli per sbarcare il lunario esercitava una serie di attività tra cui: - Una fabbrichetta di scope chiamata Rossiscope, la cui produzione era effettuata nel garage di casa mia, con il solo inconveniente che la lavorazione implicava necessariamente un rumore talmente fastidioso (tum…tum…tum) da impedire persino il sonno mattutino. - Commercio di formaggio pecorino, conservato sempre nel garage di casa mia, con il solo inconveniente di creare una tale puzza che si propagava per tutta l’area compresa quella del vicinato. - Consegna a domicilio del pane prodotto da mia Zia Velia nel suo forno. Ecco è proprio della terza occupazione di mio zio che vorrei parlarvi. 50 Nelle lunghe mattine d’estate, per ingannare il tempo io accompagnavo appunto mio zio a consegnare il pane. Caricavamo le ceste sul suo motofurgone Ape Piaggio e cominciavamo il giro dei clienti. La frase tipica che veniva pronunciata ad ognuno degli acquirenti era la seguente: “Quanto ne voi ? Un panetto, due o mezzo ?” E così via si continuava il giro. Tutto filava liscio fino a quando immancabilmente il furgoncino, sovraccarico di ceste di pane, dovendo percorrere delle strade piuttosto ripide si spegneva. A quel punto lo zio Morando tirando un paio di “porconi” come si addice ad ogni buon toscano, frenava il mezzo in centro alla strada e continuando a bestemmiare tentava di farlo ripartire manovrando quella leva manuale situata a fianco del sedile di guida. Non vi dico il rosario che ero costretto a sentire sino a quando l’Ape non si metteva in moto…un colpo di leva e una bestemmia, un altro colpo di leva e giù un’altra bestemmia,e poi soprattutto bestemmie di qualità una diversa dall’altra in uno sciorinare pieno di fantasia e colore. 51 Finalmente, il velocipede si rimetteva in moto e noi potevamo riprendere il cammino verso nuove esilaranti avventure. Ora viene il bello. Lo zio Morando aveva una caratteristica che era sì quella di essere un bestemmiatore di ottima fattura ma anche quella di avere una certa devozione per la Madonna. Si da il caso che lungo il tragitto noi passassimo davanti ad una cappellina nella quale era appunto custodita un’immagine raffigurante una Madonna con in braccio il Bambino Gesù. Non appena il furgoncino si trovava a transitare davanti a questo piccolo tempietto, lo zio cominciava a farsi segni della croce uno dopo l’altro, togliendo naturalmente le mani dal manubrio del mezzo che privo di controllo cominciava a sbandare a destra e a sinistra. Più volte devo dire che fummo assistiti dalla fortuna, in quanto questo rito si ripeteva quotidianamente. Purtroppo un brutto giorno lo zio, finito di segnarsi la fronte e nell’atto di riprendere il controllo del mezzo, non trovò il manubrio nella posizione sperata e non riuscì quindi a mantenere la traiettoria dovuta: finimmo quindi in un fosso che fiancheggiava la carreggiata della strada. 52 Il biroccio si mise in bilico con una ruota nel fossetto ed una sulla strada , cosicché l’inclinazione a mio sfavore mi fece scivolare lo zio Morando addosso, mentre io venivo schiacciato verso lo sportello. Ci volle la mano di Dio per cavarsi d’impiccio, infatti lo sportello dal quale si doveva uscire era esattamente quello situato dalla parte opposta. L’interpretazione dell’episodio fu istantaneamente fornita dallo zio : dopo un numero imprecisato di blasfeme invocazioni, dichiarò – ed era sincero, lo giuro - che era proprio stata la Madonna a salvarci in quel frangente, in virtù dei suoi devoti segni di croce. 53 ANCHE LA LINGUA NON AMMETTE IGNORANZA Arrivati sin qui, potremmo fare il punto della situazione e renderci conto che la scuola di un tempo avrebbe avuto bisogno certamente di una riforma, operazione a cui si sono dedicati negli ultimi anni diversi ministri… Ma non è questa la sede per affrontare una questione così spinosa. E’ vero, anche noi davamo del filo da torcere ai nostri insegnanti ma, per dirla tutta, i metodi educativi adottati da questi ultimi non erano molto ortodossi. Era proprio in conseguenza a questi metodi eccessivamente coercitivi che probabilmente io vivevo in uno stato di perenne ansia, tanto da essere assalito con estrema frequenza da crisi parossistiche di tics nervosi: ora strizzavo gli occhi, ora tiravo il collo oppure ancora arricciavo il naso. Un bel giorno, in seguito ad uno di questi attacchi, mio padre decise di portarmi dal medico: “Se continui così, il dottor Missaglia sarà costretto a tagliartelo quel naso! - mi disse mio papà con voce stentorea - Comunque andiamo da lui e sentiamo cosa si può fare”. Così dicendo, mi prese 54 per mano e ci incamminammo lentamente verso l’ambulatorio del nostro medico di famiglia. Giungemmo a destinazione dopo una lunga camminata, durante la quale il mio cervello non smetteva di rimuginare le parole di mio padre… “te lo taglierà quel naso” e più pensavo, più la paura mi attanagliava, figurandomi come sarei potuto sopravvivere senza il mio naso, e più aumentava la paura più arricciavo il naso: ero entrato oramai nella spirale del terrore. Seduto nella sala d’aspetto del medico, fissavo ossessivamente la porta chiusa, attendevo con ansia che si aprisse, immaginandomi comparire il Dottore armato di una grossa forbice con la quale avrebbe operato sul mio naso, ponendo fine alle mie sofferenze. La porta finalmente si aprì ed io notai con grande stupore che il dottor Missaglia quel giorno aveva un’aria estremamente bonaria. Possibile, pensai tra me e me, che quell’uomo dall’aria così pacifica potesse utilizzare metodi così trucidi come quelli evocati da mio padre? Il medico ci fece accomodare e, quando fummo entrati nel suo studio privato, richiuse dietro di noi la porta. Si informò quindi della ragione per la quale ci fossimo recati da lui e, dopo avere ascoltato con estrema attenzione le parole di mio padre, si girò di scatto verso di me: i nostri sguardi si incrociarono… il desiderio di 55 arricciare il naso cresceva in me con il passare di un tempo che a me pareva infinito, ma io nonostante tutto resistevo, non volevo dare l’occasione al medico di intervenire sul mio organo olfattivo. Ahimè, troppo a lungo il dottore si soffermò a guardarmi ed io a quel punto fui vinto dal desiderio di dare sfogo all’ansia ed arricciai il naso. Lo arricciai, sì, poi lo arricciai ancora e ancora, in una sequenza di arricciature degne di un tessuto plissé (che in quegli anni era parecchio di moda). Fu allora che l’illustre clinico, ritraendosi di scatto urlò: ”Ti ho visto, hai stortato il naso, ho capito tutto”. Si girò quindi verso mio padre e con voce sommessa emanò il verdetto sulla terapia: “ Vede, signor Rossi, il ragazzo è piccolo… tuttavia un blando SEDATIVO non potrà che giovargli”. A quel punto io che, timoroso di dovere subire un cruento intervento di chirurgia demolitiva sul mio naso, non mi ero voluto lasciare scappare una sola parola sull’esito della visita ed avevo quindi aguzzato le mie orecchie, sentendo la parola “sedativo”, di cui ovviamente ignoravo il significato, non potei far altro che equivocare e, scoppiando in un pianto dirotto, cercai di correre verso la via d’uscita più vicina gridando: 56 “ NO…IL SEGATIVO NO…NON VOGLIO IL SEGATIVO AL NASO” Vano fu ogni tentativo di rassicurazione da parte di mio padre, la frittata era fatta, non rimase altro che salutare frettolosamente il medico, assolutamente sbigottito dagli eventi, e riprendere la via del ritorno. 57 FEDE E’… RELIGIONE ? Quel fatidico giorno la nostra maestra Suor Luigia Carla aveva deciso di affrontare in classe l’annoso tema della religione. Iniziò quindi la sua prolusione partendo dall’Antico Testamento, volteggiò quindi sul Nuovo, fece una rapida cabrata lessicale sugli Atti degli Apostoli passando rapidamente per S. Agostino ed atterrò infine sul problema della fede. “Voi non avete neanche idea di che cosa significhi credere” tuonò la saggia maestra dirigendo lo sguardo fulminante ora a destra ora a sinistra della piccola aula e, facendo sentire ogni alunno un piccolo Giordano Bruno, continuò dicendo: “La nostra è una religione comoda, dove ognuno di noi può fare quello che vuole, tanto poi c’è sempre il sacramento della confessione”. Dopo una sapiente pausa, in cui ciascuno di noi si interrogava silenziosamente sul senso di quelle ispirate parole, riprese: “Quando un musulmano entra nella moschea, si toglie le scarpe e quando esce non gira assolutamente le spalle al suo Dio”. 58 Il sermone continuò per un’altra mezz’ora abbondante, con riflessioni di notevole portata teologica che, pur se comprese solo in parte, non mancarono di suscitare nelle nostre giovani menti interrogativi imponenti, uniti a sensi di colpa profondissimi per la nostra radicata mancanza di fede (sic!). Finalmente, però, la campanella sollevò i nostri animi e ci offrì l’attesa salvezza, segnando l’inizio della pausa ricreazione. Durante il periodo di ricreazione, tra me ed il mio amico del cuore Gianni ci fu una sorta di comune riflessione su quanto avevamo da poco udito in classe, ed essendo noi particolarmente recettivi alle osservazioni che la nostra beneamata maestra usava inculcare nelle nostre menti sia con le buone che con le ... decidemmo seduta stante che, all’uscita della scuola, ci saremmo fermati in chiesa per un sano momento di raccoglimento ad espiazione dei nostri peccati… E così fu che, cartella in spalla e passo marziale, arrivammo davanti al sagrato della chiesa parrocchiale e, dopo esserci per l’ultima volta guardati facendo un cenno di reciproca intesa con la testa, entrammo in chiesa con aria contrita. Nella chiesa non c’era praticamente nessuno, per cui lentamente ci portammo verso l’altare principale, facemmo una composta genuflessione,un segno della 59 croce e poi giù in ginocchio per una serie di Ave Maria e Padre Nostro. Trascorsero all’incirca 15 o 20 minuti, durante i quali pregammo con assiduo fervore, poi Gianni alzandosi diede l’ok sul termine del tempo per le orazioni e cominciammo così ad incamminarci versi l’uscita. E purtroppo qui scattò nuovamente quell’insano meccanismo che fa mettere da parte l’uso del cervello a discapito degli eventi. Di colpo mi vennero in mente le parole della Suora su come alcuni fedeli di altre religioni usino uscire dal tempio del Signore: quindi, detto fatto, girai sui tacchi e mostrando il viso all’altare principale cominciai a camminare come i gamberi, all’indietro, portandomi verso l’uscita principale. Ero fiero di me, Dio avrebbe apprezzato quel profondo atto di deferenza, e continuando imperterrito a camminare all’indietro mi rivolsi con lo sguardo fiero verso Gianni il quale aveva invece cominciato a farmi dei segni strani con le mani, come per dirmi qualche cosa che comunque io non capivo. Il mio amico si sbracciava e si sbatteva come fosse stato improvvisamente posseduto dal demonio nel vano tentativo di fermarmi, ma io purtroppo non riuscivo ad interpretare i suoi gesti e continuavo imperterrito il mio cammino a ritroso. 60 Ad un certo punto, il religioso silenzio che regnava in tutta la chiesa, fu rotto da un terribile fragore: infatti, camminando all’indietro, non mi ero accorto che al centro della corsia era stata lasciata una colonnina di legno alta circa 1 metro nella quale venivano deposte le offerte dei fedeli ed io, non avendola notata prima e non potendola notare in quel frangente, l’avevo urtata facendola cadere pesantemente a terra. Non vi dico quello che in un attimo si rovesciò sul pavimento, centinaia e centinaia di monetine che con il loro rumore avevano richiamato l’attenzione del sacrestano il quale uscendo dalla sagrestia cominciò ad urlare: “Al ladro, al ladro”. Gianni smise a quel punto di sbracciare, per darsela coraggiosamente a gambe, mentre io cercavo con stolida testardaggine di raccogliere quante più monetine potevo, per rimetterle al loro posto. Dovetti però alla fine lasciare la mia opera incompiuta, dato che le urla del sacrestano avevano richiamato l’attenzione di alcuni parrocchiani ai quali sarebbe stato difficile spiegare la ragione dell’accaduto. 61 ..UN PIETOSO VELO Gli anni passarono anche per noi e, nonostante tutto, lasciammo a malincuore la nostra amata scuola elementare per continuare il corso degli studi alle medie. Il nostro gruppo si frantumò, per il fatto che alcuni si iscrissero alle scuole statali, altri ad istituti privati. Io fui iscritto, unitamente ad altri pochi compagni, presso l’Istituto dei Fratelli Maristi di Cesano Maderno. Fu questo per me un periodo talmente ricco di situazioni spiacevoli e drammaticamente incomprensibili, che il raccontarle comprometterebbe il profondo spirito umoristico con il quale intenzionalmente ho iniziato a scrivere il mio libro. Lascerò quindi volutamente una pagina vuota nella quale ognuno di voi potrà leggere ciò che vuole: farò come un pittore che, dopo avere dato una mano di colore uniforme su una tela, lascia all’osservatore il compito di interpretare ciò che avrebbe voluto trasmettere. 62 63 E’ CAMBIATO IL TRENO MA NON IL MACCHINISTA Primo giorno di scuola alle superiori, ci sentivamo grandi, erano passati come un fulmine i mesi e gli anni trascorsi sui banchi delle elementari e delle medie. Il clima che si respirava adesso era diverso, o almeno a noi sembrava così. Appena entrati nella nuova aula, ci eravamo sistemati così, a casaccio, mossi solo da una istintiva quanto epidermica sensazione di simpatia con quello che avrebbe dovuto essere il compagno di viaggio per un intero anno scolastico. Il mio si chiamava Ciullo, Ciullo Nicola, un giovanottello dal viso simpatico ed eternamene sorridente: quell’aria paffuta da bravo ragazzo mi aveva immediatamente fatto sperare in un fedele alleato per quelli che avrebbero dovuto essere “compiti in condominio”. La prima insegnante che si prese la briga di darci il benvenuto fu la professoressa Arisi. Entrata nella classe dove nel frattempo si era fatto un silenzio di tomba, si mise a squadrarci uno per uno, senza 64 dire una sola parola, i secondi che trascorsero furono interminabili, per un attimo ebbi l’impressione di essere catapultato indietro di 5 anni. Il viso della nuova professoressa subiva ai miei occhi una sorta di metamorfosi dove di colpo diventava quello della vecchia insegnante elementare “Suor Luigia Carla”. Ad un certo punto il silenzio fu però rotto dalla voce calda e gentile dell’insegnante che, dopo essersi cortesemente presentata, disse: “ Cari ragazzi, comincia per voi oggi un percorso che dovrà portarvi al conseguimento del diploma, pertanto studiate con profitto quotidianamente”. E continuò: “ Lo studio dovrà essere costante, non ci saranno ragioni valide per le quali io vi trovi impreparati, tuttavia qualora questo succedesse sappiate che io vi giustificherò … solo nel caso in cui voi mi dimostriate di essere morti e resuscitati”. Io e Ciullo ci guardammo in faccia con l’espressione tipica di chi è convinto di essere condannato ai lavori forzati, tuttavia lì eravamo e lì dovevamo stare, pertanto, armati di coraggio, appoggiammo contemporaneamente sul banco il capo in un unico atto di mesta rassegnazione. 65 CHI TROVA UN AMICO… TROVA UN TESORO Il corso di studi delle superiori non fu per me tutto rose e fiori, e così in seconda decisi che sarebbe stato opportuno prendersi una pausa di riflessione ripetendo “volontariamente” l’anno. Cambiarono quindi gli orizzonti e con quelli anche il panorama dei compagni. Conobbi in quel frangente tale Veronesi Claudio, destinato a diventare uno dei miei migliori amici. Per la verità fu lui che decise per primo di diventare mio “migliore amico” e quale mezzo più efficace che non quello di farmi pervenire a casa i compiti quando ero ammalato? Ma chi glieli aveva mai chiesti quei benedetti compiti? Se me lo avesse domandato sarei diventato suo migliore amico anche se non me li avesse recapitati a domicilio. Ma dato che lui aveva deciso così … E fu così che non c’era estate o inverno che tenesse che il temerario compagno Veronesi si presentava a casa mia nelle giornate in cui io ero assente dalle lezioni scolastiche, 66 e mi consegnava prontamente la “nota” con gli esercizi da eseguire . Ricordo che in una giornata in cui la neve avrebbe fermato perfino l’armata rossa, ed io ormai tranquillo che avrei potuto stare neghittoso senza alcuna rottura di scatole, me lo vidi comparire con il volto coperto da un passamontagna blu. Si pulì come al solito gli scarponi, in quel frangente zuppi di neve e di fango, nel prezioso Bukara che mia madre con malcelato comprensibile orgoglio esibiva nell’ingresso. Le prime parole che mi disse senza scoprirsi il capo – non era ancora entrata in vigore la famosa legge antiterrorismo - furono: “Sei stato fortunato, a momenti non sarei potuto venire perché avevo bucato la bicicletta, ma poi mio cugino molto gentilmente mi ha prestato la sua e allora… eccomi qua”. Fu allora che mi venne in mente il famoso proverbio FRATELLI COLTELLI e PARENTI SERPENTI 67 SFOGGIO DI IGNORANZA Nonostante le vicissitudini che quotidianamente mi trovavo ad attraversare, l’umorismo e l’autoironia non mi abbandonavano mai. Fu così che durante l’ora di Inglese, nella fase di traduzione di un testo, dall’Inglese all’italiano, la professoressa Andreina Giussani mi chiese di tradurre il termine archbishop. Cercai e ricercai con sguardo pietoso un benevolo aiuto da parte dei miei compagni, ma niente, nessuno pareva capire il mio stato di difficoltà Ed ecco che come spesso accade, quando l’essere umano messo a dura prova rischia di collassare in una dura e penosa figuraccia, racimola tutte le sue potenzialità e con un guizzo d’ingegno esce dalla situazione di disagio guadagnandosi altresì il plauso degli astanti. La risposta fu una sorta di collage cavato da chissà quale dizionario mentale: ARCH STRA BI DOPPIO SHOP NEGOZIO 68 Quindi: Stradoppionegozio Non so come gli occhi della professoressa Giussani potessero rimanere ancorati nelle orbite, ma dopo una pausa di silenzio, scoppiò in una fragorosa risata risollevando il morale degli astanti che era di colpo, dopo l’ardita risposta, piombato in un perplesso silenzio. Nella stessa giornata di fervida creatività furono inanellate ulteriori perle di saggezza che qui di seguito vado ad elencare: Alla consegna del compito in classe in seguito ad un inaspettato sette, alla domanda rivoltami dai compagni di come avessi potuto meritare tale giudizio risposi repentinamente: “ Sette mi diede e detti questo detto…Non meritato fu ma ben accetto”. E sempre nella stessa ora d’Inglese, tornando al posto, mentre la professoressa Giussani chiamava una allieva col proprio cognome “Contento”, pensando che mi fosse rivolta una domanda specifica sul mio stato d’umore, risposi di getto: “OOh… come una pasqua ! Fortunatamente l’ora d’inglese terminò prima che l’eccessivo stato di allegria potesse portarmi nocumento. 69 A CIASCUNO IL SUO Vi ricordate dei famosi soprannomi che i famigerati gemelli Bartesaghi attribuivano ai vari componenti del nostro gruppo ? Beh, passarono gli anni ma la buona abitudine rimase. A perpetuare la goliardica usanza fu però Franco, il quale enfatizzando sapientemente le caratteristiche fisiche e caratteriali di ciascun soggetto, seppe attribuire il soprannome giusto ad ognuno di noi. Il mio fu “NAKERINO” per il fatto di avere , come già detto in precedenza, un tic nervoso caratterizzato dallo sbattere le dita della mano emettendo il suono tipico delle nacchere spagnole. In seguito fu abbreviato “per comodità” a NAKERO. Mio fratello Ascanio, carattere fortemente vivace, fu soprannominato “ ZCANO il turbolento”. In seguito, solo ZCANO. Gino fu chiamato “NGHINO PEPETE” solo per il fatto di avere una corporatura leggermente più bassa di quella del fratello Franco. Ci fu anche un tentativo di chiamarlo “GNOMIX”, ma Gino fu decisamente contrario, tanto 70 contrario da dovere convincere il fratello Franco con mezzi non del tutto ortodossi. Uno degli amici dei gemelli, tale Angelo Cermenati fu chiamato invece “GIOLENKO” . Giolenko era ed è tuttora un tipo silenzioso, come potrebbe essere un rappresentante del KGB. 71 BACIO FRATERNO “Nonostante tutto” io e Claudio Veronesi continuavamo a vederci anche dopo il consueto orario delle lezioni. Avevamo fatto amicizia con un anziano professore, del quale preferisco omettere il nome per ragioni di rispetto, che spesso ci invitava a casa sua per trascorrere alcune ore di sana conversazione. Per noi ragazzi rappresentava un motivo di orgoglio essere tenuti in cotanta considerazione da un docente del nostro corso di studi, mentre per Lui significava avere un momento di respiro e di sfogo lontano dalle grinfie della moglie. Il Prof. in effetti viveva una situazione di sudditanza nei confronti della coniuge, rifugiandosi per interi pomeriggi nel suo studio appartato, situato nello scantinato della sua bellissima abitazione. Era questo il suo regno, un regno fatto di confusione, di libri accatastati uno sull’altro in una sorta di piramidi vacillanti, di fotografie di persone defunte a lui care, appese all’interno di un armadio come in un perenne altare alla memoria. 72 Di tanto in tanto il nostro professore telefonava a me o a Claudio per invitarci congiuntamente ad una sorta di convivio durante il quale egli si sfogava raccontandoci, probabilmente con molta enfasi, di discussioni intraprese con la moglie sfociate poi in furibonde liti. Io e Claudio ci sentivamo quindi un po’ paladini del povero professore e consideravamo in fondo la nostra un po’ una missione, dare insomma una sorta di aiuto morale a chi naturalmente ci avrebbe anche tenuto in considerazione durante le interrogazioni. Va bene, avete ragione, il nostro era soprattutto un sano opportunismo. Fu così che una sera di primavera inoltrata ricevetti una telefonata da Claudio, che mi riferì di averne a sua volta ricevuta una dal Prof. il quale ci convocava per un caffè ed una chiacchierata in amicizia. Ci recammo quindi all’appuntamento con il nostro interlocutore di fiducia, giungemmo puntuali a destinazione e suonammo il campanello rimanendo in ossequiosa attesa. La casa era completamente buia. Passarono pochi ma interminabili secondi, durante i quali io ed il mio amico ci guardavamo dubbiosi di esserci intesi sul giorno e l’ora dell’incontro, mai poi si udì il rumore dello scatto della serratura del cancelletto d’entrata. 73 Entrammo quindi nel giardino percorrendo il lungo vialetto che conduceva al portoncino d’entrata, lo varcammo e ci trovammo di fronte alla lunga scala che portava al primo piano della lussuosa abitazione. La luce che sino a quel momento era spenta si accese e dalla sommità della scala si vide apparire il nostro professore che ci fece salire ed accomodare in salotto. L’anziana persona ci apparve subito strana, come in uno stato di obnubilamento mentale di chi ha bevuto probabilmente un bicchiere di troppo. Il suo modo di parlare solitamente lento e pacato si era tramutato in una sorta di logorrea nella quale i discorsi e i ricordi si rovesciavano su me e Claudio come secchiate di acqua gelida. Venni a quel punto assalito dalla tremenda sensazione di chi si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Purtroppo il peggio doveva ancora venire. Infatti, i discorsi del nostro interlocutore cominciarono, col passare del tempo , a farsi sempre più sconclusionati e confusi sino a quando alzandosi di scatto e dirigendosi su di me si fece scappare la seguente esclamazione: “Grazie amici cari per essermi vicini in questo momento di solitudine, suggelliamo la nostra amicizia con un bacio alla russa”, e prendendo con forza la mia testa fra le sue mani 74 tentò con mossa fulminea di mettere in pratica la vecchia usanza del bacio a stampo. Probabilmente riuscii ad intepretare con anticipo le intenzioni del vecchio Prof. dribblando per un soffio le sue labbra . Non mi rimase altro che alzarmi di scatto per guadagnare rapidamente l’uscita assecondato dal fido Veronesi, con cui imbastimmo lì per lì non so quale scusa per potere schivare l’imbarazzo in cui ci sentivamo immersi fino al collo. Ci furono naturalmente altri incontri , altre serate in cui si parlava del più e del meno, ma nessuno di noi cercò mai di dare o di trovare una spiegazione a quanto “era o non era” accaduto in quella famosa sera: l’evento sembrava caduto in prescrizione. Di questo fatto non si parlò più per gli anni a seguire, finché la notizia della morte improvvisa del Professore colse Claudio e me impreparati. Con dolore misto a nostalgia rievocammo i bei momenti trascorsi insieme, e riaffiorò alla memoria anche quell’episodio rimasto per anni nell’oblio: capimmo finalmente, nonostante il nostro imbarazzo di allora, quanta solitudine abitasse nel cuore del caro amico scomparso. 75 L’ALTRUI STIMA I Grilli, paragonati alle Formiche chi dubita che non sieno Giganti? Chi misura quello che sa, ancorché pochissimo, con quello che sa chi non sa nulla, si crederà d’essere assolutamente ciò che non è senon a paragone dottissimo. Daniello Bartoli (Ferrara, 12 febbraio 1608 – Roma, 13 gennaio 1685) è stato un gesuita, storico e scrittore italiano. Insegnante di Retorica. Il caro amico Paolo Bartesaghi è venuto in data odierna a farci visita nella nostra umile dimora. E’ egli persona di spiccato spirito umoristico soprattutto quando si tratta di giudicare atteggiamenti o fatti riguardanti altre persone. Rimane tuttavia un amico e agli amici si sa si perdona tutto. Venuto egli a conoscenza del fatto che mi fossi messo a “produrre qualche pagina scritta” non ha perso l’occasione per lanciare una piccola frecciata: “ Si dice che ciò che scrivi non sia tutta farina del tuo sacco” “Fortunato te che hai una moglie dotta, in grado di correggere ogni tuo strafalcione” 76 Ad ogni buon conto io mi sono sentito in obbligo di puntualizzare che il mio Zibaldone altro non é che un modesto esperimento finalizzato, nella migliore delle ipotesi, a suscitare divertimento. La lapidaria risposta del buontempone fu la seguente: “ Beh, se cerchi di fare ridere allora esonera tua moglie dall’ingrato compito di correggerti la bozza, così raggiungerai senza dubbio lo scopo che ti sei prefissato”. E’ un vero conforto sapere che c’é qualcuno che mi stima in modo incondizionato. 77 CONSEGNE A DOMCILIO Il periodo universitario rappresentava per ognuno di noi una svolta esistenziale, eravamo oramai con il corpo e con la mente proiettati verso il dorato mondo degli intellettuali. Confrontandoci con i nostri coetanei che non avevano, per vari motivi, continuato il corso di studi, ci sentivamo un po’ come dei cavalli di razza obbligati a convivere con dei ronzini. Ammettiamolo, eravamo dei GRANDI PRESUNTUOSI. La nostra grandezza finiva comunque nel momento in cui, frugandoci in tasca, trovavamo solamente in quella destra il fazzoletto e in quella sinistra un buco dal quale, comunque, non potevamo perdere altro che qualche spicciolo, raggranellato qua e là o generosamente regalato dai genitori. Durante la frequenza ai corsi universitari di Medicina presso l’Ateneo di Milano, ebbi modo di conoscere un amico compaesano di nome Alberto, Alberto Dal Cero. Con lui intrecciammo una solida amicizia fatta di partite a tennis, visioni televisive notturne del Roland Garros, spaghettate a mezza notte e via dicendo, tutte attività ludiche che ci permisero di laurearci in un tempo record di circa 10 anni . 78 Fu tuttavia un periodo da non dimenticare, a parte le sessioni d’esame vissute in stato di profonda ansia, fedele compagna di notti insonni e giorni febbrili. Eravamo entrambi appassionati di tennis, ci distinguevamo solo dal fatto che lui giocava da dio mentre io ero, mi si passi il termine, una vera “sega”. Fu proprio questa comune passione che ci introdusse nel magico mondo degli affari. Un pomeriggio d’autunno, mentre eravamo alle prese io con Fisiologia, esame dato per ben otto volte, e lui con Patologia Medica, Alberto si rivolse a me dicendomi: “Oh… ho scoperto che a Caltignaga in provincia di Novara c’e’ lo spaccio della Tacchini”. Io, che in quel momento ero alle prese con il grafico sulla pressione e volume nell’alveolo polmonare, gli risposi in modo secco: “Alberto…mi dici che cazzo c’entra questo con la legge di Laplace ?” Il “compagno di giochi” continuò: “No…pensavo… ma se noi raduniamo un po’…diciamo di ordini, nel senso che… se noi diciamo ai nostri amici….” Come al solito Alberto aveva poche idee in testa e ben confuse. 79 Meno male che io riuscivo sempre ad “interpretare” quello che voleva dire, e quella volta mi sembrò proprio che l’amico avesse avuto una buona idea. In poche parole, il concentratissimo studioso, aveva avuto una folgorante illuminazione: se avessimo radunato un cospicuo numero di ordini per l’acquisto di magliette o tute Tacchini, avremmo potuto ricavare anche qualche soldarello . Pecunia non olet (Vespasiano) Bisognava battere il ferro finchè era caldo e quindi, seduta stante, decidemmo di comune accordo e senza eccessiva sofferenza, la sospensione dei lavori intellettuali per dedicarci “anema e core” a quelli con sfondo volgarmente economico. Presi carta e penna e cominciai a stilare una lista dei possibili acquirenti: “ Paolo Cocco, Barzaghi Angelo, Franco Villa……. “ A lavoro finito, ci accorgemmo di avere ottenuto una discreta lista di clienti che avrebbero potuto lanciarci nel mondo del commercio. L’organizzazione Dal Cero/Rossi si sarebbe preoccupata di acquistare la merce controllandola, pagandola anticipatamente e consegnandola a domicilio all’acquirente riscuotendo il ben meritato compenso. 80 Postal Market al nostro confronto era roba da dilettanti. Il primo di una lunga serie di pellegrinaggi in quel di Caltignaga ebbe luogo in una gelida mattina autunnale con partenza alle ore 5 e 30 precise. Alberto si presentò davanti casa mia alla guida della sua automobile. Lo rivedo ancora… allora il giovane aspirante chirurgo possedeva una volkswagen maggiolino, di colore ormai indefinibile, sepolto com’era da una crosta di ruggine che sovrastava l’intera carrozzeria. Il motore, un quattro cilindri di fabbricazione tedesca, un piccolo gioiello di meccanica, si dimenticava a tratti la propria genia e cominciava a scoppiettare ed andare a 3 cilindri, ma il peggio del peggio lo si trovava all’interno dell’abitacolo…un freddo, ma un freddo che mancavano solo i lupi siberiani a fargli compagnia. Riuscii solo ad intravedere la sagoma del conducente attraverso un vetro che sembrava zuccherato da quanto era ghiacciato, ma quando, aprendo la portiera lo vidi intabarrato da un plaid scozzese che lo copriva sino al capo, venni praticamente colto dallo sconforto. “ Sali, prendi la coperta che c’è sul sedile di dietro e avvolgiti, il riscaldamento non funziona” . 81 Queste furono le prime parole che Alberto mi rivolse facendomi salire sulla sua vettura e credo che non ne sentii altre per tutto il viaggio, non era possibile parlare, dal freddo le parole si gelavano nella bocca prima ancora di uscirne, anzi , prima ancora delle parole si gelavano i pensieri. Non ricordo quanto durò il viaggio,so solo che a me sembrò interminabile. All’arrivo ci fiondammo in un bar per concederci il piacere di un cappuccino caldo e potere riacquistare le umane sembianze , il rigor mortis ci aveva letteralmente trasfigurati ed a fatica riuscivamo ad emettere solo pochi languidi vocalizzi. Il barista ci osservava con una strana aria a metà strada tra la compassione e la commiserazione, mentre noi sorseggiavamo la bevanda calda rimanendo attaccati ad un termosifone che seppur quasi freddo a noi sembrava bollente. Il viaggio a “Mosca” si concluse con l’acquisto della merce ed il rientro a casa, il tiepido sole di Novembre riuscì seppure poco a riscaldare l’abitacolo della macchina permettendoci di viaggiare in un clima un po’ più umano. Con i proventi della vendita coprimmo le spese riuscendo a pagare anche qualche capo d’abbigliamento a nostro uso e consumo. 82 Per i successivi pellegrinaggi decidemmo di attendere il periodo estivo.. 83 AI VECCHI TEMPI… Alberto si laureò alcuni anni prima di me. Ricordo che venne a trovarmi il pomeriggio stesso nel quale aveva discusso la tesi. Si sedette sul divano in sala vicino a me e a mia madre, aveva un’aria distesa ma nel contempo il suo aspetto era quello di sempre, intronato, confuso nella parola e nel pensiero. Dopo avermi fatto un breve riassunto su come si erano svolti i fatti durante la sessione di tesi, mi propose un invito a pranzo che io non mi lasciai certamente sfuggire. Ci accordammo quindi per il giorno dopo alle ore 12, località Milano, ristorante “Cino e Franco”. Scelsi per l’occasione un abbigliamento elegante, giacca blu, camicia bianca e cravatta regimental, pantalone grigio ferro. Alberto si presentò vestito nello stesso modo, manco ci fossimo messi d’accordo. Sembravamo due Martinitt usciti dal collegio per il pomeriggio di festa. Nota esplicativa: Quella dei Martinitt è una storia antica, che da quasi cinquecento anni procede di pari passo con quella della città che li ospita, Milano. Martinitt è il nome di un ente di assistenza 84 milanese la cui istituzione risale al XVI secolo. Martinitt è il plurale di Martinin. Ci recammo quindi con passo affrettato presso il ristorante prescelto. Varcammo la porta venendo accolti da un cameriere alquanto cerimonioso il quale ci fece accomodare in un tavolo precedentemente prenotato dal Neo MedicoChirurgo. Ci sedemmo quindi uno di fronte all’altro, e dopo avere controllato che la nostra postura fosse consona all’ambiente decisamente raffinato, prendemmo in mano la carta delle ordinazioni stando bene attenti al prezzo delle relative pietanze, onde evitare spiacevoli sorprese nel momento di pagare il conto. Cominciammo con l’antipasto: il cameriere ci fece scivolare sul tavolo due grandi piatti nei quali erano malinconicamente adagiate solo due fettine di prosciutto crudo accompagnate da una foglia di insalata dal colore sbiadito. Notai con terrore l’espressione dell’amico che nel giro di pochi minuti aveva subito una evoluzione tendente al peggioramento. Alberto era uno sportivo, un fisico dall’appetito robusto, era abituato per così dire a porzioni da carrettiere e quelle non lo erano di certo: stava infatti prendendo piede a Milano in quegli anni la moda della nouvelle cuisine, e 85 probabilmente lo chef del ristorante, a modo suo, cercava di adeguarsi alle nuove tendenze. Tant’è che anche il primo piatto, rappresentato da tortellini alla panna serviti in numero esiguo, non smentì le scelte culinarie del ristoratore: a questo punto Il morale dei commensali ed in particolare quello di Alberto ebbe un brusco tracollo. Con un gesto imperioso misto a stizza a stento trattenuta, il giovane medico chiamò al tavolo il cameriere apostrofandolo con una frase rimasta negli annali: “Scusi, ma per caso vi trovate in ristrettezze oppure state conservando il cibo per il prossimo cenone di capodanno?” Il cameriere comprendendo in un baleno la situazione cercò di placare le ire del cliente assicurandogli maggiore attenzione e porzoni più abbondanti nei piatti a seguire. Per il secondo mi premurai di consigliare ad Alberto il mio amatissimo filetto al pepe verde (che da qualche mese mamma Mariuccia, assidua lettrice della famosa rivista “Cucina Italiana” mi preparava con grande frequenza): il piatto in questione risultava peraltro sconosciuto al mio caro amico, che comunque si fidò del mio consiglio. Non appena il piatto contenente la carne fu deposto sul tavolo ed Alberto mise in bocca una generosa forchettata di pepe che gli scricchiolò sotto i denti, partirono all’istante da quella bocca improperi ed insulti che fecero accorrere il povero cameriere al nostro tavolo. 86 Io ero sull’orlo di una crisi di nervi non comprendendo ancora cosa potesse essere accaduto, ma la frase di Alberto risolse immediatamente il mio dubbio: “Cameriere, perdio, potevate cuocere meglio questi pisellini, non riesco a masticarli”. Oramai eravamo veramente avviati verso il baratro. Ma il top dei top lo si raggiunse quando vennero serviti i formaggi. Devo premettere, e non sarà difficile al cortese lettore crederlo, che la mia vena umoristica ed un pochino bastarda non si fece attendere a lungo dopo gli episodi sopra citati. Alberto era solito chiamare telefonicamente la fidanzata Lidia che lo teneva sotto serrato controllo durante le ore della giornata; e fu così che quel giorno, come ogni giorno, il giovane medico rampante si assentò alcuni minuti per conferire telefonicamente con l’altra metà della mela. N.B. Allora non esistevano ancora i telefoni cellulari. Proprio in quel frangente il cameriere servì al tavolo il piatto con i formaggi che, stranamente, erano stati deposti sul piatto in grande quantità. Ma come lasciarsi scappare una simile occasione, come non sfruttare il magico momento per mettere legna al fuoco e gustarsi un teatrino delizioso a coronamento della magica giornata? 87 Approfittai quindi del momento di solitudine e, dopo essermi assicurato che nessuno, dico proprio nessuno, potesse vedermi, sottrassi dal piatto di Alberto una buona parte dei formaggi lasciando solamente al centro una fettina esile esile di pecorino toscano. Fatto questo mi misi in trepidante attesa… Alberto non si fece attendere a lungo e, dopo essersi nuovamente seduto ed avere spiegato con eleganza il tovagliolo sulle ginocchia si mise ad osservare il suo piatto con aria di disappunto. Uno schiocco di dita fece accorrere nuovamente il solerte cameriere che, come vuole la tradizione alberghiera, senza fiatare od opporre resistenza dovette subirsi la fila di insulti che il belligerante medico gli vomitò addosso in men che non si dica. L’epilogo ve lo lascio immaginare. … Il dolce fu gentilmente offerto dalla casa. 88 “LITTERAE NON DANT PANEM”, POVERI SCRITTORI ! Qui vuol mie sorte c'anzi tempo i' dorma (Michelangelo-Rime) … L’ora s’è fatta tarda ed io devo partire, quasi a parafrasare un detto del cugino Sergio di Roma il quale, infilandosi un maglione e montando in macchina per raggiungere alcuni amici al mare disse con tipica cadenza romanesca: “ Quando èlllòra èlllòra “. Ebbene, anch’io penso sia venuta l’ora di chiudere questa mia simil-fatica letteraria magari raccontando l’ultimo atto del mio corso di studi, ovvero la fatidica giornata in cui discussi la tanto sospirata tesi. E sì, perché gli anni passarono e finalmente anche io raggiunsi l’ambito traguardo con buona pace dei miei genitori che tirarono un sospiro di sollievo. Ma come potevo congedarmi dalle scene senza lasciare un ennesimo segno del mio passaggio in esse ? Come già vi ho raccontato in altra storia, il mio carattere particolarmente emotivo ebbe modo di darmi in più eventi qualche problema nel campo delle relazioni sociali. Nel caso specifico, avvenne che dovendo io discutere la tesi – come ogni laureando che si rispetti - di fronte ad un cospicuo numero di Docenti, e soffrendo di una fastidiosa 89 quanto inopportuna forma scialorroica causata verosimilmente da uno stato di profonda inadeguatezza nei confronti di persone che io giudico superiori, dovetti affrontare il problema facendo ricorso a rimedi farmacologici non privi di effetti collaterali. (Scialorrea deriva dal greco sialon, saliva e rhoia, scorrere.) In parole povere succede che, ogni qual volta io mi appresto a parlare in pubblico, sono colto da una fastidiosa ipersalivazione con relativo aumento del fenomeno di deglutizione che innescano un ciclo vizioso per il quale io non riesco più a parlare. Non solo, ma qualora io tenti di sforzarmi per emettere una sola parola, il risultato è che la voce esce distorta al punto tale da non sembrare neanche la mia. (vedi esorcista) Non vi dico l’imbarazzo… Inoltre essendo questo un fenomeno fisiologico innescato da uno stato di forte ansia e stress, viene a crearsi un circolo vizioso attraverso il quale l’ansia produce la scialorrea, la scialorrea mi mette in imbarazzo e quindi aumenta lo stato di ansia la quale stimola il sistema parasimpatico vagale innescando un ulteriore aumento della salivazione con relativa deglutizione forzata. Il rimedio a ciò è quindi quello di assumere un farmaco in grado di inibire il sistema parasimpatico creando una vasocostrizione a livello delle ghiandole salivari. 90 L’atropina fu quindi la giusta, più o meno, soluzione al mio problema. Peccato che assieme a tutti i benefici effetti non considerai, da laureando, gli altri effetti chiamati collaterali. Ma diamo tempo al tempo. E venne allora il fatidico 12 Ottobre 1987, giorno della proclamazione del sottoscritto a Dottore in Medicina e Chirurgia. Mi alzai di buon mattino, anche perché non avevo dormito tutta la notte, decidendo di fare una bella passeggiata distensiva attraverso i boschi del Parco Groane. La sensazione che provavo era quella di essere il nuovo Amatore Sciesa condotto alla forca. Lo stato di ansia cresceva di ora in ora provocando in me quel fastidioso sintomo di cui vi ho già parlato, per cui decisi di affrontare il problema prematuramente ingurgitando la prima compressa di atropina. Il rientro dalla salutare passeggiata fu seguito da un ulteriore rito preparatorio, il famoso bagno benefico a base di alghe et erbe eccellentissime. A quel punto, il calore dell’acqua ebbe un effetto antagonizzante al farmaco appena assunto, per cui lo stato di vasodilatazione dovuta appunto alla caloria dell’acqua ebbe un effetto sinergico sullo sgradevole disturbo di ipersalivazione rendendo necessaria una ulteriore assunzione del magnifico farmaco. 91 Una nuova compressa venne quindi da me ingurgitata. Col passare delle ore lo stato di grande eccitazione tendeva a vincere sul mio autocontrollo, stava oramai per scattare l’ora x e a tal proposito ritenni necessario un rinforzino alla terapia che mi ero prescritto, fu il momento quindi della terza somministrazione di atropina. Alle ore 15.00 io ed il corteo dei familiari e parenti gentilmente invitati ad assistere alla cerimonia partimmo alla volta di Milano. Giungemmo con discreto anticipo presso la sede universitaria, un anticipo appena appena necessario ad innescare ulteriore stato di agitazione che venne combattuto con l’ultima compressa di atropina. Quando giunse il momento di entrare in aula in seguito alla chiamata ufficiale per la discussione della tesi, reduce da ben quattro somministrazioni consecutive di atropina, mi accorsi che la mia bocca era praticamente in preda ad uno stato di siccità peggiore di quella che colpì l’africa subsahariana compresa la fascia del Sahel tra gli anni 70 e 90. Non riuscivo a spiccicare una parola, sembravo in preda ad uno stato di patologia neurologica per cui la parola tende per così dire a rotolare, come accade anche quando parla un ubriaco. I cattedratici seduti in fila al di là della cattedra mi osservavano e si osservavano a loro volta quasi per domandarsi quale forma di parossistica sindrome mi avesse 92 colto in quell’istante lasciandomi comunque continuare la quanto mai sofferta discussione della tesi. Devo precisare una cosa: nella fase di stesura della tesi, il candidato col relativo relatore si accordano su un progetto fatto di domande e risposte, che verrà attuato in aula durante l’esposizione della tesi stessa. In questo modo, il gioco di reciproche domande/risposte fa sì che il tema in discussione possa essere approfondito il più possibile e nello stesso tempo reso più comprensibile ad ogni ascoltatore. Bè, vi basti questo… il mio stato di confusione mentale era tale che, una volta partito per la tangente nella discussione del mio lavoro, cominciai a farmi le domande in modo autonomo e, altrettanto autonomamente, mi davo le risposte spiazzando in modo catastrofico l’intera commissione. Il mio relatore, guardandomi con aria di profonda commiserazione e posizionando la mano destra a mo’ di pistola, mi fece intuire chiaramente quello che avrebbe voluto farmi in quel momento; si girò quindi verso gli esimi colleghi, formulando la seguente domanda: “ Qualcuno ha qualche cosa da chiedere al candidato ? “ A tale domanda rispose laconicamente il presidente di commissione: “ Niente…Professore, il candidato ha già detto tutto, possiamo congedarlo “. 93 Mi alzai dalla sedia lasciando su di essa la mia sindone e, rivolgendomi al nutrito gruppo di fans che evidentemente si aspettava da me un epilogo significativo, feci un cenno di cortese e ossequioso saluto, uscendo dalla scena come si conviene ad ogni buono e bravo attore. Nessuno, forse, si era accorto di nulla. 94