i proMEssi sposi - Raffaele Pisani
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i proMEssi sposi - Raffaele Pisani
raffaElE pisani i proMEssi sposi in poEsia napolEtana prefazione di Maria Zaniboni terza edizione riveduta, ampliata e corretta C.U.E.C.M. raffaElE pisani i proMEssi sposi in poEsia napolEtana prefazione di Maria Zaniboni terza edizione riveduta, ampliata e corretta C.U.E.C.M. raffaele pisani [email protected] www.raffaelepisani.it proprietà letteraria riservata © Catania 2013 Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di Magistero Via sisto 17 - 95129 Catania www.cuecm.it - E-mail: [email protected] tel. e fax 095 316737 - C.c.p. 10181956 isBn 978-88-66000-87-7 tutti i diritti di riproduzione sono riservati. sono pertanto vietate la conservazione in sistemi reperimento dati e la riproduzione o la trasmissione, anche parziali, in qualsiasi forma e mezzo (elettronico, meccanico, incluse fotocopie e registrazioni) senza il previo consenso scritto dell’editore. stampato nella tipografia a.&G., tel. 095 7315352 - Catania 2013 prEfaZionE* B istrattati e contestati, criticati o faziosamente ignorati, ritenuti negli anni caldi della contestazione, sorpassati, paternalisti, grondandi puzzo d’incenso e stucchevolmente moralisti, questi benedetti «promessi sposi» devono tuttavia avere in sé qualche cosa di particolare, un fascino o un sortilegio a cui non ci si può sottrarre se poeti, scrittori, pittori, musicisti, commediografi, giornalisti e cinematografari continuano da un secolo e mezzo a trovarvi sempre nuove ragioni di interesse. E tutto questo, s’intende, senza tener conto dell’enorme mole di lavoro degli studiosi e dei critici, un campo che esula da queste brevi note. Cinematografo e televisione, libretti d’opera con relativa musica, tragedie e commedie, dischi e complessi canori, collezioni di figurine, cartoline illustrate, disegni, stampe (ma soprattutto oleografie), album di fumetti e perfino una pubblicazione intitolata «sfinge Manzoniana», con rebus, sciarade, indovinelli tutti derivati da personaggi o episodi del romanzo: non esiste mass-media (tanto per usare un termine del linguaggio corrente) che non sia stato usato per portare il capolavoro manzoniano a conoscenza di centinaia di migliaia di persone. E pensare che nella sua ( falsa) modestia, il nostro don Lisander prevedeva per il suo romanzo poco più di due dozzine di lettori! In tutta la gamma delle rielaborazioni della nostra «love story» nazionale, è ovvio che la parte del leone sia toccata alla poesia e alla prosa attraverso le quali la vicenda ci è stata riproposta ora in tono * prefazione alla ii edizione, napoli 1980. 5 drammatico ed ora moralistico, ora in terza rima e ora in ottave, ora in stile canzonatorio e ora aulico, ora in lingua e ora in dialetto, a cominciare dall’avvocato Francesco del Nobolo che nel 1838 riduceva il romanzo in dodici canti in terza rima per l’Editore fiorentino Ciardetti, seguito poi via via dalla dissacrante riduzione «Gli sposi non promessi» (1863) di Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti); dalla poetessa decenne Myriam Weber (in «Fanfulla della Domenica», 27 febbraio 1910); da Giuseppe Paolini che parafrasava la vicenda in ottantacinque sonetti in dialetto pratese (Bacci, Firenze, 1923); dalle trasposizioni in dialetto milanese tanto del Casartelli quanto di Auro Nighi (i duu moròs); da Guido da Verona con la sua dissacrante parodia; da «i promessi sposi in Usa» di Domenico Campana. Il tutto senza ricordare, per ovvie ragioni di spazio, né i libretti d’opera, né i drammi, né le commedie. In tutta questa giostra di riduzioni, di rielaborazioni e di rifacimenti del romanzo ne mancava tuttavia una: quella in dialetto napoletano, «lingua» non meno illustre del toscano o del milanese, lacuna a colmare la quale ha provveduto Raffaele Pisani il quale evidentemente un bel giorno si è posto l’interrogativo: «Se i panni del Manzoni sono stati risciacquati sia in Arno e sia nel Naviglio perché non proviamo a risciacquarli anche nelle acque di Mergellina?». Ed ecco nascere così «i promessi sposi» in poesia napoletana, oggi alla seconda edizione. «na sera ’autunno (tiempo n’è passato), / se ne turnava a’ casa, cuoncio cuoncio, / nu certo don abbondio, era ’o curato / … ». Sono questi, i primi versi del libro, con cui Raffaele Pisani ci trasporta subito «in medias res» ossia a quell’incontro tra don Abbondio e i bravi di don Rodrigo che apre la strada alle complesse vicende dei due fidanzati costretti a «tirare il collo» attraverso ben quarantasette capitoli filati prima di inginocchiarsi ai piedi dell’altare. Intercalato da riassunti essenziali quanto funzionali, il romanzo va avanti sul filo di una arguzia costante, di una disarmante e ingenua vivacità, di un «divertissement» al quale il disimpegno nulla toglie di serietà 6 e aderenza all’originale, fino alla conclusione quando Lucia «soavemente arrossendo» rassicura Fra’ Cristoforo, che, malgrado il voto, il suo amore per Renzo non è affatto cambiato anzi «Cchiù ’e primma ’e renzo songo annammurata…». Ma, attenzione agli equivoci. Se il lavoro di Raffaele Pisani apparentemente sembra disimpegnato, senza dubbio portarlo a termine è stato tutt’altro che semplice e se il risultato finale è stato felice lo si deve a quell’amore umile e insieme appassionato con cui il Pisani s’accosta sempre alla poesia e che fa la sua voce una delle più valide tra quelle dei giovani poeti dialettali d’oggi. Poeta nato, disponibile e attento non solo ai moti gioiosi del cuore, ma anche alle ansie e ai problemi che da sempre attanagliano l’umanità («l’urdema lettera ’e nu giovene drogato» è la prova che la sua Musa non poteva restare insensibile davanti a uno dei più angosciosi drammi del nostro tempo), i suoi versi altalenano tra sofferenza e trasfigurazione magica, tra delusioni e speranze, tra inclinazione al sogno e bisogno di chiarezza, tra il tendere a un mondo felice e l’imperativo di un’analisi onesta di se stessi. Non crediamo quindi di sbagliare dicendo che, pur senza togliere merito ai «trasformisti» che lo hanno preceduto, mentre per la maggior parte di questi a mettere in moto la macchina della fantasia sono state senza dubbio la parte più romantica e romanzesca della vicenda (riducibile senza troppa difficoltà a un fumettone strappacore) e l’antitesi caratteriale buono-cattivo (LuciaGeltrude, Renzo-Don Rodrigo, Innominato-Cardinale Borromeo, Agnese-donna Prassede) uno degli ingredienti di più sicura presa su lettori e spettatori, ben altro ha spinto Raffaele Pisani ad accostarsi al capolavoro manzoniano al quale come giustamente ha detto Sebastiano di Massa nella prefazione alla prima edizione del volume «non è bastata l’ammirazione profonda per il grande romanzo e per l’arte del suo autore, ma qualcosa di più intimo deve avere spinto e guidato il giovane poeta a cimentarsi nell’ardua prova». C’è stata senza dubbio tra Pisani e le pagine di Manzoni una rispondenza interiore, un’aderenza all’esaltazione dei valori eterni dello spirito 7 umano, alla fede nella giustezza dei disegni divini che deve sorreggere l’uomo anche nei momenti più oscuri, alla sicurezza che – come dice Manzoni a chiusura del famoso ottavo capitolo e, perché no?, a conclusione di tutta la vicenda – «iddio non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande». Conclusione, occorre riconoscerlo, non di rado difficile da accettare e ancor più difficile da capire quando, come avviene nelle nostre scuole il capolavoro manzoniano, che come pochi altri libri ha una doppia chiave di lettura, una apparente e una essenziale, viene «inflitto» alle scolaresche in un’età ancora tanto lontana dal momento di fare il bilancio di un’intera esistenza. Forse se un professore intelligente facesse precedere la lettura ufficiale del romanzo manzoniano, almeno per quanto riguarda l’area napoletana, dal libro di Raffaele Pisani, siamo sicuri che gli scolari, al momento opportuno, sarebbero preparati ad accogliere il Manzoni come un amico, per giunta divertente così come siamo sicuri che anche Don Lisander, malgrado la sua proverbiale austerità, se potesse avere tra le mani la sua storia risciacquata a Mergellina, ne sorriderebbe con compiaciuta bonomia. Maria Zaniboni 8 i proMEssi sposi in poEsia napolEtana 9 … Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio… 11 Capitolo i na sera ’autunno (tiempo n’è passato), se ne turnava a’ casa, cuoncio cuoncio, nu certo don abbondio, era ’o curato ’e nu paisiello aggrazzïato e accuoncio. nun era n’ommo ’e chille traseticce, nun era onesto e manco disonesto, vuleva sta’ cuJ̈eto, senza mpicce: e s’era fatto prevete pe’ chesto. pe’ don abbondio ogni ghiurnata eguale: ’a messa, ’e ffunzïone, ’e sacramente. ’a stessa vita, sempe tale e quale: poca fatica senza accucchià niente. Ma pe’ sfurtuna, propio chella sera, ’a sciorta, tanta nfama e tanta ngrata, le cumbinaie na carugnata nera ch’ ’ammappuciaie peggio ’e na paliata, ve dico a vvuie overo ’o distruggette… turnava, don abbondio, doce doce, liggenno ogni sei passe doie strufette dint’a nu libbro ’e chiesa, sottavoce. liggeva… ma ’o penziero suio vulava dint’ ’a cucina… ’o vino perlibato… ’a pizza doce… ’e cìcule… truvava già tutto pronto, bello e apparicchiato 12 d’ ’a cammarera, anziana ma zetella – perpetua – na cuoca assaie capace, e ’o viecchio già gustava ’a frittatella… ’a fella ’e carne arrusto ncopp’ ’a brace… ma comme ll’uocchie aizaie da ’o libbro santo duie malandrine se truvaie ’e faccia: ’o spànteco d’ ’o prevete fuie tanto ch’addeventaie cchiù brutto ’e na petaccia. Vuleva turnà arreto, e nun puteva. ’o sango dint’ ’e vvene se gelava. s’era nchiummato! nu sudore ’e freva pe’ cuollo le scenneva comm’ ’a lava. Uno ’e sti malandrine, ’o cchiù tiranno, puntanno a don abbondio cu nu dito dicette: – «Proprio a vuie stevo aspettanno pe’ farve na mmasciata!» – ammutulito, credenno ’e fa’ na morte malamente, ’o prèvete arrunzaie doie tre preghiere, se dette l’uoglio santo, ’e sacramente, e se facette ’a croce int’ ’e penziere. – «Veniame a noi – dicette ’o carugnone – vi parlo chiaro e zenza una pelea, e stateme a ssentì cu attenzïone ca don Rodrigo, ’o conte, nun pazzea! Ve manna a ddi’ l’illustra signoria ch’avita rinunzià a chella pruposta d’ ’o spusarizio ’e Renzo cu Lucia, si ce tenite a ’sta pellaccia vosta. 13 Lucia se vo’ spusà nu scialacquone, e a don Rodrigo chesto le dispiace. V’avverto, nun facite ’o fanfarrone si ce tenite a sta’ cuïeto e ’n pace. E ’e ’sta mmasciata – chesto è pe’ cunziglio – nun ne parlate a chisesia perzona, ca si me cumbinate nu scunciglio v’ ’a taglio chesta lengua chiacchiarona!» – ’o povero ’on abbondio – e che paura! – turnaie a’ casa friddo cchiù d’ ’o ghiaccio. nzerraie ’a porta cu na mascatura, tre pale ’e fierro e cchiù ’e nu catenaccio, po’ se stennette muorto ncopp’ ’o lietto tremmanno ancora pe’ l’avviso avuto. E ssubbeto perpetua: – «Oh! Benedetto, ma ch’è ssuccieso, neh!, che v’è accaduto? » – ’o prèvete ogni cosa le cuntaie facennela giurà cu ’e mmane stese ncopp’ ’o Vangelo – e chella ce ’o giuraie – ’e nun cuntà a nisciuno d’ ’o paese ’a storia ’e don rodrigo… – «Neh, a nnisciuno! Si no chille m’accideno ’e mazzate. P’ ’ammore ’e Dio, Perpè, si quaccheduno v’avess’addimannà: zitta! negate! » – 14 … Quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppure mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercare con lui qualche mezzo… Dio liberi! «Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm!» aveva detto un di que’ bravi; e, a sentirsi rimbombar quello ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dello aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto… 15 Capitolo ii Mo vuie v’ ’a mmagginate che nuttata passaie ’o parrucchiano? – «Ccà ce vonno doie tazze ’e cammumilla rinfurzata pe’ me calmà nu poco e piglià suonno.» – E s’addurmette. Ma… quant’ata guaie… pecché tant’era stata ’a mpressïone, ca ’n zuonno n’ata vota se sunnaie ’e se ncuntrà cu chillu lazzarone ca overo ’a lengua ’a canna le tagliava… ’o prèvete fuieva p’ ’a campagna? E don rodrigo appriesso le sparava cu nu ribbotto, ’a copp’a na muntagna. stu suonno ’o turmentaie pe’ tutta ’a notte e nun truvava n’attemo ’e ricietto, smaniava, se senteva ll’ossa rotte e nun puteva scennere da ’o lietto. tutte ’e mminacce ’e chillu delinquente le turnaveno a mmente a una a una, erano curtellate ’e cchiù tagliente, erano ’e sciabbulate d’ ’a sfurtuna! 16 … Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo il quel paragone istantaneo… 17 Capitolo iii Chella nuttata, grazie a Dio, passaie. D’ ’a perzïana ’o sole, scasualmente, ’a faccia ’e don abbondio accarezzaie: na faccia stravesata da ’e spaviente, ianca, scavata, fredda cchiù d’ ’a neva. E nun ve dico quanno po’ sentette a renzo ca ’o chiammava e ca ’o vuleva: fuie tanta ’a mpressïone ca svenette. renzo che ne sapeva ’e ’sta sventura? isso veneva sulo a le spià l’ora cchiù cummeniente, ’a cchiù sicura p’ ’o matremmonio ca s’aveva fa’. s’era vestuto scicco comm’a cche, e pe’ tramente fore llà aspettava, cu ’e mmane dint’ ’e ssacche d’ ’o gilè, na canzuncella allera canticchiava. …E don abbondio ’a porta l’arapette. Cu ’a faccia cupa e n’aria stralunata dinto ’o mmitaie e ssubbeto dicette: – «Ma comme va ca hê fatto ’sta penzata? Che si’ venuto a ffa’ accussì ’e bon’ora? Dimme, guagliò, ma ’a me che vaie truvanno?» – renzo allummato, ’e ppalle ’e ll’uocchie ’a fora: – «Neh! don Abbò, ma state pazzïanno? – 18 dicette, e po’, trasenno int’ ’o salotto cuntinuaie: V’è già passato ’e mente ch’oggi m’aggia nzurà? ca n’avimmo otto? Meh, sistimammo ’a cosa urgentamente!» – – «Ma comme, comme, proprio stammatina? – le rispunnette ’o prèvete, nervuso – Pe’ fa’ nu spusarizio, na duzzina ’e documente accorrono pe’ st’uso!» – – «E nun so’ pronte ancora?» – – «Figlio bello, e che ne saie tu ’e chello ca ce vo’!» – – «E che ce vo’ p’avé nu fuglietiello – renzo l’addimannaie – neh! don Abbò?» – – «Tu nun hai idea d’ ’a cunfusïone ca sta ncopp’ ’o Comune, Renzo mio! Vaie llà a ccercà ’a documentazione? E t’hê ’a raccummannà sultanto a Dio!» – – «Neh! don Abbò, ma vuie che me cuntate? Che chiacchiere e papocchie me dicite? Addu Lucia ce stanno già ’e mmitate. Vuie ce penzate ’o guaio ca ce facite? È tutto bello e pronto p’ ’o festino: braciole, gnocche, anguille, capitone, cunfiette, sfugliatelle, ’o cuncertino, spumante, cassatine, panettone…» – – «E i’ che ce pozzo fa’, figlio mio caro, si ’e ccarte nun so’ pronte è colpa mia? ’O ssaccio ca pe’ tte ’o discorzo è amaro…» – – «Amaro? Don Abbò, i’ esco a mpazzia – 19 renzo le rispunnette, e cu nu scatto se ne partette, scunzulato e triste, e quase ce chiagneva pe’ stu fatto. – Che càncaro ’e pasticce ca so’ chiste! Ma sarrà overo o è tutto na buscia? Po’ dice ch’uno sposta cu ’e pparole! Nun va niente a deritto a’ parta mia: facesse na culata e ascesse ’o sole! » – E pe’ tramente se sbertecellava, vedette ’a si’ perpetua int’ ’o ciardino ca nu panaro ’e funge pulezzava. penzaie, allora, renzo tramaglino, ca sulamente ’a vecchia le puteva spiecà ’sta cosa overamente strana. perpetua, sulo essa, si ’o vvuleva, puteva sgravuglià ’a matassa sana. – «Buongiorno ’onna Perpè, jurnate nere ’o Pat’Eterno a mme m’ha destinato. Diciteme na cosa, pe’ piacere, ma a don Abbondio che l’è capitato?» – ’a serva, furbacchiona, nun facette vedé ca a sti pparole s’apprecava. parlava e nun parlava… Cunfundette cchiù ’e primma a renzo, ca cchiù smaniava. però abbastaie nu zinno, na guardata: – «E’ n’ato ’a causa ’e chisto patemiento…» – p’ ’o fa’ sbruglià ’a facenna ’ngarbugliata. na vùfara, veloce cchiù d’ ’o viento, 20 renzo turnaie a’ casa d’ ’o curato. pe’ pietto l’acchiappaie e ’o sbrenzuliaie: – «I’ voglio ’o nomme ’e chillu sbruvignato, si no pe’ vuie sarranno overo guaie! » Cu ’a lengua ’a fora, ’o prèvete, abbelito, ce ’o ccunfessaie: – «È don Rodrigo, ’o mpiso!…» – C’ ’o ttuosseco int’ ’o core e ’o sango acito renzo strillaie: – «Ca pozza murì acciso! Si l’aggio dint’ ’e mmane a chillu cane ’o manno una vutata a ’e Pellerine! Chillo è ’o cchiù nfamo ’e tutte ’e crestïane, ’o cchiù assassino ’e tutte l’assassine! » – 21 …– Vo un momento, e torno, – disse Lucia alle donne; e scese in fretta. Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, – cosa c’è? – disse, non senza un presentimento di terrore. – Lucia! – rispose Renzo, – per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremmo essere marito e moglie. – Che? – disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, ah! – esclamò, arrossendo e tremando, – fino a questo segno! – – Dunque voi sapevate…? disse Renzo. – Pur troppo! – rispose Lucia; ma a questo segno! – – Che cosa sapevate? – – Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere… 22 Capitolo iV renzo teneva a ’e piede scarpe grosse, ma ’n capa ’a cerevella fina assaie: – «Fossero state smorfie, ciance, mosse, nu sguardo o che, fatte ’a Lucia – penzaie – c’hanno premmesso chesta carugnata? ’E vvote na resella, na spressiona, na parulella appena suspirata e l’ommo perde ’o senzo d’ ’a raggiona… Iammo, Lucì, dimmello ’n cunferenzia: a don Rodrigo, a cchillu chiappo ’e mpiso, l’avisse dato quacche vota audienzia? ’E vvote abbasta, ’o ssa’, nu pizzo a rriso… lucia, murtificata, rispunnette: – «Oje Re’, ma fusse scemo overamente? Si tu me faie capace ’e sti iuchette ’e me nun he’ capito ’o riesto ’e niente! Fuie chillu nfamo ca, nu juorno, avenno ’o canzo ’e me ncuntrà for’ ’a filanna, me guardaie fisso e me fermaie dicenno: “vi voglio offrire un cuoro e una capanna; vuie site ’o chiuovo fisso ’e sti penziere e ’o desiderio me cunzuma ’e vvene, v’aspetto int’ ’o castiello una ’e sti ssere: ve voglio fa’ assaggià nu munno ’e bene!” 23 Ma io le rispunnette: nun è cosa! Bellu signò, ’a Madonna v’accumpagna! Io songo a Renzo già prumessa sposa e ’sta prumessa è eterna e nun se cagna! Tanno pe’ tanno, chillu traditore, vutanno ’e tacche, cu na brutta cèra pe’ chell’offesa fatta “al proprio onore”, giuraie ’e vennecarse, e ’e che manera! » – 24 … Sentite figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto; il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato… so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca garbugli, raccontategli… Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome… 25 Capitolo V a cchistu punto ascette ’n miezo agnese, ’a mamma ’e chella figlia scunzulata: – «Renzo, sentite a mme, fore paese ce sta chi overo chesta birbantata pò sistimà int’a niente, è n’avvocato ca ’a cumann’isso ncopp’ ’o tribbunale, ’a legge ’a sape ’a dinto, ’a fore e ’e lato, se chiamma Azzecca-mbruoglie: è genïale! Pigliate quatto pulle ’a int’ ’o pullaro – pe’ nun v’appresentà cu ’e mmane ’n mano – purtatencille, e doppo, chiaro chiaro, cuntatele ’a ll’inizio ’o fatto sano.» – E accussì fuie. renzo, cuntento e lesto, iette a truvà stu celebre paglietta: – «Sperammo ca s’acconcia tutto priesto! Sperammo ca se spogna ’sta galletta!» – azzecca-mbruoglie mo, comm’avvistaie dint’ ’o panaro ’e quatto pullastielle – vive e ruspante – ’e pressa s’ ’acchiappaie. po’, cu parole e mmosse azzeccuselle, accumpagnaie a renzo int’a na stanza chiena ’e scartoffie e ’e libbre cunzumate, e cu na voce adatta a’ circustanza dicette: – «Accomodatevi! Parlate! » – 26 renzo, speranno d’essere aiutato, pe’ filo e segno le cuntaie l’intrigo: nu tocco le venette a ll’avvucato comme sentette ’o nomme ’e don rodrigo! E tanno tanno, cu nu diece ’e allucco, pigliaie p’ ’o vraccio a renzo e ’o cacciaie fore: – «Si’ scustumato, ’nfamo e mmammalucco, pecché ’on Rodrigo è nobile e signore! For’a ’sta casa mia! Iesce! Vattenne! Tu nun si’ degno ’e tanta cunferenzia! » – E le menaie appriesso pulle e penne pe’ nun fa’ tuorto a’ amico suio ’accellenzia. ieva, pe’ renzo, tutto cose stuorto! E cu na mano annanze e n’ata arreto se ne turnaie a’ casa stanco muorto e senza cubinà niente ’e cuncreto! sentuto ’o fatto, ’a povera lucia dicette: – «Renzo caro, siente a mme, chesta disgrazia nosta i’ ’a faciarria sapé a padre Cristoforo, pecché frate priore è tanto buono ’e core ch’acconcia tutte ’e specie ’e parapiglia. Stammo a ssentì, ca int’a vvintiquatt’ore chillo sistema tutto a mmeraviglia. Sul’isso, ’e stu pasticcio, cu accurtenza po’ ghî a parlà cu ’o conte preputente!» – E pure agnese – ’a mamma – penza e penza, cu ’a figlia fuie d’accordo esattamente. 27 E pe’ tramente llà s’arraggiunava, nu monaco pecuozzo – fra’ Galdino – tuzzulïava ’a porta: visitava ’e ccase p’ave’ ’o ppane, ’e nnoce e ’o vino pe’ tutte ’e munacielle d’ ’o cunvento. agnese s’ ’o chiammaie e le dicette: – «Stammo dint’a nu brutto abbattemiento! Ce vo’ ’o priore! È urgente!» – E se facette da ’o monaco prumettere ch’ampressa avria avvisato ’o superiore: – «E ccà ce stanno ’e sorde pe’ fa’ di’ na messa… Neh! Fra’ Galdì, v’avisseva scurdà?…» – 28 … Il sole non era ancor del tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato… 29 Capitolo Vi – «Chesta chiammata buono nun prumette – penzaie padre Cristoforo, e ’n cammino primma ch’albava juorno se mettette – sperammo ca nun trovo nu scumbino! Chisà che vonno ’a me Lucia e Agnese pe’ me mannà a chiammà cu tanta urgenza? Chi ’o ssape che guaie gruosse so’ succiese? Ca ce mettesse ’e mmane ’a Pruvvidenza! Chelle avarranno certamente avuto n’affronto, na disgrazia, quacche tuorto… Giesù, Giesù, misericordia, aiuto… Nun me facesse ’e ccroce, ’o munno è stuorto!» – E mmagginanno ’o ppeggio, se senteva scorrere ’o sango dint’ ’e vvene, ardente, comme a tant’anne fa, quann’isso ieva sfidanno malandrine e preputente. 30 … Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante… 31 Capitolo Vii E mo ve conto ’a storia d’ ’o priore ca se chiammava ludovico: nato dint’ ’a ricchezza, se spassava ’e core: cantine, juoco, femmene e nient’ato. Era nu giuvinotto sicco e bello, cu ’e llire assaie e ’o sango ca vulleva, ammartenato, nzisto e capuzziello, e tutto chello ca vuleva, aveva. sfidava cavaliere meglio d’isso e maie ca se teneva ’a posta, maie! pe’ ’sta raggione ’o guappetiello, spisso, s’era truvato int’a nu mare ’e guaie. 32 … Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere a tirar su una numerosa famiglia… 33 Capitolo Viii E na matina, pe’ na cosa ’e niente, ’on ludovico brutta s’ ’a vedette. passanno pe’ nu vico, alleramente cuntanno fattarielle e barzellette a ’o servo suio Cristoforo, ommo ’e core, amico e lavurante affeziunato, avette faccia a ffaccia nu signore chino ’e superbia, ’e mmidia e scrïanzato, nu nobbele acciaccuso, pagliacciello, cu n’aria ’e guappo ma… guappo ’e cartone! Che pretenneva, neh! stu buffunciello: – «Quanno pass’io, tu e st’ato pezzentone m’avita da’ via libera e, pe’ ghionta, m’avita salutà cu ’e rriverenze levanneve’o cappiello nfino a’ ponta d’ ’e scarpe, a scanzo ’e guaie e cunseguenze! » – Ma ludovico, ca né mo e né maie, tenuto se sarria nu sgarro ’e chiste, dicette: «Mio signò, o te ne vaie o faciarraie na morte overo triste. Ma qua’ saluto, quala riverenza, piezzo ’e mbicillo nzerrala ’sta vocca, circheme scusa pe’ ’sta mpertinenza, arretirete a’ casa e va’ te cocca!» – 34 Chill’ato replicaie: – «Piezzo ’e tiranno, c’ ’o sango chist’affronto aggia lavà: priparete a murì ca i’ mo te scanno comm’a nu pecuriello…» – stu pparlà manco fernette ’e fa’ ca se menava p’accidere cu ’a spata a ludovico, ca certamente nun se l’aspettava na mossa accussì lesta d’ ’o nemico. Ma, cu nu scatto, ’o buono servitore, currette pe’ difendere ’o patrone… currette… e restaie proprio sott’ ’o core ferito a morte… ah, povero squarcione! pe’ ludovico fuie tanto ’o dulore p’ ’o strazio ’e chill’amico muorto acciso, ca trapassaie ’o pietto ’e stu «signore» e ’o rummanette ’n terra ’o vico stiso. Ma tanto se pentette ’e stu misfatto ch’accumminciaie na vita ’e patimente. Cercaie perdono ’e tutt’ ’o mmale fatto e addeventaie ’o primmo penitente. p’ ’ammore ’e chillu buono lavurante ch’aveva dato ’a vita p’ ’o salvà, Cristoforo vulette, ’a chill’istante, chiammarse, e ’o fatto nun fernesce ccà: abbandunaie amice e cose belle, femmene, juoco, scampagnate, vino, dette ’e rricchezze soie a ’e puverielle e se facette frate cappuccino. 35 … Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un’occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde, con quel tono d’interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto leggiero delle testa all’indietro disse: – ebbene? – Lucia rispose con uno scoppio di pianto… 36 Capitolo iX Mo, quanno fra’ Cristoforo trasette dint’a ’sta casa, addò lucia aspettava nzieme cu ’a mamma, e ’o mònaco vedette comme chiagneva e comme selluzzava, avette bella e subbeto ’a certezza ca overo llà nu brutto parapiglia era succieso: lacreme e tristezza avevano schiantato na famiglia. E comme agnese ’o fatto le cuntaie d’ ’o tuorto ch’ ’a figliola aveva avuto, chillu sant’ommo tanto s’arraggiaie ca overamente l’avarria vattuto a don rodrigo, a chillu cane ’e presa d’ ’o conte, ’o peggio ’e tutte ’e crestïane! Ma fra’ Cristoforo era n’ommo ’e chiesa, e n’ommo ’e chiesa nun ’e vvotta ’e mmane! pirciò, s’aveva î add’ ’o preputente speranno d’ ’o cunvincere, a pparole, a nun ’o fa’ accanì contro a ’sta gente: pe’ sti guagliune, ascesse ’o ppoco ’e sole… se cumbinasse chistu matremmonio… – Sperammo – fra’ Cristoro penzaie – poco ce credo, chillo è nu demmonio… – signannose cu ’a croce salutaie 37 lucia e agnese e, triste e amariggiato, a’ casa ’e don rodrigo s’abbiaie. trasette int’ ’o castiello e fuie purtato dint’a na stanza grossa e bella assaie, addò ’on rodrigo, ciert’amice e ’o zio se steveno abbuffanno comme ’e puorce. pe’ pochi vvocche quantu bene ’e Dio! Che tavulata! Ch’allummata ’e torce! p’ ’o conte fuie comm’a na curtellata avenno ’e faccia chillu scucciatore ch’era venuto a ffarle na mmasciata a ssulo a ssulo, na parlata ’e core. – Mo ccà succede n’ato “quarantotto”! penzaie chill’assassino – Ch’aggi’ ’a fa’? – E s’ ’o purtaie, pirciò, int’a nu salotto, luntano ’a tutte p’ ’o sentì parlà. 38 …– In che posso ubbidirla? – disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala… …– Vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert’uomini di mal’affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustratissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compiere il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatto una così crudel violenza. Lo può; e potendolo… la coscienza, lo onore…– 39 Capitolo X E fra’ Cristoforo accussì parlaie: – «C’è stato n’ommo tanto malamente ch’a nnomme vuosto ha spaventato assaie ’o povero ’onn’Abbondio, ingiustamente. – ’O matremmonio – ha ditto chillu llà nfacci’ ’o curato, proprio l’ata sera – ch’avisseva dimane celebrà, nun s’ha dda fa’! E, sentite, ’sta “preghiera” è don Rodrigo ca v’ ’a fa ’e perzona! – Mo i’ so’ venuto ccà proprio speranno ca l’apparate chesta mal’aziona, ca vuie v’ ’o retirate stu cumanno. E ghiammo, accuntentatele ’e guagliune, p’ ’a nubbiltà d’ ’o nomme ca purtate: nuie ncopp’ ’a terra simmo ’e “si’ nisciune” e vuie ’o meglio ’e tutte ’e blasunate! Cu na parola saggia e sustenuta p’ ’e povere guagliune pò turnà tutta ’a felicità ca se n’è ghiuta. E Dio, ca tutto vede, n’avarrà tanto piacere e ve darrà clemenza. Iammo, ’on Rodrì, facitelo pe’ vuto, ca doppo che ve resta ’e sta putenza? Stennite ’e mmane a chi ve cerca aiuto 40 pecché vuie pure, comm’a ll’ata gente, sarrite, doppo muorto, giudicato ’a Chi cunosce ’o buono e ’o mmalamente, ’o bello, ’o brutto, ’o ricco e ’o sfrantummato. Pe’ Dio so’ tutte eguale doppo ’a morte: l’ommo struito, ’o povero e ’o rignante. Abbada sulo a chi, pe’ bona sciorte, ha sempe dato aiuto a tutte quante e nun è stato nfamo e scannaluso!» – pugnuto ’a tutte sti pparole ’e vrasa ’o conte, comm’a pazzo furïuso, cacciaie a fra’ Cristoforo da ’a casa: – «Ah, piezzo ’e chiacchiarone mpustatore, iesce, vattenne ’a stu castiello mio! » – Ma ascenno fore, ’o povero priore nu segno ’e pruvverenzia avette ’a Dio: nu servitore cu na barba ianca ca steva ’a tanto tiempo a servì llà, dicette, cu na voce amara e stanca: – «Na cosa nova v’aggia fa’ appurà, ma è meglio ca vengh’io dint’ ’o cunvento pecché è nu fatto troppo delicato e nun ’o po’ sentì nemmeno ’o viento, ca si se sape, ahimmé, me so’ nguaiato!» – 41 …– Griso! – disse don Rodrigo: – in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo. – Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo Signor padrone. – – Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purché la cosa riesca a buon fine… 42 Capitolo Xi s’era fissato don rodrigo, e invece ’e nun ce penzà cchiù, chiammaie nu tizio, nu coso brutto, niro cchiù d’ ’a pece, e le dicette: – «M’hê ’a levà nu sfizio! E cu na voce ’e pietto cummannaie: Aruna ’a banna e porteme a Lucia subbeto ccà, si no sarranno guaie: m’ ’a sconto ncuollo a tte l’arraggia mia!» – – «Corro – le rispunnette ’o carugnone – canosco il mio mestiero e me n’avanto: Lucia avarrà na bona lezïone! Mi chiamo “il Griso”, e ciò ca voglio agguanto!» – 43 … Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto io un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il curato, ma non è necessario che voglia; basta che ci sia. – Come sta questa faccenda? – domandò Renzo. – Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d’accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all’improvviso, che non abbia tempo di scappare. L’uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell’è fatto, sacrosanto come se l’avesse fatto il papa… 44 Capitolo Xii agnese, mo, penzava e ripenzava cercanno nu traniello appruprïato. sbarianno cu ’e penziere, studïava comme fa’ fesso ’o povero curato, pecché, pe’ cumbinà stu spusarizio, bastaveno duie sule testimmone. annanze a don abbondio (che servizio!), s’aveva dì, ’n presenza ’e sti pperzone: questa è mia moglie! questo è mio marito! e dittonfatto se faceva ’o fatto. nun era nu sistema assaie pulito, però nun era manco nu misfatto. però, s’aveva fa’ na cosa lesta, e senza fa’ sapé niente a nisciuno ca ’a gente te scumbina, cchiù d’ ’a pesta, tutte ’e pruggette fatte, a uno a uno. 45 … «Se fosse vero, Lucia!» disse Renzo, guardandola con un’aria d’aspettazione supplichevole. «Come! se fosse vero!» disse Agnese. «Anche voi credete ch’io dica fandonie. Io m’affanno per voi, e non son creduta: bene bene; cavatevi d’impiccio come potete: io me ne lavo le mani». «Ah no! non ci abbandonate,» disse Renzo. «Parlo così, perché la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste mia madre.»… 46 Capitolo Xiii E acussì fuie. agnese, ’ndusiasmata, cu renzo ’e stu pruggetto ne parlaie ca subbeto appruvaie chella penzata: – «’Sta cosa overo appara tutte ’e guaie!» – – «Ma ’e testimmonie?» – addimmannaie lucia. – «È cosa bella e fatta!» – rispunnette ’o nnammurato. ’E ssalutaie e… via, comm’a nu lampo ’a chella casa ascette. iette a truvà a totonno, nu scurzone, ch’aveva da’, p’ ’affitto ’e nu ciardino, a don abbondio ancora nu pesone, e nun teneva ’a faccia ’e nu quatrino! 47 …– Tu vuoi h’io venga per testimonio? – – Per l’appunto. – – E pagherai per me le venticinque lire? – – Così l’intendo. – – Birba chi manca. – – Ma bisogna trovare un altro testimonio. – – L’ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere? – – E da mangiare, – rispose Renzo. – Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà fare? – – Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello. – … 48 Capitolo XiV nzieme a totonno steva ’o frate ch’era nu miezo scemunito, puveriello!, ’o spasso ’e tutta quanta ’a guagliunera, ma, pe’ testimmunià… ieva a ciammiello. renzo, ca se senteva ’a freva ncuollo, cuntaie chillu pruggetto a ttutte ’e dduie ca, cu nu tono ’e voce muollo muollo, dicettero: – «Va buo’, venimmo nuie, però ’sta cosa ’avimma festiggià!» – – «Ma se capisce! » – E renzo s’ ’e ppurtaie dint’ ’a cantina a bevere e a mmagnà. E llà, dopp’ ’o ccafè, cuntinuaie: – «È proprio chiaro ogni procedimento?» – totonno rispunnette: – «Sissignore!» – renzo le deva pe’ ringraziamento e pe’ disubblicarse d’ ’o favore, ’e vvinticinche lire d’ ’o pesone ca stu buon’ommo ’e debbeto teneva c’ ’o prèvete. Cuntento, st’amicone, n’atu bicchiere ’e vino se faceva. 49 … Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto spianato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro pian piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. – Che diavolo è questo? – dice allora; – che qualche cane traditore abbia fatto la spia? –… 50 Capitolo XV ’o Griso, mo, ca s’era sbilanciato cu don rodrigo, danno pe’ sicuro ca ’a figlia ’e agnese ce ’avarria purtato dint’ ’o castiello, se facette scuro, niro, cchiù niro ’e chello ch’era, appena vedette ca lucia nun steva llà. se manteneva allerta a mmalappena, perdette ’a forza pure ’e risciatà. Ma po’ se repigliaie e, doppo poco, dint’a ’sta casa – uh mamma! – ch’ammuina: iastemme, scassascassa, allucche ’e fuoco… pareva ’a guerra ’e troia… e ch’arruina… e doppo ’a sfurïata, ’o Griso e ’amice facettero na trista retirata. – «Stu fatto, a don Rodrigo, chi ce ’o dice? Saie comme ’a piglia a duro ’sta ntrunata!» – E fuie proprio accussì: minacce ’e truone sputaie d’ ’a vocca ’o conte nfurïato. p’ ’o risultato ’e chella spedizione addeventaie na serpe, nu dannato. 51 …– Chi è, a quest’ora? – gridò una voce dalla finestra, che si aprì in quel momento: era la voce di Perpetua. – Ammalati non ce n’è, ch’io sappia. E forse accaduta qualche disgrazia? – – Sono io, – rispose Tonio, – con mio fratello, che abbiam bisogno di parlare al signor curato. – – È ora da cristiani questa? – disse bruscamente Perpetua. – Che discrezione? tornate domani. –… 52 Capitolo XVi Mo avita sta’ a sentì chello ch’agnese aveva appriparato a ’o parrucchiano: fuie na penzata ’e genio ca ’o paese ’o facette spassà pe’ n’anno sano. appena ca ’a cumbriccola arrivaie (renzo e lucia, agnese e ’e duie cumpare) a’ casa ’e don abbondio, accumminciaie totonno, cu parole forte e chiare, a ddi’ ch’era venuto pe’ l’affitto scaduto – d’ ’o ciardino – e nun pavato. perpetua s’affacciaie, e: – «Zitto! Zitto! – dicette – site proprio scrïanzato! Ve pare chesta l’ora ’e scuccià ’a gente?» – Ma po’, penzanno ’e sorde, ca over’è, ’o ssape ’o pat’Eterno sulamente chello ca ’e vvote s’ha dda fa’ p’ ’avé, cu n’aria rassignata, ’o maniglione levaie ’a reto ’a porta e ’e duie cumpare facette trasì dint’ ’o cammarone: maie suspettava chillu mal’affare! Mentre tutto ’o pruggetto cammenava, ascenno ’a nu purtone addò annascosta, c’ ’o jennero e cu ’a figlia, se truvava, agnese cu accurtenza va e s’accosta, 53 e pe’ tené perpetua fore ’a stanza, trova nu paraustiello buono assaie: – «Cummara mia – dicette cu crianza – io v’aggia cunfessà ca proprio maie aggio creduto a chello ca se dice, però se dice, e io tengo ’o duvere ’e v’avvisà. Cchiù d’uno ’e ciert’amice ’e stu paese, quanno è stato aiere, ha ntiso ’e dì ’a Peppino Solavecchia ca doppo sulamente doie semmane ’e corte ve lassaie dicenno: – È vecchia! E na mugliera vecchia… manco ’e cane! » – Chestu parlà, crudele e abbelenato, l’aveva acciso tutte ’e muorte suoie. – «Che busciardone! Io, l’aggio alluntanato a chillu sgorbio!, a cchella capa ’e voie! » – agnese ’e cunte ’aveva fatto buone, era filato tutto comm’a ll’uoglio. E c’ ’o pretesto, overo marpïone, ’e le spiecà cchiù meglio chillu mbruoglio, pigliaie ’a si’ perpetua cu na mano e, sempe chiacchiarianno, s’ ’a purtaie luntano ’a chella casa, chianu chiano. – «Nun ce penzate, nun so’ chiste ’e guaie, ’onna Perpè! » – Cercava, ’a furbacchiona, d’ ’a cunfurtà, e cu chiacchiere mpepate cchiù ’a mpapucchiava a cchella bunacciona, ntramente, a don abbondio, ’e fidanzate 54 cercaveno ’e le fa’ chillu juchetto… a cchistu punto, infatte, ’e nnammurate, accortamente, pe’ nun da’ suspetto, ascettero ’a do’ steveno acquattate, e se mpezzaieno dinto add’ ’o curato. Ce steveno già llà totonno e ’o frate ca, zitte e mute, l’uno affianco a ll’ato ncopp’a l’attenti, comme a duie surdate, guardaveno ’onn ’abbondio ca, assettato, steva screvenno ’o foglio d’ ’a quietanza p’ ’e sorde ca l’aveveno purtato. Ce steva poca luce dint’ ’a stanza, pirciò, quanno ’o curato ll’uocchie aizaie ’a copp’ ’o tavulino, renzo pronto a ffarle chillu tiro se truvaie… Chello ca succedette mo v’ ’o cconto: puldrona, calamaro, penna e carte tutto pe’ l’aria… ah, poveru pievano! – «St’allucche?… St’ammuina?… Ma ’a qua’ parte vene stu terramoto? – ’o sacrestano, cercanno d’ ’o ccapì, s’addimmannave – ’E notte songo overo cose strane! » – E suspettanno na disgrazia grave currette a scampanià tutte ’e ccampane. ’a gente, mo, scetata ’a tantu suono, ascette ’a dint’ ’e ccase p’appurà ch’era succieso. intanto, a cchillu truono ch’aveva fatto ’o munno arrevutà, 55 perpetua nchiantaie agnese e, lesta, se ne turnaie a’ casa add’ ’o patrone ca smanïava, ’a for’a na fenesta, pe’ fa’ cunvinta ’a pupulazïone ca niente era succieso, proprio niente: – «Sciucchezze, figli mieie, na fessaria! Turnate a ’e ccase voste, brava gente, turnatevenne cu Giesù e Maria!» – E apprufittanno d’ ’a cunfusïone e ’allucche pruvucate ’a sti pasticce, renzo e lucia nzieme cu ’e testimmone scappaieno pe’ levarse ’a mienz’ ’e mpicce. 56 … Ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tremante con voce mezza fioca dice: – dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento! –… 57 Capitolo XVii agnese steva scunzulata assaie, e nun ve dico ’a povera lucia… po’ nun parlammo ’e renzo: pe’ sti guaie steva distrutto. Che vigliaccaria ch’avevena patì! Che brutti zzelle ’a sciorta le vuleva fa’ spellà. a cchi ’e gguardava, sti tre puverielle, parevano ’o ritratto d’ ’a pietà. E pe’ tramente, stanco e addulurato, penzava, ognuno ’e lloro, a stu malanno, vedettero venì, tutto surato, nu neputiello ’e agnese, ch’affannanno dicette nfaccia a’ zia: – «Ve manna a dì padre Cristoforo, assulutamente a’ casa vosta nun ce avita î, ca state cumbinate malamente!» – pecché? pecché nu viecchio servitore ’e don rodrigo ’aveva cunfidato ca ’o conte, chiappo ’e mpiso e accrastatore, nu brutto scherzo aveva appriparato a danno ’e chella povera lucia. pe’ ’sta raggione ’o servo ’e ccunzigliava ’e spatrïà e truvà pace e armunia luntano ’a don rodrigo ca ’e ncuitava. 58 Dint’ ’o cunvento, subbeto! ’o priore, ca s’era cu n’amico già accurdato, ’avarria fatte, int’a nu paro d’ore, passà p’ ’o laco e ghî a cchill’atu lato. po’ n’ato brav’amico, llà arrivate, era già pronto pe’ lle da’ na mano nfi’ a quanno nun ll’avesse sistimate: renzo addu cierti muonece a Milano, lucia a Monza, dint’a nu cunvento, e agnese a’ casa ’e cierta bona gente. … Che luna ianca… n’ombra lèggia ’e viento… ’o cielo era nu manto trasparente… 59 … Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti, addio! Quanto è triste il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!… 60 Capitolo XViii appena ’a varca, int’ ’a nuttata chiara, lassaie ’a riva senza fa’ remmore, lucia sentette na ferita amara ca s’arapeva e ch’ ’a straziava ’o core. le se gelaie ’o sango dint’ ’e vvene; facette ’a faccia ianca ’a fa’ pietà; se turmentava ’n miez’a mmille pene e le mancava ’a forza ’e risciatà. pe’ l’acqua calma ’a varca se ne ieva. Ch’era succieso dint’a chillu mese… Cunfusa, a ppoco a ppoco, se faceva p’ ’a luntananza ’a vista d’ ’o paese. ’a povera lucia, cu ll’uocchie nchiuse, s’abbandunaie cu ’a capa ’n miez’ ’e mmane. Dint’a cchill’uocchie nire, ’e chianto nfuse, passaveno ricorde… ombre luntane… ’E ccimme d’ ’e mmuntagne, àvete e belle, c’ ’o cielo se mettettero a parlà… sentenno chelli vvoce, tutte ’e stelle mparanza accumminciaïeno a tremmà… attuorno attuorno che malincunia… – «Ogni speranza mia fernesce ccà – penzaie, turbata e pallida, lucia – addio surrise… addio felicità… 61 Povera a mme, io me ne vaco fora! Addio paese bello addò so’ nnata, pe’ colpa ’e chella berva tradetora io me ne vaco sola e sbenturata. Addio suonne ’e ’st’ammore mio sincero, ricorde doce e care d’ ’o ppassato: comme vurria nun fosse niente overo, scetarme e di’: che brutto suonno è stato! Chi ha scritto ’o libbro d’ ’o destino mio, ce ha miso dinto spine ’n quantità! Addio vint’anne mieie… speranze addio… pe’ mme, nisciuno cchiù, tene pietà! ’Sta voce mia nun canta cchiù, se lagna. Comme è passata ampressa ’a giuventù! Ah, comm’è triste l’ombra ’e ’sta muntagna! Madonna bella, damme forza Tu! Chisti suspire mieie, viento ca vaie, puortele sott’a l’albero ’e cerase addò ’e passione Renzo me parlaie, addò ’sta vocca avette ‘e primme vase. ’O tiempo passa, passarrà na vita, ’o munno sano sano cagnarrà, ma viva restarrà chesta ferita ccà, dint’ ’o core, maie se sanarrà! Addio muntagne belle addò so’ nnata, cimme d’argiento e oro, amate e care e ttestimmonie ’e tanta carugnata, stasera pure vuie, lacreme amare 62 chiagnite nzieme a mme, e mme cumpiatite p’ ’e nfamità ’e sti tuorte ca ce fanno. Né io nè Renzo maie, buono ’o ssapite, maie a nnisciuno avimmo fatto danno, e pe’ nu nfamo d’ommo preputente, ’o primmo scellerato, ’o primmo, ’o primmo, pene pavammo, disgraziatamente, pene pavammo e colpe nun tenimmo! Muntagne belle addo’ so’ nnata, addio! Lacreme cchiù nun tengo pe’ ve dà ma tutto ’o schianto ’e stu turmiento mio fino a che moro ’n pietto restarrà!» – 63 … Renzo uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. – Dio che cosa? – rispose quello: siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro, – e ritirò la mano, quasi con ribrezzo… 64 Capitolo XiX Quanno a cchell’ata riva ’accumpagnaie, ’o varcaiuolo nun vulette niente. E pure l’at’amico, ca ’e ppurtaie a Monza, p’amicizia overamente, niente accettaie ’a renzo, ’a stu guaglione ca steva p’affruntà n’atu destino p’ ’o sfizio ’e chillu càspeto ’e sbruffone, marvaggio e tristo peggio ’e n’assassino. appena c’arrevaieno int’ ’a città renzo partette ’e pressa pe’ Milano, lucia e agnese ’e corza p’arrevà a nu cunvento poco cchiù luntano. 65 … Era essa l’ultima figlia del principe ****, gran gentiluomo milanese, che poteva contarsi tra i più doviziosi della città. Ma l’alta opinione che aveva del suo titolo gli faceva parer le sue sostanze appena sufficienti, anzi scarse, a sostenere il decoro; e tutto il suo pensiero era di conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui… … La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno, non il suo consenso, ma la sua presenza… 66 Capitolo XX Ce steva llà na monaca assaie bella: suora Geltrude, na bellezza rara. Era però na strana munacella, teneva ll’uocchie doce e ’a vocca amara. ’E vvote malinconica e paurosa, ’e vvote curaggiosa e scrapricciata; mo allera, mo gentile, mo scuntrosa, po’ tutto nzieme mesta e timurata. Che storia triste ’a vita ’e ’sta nennella nata int’ ’o bene, ’n miez’a ll’allegria, e po’ nzerrata llà, dint’a na cella… Che sciorta nfama! Che malincunia! pecché? pecché ’sta povera criatura mo se truvava dint’ ’o munastero? (’o desiderio ’e sta’ dint’ ’a clausura nun l’era maie passato p’ ’o penziero; canzone, feste, vase e spasimante: chesto vuleva! Chesto se sunnava! E nno ’sta vita ’e spàseme, mancante ’e tutto chello ch’essa s’aspettava.) Colpa d’ ’o pate, pirchio e scemunito, ca pe’ nun darle ’a dota ca se dà quanno na figlia vo’ piglià marito, penzaie dint’ ’o cunvento d’ ’a nzerrà: 67 Geltrude, p’ ’o dulore, p’ ’a tristezza, p’ ’a nfamità ’e stu pate carugnone, jettaie tutte ’e vvirtù dint’ ’a munnezza e strapazzaie onore e religione. Cercava l’occasione sulamente pe’ fa’ supirchiarie e marvaggità: mettette ’a cora ’o diavulo fetente e chella avette l’opportunità. Ce steva nu palazzo ch’affacciava proprio dint’ ’o ciardino ’e stu cunvento, e ’o proprietario – Egidio – se spassava a sfruculià, cu tutt’ ’o sentimento, ’a munacella… e avé chella figliola nun le custaie assaie; nu surdeglino, nu pizzo a rrisa, ’accenno ’e ’na parola, e succedette chello ca ’o destino aveva ’a tiempo dint’ ’o libbro scritto. ah, povera nennella sfurtunata! pe’ colpa ’e chillu pate maleditto addeventaie ’a peggia disgraziata. 68 … L’altra cosa che premeva a don Rodrigo, era di trovar la maniera che Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine macchinava di far spargere le voci di minacce e d’insidie, che venendogli all’orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facesse passar la voglia di tornar da quelle parti… 69 Capitolo XXi supruse e malazione a centenare chiù se mpignava don rodrigo a ffa’! E, cunzigliato po’ ’a chillu cumpare d’azzecca-mbruoglie, iette a denunzià ncopp’ ’a quistura a renzo, cu l’accusa ch’era stat’isso a mettere paura a ’o povero ’onn’ abbondio, cu na scusa, quanno int’ ’a casa, chella notta scura, l’aveva fatto ’a bella mpruvvisata. pirciò, pe’ stu delitto, ’o carugnone aveva avé na bona scerïata, s’ ’aveva arricurdà ’sta lezïone! ’o cammurrista comme se sfezziava! Che bella legge ’a legge d’ ’o putente: ’o nfamo gode e ’o galantommo pava! Ma ’o filatore, intelligentamente, era partuto a ttiempo pe’ Milano, e pe’ na parte fuie affurtunato. Ma ’o puveriello pure llà, luntano, d’ ’a malasciorta era perzeguitato. 70 … La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi data l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendio… 71 Capitolo XXii na brutta carastia ce steva allora dint’ ’a città ’e Milano, n’arruvina, e chilli putecare d’ ’a mmalora facevano sparì tutta ’a farina vennennola sultanto ’e cuntrabanno a ’e ricche ca puteveno pavà. Ma ’a gente disperata, ’a chill’inganno nun se facette propio mpressiunà; addeventaie cchiù peggia d’ ’e brigante, strellava cu ’e ffurcine dint’ ’e mmane: – «Sti furne v’ ’e scassammo tutte quante! C’ ’o sango all’uocchie: Nuie vulimmo ’o ppane! » – ’o popolo, abbeluto e strazïato, sulo si aveva ’o ppane se calmava. Quanta supruse aveva suppurtato ’a chi marvaggiamente ’o guvernava. E propio dint’a chillu serra serra (bellu destino!) renzo ce ncappaie e ghiette a capità ’n miez’a ’sta guerra senza na colpa… e ’a guardia l’arrestaie. p’ ’o capo d’ ’a rivolta fuie scagnato da ’o cchiù alluccuto ’e tutte ’e tavernare ca ’o iette a denunzià dicenno: – «È stato stu giovene a fa’ ’a lotta a ’e putecare! » – 72 … Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi, vedete; non guastate i fatti vostri; l’onore, la riputazione, – continuava a sussurrare il notaio. Renzo faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini. – Ahi! ahi! ahi! – grida il tormentato: al grido la gente s’affolla intorno; n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. – È un malvivente, – bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: – È un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passare la giustizia. – Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, – se non m’aiuto ora, pensò, – mio danno. – E subito alzò la voce: – Figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli! –… 73 Capitolo XXiii Ma renzo, ca nun era mammalucco, pe’ primma a ’e sbirre addimannaie raggione ’e chill’arresto, e doppo, cu n’allucco se rivulgette a’ pupulazïone: – «M’hanno arrestato a nnomme d’ ’a giustizia, e senza fa’ nemmeno ’o paro e ’o sparo pe’ vera hanno pigliato na nutizia ca chillu scemunito ’e tavernaro, pe’ se fa’ bello – ’o piezzo ’e traditore – ncopp’ ’a quistura è ghiuto a ripurtà, e ’n mano a sti tiranne senza core nu galantomo è ghiuto a cunzignà. Che bella legge chesta legge vosta ca fa desiderà nu muorzo ’e pane a ’e puverielle. Bella faccia tosta ca teneno sti gguardie accidacane! Bella giustizia! Bella fetenzia! Ma si ce sta quacch’ommo curaggiuso mmiscato ’n miez’a vvuie, ’n miez’a ’sta via, venesse a m’aiutà contro a l’abbuso ch’agg’ ’a patì, mèh!, c’ ’e ccuntasse quatto, parlasse chiaro contro a sti ccarnette, contro a ’sta guapparia ca m’hanno fatto sti zucasango peggio d’ ’e ssanguette!» – 74 a cchistu punto, allora, tutta ’a folla, ca steva tuorno tuorno a curiusà, scattanno tale e quale fa na molla, currette nciuoll’ ’e sbirre a se menà. Vedenno, ’e gguardie, ’sta malaparata, squagliaieno a ll’istante tutte quante cercanno d’ ’a scanzà chella paliata ca overo puteva essere pesante. E renzo, apprufittanno, muro muro, se ne scappaie. pareva nu mbriaco: – «Addò pozz’î?… A Bergamo! Sicuro! A Bergamo, llà proprio me ne vaco! Llà ce sta ’e casa nu parente mio, nu bravo figlio ca sicuramente m’aiutarrà. E ghiammo, a nnomme ’e Dio, si arrivo llà so’ salvo certamente! » – p’ ’e vvie sulagne renzo cammenava, era na cammenata longa e nera: ’n miez’ ’e penziere triste s’annebbiava. E doppo tanto, finalmente, ’a sera, stanco pe’ chillu diece ’e scarpinetto, mettette pede dint’a na cantina pe’ nu bicchiere ’e vino e nu spaghetto. Ma lloco già sapeveno ’ammuina ch’era succiesa int’ ’a città ’e Milano: veleno fuie pe’ renzo ’o ppoco ’e vino… chillu spaghetto… che sapore strano… E mmo, tutte ’e pperzone ca vicino 75 le steveno – ’e cliente, ’o canteniere – guardie arraggiate e pronte a l’arrestà renzo s’ ’e mmagginava int’ ’e penziere: – «Mo perdo n’ata vota ’a libbertà!» – allora ’o puveriello, mpressiunato, senza fernì manco ’e mangià, pavaie e, ntussecato, pallido e affamato ’a dint’a ’sta cantina s’ ’a squagliaie, pure pecché llà dinto, nu mercante, ca int’ ’a città ’e Milano cummirciava, cuntava ’e fatte, assaie preoccupante, d’ ’a gente ’e llà ca già s’appriparava a ffa’ ’a summossa pe’ mancanza ’e pane; e po’ l’arresto ’e n’ommo, ’o capobanna ’e n’accuzzaglia ’e povere paisane, ca fuie pigliato dint’a na lucanna; chisto, però, cu ’aiuto ’e tanta gente, aveva avuto ’o canzo ’e s’ ’a squaglià: – «Chisà addò è ghiuto chillu delinquente? Chi ’o ssape si l’arrivano a truvà?» – 76 … Quantunque, al momento che usciva di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi, diminuissero sempre più quei pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la strada maestra, e si propose di entrare nella prima viottola che gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava qualche viandante; ma pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada. – Ha detto sei miglia, colui; – pensava: – se andando fuori di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatto l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Camminava, camminava, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le sarò vicino, non ho più bisogno di chi me la insegni. Se qualche barca c’è, da poter passare, passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un campo, su una pianta, come le passere: meglio su una pianta che in prigione –… 77 Capitolo XXiV E ghiastemmanno ’a sciorta traditora, renzo curreva p’arrivà cchiù ampressa a Bergamo, e cercà salvezza fora. – «Sarrà ’sta vita nfama sempe ’a stessa?…» – Quanta pruggette dint’ ’a fantasia… sperava ca, chisà, nu juorno o n’ato puteva turnà nzieme cu lucia. – «Ca se stracquasse stu destino ngrato!» – penzava, malinconico, a ll’amice, ’a casa soia ch’aveva abbandunata; penzava, cummuvennose e felice, a ll’uocchie belle ’e chella nnammurata. E cchiù curreva, cchiù s’avvicinava a ll’adda, ch’era ’o sciummo d’ ’a salvezza; ’o sciummo ch’ogni guaio alluntanava e ca metteva fine a ogni tristezza. passanno l’adda, renzo, finalmente, traseva ’n territorio veneziano, e llà niente valeveno, cchiù niente, ’e llegge ca cuntaveno a Milano. E, furtunatamente, doppo tanto, tantu cammino, a Bergamo arrevaie e tutta ’afflezïone ’e chillu schianto comme passaie ’o sciummo s’accuitaie. 78 … Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’allontanarlo, e il mezzo a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di quello. Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un’antica conoscenza: s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con uno solo di questi, il quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti… 79 Capitolo XXV nun steva don rodrigo certo allero pecché ’a facenna s’era cchiù mbrugliata: lucia Mondella, dint’ ’o munastero, overo steva bona sistimata. – «Chisto è nu mpiccio propio malamente!» – Ma allora aveva rinunzià a stu sfizio? nemmeno a ce penzà luntanamente: ’o lupo perde ’o pilo, maie ’o vizio! E don rodrigo steva ’ndiavulato p’ ’a figuraccia ca faceva nnante a’ banna soia. E ch’avarria penzato ’o Griso, ’o cchiù nfamone ’e tutte quante? – «E nno, guappo ’e cartone a mme nisciuno mai me l’ha ditto e mai m’ ’o ddiciarrà! I’, a stu paese, songo ’o nummer’uno, i’ songo o meglio ’e tutta ’a suggietà!» – pirciò, pe’ forza, mo truvà s’aveva ’a strata pe’ trasì dint’ ’o cunvento, pecché ’on rodrigo no, nun ammetteva ca ’o ’nguacchio fosse juto ’nfallimento. pe’ primma cosa, cchiù ca nicessaria, p’ascì sicuro ’a dint’a cchillu mpiccio, s’aveva fa’ cagnà nu poco l’aria a ’o monaco ntricante e traseticcio. 80 se mette ’o conte cu attenzione e penza ’e correre a Milano, a cercà aiuto a ’o zio, nu blasunato, na putenza, fra tutta ’a nubiltà: ’o cchiù sentuto! … E ne cuntaie buscie, ’o malandrino: – «Cristoforo ’o priore è addeventato ’o prutettore ’e Renzo Tramaglino, isso l’ha cunzigliato e l’ha aiutato. E, che credite, ch’è sultanto chesto? Chello ca va dicenno int’ ’o paese so’ ccose ’e pazze! Tutto nu pretesto! E va nciucianno, chillu mal’arnese, ca nu capriccio m’aggio miso ’n capa pe’ na figliola, na cuntadenella, e vva ammentanno pure, chella crapa, ch’io faccio ’a guerra a ’sta Lucia Mondella pe’ nun ’a fa’ spusà… ma quanno maie!» – E l’abbuffaie ’e chiacchiere, a mmappate; e chillu scemo ’e zio, ca s’ammuccaie tutte ’e buscie e ’e stroppole accucchiate, mettenno ncopp’ ’a spalla d’ ’o nepote ’a mano pe’ lle da’ cchiù sicurezza, giuraie ’e vendicarlo mille vote: – «’A pavarrà, ’o priore, ’sta schifezza!» – 81 … Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale; e gli fece trovare una corona di commensali assortito con un intendimento sopraffino… … Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza. Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui e cominciò: – Stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra noi, senz’andar per altre strade, che potrebbe,… E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che andremo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da *** –… 82 Capitolo XXVi E accussì fuie. ’o conte, ’o juorno appriesso, mmitaie a’ casa ’o patre superiore e ’o ntussecaie cu tutto nu pruciesso contro a chillu ’nnucente d’ ’o priore. – «Nepòtemo sta tanto amariggiato ch’aiere ce chiagneva pe’ st’offese. Ve prego, superiò, chillu scrianzato l’avita trasferì a n’atu paese.» – Ma, ’o patre pruvinciale, buono e a ffunno sapeva a don rodrigo – ’o malandrino – e ’e mbruoglie ca stu stròloco a zzeffunno faceva contro a renzo tramaglino, pirciò: – «Mio caro conte – rispunnette – vostro nipote addò è ghiut’ ’appurà ca overo fra’ Cristoforo facette tutte sti nciuce e tutto stu pparlà? Se fosse don Rodrigo ’mpressiunato?» – ’o conte, amariggiato: – «Patre caro, che s’ ’ammentava chello c’ha cuntato? A mme Rodrigo m’ha parlato chiaro! » – – «No, signor conte, no, nun dico chesto, ma na parola ntisa malamente ’e vvote fa passà pe’ disonesto nu galantomo… e proprio ingiustamente!» – 83 Ma ’o conte cchiù aggravava ’o ’nzurfamiento. ’o pate pruvinciale, a cchillu punto, penzaie: – «È mmeglio, sì, a n’atu cunvento, p’ ’o bene suio e nno p’ ’o fa’ n’affrunto aggia mannà a Cristoforo. – E ’o priore, dint’a nu païsiello, fore mano, fuie destinato. int’a vvintiquatt’ore avetta lassà tutto e ghî luntano. 84 … Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede di uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendii, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte… 85 Capitolo XXVii – «Che bella cosa, ’o primmo passo è fatto! Mo aggia truvà nu buono maniglione – dicette don rodrigo, suddisfatto – ca m’ha dda fa’ arapì chillu purtone d’ ’o munastero ’e Monza, addò ’a figliola sta cunzumanno ’a meglia giuventù. Ma stu piacere gruosso, è na parola, chi m’ ’o pò ffa’? Zie nun ne tengo cchiù!» – E penza e penza, ’o piezzo ’e trastulante s’arricurdaie ’e n’amico affeziunato cchiù nfamo d’isso, overo nu brigante, nu buono carugnone e scellerato. Era chiammato cu nu nomme strano: l’Innominato – ma che razza ’e nomme! – Ma le puteva overo da’ na mano? Era capace? Era capace, e ccomme! penzava a ffa’ sultanto fetenzie contro ’a giustizia, ’a legge, ’a chiesa, ’a gente; gudeva sulo a ffa’ vigliaccarie! pirciò, comme ’on rodrigo, finalmente, le cunfidaie, cu garbo e cu rispetto, chello ca le vulleva dint’ ’e vvene, l’Innominato, cu na voce ’e pietto, ma cu n’atteggiamento assaie perbene 86 le rispunnette: – «’a tengo ’a soluzione! Sacc’io comm’aggia fa’ pe’ tirà fora Lucia Mondella, ma, cu attenzïone, ’a dint’a chella cella d’ ’a mmalora. Rodrì, facite cunto comme fosse cosa già fatta! » – E doppo ’sta parlata, chiammaie nu servo guappo fino all’osse, le cunzignaie na busta seggillata: – «’Sta lettera è p’Egidio! È cosa urgente! Portala a Monza – cummannaie – ampressa! Dille ca s’ ’a liggesse attentamente! Dille ca s’ha dda fa’ na cosa ’e pressa!» – 87 … Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l’aspettasse, con la risposta d’Egidio: che l’impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa… … La proposta riuscì spaventosa a Geltrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiar in un nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola che era sicura, e che le stava sempre aperta avanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Geltrude non voleva risolversi; e ubbidì… 88 Capitolo XXViii p’accuntentà chill’uommene putente, Egidio se mpignaie cu tutt’ ’o core: – «Ce l’aggi’ ’a fa’ ’o piacere a cchella gente, nun passarranno cchiù ’e vintiquatt’ore ca faccio ascì ’a Lucia a ’int’ ’o cunvento!» – E fuie propio accussì: chiammaie l’amante e l’ubblicaie a ffa’ stu tradimento: na scusa priparasse, ma mpurtante, pe’ fa’ cunvinta a ’sta lucia Mondella ch’aveva ascì sultanto na mezz’ora ’a dint’ ’a pace santa ’e chella cella, pe ghî a purtà, ’e nascosto, a n’ata suora, na mmasciatella urgente e delicata… Chesto abbastava. Doppo, a tutto ’o riesto ce penzav’isso: ’a cosa era studiata: – «Ma s’ha dda fa’ na cosa priesto priesto, pecché a st’amice io ce tengo assaie…» – pe’ suor Geltrude, st’ata imposizione, fuie nu turmiento gruosso, pecché maie l’avria vuluta fa’ ’sta mal’azione. Chiagnenno amaramente, ’a munacella l’avett’ ’a fa’ chella marvaggità, e nun tenette ’a forza, ’a puverella, né ’e di’ ca no, e né ’e se ribbellà. 89 E ’a nfamità riuscette comme s’era tra chilli duie serpiente cumbinato. lucia, ch’era assaie semplice e sincera, n’inganno ’e chillo maie l’avria penzato, e a pprimma sera ascette e s’avviaie sola p’ ’a strata, a cammenà distratta. Ma ’e faccia, doppo poco, se truvaie tre tizie mascarate ch’antrasatta ’a sprufunnaieno dint’a na carrozza ca steva llà vicino pustiggiata. n’ata supirchiaria, trista e zozza, s’era, pe’ mala sciorta, rializzata! 90 … Era aspettata dall’Innominato, con una inquietitudine, con una sospensione d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel mettere le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un’alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi, lentamente: perché quel primo andar di carriera aveva consumato la foga, e domate le forze dei cavalli. E benché dal punto dove stava a guardare, là non paresse più che una di quelle carrozzine che si danno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte… 91 Capitolo XXiX Quanno l’Innominato se truvaie a ffaccia a ffaccia cu lucia Mondella, guardannela int’a ll’uocchie se ncantaie; sentenno ’e ppene ’e chella puverella nu friddo dint’a ll’osse ’o ntesechette; na spina amara le pugnette ’o core; ’a faccia ianca ianca se facette e ’n pietto ’o turmentava nu dulore cupo e pesante. Dio! Chella cuscienza ca fino a tanno maie s’era scetata, pe’ ’sta figliola, mo, pe’ ’sta nnucenza, cu n’aria nova s’era appresentata. l’Innominato, propio chella sera, accumminciaie a ssentere int’ ’e vvene ’o desiderio ardente ’e na preghiera, ’o desiderio ’e Dio, ’e pace, ’e bene. E chella notte, ma che vuo’ durmì penzanno a ttutt’ ’o mmale, a ttutte ’e tuorte ch’aveva fatto, senza maie sentì dulore né p’ ’e vive e né p’ ’e muorte. – «È meglio ca m’accido – murmuliava – chi comm’a mme ha campato, sulo ’a morte se mmèreta – e chiagneva e selluzzava – povero a mme! Che maledetta sciorte! 92 Ma comme pozzo a Dio cercà perdono pe’ tutt’ ’o mmale fatto e ’e nfamità? Io ch’aggio sempe maldrattato ’o buono campanno sulo a ffa’ marvaggità?» – Che notte ’e fede! ’n Cielo quanta gioia! ’o peccatore era pentito overo. E pe’ tramente dint’ ’a vita soia, p’ ’a primma vota, a Dio ogni penziero isso mannava, attuorno se spanneva ’o suono d’ ’e ccampane ’e mille chiese; accumpagnava, ’o juorno ca nasceva, ’a voce ’e tutta ’a gente d’ ’o paese: era arrivato llà, mpruvvisamente, ’o cardinale Borromeo, nu santo. figlio ’e nu titulato assaie putente, tutte ’e rricchezze, propio tuttuquanto chello ca pussedeva – oro, giuielle, cavalle cu ’e ccarrozze, propietà – aveva dato tutto a ’e puverielle e franciscano s’era juto a ffa’. n’aveva fatto cose bone ’a tanno; e preputenze e tuorte, sistimato; mo ieva int’ ’o paese prerecanno e ’o popolo restava ’ndusiasmato. Ma ’a povera lucia che ne sapeva ’e tutte chelli ccose, ’e tutto chello ch’attuorno attuorno a essa succedeva? pigliata da ’o scunforto, int’ ’o castiello, 93 cu ’a faccia ianca e ’a morte dint’ ’o core, s’abbandunaie dint’a nu chianto ’e freva e prumettete a Cristo redentore, pe’ vuto, ca si ’a llà libbera asceva, monaca se faceva. Che turmiento! lucia cu ’sta prumessa, cu stu vuto, pigliava suonne, ammore e sentimento e ll’atterrava dint’a nu tavuto. 94 … Infatti, sul volto dell’Innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un’ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L’animo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federico, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, si elevava a quelle idee di misericordia, di perdono e d’amore… 95 Capitolo XXX ’o iuorno appriesso pe’ l’Innominato fuie ’o cchiù bello ’e tutta ’a vita soia: doppo tant’anne, l’uno ncopp’a ll’ato, passate senza pace e senza gioia, campanno sempe – ’e mise, ’e juorne, ll’ore – a ffa’ supirchiarie senza mai fine, turnava ncopp’ ’a strata d’ ’o signore cu l’anema pugnuta ’a mille spine. pentito overamente ’e tutt’ ’o mmale, pronto a pavà delitte e nfamità, iette a vedé pur isso ’o cardinale, iette pur isso a le cercà pietà. ’o cardinale appena se truvaie l’Innominato addenucchiato nnante – st’ommo ca tanta tuorte e tanta guaie aveva prucurato a tutte quante e mmo faceva pena sulamente – forte se l’astrignette dint’ ’e bbraccia e ’o perdunaie, senza spïarle niente, senza le fa’ né accusa, né minaccia. st’ommo pentito, tutte ’e mmal’azione se cunfessaie: – «So’ stato nu dannato, ma so’ venuto cu devuzïone a ve cercà perdono ’e ogni peccato. 96 E aieressera n’aggiu fatta n’ata… – e le cuntaie tutto llà pe’ llà – Dateme nu cunziglio: ’sta bravata ’a voglio ampressa ampressa arreparà!» – – «Figlio – le rispunnette ’o cardinale – curre a ’o castiello, libera a Lucia, falla turnà addu ’a mamma soia carnale, dille: è fernuta ogni malincunia, dille ca nun tenesse cchiù timore! Io po’ me manno subbeto a chiammà a don Abbondio, a cchillu traditore, ca buono ’sta facenna aggi’ ’appurà!» – 97 … – Signori! Signori! haec mutatio dexterae Excelsi. – E stette un momento senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: – Sua Signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di *** –. Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un – io? – strascicato, con una intonazione di maraviglia. – Non è lei il signor curato di ***? – riprese il cappellano. – – Per l’appunto; ma…– – Sua Signoria illustrissima e reverendissima vuole lei. – – Me? – disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io?… 98 Capitolo XXXi Mo nun ve dico ’o triemmolo, ’o spavento d’ ’o povero ’onn’abbondio a cchill’invito d’ ’o cardinale, ch’ogni avvenimento desiderava d’essere chiarito, accummincianno ’a quanno, pe’ nu sfizio, ’o «bravo» ’e don rodrigo ’o minacciaie e ’o cummannaie a nun fa’ ’o spusarizio… pecché ’onn’abbondio nun se ribbellaie? pecché, mpaurito, s’era stato zitto e nun aveva fatto propio niente pe’ scungiurà stu càspeto ’e delitto ch’aveva turmentato tanta gente? tremmava ’o parrucchiano. se facette nu pìzzeco, vuleva sprufunnà e manco na parola rispunnette, ’a forza nun tenette ’e dicere «a»! Ma dint’ ’o core suio penzava chesto: ’e cammurriste quant’abbuse fanno contr’ ’o cujeto, ’o debule, l’onesto, e quanta «don Abbondio» ca ce stanno e niente ponno a ffront’ ’a preputenza! senza parole, ahimmé, quanto parlaie! E ’o cardinale, ch’era n’ommo ’e scienza, a don abbondio pure perdunaie. 99 … Allora, quello di cui si parlava, spinse l’uscio, e si fece vedere; Lucia, che poco prima lo desiderava, anzi non avendo speranza in altra cosa al mondo, non desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci amiche, non poté reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si strinse alla buona donna, e le nascose il viso in seno. L’Innominato, alla vista di quell’aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi all’uscio; nel veder poi quell’atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, – È vero, – esclamò: – perdonatemi! – Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono? – Diceva la buona donna all’orecchio di Lucia… 100 Capitolo XXXii Vedé l’Innominato addenucchiato a le cercà perdono, pe’ lucia fuie na surpresa; le tremmava ’o sciato, chiagneva e selluzzava d’allegria. – «Giesù mio bello, me l’hê fatta ’a grazia e i’ nun m’ ’o scordo ’o vuto, t’ ’o pprumetto. Tu m’hê scanzato ’a miez’a na disgrazia e chillu giuramento t’ ’o rispetto. Pe’ Renzo, ca rummane abbandunato, pienzece Tu ca si’ Patrone e Re. Pienzece Tu pe’ chillu nnammurato ch’aggio vuluto bene comm’a cche.» – senza paura cchiù, lucia asceva ’a int’ ’o castiello, ma teneva ’n pietto nu schianto ca nisciuno le vedeva, ca nun le deva n’àttemo ’e ricietto. 101 … Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall’avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette rintanato nel suo palazzotto, solo co’ suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il terzo partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente, forse, poiché le cose erano andate tanto avanti, sarebbe rimasto apposta per affrontarlo, anzi per cercare l’occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno de’ più arditi; ma chi lo cacciò, fu l’essersi saputo per certo, che il cardinale veniva anche da quelle parti… 102 Capitolo XXXiii pe’ don rodrigo, mo, ca s’aspettava ’e se vedé lucia assuggettata a fa’ ogni cosa ch’isso cummannava, fuie na nutizia peggio ’e na mazzata quanno sapette ca l’Innominato l’aveva libberata: – «Tiene mente che bell’amico ca s’è dimustrato, m’ha fatto fesso propio malamente!» – Ma po’ ’a nutizia cchiù periculosa ca ’o scumbinaie ’o core e ’o cereviello, fuie chella ca diceva ca ’e ’sta cosa – venenno ’o cardinale int’ ’o paisiello – cu isso propio n’avarria parlato a ffaccia a ffaccia, e tutto chiaramente; aveva appurà buono chi era stato: – «Chi ha fatto ’o mmale ’o ppava amaramente!» – allora don rodrigo penzaie buono ch’era assaie meglio scumparì ’a llà ttuorno. puteva fa’ assaie male chillu truono: ’o piezzo ’e nfamo ce teneva a ’o scuorno! partette pe’ Milano mastecanno parole ’e fuoco contro a cchisto e a cchillo; giuranno ’e vendicarse; iastemmanno; pareva nu demmonio c’ ’o sturzillo. 103 – «Me l’hanna pavà caro tutte quante chille ca m’hanno fatto chest’offese: l’Innominato, fàuzo e birbante, Cristoforo, ’onn’Abbondio, Renzo, Agnese, Lucia, ’o cardinale… Po’ sentite! Ah, che maciello ca ne voglio fa’! Facite calmà ll’acque e po’ vedite che sape don Rodrigo cumbinà! » – 104 … Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello dell’Innominato. Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d’oro, ch’eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell’uso che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una delle fortune più desiderate… 105 Capitolo XXXiV l’Innominato, overo cu l’affetto ca po’ tené nu pate, priparaie ciento munete d’oro e nu biglietto e pe’ rialo ’e nozze c’ ’e mmannaie a’ povera lucia. isso ’o ffaceva cu tutt’ ’o core, e le screveva pure ca mo a disposizione se metteva, e mamma e ffiglia stessero sicure ca steva sempe pronto a piglià ’a spata e a correre ’e perzona a ll’aiutà! nu tuorto, na minaccia, na bravata? mo ce stev’isso pronto p’ ’e ssalvà! E comme agnese se vedette ’n mano lettere e sorde, subbeto penzaie d’avvisà a renzo… tanto, mo, luntano che steva a ffà? fernute erano ’e guaie… lucia, a stu punto, accisa da ’o dulore cchiù nun putette trattenerse ’o chianto, e chillu vuto fatto pe’ timore cuntaie a’ mamma. Giesù mio, che schianto! a ’sta nutizia, agnese, aizanno ’e mmane: – «Madonna mia – dicette – e che scumbino! Ma quanno fenarrà ’sta vita ’e cane! Che ce cuntammo a Renzo Tramaglino? 106 Povero figlio, sulo e scalugnato, n’ha suppurtato pene, tuorte e inganne. Nun l’avarria, mo, propio mmeretato pe’ ghionta l’amarezza ’e st’at’affanne. Mo s’ha dda sentì ’e dicere d’ ’a gente: guagliò, lèvate a cchella ‘a dint’ ’o core; p’ ’o vuto fatto a Dio Onnipotente è addeventata ’a sposa d’ ’o Signore! Tutte ’e ccarezze, ’e vase, ’e suonne: a mmare! Tutto perduto, sperzo dint’ ’o viento! ’E desiderie, ’e palpite cchiù care, mo so’ sultanto lacreme e turmiento» – 107 … Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s’era fatto veder per aria, doveva supporre tutt’altro che una così benigna noncuranza, stette, un pezzo senz’altro pensiero – o, per dir meglio, senz’altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d’aver le loro… 108 Capitolo XXXV Ma stu pparlà d’ ’a mamma nun bastaie a ffa’ cagnà pruposete a lucia: – «’O vuto fatto io nun m’ ’o scordo, maie! Maie negarraggio ’sta prumessa mia!» – Distrutta, agnese, ’a chesta nuvità, cercava ’e sapé renzo mo addò steva pe’ le mannà nutizie, p’ ’o nfurmà ’e chello ca llà bascio succedeva. 109 … La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze attuali… 110 Capitolo XXXVi Mo pe’ tramente agnese, turmentata, passava ’o tiempo senza truvà abbiento, renzo mannava scritte a’ nnammurata parole ’e fuoco e chiene ’e sentimento. E le mannava a dì ca cchiù nun steva nziem’ ’o parente suio a faticà; mo steva a n’ata parte, e ’a llà screveva speranno, priesto, d’ ’a puté ncuntrà. – «T’aspetto, vita mia, carezza doce, m’addormo e dint’ ’e suonne sonno a tte; me sceto e sento ’n pietto ca me coce cchiù forte ’a passïone ’e te vedé!» – 111 … Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva, si infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora parendogli di intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso chiaro. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo l’espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, – scrivete –, proseguiva dettando, – che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai… 112 Capitolo XXXVii saputo mo addo’ steva ’e casa renzo, agnese, p’ ’o nfurmà ’e ’sta cosa strana, pilo pe’ pilo a ’o povero sfelenzo screvette ’a brutta storia sana sana… po’ le mannaie na bona summetella: cu ’e llire se puteva sistimà fore… nu piezzo ’e terra… ’a casarella… tanto, a ’o paese… che turnava a ffa’?! le cunzigliava pure ’e se truvà n’ata nnammuratella, ate amicizie… renzo steva svenenno llà pe’ llà comme liggette tutte sti nnutizie: – «M’aggia scurdà d’ ’a nnammurata mia? Stongo sunnanno o chesta è ’a verità? So’ ccose ’a fa’ venì na malatia! So’ ccose ’e pazze! ’E chi m’aggia scurdà?! Ma comme se po’ ffa’ – Dio benedetto – a se scurdà d’ ’e vase ch’aggiu dato? ’E tutt’ ’o bene ca m’abbrucia ’n pietto? Lucia, Lucì, dimme ca he’ pazzïato! Si tu me lasse che sarrà ’e ’sta vita? Perdenno a tte io perdo suonne e affetto! E si tu overo nun te si’ pentita, meglio ca vene ’a morte e i’ m’arricetto! 113 Pe’ chi fatico io mo? Pe’ qua’ ragione? Pe’ chi aggia suppurtà chistu scumbino? Io perdo ’a fede e perdo ’a religione: mannaggia chi m’ha fatto stu destino! » – E che nuttata amara ca passaie; e ne chiagnette lacreme ’e dulore. Comme s’addubbechiaie po’ se sunnaie ’a nnammurata, bella cchiù ’e nu sciore; e ’n zuonno suspirava: – «T’aggio amata cu passïone ardente, senza fine; tengo na smania ’n pietto rebazzata ca nun canosce sosta né cunfine. Te voglio bene c’ ’o cchiù vero bene! Pe’ mme si’ vita, forza, giuventù e niente po’ spezzà chesti ccatene… e i’ moro… moro… si nun tuorne tu! » – 114 … Sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe, venivano avanti a fatica; e trascinato da quelli, un carro di morti, e dopo quello un altro; e di qua e di là, monatti alle costole de’ cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgono al tepore della primavera; chè, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que’ mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenir più doloroso e più sconcio… 115 Capitolo XXXViii ’a chillu iuorno cose triste assaie s’accavallaieno l’una ncopp’a ll’ata; renzo nun arrevava a partì maie e rimandava sempe ’e na iurnata: mo pe’ nu ntuppo e mmo pe’ n’ata cosa, mo succedeva chesto e mmo chest’ato. ’a vita addeventaie pericolosa! V’arricurdate vuie chillu triato, chill’ato «quarantotto» ch’a Milano fuie fatto contro ’e furne d’ ’e furnare? ’a tanno overamente ’o ppane e ’o ggrano accumminciaieno a deventà assaie rare e accumparette ’a famme e ’a carastia. ’o càvero appicciaie tutt’ ’e ccampagne, e appriesso: sufferenza, malatia, dulore, chianto, afflezïone, lagne! nu crestïano, pe’ nu muorzo ’e pane, era capace, ahimmé, ’e se fa’ scannà! Che tiempe triste, che ghiurnate ’e cane… ’o popolo teneva ’a che passà… 116 … Mentre quell’esercito se n’andava da una parte, quello di Ferdinando s’avvicinava dall’altra; aveva invaso il paese dei Grigioni e la Valtellina; si disponeva a calar nel Milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da un tal passaggio eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell’esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c’era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti, avevan portato in Firenze… 117 Capitolo XXXiX Chella tragedia, pure assaie pesante, niente era a paragone ’e n’atu fatto ca ne purtaie disgrazie, ma, abbunnante, e a ccentenare ’e muorte, all’intrasatto: Germania e francia s’affruntaieno ’n guerra, e pe’ ’sta guerra, dint’ ’e tterre noste straniere ’n quantità: che serra serra, e ’a ll’una e ’a ll’ata parte che batoste! Quanta battaglie, quantu sango, a sciummo, p’ ’e strate, p’ ’e ccampagne, ’e ccase, ’e ggrotte… e ’a peste cumpletaie chillu sfrantummo! E chi n’avette bone l’ossa rotte fuie spicialmente ’a povera Milano ca se nfettaie senza nisciuno scampo: bastava sulo na tuccata ’e mano e ’a peste t’acchiappava int’a nu lampo. E pure renzo ’e peste se ’nfettaie, ma chesta vota, pe’ na bona sciorte, d’ ’a brutta malatia s’ ’a scapputtaie, ’o puveriello s’ ’a scanzaie ’a morte. 118 … L’uomo si vide perduto. Il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terror di diventar preda dei monatti, d’esser portato, buttato al Lazzaretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione. Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò ad una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e si accertò di quello che, la sera aveva congetturato… … Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccio di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuori dal letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare. – Ah traditore infame!… Via, canaglia!… 119 Capitolo Xl ’a peste aggranfa ricche e puverielle, e pure a don rodrigo va a nfettà. teneva ’a malatia pe’ tutt’ ’a pelle e le mancava ’a forza ’e risciatà. ’a tuttaquanta ’a banna fuie nchiantato e abbandunato dint’ ’o lazzaretto: isso, na vota ricco e titulato, mo nun teneva manco cchiù nu lietto. iettato ncopp’ ’a paglia, ’o malandrino, marterizzato ’a spàseme e ’a turmiente, se cunzumava comm’a nu lumino: pareva ’o cchiù pezzente d’ ’e pezziente. Guardava, cu duie uocchie asciutte e sicche, gente ca sparpetiava e ca mureva; giuvene, viecchie, puverielle, ricche: vulleveno int’ ’e tribbule d’ ’a freva. tutte llà dinto. senza destinzione ’a morte a cchisto e a cchillo se pigliava, e nun senteva cunto né ragione: senza pietà acchiappava e ’ncarrettava. 120 … Verso sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva di aver negli orecchi que’ sinistri tocchi a martello che l’avevan come accompagnato, inseguito, quand’era fuggito da que’ luoghi; e insieme sentiva, per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente… … – Si sa niente di Lucia? – – Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. È a Milano, se pure è ancora in questo mondo… 121 Capitolo Xli D’ ’a peste pure renzo fuie nfettato – e già ’o ssapite – ma, doppo nu mese, ascette da ’o pericolo. sanato, se ne turnaie a’ casa, int’ ’o paese, pe’ ghî a sentì ’a vicino tutto ’o fatto ’e chillu vuto, ’e chella pazzaria fatta d’ ’a nnammurata, a ll’intrasatto, e pe’ cercà ’e cunvincere a lucia ca chi nu vuto ’o fa pecché e’ custretto e po’ ’a prumessa fatta nun mantene nun è pe’ fa’ né offesa né dispietto e annanze a Dio nisciuna colpa tene. Comme arrevaie a’ casa, fuie ’nfurmato ca ’a nnammurata, nzieme a na signora, era partuta e nun aveva dato cchiù na nutiza, niente, ’nfin’allora. però chella signora era ’e Milano, e certamente era turnata llà. Ma, stese buono attiento, e ghiesse chiano si propio era diciso d’ ’a cercà, pecché chella città steva nguaiata ’e peste e se diceva, ’a tutte parte, ca ’e gguardie survigliaveno ogni strata: p’ascì o trasì: premmesse, timbre, carte! 122 Ma renzo canusceva na maniglia capace d’arapì qualunqua porta: l’addore d’ ’e denare, a mmaraviglia te fa adderitta pure ’a via cchiù storta. E acussì fuie. appena ch’arrevaie a ’o posto ’e blocco, dette a nu guardiano quatto munete d’oro… e attraverzaie ’o ponte ca ’o purtava into Milano. 123 … Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl’ingombri, se non quando era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s’incontrò in un oggetto singolare di pietà, d’una pietà che invogliava l’animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo. Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione e da un languor mortale… … Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento… 124 Capitolo Xlii ato nun se vedeva ’n miez’ ’e strate ca muorte assaie purtate cu ’e ccarrette, cu ll’uocchie ’a fora, ’e ffacce strazïate; renzo, allentato ’o passo, se sentette ’e venì meno tanta ’a mpressïone; nu chianto dint’ ’e rrecchie ’o turmentava: ’a morte nun faceva destinzione e nun ce steva casa ca scanzava. Viecchie e nennille, ieva e s’ ’acchiappava, senza pietà, senza nu poco ’e core. lacreme p’ogni pizzo addò passava e p’ogni faccia ’e segne d’ ’o terrore. i’ credo abbasta ’o fatto sulamente ca mo ve conto pe’ ve fa’ capì ’e ssufferenze ’e tutta chella gente, che cosa triste, stateme a ssentì ca cchiù ’e quaccuno ha chianto e ha selluzzato tanto ’e dulore chistu cunto è chino: renzo, ca s’era quase repigliato, steva llà llà pe’ metterse ’n cammino, quanno vedette ascì ’a ’int’a na porta na mamma ca purtava dint’ ’e bbraccia ’a piccerella soia ’a poco morta: teneva ’e tratte ’e n’angiulillo ’n faccia 125 e overo comm’a n’angelo era bella; tutta pulita, tutta appriparata, pareva ca durmeva ’sta fatella cu ’a capa ’n pietto a’ mamma abbandunata. ’n pont’ ’o mussillo l’urdemo surriso ch’aveva dedicato a mmamma soia primma ’e vulà p’ ’e vvie d’ ’o paraviso. E ’a mamma le diceva: – «Gioia, gioia, quanto si’ bella cu ’sta vesta rosa e quanto si’ gentile e aggraziata. Chesta vucchella è na vïola nfosa e ’sta faccella ’a faccia ’e na pupata, addio, trezzelle bionde comm’ ’o ggrano…» – E ne chiagneva lacreme cucente ’sta mamma, accarezzanno cu na mano ’a fronte ’e gelo, delicatamente. ’nzino s’ ’a cunnuliava doce doce: – «Duorme tesoro mio, bella ’e mammà.» – E ’a nonna-nonna, chiano, sottavoce, le suspirava… pe’ nun ’a scetà… nu carro chino ’e muorte s’accustaie vicino a cchella mamma scunzulata: – «Cecilia, ammore mio, mo te ne vaie? Ah, che delore! Figlia, figlia amata. E po’ cuntinuaie: Fata sincera, suonno carnale, stella mia lucente, niente ce po’ cchiù spartere: stasera nuie restarammo nzieme eternamente! » – 126 l’urdemo vaso… lieggio… po’ chiammaie ’o prencepale ’e chillu carro, ’o dette vinte munete d’oro (le rialaie tutte ’e rricchezze soie) e le dicette: – «V’affido chistu sciore ’e criaturella, nisciuno ’a for’a vvuie l’ha dda tuccà. Stateve accorto a ’e mmane, ’a capuzzella… Chisà qua’ suonne ca se sta a ssunnà… Mo, stateme a ssentì, nun v’ ’o scurdate: stasera ca turnate pe’ sta via veniteme a piglià, ccà me truvate, io pure morta ’e chesta malatia. Sapisseve io comme ’a sto aspettanno, sarrà ’a cchiù bella gioia ’e tutte ’e ggioie, na fossa sola, ve l’arraccumanno, una sultanto abbasta a ttutte ’e ddoie! » – 127 … L’aria stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l’orrore di quelle viste La nebbia s’era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano idea di un annottar tempestuoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la sfera del sole, pallida che spargeva intorno a sé un barlume fioco e sfumato, e pioveva un calore morto e pesante… 128 Capitolo Xliii Maie c’era stata p’ ’a città ’e Milano n’aria tanta pesante, tant’amara. Maie s’era visto ’o cielo accussì strano: nun se vedeva na jurnata chiara. s’era mmiscata a l’aria malamente ’o fieto ’e tutte ’e muorte e d’ ’e malate. E ce ne steva gente sufferente: ’a coppa a vvintemila ll’appestate. preghiere e patimente, strille e chianto: attuorno attuorno chesto se senteva. Cu l’anema straziata, renzo, intanto, p’ ’o lazzaretto, muto, se ne ieva. Guardava ’a ccà, guardava ’a llà cercanno ’a nnammurata, e mentre cammenava vedette, dint’ ’o stritto ’e nu capanno, fra’ Cristoforo allerta ca pregava. povero viecchio! Quanta sufferenza aveva suppurtato zitto e muto, sempe cu’ devuzione e cu’ pacienza, e addò serveva aiuto deva aiuto. Comme vedette a renzo, che piacere sentette dint’ ’o core chillu santo: – «T’aggio purtato sempe int’ ’e penziere… – e s’ ’abbracciaie cu ll’uocchie ’nfuse ’e chianto – 129 E dimme, Renzo, cùnteme ogni cosa… E che ce faie ccà dinto, ’o posto è tristo!» – E renzo: – «Ch’esistenza ntruppecosa è stata ’a mia, ma giuro ncopp’a Cristo ca don Rodrigo, chillu delinquente, me l’ha dda pavà bona, a caro prezzo! È stato na carogna, n’ommo ’e niente, e è poco ogni ghiastemma, ogni disprezzo, l’ha dda scuntà, ma cu na morte atroce!» – allora fra’ Cristoforo ’o purtaie poco luntano ’a llà, po’, sottavoce dicette: – «Guarda! » – e renzo s’addunaie ca iettato ncopp’ ’a paglia ’e nu capanno ce steva don rodrigo, addeventato sulo ossa e pelle: – «’A Morte ’o sta zucanno! ’O mmale ca t’ha fatto, l’ha pavato!» – renzo, vedenno tanta sufferenza, tutte l’aggravie avute s’ ’e scurdaie; tutte ’e dammagge ’e chella preputenza nun ’e ppenzava cchiù, e ’o perdunaie. Cuntento, fra’ Cristoforo, ’e st’aziona le suspiraie: – «’O ssaie, Lucia sta ccà, ma, nun te mpressiunà, pecché sta bona, e mo te dico addò ’a può ghî a truvà.» – 130 …– Lucia! v’ho trovata; vi trovo! siete proprio voi! siete viva! esclamò Renzo, avanzandosi, tutto tremante. – Oh, Signore benedetto! – replicò ancor più tremante, Lucia: – Voi? che cosa è questa! in che maniera? Perché? La peste! – – L’ho avuta. E voi…? – Ah!… Anch’io… … Il Signore m’ha voluto lasciare ancora quaggiù. Ah, Renzo! perché siete voi qui? – – Perché? – disse Renzo avvicinandosele sempre più: – mi domandate perché? Chi ho io a cui pensi? Non mi chiamo più Renzo, io? Non siete più Lucia, voi? – – Ah cosa dite! cosa dite! Ma non v’ha fatto scrivere mia madre?…– – Sì: pur troppo m’ha fatto scrivere. Belle cose da far scrivere a un povero disgraziato, tribolato, ramingo, a un giovine che, dispetti almeno, non ve n’aveva mai fatti! –… 131 Capitolo XliV lucia asceva ’a dint’a na chiesiella nzieme a na folla ’e gente, ’n prucessione; canzone ’e gloria a Dio, ’sta figliulella cantava cu’ sincera devuzione. Cchiù bella ’e prima a renzo le parette… ncantato s’ ’a guardava… frasturnato… s’avvicinaie tremmanno e le dicette: – «Doppo ca tutta ’a vita io t’aggio dato, doppo ca m’he’ vuluto tantu bene, cu nu biglietto m’he’ mannato a ddì ca cchiù nun siente palpità sti vvene e dint’ a nu cunvento vuò trasì! Scuordete ’e me – screviste - Renzo caro, io nun me pozzo cchiù spusà cu tico; ce sparte nu destino troppo amaro, pe’ mme sarraie sultanto “un caro amico”! Fata d ’e suonne mieie, gentile e cara, st’anema pe’ tte campa ’a quann’è nata, stu core abbrucia comme a na carcara e nun s’arrenne mo ca t’ha truvata. E si quaccuno me dicesse: siente, si tu lasse a Lucia te do mmo mmo nu regno tutto d’oro, ’o cchiù putente, io rispunnesse subbeto: gnernò, 132 Lucia vogl’i’! sultanto chill’ammore! E ’o munno sano sano ha dda sentì quanto te voglio bene e che valore a ’sta faccella, a ’e vase tuoie dongh’ì! Si tu mantiene ’o vuto fatto a Dio, è meglio ca me vaco a ghiettà a mare! Ma si me pienze comme te penz’io e dint’a ll’uocchie ancora tiene care tutte ’e ricorde e ’e suonne d’ ’o ppassato, viene a ssanà chest’anema malata, damme nu vaso ancora, appassiunato, torna addu me cchiù doce e annammurata.» – 133 …– Uomo senza cuore! – rispose Lucia, voltandosi, e rattenendo a stento le lacrime: – quando m’aveste fatto dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di me: si vede che non eravamo destinati! Ci rivedremo lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo. Andate…– 134 Capitolo XlV pure sapenno, ’a povera lucia, ca maie se sarria scurdata ’e renzo, le rispunnette: – «’Sta prumesa mia io l’aggia mantené, pure si penzo ch’aggia suffrì na vita sana sana. Mo songo na figliola rassignata, Lucia ’e na vota mo sta assaie luntana, fa’ cunto comme maie i’ fosse nata!» – Ma nun se rassignaie ’o nnamurato pecché liggette, int’a chill’uocchie nire, ’o stesso desiderio d’ ’o ppassato, ’e stesse smanie e ’o ddoce d’ ’e suspire… E ’nzè penzaie: – «Pe’ sistimà ’sta cosa ccà sulo fra’ Cristoforo ce vò, isso sultanto ce po’ fa’ quaccosa, e a mme nun me pò dicere ca no!» – 135 …– Allora…! Allora…! Io chiedo; – disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore… 136 Capitolo XlVi Vuie già sapite, mo, ca stu priore era stato ommo ’e vita p’ ’o ppassato, n’aveva fatte e viste ’e ogni culore primma ch’avesse tutto abbandunato. E comme renzo ’a nova le cuntaie d’ ’a prumessa ’e lucia, ’e chillu vuto, subbeto fra’ Cristoforo penzaie che se puteva fa’ pe’ darle aiuto. E ghiette addu lucia: – «Figlia mia cara, ’o vuto ca tu he’ fatto int’ ’o spavento, dint’ ’a paura ’e chella notte amara, tu nun l’he’ fatto a Dio, l’he’ fatt’ ’o viento, e proprio a niente vale, proprio a niente! Miettece, po’, ca ’a forza ’e rispettarlo fort’è si ’a tenarraie… pirciò… me siente? Lievete ’a dint’ ’o core chistu tarlo e nun ne fa’ prublema ’e pentimente o ’e tuorto verzo Cristo e verzo ’a Chiesa, nun è n’aggravio fatto a ’e Sacramente, crideme – e t’ ’o ddich’io – nun è n’offesa! ’Ammore è n’uosso tuosto, è malandrino, è tale e quale a ’o pappece: spertosa; po’ tene n’arta doce, è fino fino, e nun abbasta ca si’ puntigliosa, 137 c’ ’o tiempo te fa perdere ’a raggione e nun ce sta nu freno ca ’o mantene. Rispunne, come stisse ’n cunfessione: overo a Renzo nun ’o vuò cchiù bene?» – – «Cchiù ’e primma! – cu na voce appassiunata lucia a cchesta dumanda rispunnette – cchiù ’e primma ’e Renzo songo annammurata! » – Da ’o vuto fra’ Cristoforo ’a sciugliette. 138 … Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla. Se Dio vi concede figliuoli, abbiate in mira d’allevarli per Lui, di istillar loro l’amor di Lui e di tutti gli uomini; e allora li guiderete bene in tutto il resto… 139 Conclusione fuie tanta ’a gioia ’e chilli nnammurate, ca i’ p’ ‘a scrivere avarria truvà ’a penna d’oro e l’armunie d’ ’e ffate, sulo accussì v’ ’a putarria cuntà. pe’ renzo e pe’ lucia, mo, finalmente, doppo ’o dulore ’e tanto sbattaglià doppo angarìe, lacreme e turmiente, nu suonno addeventava verità. E ’o pat’Eterno fuie cuntento assaie, e pe’ benedizione, a vvuluntà, acqua a zzeffunno ’a cielo sbacantaie… e ’a peste scumparette d’ ’a città. ’o bene vence prepuntenza e inganne: ’o zuco ’e tutta ’a storia è chistu ccà, na storia addò ’e fanateche e ’e tiranne pavano tutte quante ’e ’nfamità, pavano amaramente ’o mmale e ’e tuorte fatto sulo p’ ’o sfizio ’e cumannà. na vita ’e preputenze… mo so’ muorte… muorte senza cunforto né pietà! Muorte c’hanno campato sulamente pe’ da’ afflezione e fa’ marvaggità… e niente ’e buono hanno lassato, niente, sulo munnezza attuorno, ’a ccà e ’a llà, 140 senza capì ca sulo chi vo’ bene resta int’ ’e core e nun se fa scurdà, ma ’o nfamo no, speranze nun ne tene, …e ’a gente passa, ’o scanza… e se ne va! 141 … Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta. 142 Bibliografia della critica E.a. Mario, «piedigrotta 1960», ed. E.a. Mario. Giovanni De Caro, prefazione a L’Amico, 1960. piero Girace, rai, 2° programma, 17 febbraio1961. ottavio nicolardi, prefazione a ’A mamma d’ ’o surdato, 1961. rai, 2° programma, 6 febbraio1962. Marco ramperti, prefazione a Vint’anne, 1961. pitigrilli, «la tribuna illustrata», 22 luglio 1962. Umberto Galeota, prefazione a Notte ’e settembre, 1964. franco scozio, «il risorgimento nocerino», 4 dicembre 1964. renato Benedetto, «il rievocatore», gennaio 1965. «il travaso», 20 marzo 1965; tonysal, «napolinotte», 17 aprile 1965. rai-tV, 1° Canale, trasmissione televisiva Mare contro mare, 15 agosto 1965. a. fiorentino, «Corriere di napoli», 2 settembre 1966. Ettore De Mura, prefazione ad Aria nova, 1966. Claudio Valentini, «il secolo d’italia», 4 gennaio 67. «la fiera letteraria», 5 gennaio 1967. «l’Unità», 11 gennaio 1967. 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Mario. si tratta di un vero poeta. la sua rettitudine si sposa egregiamente con la sua ispirazione. sull’una e sull’altra, brilla un lume di dolce malinconia, però serenamente consolata, come la bruma del mattino che vela, senza pur offuscarla, la luce del suo golfo. ne deriva lo splendore incerto, e pure così attraente di versi come quelli del Tramonto, di Notte ’e settembre, di Vint’anne. Ma in Palomma il canto torna libero, lieve e felice qual è il volo della farfalla descritta. (Marco ramperti, Prefazione a Vint’anne, 1961). il linguaggio poetico di pisani è quanto di più suadente, lieve e musicale ci porga la tradizione. Meraviglia la maturità dialettica del giovane, e meraviglia l’equilibrio espressivo suo. (paolo perrone, «la Voce di napoli», 8 febbraio 1965). poesie di limpida ispirazione, sempre interessanti. Una voce nuova che fa tanto bene ascoltare tra lo schiamazzo di troppi versificatori. (Ettore De Mura, «ribalta artistica», 1966). Ciò che di nuovo, di veramente nuovo, ci sembra di cogliere nelle poesie di raffaele pisani è la sorprendente capacità dell’autore di tradurre in versi, in lirica, in poesia sentimenti e stati d’animo profondamente vivi, attuali, «moderni» nel senso più vero della parola, universali in quanto riscatto della privata vicenda del compositore nella più generale condizione dell’uomo di oggi nel mondo di oggi. (andrea Geremicca, «la voce di napoli», 20 maggio 1967). la particolarità di raffaele pisani è che riesce sempre a dire ciò che gli canta nel cuore senza tuttavia andare in prestito da nessuno per idee, sentimenti e modo di esprimersi. la sua vena è genuina, il suo stile è facile ma mai banale, il verso musicalissimo, i metri spesse volte quasi preziosi. poesia vera, dunque, la sua e sorretta sempre da una esemplare sincerità d’ispirazione oltre che da una esuberante ma sorvegliata sensibilità espressiva. Con i tempi che corrono sono, queste, qualità non da poco e su di esse si può fare pieno affidamento. (Giovanni sarno, «Un secolo d’oro», Ed. Bideri, 1968). 151 È una voce possente contro l’indifferenza del mondo il lavoro di pisani attraverso poesia scorrevole e semplice eppure rigoristica. (Guido della Martora, «roma sera», 2 maggio 1973). l’interpretazione in poesia napoletana dei «promessi sposi» è ricca di pregi, e la prova da lui affrontata è superata brillantemente, sia per la fluidità del verso, che con costante naturalezza (quella naturalezza di così difficile realizzazione) esprime con nitida essenzialità gli stati d’animo e le reazioni psicologiche dei personaggi delle diverse categorie sociali, di cui è folto il romanzo, di fronte alle più diverse situazioni; sia per il palpito di schietta umanità che tutta la pervade; sia per il tono di liricità, che nei momenti culminanti arricchisce il racconto. (sebastiano Di Massa, Prefazione a I Promessi Sposi in poesia napoletana, 1974). pisani è tra i pochi a coltivare ancora la poesia dialettale napoletana; e vi si applica con amore umile e appassionato e con risultati spesso felici. le intenzioni del giovane poeta riescono quasi sempre a venir fuori, con una loro accattivante e disarmante freschezza. (Michele prisco, «il Mattino», 15 gennaio 1975). amore e poesia fanno tutt’uno; il bel sole del golfo e la chiara luna di posillipo hanno la loro parte, ma la loro parte l’hanno, soprattutto, la freschezza e la perfetta arte del verso. raro poeta, il pisani, in questi nostri giorni che hanno dimenticato i temi popolari ed esigono forme di poesia cerebrale, per trascinarla nei contrasti civili, cruda e aspra e povera di armonia e di canto. (Carlo ravasio, «la notte», Milano, 5 maggio 1976). raffaele pisani è un poeta che spesso merita l’aggettivo «delicato»: però ha il merito di sapere che napoli è un giardino dove tra i molti fiori si nascondono spine. E lui, fra fiori e spine, non ha paura di pungersi. (Giuseppe Di Bianco, «roma», 2 febbraio 1977). raffaele pisani, valido combattente per la rinascita della poesia napoletana. (settimia Cicinnati, «roma», 24 marzo 1978). Con raffaele pisani la poesia napoletana smette marsine logore, abbandona gli antri bui e piagnucolosi di Boheme in piazza, si fa istrione, sale sugli autobus della metropoli, si avvinghia ai muri di cemento macchiati dai segni di cuori solitari, di repressi politici e repressi comuni. Chi ha il coraggio di scrivere: «Dio aveva criato napule tale e quale a ’o paraviso: l’avimmo nchiavecata e ognuno ’e nuie ce ha miso ’o ssuio»? 152 Chi ha l’ardire di scrivere e per giunta su un muro di cemento: «nun aspettammo ca ce scenne sempe tutto ’a cielo… Mparammoce ca malasciorta e bonasciorta c’ ’e ffacimmo cu ’e mmane noste». E lui, raffaele pisani, che a dieci anni leggeva Viviani, a 15 conobbe E.a. Mario, a 19 pubblicò il suo primo libro, a 40 predilige i muri per dipingere poesia. (luciano Giannini, «paese sera», 10 ottobre 1980). raffaele pisani, napoletano e poeta, e per questo doppiamente genuino. (Mattias Mainiero, «il Giornale d’italia», 16 luglio 1981). raffaele pisani, poeta di napoli che da più di vent’anni si dedica con accanita passione alla «riabilitazione letteraria» del dialetto partenopeo. (pietro treccagnoli, «il Mattino», 30 luglio 1983). raffaele pisani tra i più fervidi e fecondi poeti della nuova generazione, d’ispirazione schietta… sempre spontaneo e appassionato. (Giovanni artieri, «napoli scontraffatta», a. Mondadori, 1984). Coscienza critica, adulta sensibilità, questo testimoniano i versi di pisani. (pasquale Maffeo, «il Campano», 15 marzo 1986). il pisani è la migliore dimostrazione che si può fare poesia, e vera poesia, su napoli. (Vincenzo fuso, «ribalta», 1986). pisani, un poeta napoletano contemporaneo che da anni si stacca dalla pletora degli improvvisatori per serietà di studi. (Gianni infusino, «il Mattino», 19 gennaio 1988). pisani si muove su una linea di estrema sincerità espressiva, in una tessitura linguistica raggiungibile e fruibile da ogni lettore. (aldo onorati, «il Domani», 30 maggio 1989). il poeta visivo pisani si esalta nella immediatezza dei sentimenti semplici e mostra, in più casi, di essere riuscito a conseguire una felice osmosi tra parola scritta ed elaborazione grafica. (Gino Grassi, «Giornale di napoli», 9 dicembre 1989). i sentimenti di pisani sono scoperti, finanche spudorati, senza ritegno. E pudore e ritegno sono stati da sempre le sue caratteristiche che pure non gli hanno impedito di lanciare invettive (ricordiamone una per tutte: «Vestimmoce ’e serietà»). (Mario forgione, «napoli oggi», 30 maggio 1991). 153 l’ispirazione e i germi dei buoni sentimenti, di cui ogni lirica di raffaele pisani è pregnante, contagiano anche chi è distratto o chi non ha una frequentazione assidua con la poesia. (nello pappalardo, «Giornale di sicilia», 21 dicembre 1991). pisani è un poeta verace, serio, coerente e comunicativo al massimo. (ines lupone, incontro culturale, settembre 1992). pisani, pioniere e maestro del «Graffiti metropolitani», vincitore di premi nazionali per intensità e qualità della produzione, servendosi del dialetto napoletano (in realtà acquisito a linguaggio universale) come mezzo anche di comunicazione immediata, ha proseguito in quell’attività nella quale crede come in una missione, così come da sempre fa professione d’amore e di speranza per una napoli che egli mai dimentica. (Enzo perez, «il Mattino», 31 ottobre 1992). pisani si è sempre distinto per il suo convinto impegno in favore di napoli e della sua cultura. per stimolare i suoi concittadini, li ha punzecchiati, persino offesi: «non dovete essere lampadine fulminate», «Vestitevi di serietà!». (Vincenzo fasciglione, «ribalta», ottobre 1992). pisani si distingue per schiettezza di ispirazione e per impegno civile cogliendo riconoscimenti critici di rilievo ed entrando anche nelle antologie scolastiche. il suo canto corrisponde perfettamente a quell’ansia di rinnovamento e di ricostruzione che oggi viviamo. il poeta torna ad essere quello che era una volta l’interprete della coscienza del popolo, lo sprona per fare prevalere i valori positivi, per «riaccendere» quelle «lampadine» che ancora spesso sono spente. (sergio sciacca, «Espresso sera», 8 maggio 1993). raffaele pisani è oggi una delle voci più limpide della tradizione dialettale napoletana. (salvatore Di Marco, «Giornale di poesia siciliana», maggio 1993). pisani rappresenta l’autentica e schietta voce di napoli, e con i suoi versi semplici ed efficaci spinge quella città a ribellarsi contro l’ingiustizia ed il degrado morale. (Maurizio Giordano, «Giornale di sicilia», 17 luglio 1993). la poesia di pisani, con solennità, parla alle «lampadine fulminate», agli uomini della sua terra che egli avrebbe voluto più fattivi, più coscienti, costruttivi, fuoco vivo, acqua sorgiva, stelle lucenti d’esempio di vita. il 154 dolore dell’uomo di fronte al proliferare delle lampadine fulminate si stempera nella natura che ancora fa bella napoli. il poeta parla di sé, parla d’amore, poi, torna severo, accusa, mette a nudo piaghe antiche e recenti per gridare forte: «frate mieie napulitane, / v’avarria vuluto stelle, / comme ’e stelle ’e cchiù allummate, / tutte luce d’oro e no / lampadine fulminate! Ecco il monito della poesia di pisani: si vesta di serietà la città che si è fatta punto di riferimento del degrado. (angelo Calabrese, «il Domani», napoli, 5 luglio 1994). Una vita dedicata alla poesia dialettale, erede del bagaglio culturale e della tradizione vernacolare napoletana di E.a. Mario, ed ecco presentato raffaele pisani, con una sintesi estrema imposta dallo spazio ma non da ciò che realmente si potrebbe dire di questo napoletano illustre, in modo semplice e schivo, che ai versi ha davvero dedicato la vita. Con amore, perché la poesia è amore, malinconia perché la poesia è malinconia e una fervidissima immaginazione, perché la poesia è anche questo. fantasia che viene in soccorso della realtà a spiegare i sentimenti attraverso le immagini lì dove anche la parola ha bisogno di un supporto visivo per dare maggiore vigore al suo significato. pisani non è nuovo a questo gioco avendo già dato vita nel 1989 a «poesigrafie», in cui segno grafico e verso venivano uniti in un tutt’uno perfetto e armonioso dove poesia e immagine che la raffigura e richiama si riflettono l’una nell’altra dandosi sempre maggiore vigore per elevarsi nel loro più alto significato. avviene così anche per «stelletelle», la più recente raccolta di versi di pisani, circa 130 poesie, delle quali ventitré entrano a far parte di questa singolare esposizione grafica. (Costanza falanga, dalla presentazione di «ritagli da stEllEtEllE», Galleria d’arte «il Diagramma 32», napoli, 29 ottobre 1994). Ebbene, lo confesso, mi è piaciuta davvero questa poesia (’o sole) di raffaele pisani. tutto concorre a farla bella: gli elementi cromatici forti, vividi, che l’autore getta sulla carta a pennellate energiche e precise. il poeta ricrea la vita, come il suo adorabile «guagliunciello» sul quaderno di scuola. Grazie raffaele. anche se spesso, per il mondo editoriale, dialettale vuol dire marginale, la tua poesia non lo è. (ippolita avalli, «pratica», novembre 1994). pisani si fa voce e interprete del popolo napoletano condannando lo stato dei fatti e delle cose in cui versa la città; egli implora il suo prossimo (dello stesso retaggio di sangue) perché insorga ideologicamente contro le 155 ingiustizie messe in atto da persone senza scrupoli e perciò chiede, anzi rivendica un riscatto perché napoli si ritrovi ancora in una condizione il cui privilegio le spetta per diritto e per censo. (Enzo Manzoni, «ii Giornale di napoli», 19 gennaio 1997). raffaele pisani è una voce importante della poesia napoletana contemporanea. (salvatore palomba, napoli, parole e poesie, napoli, liguori, 1998). pisani scrive poesie capaci di generare nel lettore grandi emozioni e intense vibrazioni armoniche. i suoi versi si tingono di una napoletanità dalle tinte forti, dalla sinfonia dolce che chiunque, napoletano e non, può sentire facendosi trasportare da note sincere e ispirate. (Daria raiti, «la sicilia», 23 maggio 2000). nell’arco di un quarantennio la selezione dei temi ha reso originale e inconfondibile la poesia di raffaele pisani nel panorama della recente poesia dialettale. tre sono i nuclei tematici prevalenti: la ricerca religiosa, l’impegno sociale e civile, l’amore. Queste diverse direzioni tematiche sono tenute insieme da una intrinseca qualità delle poesie di pisani o, per meglio, da una disposizione mentale e caratteriale del poeta, che si configura in effetti come una precisa scelta di poetica. pisani infatti non è un poeta concentrato su se stesso, non limita a se stesso il proprio orizzonte d’osservazione, ma è sempre proiettato verso l’altro. nelle poesie d’amore al centro dell’attenzione non è il proprio sentimento, ma è la donna con la quale l’amore si realizza. lo si vede molto bene nelle poesie che fanno da sottofondo a un saldo e delicato sentimento che lega l’autore a francesca. […] la propensione verso l’esterno, verso gli altri, della poesia di pisani è ancora più evidente nei tanti versi dedicati a napoli, città amata – questa volta con sofferenza – e continuamente presente nelle diverse raccolte. Come l’amore, anche napoli è un argomento che ritorna spesso nella poesia in dialetto, ma anche in questo caso l’angolazione scelta da pisani si allontana dalla prospettiva più prevedibile. […] se la visione dei problemi non conduce mai il poeta al cupo pessimismo o alla desolazione è anche perché i versi di pisani sono animati e sorretti da una fede profonda che impedisce all’autore di perdere fiducia nell’uomo. anche in questo senso la sua poesia è aperta all’esterno: le intense e delicate preghiere di Llà, cu ’a speranza (1988) nascono da un dialogo con il signore che raggiunge momenti di una freschezza quasi francescana. […] 156 in particolare per questo suo impegno cristiano la poesia di pisani acquista una sua collocazione originale nella poesia italiana contemporanea; ma, d’altra parte, nel suo insieme essa merita di essere letta con attenzione e considerata non solo in rapporto alla poesia napoletana, ma nel quadro ricco e movimentato di tutta la poesia in dialetto dell’ultimo cinquantennio. (nicola De Blasi, dalla Prefazione a Pisani, un poeta per compagno di francesca Musumeci, C.U.E.C.M., Catania, 2005). raffaele pisani è un napoletano doc, un gentiluomo autentico, di quelli che napoli non sforna più. Dalla figura fine, signorile, elegante. Dalla parlata accattivante. pisani pensa e scrive in dialetto. più che un poeta di salotto, pisani è un poeta di strada, poeta dell’amore… ma la sua poesia si fa ardita, cambia registro, quando in opposizione alle moderne correnti e alla noia del quotidiano, confeziona versi fulminanti per una napoli che non piace, che non va. (Umberto franzese, «albatros», napoli, maggio 2006). la produzione poetica di raffaele pisani è di una vastità sorprendente: oltre ai volumi di versi propri egli ha arricchito di esperienze singolari la letteratura di napoli. Geniale, infatti, fu la sua idea di realizzare sulle pareti della collina di posillipo Un muro di poesie. Questa ci pare un’iniziativa che andrebbe sostenuta e sviluppata. […] la tecnica del verso di pisani respira i tempi nuovi e segue nel canto fatto di perizia ed intelligenza una vena genuina e personale vibrante di musica e di armonie. (Ettore Capuano, «letteratura a napoli», Graus/editore, 2007). nel panorama della poesia dialettale napoletana pisani ricopre un posto di primo piano e tutti dobbiamo essere grati al poeta per quanto fa da oltre un cinquantennio per tenere vivo un dialetto che da molti, a giusto motivo, viene considerato una vera e propria lingua. (nicola squitieri, «avanti», 30 luglio 2009). «Mettiteve scuorno», sfogo sacrosanto di un poeta ferito nell’animo dal degrado della sua terra dove affaristi e speculatori agiscono indisturbati nel più assoluto disprezzo delle leggi. Questa volta il poeta mette da parte la sua tradizionale vena idilliaca, il suo linguaggio aulico per tuonare con decisione contro i «nuovi barbari». (santo privitera, «la sicilia», 3 agosto 2009). «Mettiteve scuomo» è un grido di dolore che dà voce all’indignazione di tutti i napoletani, un’intensa invocazione di giustizia, una richiesta di 157 aiuto a Dio, che non si ferma di fronte a tutto il marcio che ha fatto scempio di una terra meravigliosa. Un’intera vita, quella di pisani, dedicata alla poesia di napoli. (alfredo tommaselli, «roma», 7 agosto 2009). raffaele pisani da anni con le sue poesie canta il suo amore per la città, portando avanti la sua resistenza contro le ingiustizie sociali. Mettiteve scuomo esprime la volontà di risvegliare le coscienze dall’indifferenza rispetto ai problemi che affliggono la città. il poeta lancia invettive e invita i napoletani ad assumersi le proprie responsabilità e a ribellarsi a tanto degrado. (Elda oreto, «la repubblica», 29 agosto 2009). raffaele pisani vive quotidianamente di pane e napoli. Un poeta di cui si vengono riconoscendo nei nostri giorni qualità e aspetti finora non rilevati. autore di esperimenti letterari di non piccolo impegno. Cantore musicale e tenero della bellezza di napoli, ma anche pronto, con energici scatti di passione ed efficace espressione, a buttar via come zavorra tanti luoghi comuni su questa città, nella prospettiva di un suo riscatto. (Ugo piscopo, «Corriere del Mezzogiorno», 1 novembre 2009). la poesia di pisani ci invita ad una presa di coscienza per farci riflettere su ciò che abbiamo combinato e darci un appiglio cui aggrapparci per uscire dalla lota in cui ci siamo pericolosamente immersi. (luigi antonio Gambuti, «dodici pagine», afragola, 5 dicembre 2009). raffaele pisani, una vita tutta dedicata alla poesia napoletana per un solo sogno: vedere napoli riconquistare il ruolo di città di arte, cultura e bellezza, il ruolo di «capitale d’Europa» amata e rispettata in tutto il mondo. («Quotidiano di sicilia», 17 dicembre 2009). Questo libretto di pisani (Mettiteve scuorno) bisognerebbe farlo studiare a scuola, bisognerebbe recitarne qualche brano nelle assise nazionali dove si radunano gli egregi che si sentono eterni ma che – è una legge di natura – finiranno pure loro. (sergio sciacca, «la sicilia», 15 agosto 2009). Metti una sera a cena tra poesia e buffet condominiale. non è una boutade o una chimera, ma l’originale formula conviviale ideata e messa in pratica in queste serate estive da raffaele pisani, napoletano verace e amante della poesia, ormai catanese d’adozione. pisani ha infatti deciso di sperimentare questa pratica di possibile armonia condominiale in un palazzotto di via plebiscito, a ridosso di san Domenico, a Catania. Ha fatto 158 circolare inviti ai condomini, a qualche parente e amico et voilà: ecco servita una sorprendente serata nel cortile condominiale a base di recital letterari e pietanze cucinate in casa da ciascuno dei convitati. E tra versi della Centona di Martoglio, poesie d’autore e sceneggiature teatrali fatte in casa e recitate dall’intera famiglia, in un groviglio di dialetti tra il siciliano, il pugliese e il napoletano, un intero condominio ha scoperto il piacere di trascorrere un momento di spensieratezza tra cultura e gastronomia (e anche qui c’è da fare le lodi ai presenti!). (Gianluca reale, «Vivere - la sicilia» 2 settembre 2010). leggendo i versi di pisani si scopre la musicalità del napoletano, la duttile freschezza riscontrata con Di Giacomo di cui si sente allievo, benché fra i temi si scoprano interpretazioni personali di altri versanti letterari e pure rifacimenti biblici con richiami alla religione, agli affetti familiari e all’amore che pongono il poeta napoletano fra i più apprezzati. (pasquale almirante, «la sicilia», 18 dicembre 2010). Ci sono da operare due preliminari considerazioni per comprendere e giustificare il coraggio di quelli che come quest’abile cantore di napoli, “fanno” poesia. la prima cosa da dire, è che la capacità di vincere le resistenze poste da un’idea malintesa di modernità (purtroppo tragicamente e nervosamente trionfante) è oramai una cosa rara, quindi solo l’amore vero e la passione sfrenata verso la poesia, possono affrontare il silenzio che spesso circonda le parole dei poeti e trarre nonostante ciò, la forza necessaria per continuare a percorrere la strada povera ed in salita della poesia nell’epoca attuale. la seconda cosa da dire, è che sembra impresa donchisciottesca, “fare”, in questo spazio ed in questo tempo, non solo poesia, ma poesia in dialetto. poesia in dialetto, in un mondo che nell’inseguire la globalizzazione, sembra quasi voler perdere le differenze, che spesso sono le caratteristiche ontologiche del sentire di un popolo, soprattutto, quando si tratta di quelle linguistiche, per arrivare ad un lingua unica ed universale e senza dubbio più povera. (fabrizio Grasso, «i Vespri», Catania, 31 dicembre 2010). Questa città, si racconta nel componimento che apre «CoMME nasCEttE napUlE» (Ed. C.U.E.C.M. Catania, 2011), è stata creata per essere donata a Maria, indice di grandezza e “nu paese accussì bello / c’ha dda essere p’’a gente / un autentico giuiello!”, un pezzo di paradiso scelto da Dio per essere portato sulla terra. Un frammento perfetto di un mondo immacolato portato qui, nel nostro mondo, una responsabilità data a chi ancora non riesce a conservare la bellezza di questa città; i napoletani ven- 159 gono ritratti come “lampadine fulminate” di questo cielo blu perché rimangono immobili davanti ai cambiamenti di questa città eterna che piano piano sta cadendo. pisani, inoltre, dedica a tutti gli innamorati e al suo amore uno spazio di poesie d’amore come “l’albero tuio” dove si concede un po’ d’ombra e di riposo al proprio amante e scene di vita quotidiana insieme come in “nnanz’ ’o ffuoco”. Un poeta e uno scrittore sincero che attraverso l’accostamento di parole e versi si fa voce dei pensieri altrui; di un uomo che vuole spogliarsi del completo grigio da ufficio e tornare nella sua terra di colori, di sole e di amore. Evadere da un mondo triste, innamorarsi, avere fede e combattere, questi sono gli elementi che fanno della poesia di pisani un’opera nuova, semplice, diretta. (naomi Mangiapia, «roMa», 1 novembre 2011). figura amabile da signore di altri tempi, raffaele pisani, nato nel 1940, è autore di una trentina di raccolte di poesie in dialetto napoletano. pubblica adesso franCE’, con la C.U.E.C.M. Editrice Catanese di Magistero, storica e benemerita casa editrice nata dall’intelligenza di un altro gentiluomo, nicola torre, troppo precocemente scomparso. l’amore non soltanto giustifica la vita, ma la origina, la attraversa, la illumina, la redime, è questo il filo discorsivo sotteso al libro. Un amore che è comune a luoghi anche distanti, apparentemente diversissimi. “l’amore si fa insomma esperienza totale, attraverso cui viene filtrato ogni altro aspetto della realtà, e diviene condizione esistenziale che dispone a un amore più grande” annota nicola De Blasi nella prefazione. pisani è un poeta fondamentalmente lirico, che nei suoi versi raccoglie e traspone emozioni, colori dell’anima, che esprime un sentire complesso, ma tutto sommato positivo, della realtà e del nostro destino. (renato pennisi, «osservatorio della poesia in dialetto», scordia, Ct, 2011). 160 inDiCE prefazione (di Maria Zaniboni) . . . . . . . . . . . 5 Capitolo i Don abbondio . . . . . . . . . . . . 12 . . . . . . . . . . . . 16 Capitolo iii renzo va a’ casa ’e don abbondio . . . . . . . . . . 18 Capitolo iV renzo torna addu lucia . . . . . . . . . . . 23 Capitolo V renzo va addu azzecca-mbruoglie . . . . . . . . . . 26 Capitolo Vi fra’ Galdino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 Capitolo Vii fra’ Cristoforo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 Capitolo Viii ’a vita ’e fra’ Cristoforo . . . . . . . . . . . . . . 34 Capitolo iX fra’ Cristoforo va addu don rodrigo . . . . . . . . . 37 Capitolo X fra’ Cristoforo e don rodrigo . . . . . . . . . . . . 40 Capitolo Xi ’o Griso. . . . . . . . . . . . . . . 43 . . . . . . Capitolo ii ’o suonno ’e don abbondio . . . . . . . . . 161 Capitolo Xii agnese penza ’e fa’ scemo a don abbondio . . . . . . . 45 Capitolo Xiii agnese parla cu renzo . . . . . . . . . . . . 47 Capitolo XiV renzo trova ’e duie testimmone . . . . . . . . . . . 49 Capitolo XV ’o Griso va a’ casa ’e lucia . . . . . . . . . . . 51 Capitolo XVi ’o matremmonio a ssurpresa . . . . . . . . . . . 53 Capitolo XVii Menicuccio, ’o nepote d’agnese . . . . . . . . . . . 58 Capitolo XViii lucia, agnese e renzo lassano ’o paese . . . . . . . . 61 Capitolo XiX lucia, agnese e renzo se sparteno . . . . . . . . . . 65 Capitolo XX ’a monaca ’e Monza . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 Capitolo XXi Don rodrigo denunzia a renzo . . . . . . . . . . . 70 Capitolo XXii l’arresto ’e renzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 Capitolo XXiii renzo vene liberato . . . . . . . . . . . . . . . . 74 Capitolo XXiV renzo arriva a Bergamo . . . . . . . . . . . . . . 78 162 Capitolo XXV Don rodrigo va a parlà c’ ’o zio . . . . . . . 80 Capitolo XXVi ’o zio ’e don rodrigo e ’o patre provinciale . . . . . . 83 Capitolo XXVii Don rodrigo e l’innominato . . . . . . . . . . . . . . 86 Capitolo XXViii Egidio fa ascì a lucia d’ ’o cunvento . . . . . . . . . 89 Capitolo XXiX lucia arriva addu l’innominato . . . . . . . . . . . 92 Capitolo XXX ’o pentimento ’e l’innominato . . . . . . . . . . . 96 . . Capitolo XXXi ’o cardinale Borromeo manna a chiammà a don abbondio 99 Capitolo XXXii l’innominato libera a lucia . . . . . . . . . . . 101 . . . . . . . . . . . 103 Capitolo XXXiV l’innominato regala ciento munete d’oro a lucia . . . . 106 Capitolo XXXV lucia mantene ’o vuto . Capitolo XXXiii Don rodrigo giura ’e se vendicà . . . . . . . . . . . . . 109 Capitolo XXXVi renzo manna nutizie a lucia . . . . . . . . . . . . 111 Capitolo XXXVii agnese fa scrivere a renzo. . . . . . . . . . . . . 113 . . . 163 Capitolo XXXViii ’a carestia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116 Capitolo XXXiX renzo se nfetta ’e peste . . . . . . . . . . . . . . . 118 Capitolo Xl Don rodrigo se nfetta ’e peste . . . . . . . . . . . . 120 Capitolo Xli renzo torna a ’o paese . . . . . . . . . . . . . . . 122 Capitolo Xlii Cecilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 Capitolo Xliii renzo trova a fra’ Cristoforo . . . . . . . . . . . . 129 Capitolo XliV renzo trova a lucia . . . . . . . . . . . . . . . . 132 Capitolo XlV lucia e renzo . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Capitolo XlVi fra’ Cristoforo scioglie ’o vuto a lucia . . . . . . . . 137 Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 140 Bibliografia della critica. . . . . . . . . . . . . . . 143 note critiche . . . . . . . . . . . . . . . 151 . . . . . . . . 164