Umberto VICARETTI - Associazione La Guglia

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Umberto VICARETTI - Associazione La Guglia
UMBERTO VICARETTI
Luco dei Marsi (L’Aquila)
2° Classificato
Non chiedermi prodigi
versi da un testamento
Vedi, mia cara,
il giorno è stato un lampo
abbacinante, luce incorruttibile
(sospese ed esitanti le clessidre,
immemori e incolmabili di baci).
Ma ora tu non chiedermi se l’Orsa
inventa nuove rotte, né se la luna
cova furiosi incendi o fatui fuochi.
Non chiedermi prodigi:
ho mani arrese alla dimenticanza,
i fiumi disseccati nelle vene.
Cerco parole a sciogliere grovigli,
versi incrostati e raggrumati sogni,
ma vuota è la faretra e il foglio è sabbia,
disabitato alveare.
Il mondo ha dissipato fiori e voli,
sepolto l’innocenza ed il perdono
(stremato e affranto smuore il girasole).
Ora contiamo i giorni come i grani
consunti d’un rosario.
Siamo istanti di tempo atomizzato,
cara, precipitata e franta luce,
un labirinto d’irrisolti abbracci,
sfiorite le promesse
lasciate ad ossidare, come a ottobre
le foglie a questo vento.
Eppure accenderemo un tempo nuovo
con le albe seminate ai nostri rami,
dopo che avrà smorzato, il Lampionaio,
le ultime stelle agli occhi della notte.
Canzone di Orfeo
Non temere, mia cara:
il lieve smarrimento che ci prese
non è che la vertigine del tempo,
il perso sguardo che gettiamo in fondo
al lampo azzurro della nostra vita,
a quando ignari noi ci apprestavamo
al misterioso gioco delle parti.
Ereditammo da quel giorno chiaro
promesse e voli, un balzo tra le stelle.
Cercammo il vento, ma da quella terra
più non abbiamo dissepolto il cuore,
messo a dimora come una reliquia
tra gli ori scintillanti dell’infanzia,
dentro lo scrigno, all’ombra dell’acacia.
Di lì spingemmo al largo, ciurma gaia,
nel mare sconfinato del canale,
velieri favolosi, audaci barche
salpate al vento delle nostre bocche.
Fui mozzo e capitano,
Ulisse e Palinuro;
tu eterna ammaliatrice mia sirena,
terra promessa, fiume d’erba quieta.
Porto sicuro al grido mio di nàufrago
furono i tuoi occhi,
che trepida accendesti nella notte.
Perciò ti prego, cara, non smarrirti
dentro il lampo dell’ora che si sfalda.
Torneremo ai crocicchi delle stelle,
a sfogliare ventagli di conchiglie:
tu, scampata Euridice che risali
a un nuovo giorno ed io,
rinato Orfeo,
che i passi precedo tuoi lievi e canto,
senza voltarmi canto gli occhi tuoi.
La pazienza dell’erba
ad Antonio, nel giorno
del suo nono compleanno
Come remi spossati sugli scalmi
pendono dai braccioli le sue ali.
Nelle prove di volo, anche stavolta,
è mancato al decollo il vento buono
che Icaro redime dalla terra:
stremate, esili gambe alla pedana,
le mani a mulinare vanamente
sui carrelli del “Pégaso H 3”
(carbonio ultraleggero arreso al porfido,
disanimato e ignaro opus incertum,
murato in Via dell’Araba Fenice).
Batte alle porte aprile
ed io non so come guardare Antonio.
Fingo di rovistare tasche vuote,
dove cerco parole che non trovo
per gli anni suoi, promessi
non so se al primo o all’ultimo equinozio.
Lui aspetta in silenzio e ha già imparato
la pazienza dell’erba
(dentro il cortile, intanto,
rimargina ferite anche il muretto,
col glicine fiorito questa notte).