Di Giampiero Casoni – Le Cronache di Sbornia 1 Un`oncia
Transcript
Di Giampiero Casoni – Le Cronache di Sbornia 1 Un`oncia
Di Giampiero Casoni – Le Cronache di Sbornia 1 Un’oncia di azione vale quanto una tonnellata di teoria. Friedrich Engels Veramente volevo chiamarlo “Balla coi Pupi”, già la storia di due grassi, pasciuti puponi ignoranti pieni di pasta, vino, birocci d’epoca e poderi, ma poi ho pensato: cazzo qua, almeno qua il protagonista sono io, almeno nel titolo e allora via con le cronache di Sbornia. Sbornia sono io, scrivano prima per diletto, poi per gloria, poi per necessità, lo stato umano in cui di solito vanno a puttane i sogni… o qualcuno ce li manda per te. Risiedo qui in Turingia da sempre, la guerra eterna fra scismatici luterani, ortodossi cattolici con annesse pestilenze ha bruciato tutto. Da un po’ di anni abito nei pressi di Magdeburg, enclave cattolica dove la Venerazione è particolare per una Vergine acquatica. La guerra, o meglio, le guerre infinite non hanno mai intaccato, a detta di quanti mi conoscono, due cose: la mia infinita erudizione e la sua sorellastra zoccola, una curiosità morbosa che mi ha portato a vedere il male con l’occhio dell’uomo che cammina al suo fianco, invece che con la pupilla cisposa di chi lo sguincia da lontano, compiaciuto dell’altra via imboccata. A dirla tutta non c’è sostanza, medicamento officinale o psicotropo che io non abbia consapevolmente voluto assaggiare, assaggiando di contempo quel che la vita conseguente ne offre… il che ha fatto di me un beone, ma un tal beone, ma un beone di tale caratura che se trecento anni dopo fossi capitato in una cittadella a sud dell’Alpe, Bassano sul Grappa, andandomene io, il viandante avrebbe trovato financo sul cartiglio di benvenuto la scritta. “Benvenuti a Bassano”. A dirla a ancora più tale però, da un anno paio aver trovato la mia pace interiore; non nego di aver invocato e ricevuto il nume anche grazie ad un potente medicamento che assopisce in me la libidine da bettola. Sono sposato con Frinilda, donna saggia e combattiva a cui ho disegnato più rughe io suo volto di quanti crateri non abbia cispato l’abiurante Galilei giù in Italia. Ho una capanna dignitosa ai margini del villaggio, una madre vedova ed un fratello esule in Franconia, dove combatte al seguito di un potente margravio. Non ho però più un lavoro: il clima di intolleranza, il mio passato e la mia voglia di sedentarietà dopo co12 tanto viaggiare (ho i calli dei piedi che sembrano scroti di verro) mi hanno reso consapevole di una semplice realtà: io vorrei restare qui a Magdeburg, anche perché ho orrore di cavalcare e ne ho abbastanza di pioggia in faccia in attesa del biroccio per Bar-Hach. A dirla in gran completo siamo felici ma poveri, il che presuppone che in almeno una delle due asserzioni si menta come basilischi. L’occasione, la Grande Occasione, arriva però con la chiamata di Otto Von Kakkien, potente margravio locale, signorotto pasciuto e panciuto, non immune da un certo saccentismo che mi incuriosisce, a dire il vero, più del conio che, seraficamente e con sorriso da faina, mi offre una mattina piovosa del 2 febbraio di quest’anno. “Potente duca di eserciti – gli faccio – se fra noi debba esservi patto sia giusto che Ella sappia o rimembri chi sono e chi sono stato, con i miei vizi e le mie virtù. Se Ella vorrà, sarò scrivano della sua creatura”, il cippo di una grande battaglia combattuta proprio qua contro le potenti armate di Gustavo Vasa di Svezia. Egli e il suo occhio acquosamente celeste saviamente annuiscono mentre il sussurro è chiaro: “Mi servi per scrivere del cippo, tutto qua, faremo un patto scritto ed avrai un com13 penso. Sto per scendere in campo per la selezione dei consiglieri della Lega Anseatica ed anche lì, ovviamente con maggior equidistanza, potresti adoprare il tuo calamo…”. Chiedo carta scritta che qualifichi il patto e ottocento fiorini. Poi corro a casa a dare la buona novella a Frinilda, sotto una pioggia sferzante che, ancora non lo so, per me non cesserà più di cadere per mesi, cambiando solo colore ed acidità….. Le Cronache di Sbornia 2 Piuttosto soffrire che morire, è il motto degli uomini La Fontaine Quel piovigginoso febbraio non voleva proprio saperne, di andarsene a fare in culo, così come non sloggiava, anzi, cresceva in me, Sbornia, lo scrivano assoldato da Von Kakkien, che quest’ultimo fosse potente come un peto di farfalla e sincero come un aspide in terapia. Frequentavo il Palazzo, da un po’ di giorni, questo per diretto “consiglio” del margravio ed avevo la strana sensazione che qualcosa, la Madre Sorte, se lo stesse si tenendo in saccoccia per me, ma in quella bucata. Erano tempi bui: i preparativi per la scelta della compagine che avrebbe avuto diritto di ingresso nella potente Lega Anseatica fervevano ormai da tempo. Tanto che, mi accorsi, finanche alcuni pii poi ammalatisi di politica ebbero a tener con me movenze e cadenze più tiepide. Pio era il popolo tutto e proba l’universa gente di Magdeburg ma, si sa, il barile perfetto di mele deve ancora esser concepito ed arrivarono così i giorni del nervosismo strisciante. Devi sapere, caro lettore, che il potente medicamento che io, Sbornia, assumevo per aiutarmi nella battaglia contro il demone delle Cantine aveva un curioso effetto collaterale, non da tutti scientemente interpretabile. Esso si manifestava, per contrappasso, proprio con i sintomi tipici di un beone col callo misurabile a once, né erano pochi coloro che, vuoi per malafede, vuoi per preconcetto, vuoi per il mio oggettivo passato stercorario, interpretavano il percorso di guarigione come il perdurare nel baratro. Alcuni ne godeva, alcun altri ne prendeva distrattamente atto, alcun altri invece intravedeva in questa mia tabe una possibilità d’uso. Conscio di ciò, decisi di andare dritto nel culo del Grifone e giocai d’anticipo, iniziando a prendere il medica16 mento coram populo, davanti tutti. Giorni tristi, giorni mogi quelli senza conio, giorni in cui il solo veder partire Frinilda come unica portatrice di (poco) pane domestico alla volta del biroccificio di un potentissimo langravio tauringio spremevano dal mio cuore, il cuore di Sbornia, la speranza che tutto andasse bene con ‘sto cacchio di Von Kakkien. Il quale però, dopo un iniziale bearsi della compagnia e delle prestazioni dello scrivano che ivi scrive, incluso uno storico discorso durante l’Adunanza per il genetliaco teutonico, sembrò cadere preda di uno strano male, simile all’invidia del pene che da lì a due secoli e passa un potente taumaturgo della mente avrebbe teorizzato. Degustatore di storia della Brittannia e sedicente estimatore di tutto ciò che provenisse dalla terra annunciata dal bianco di Dover, costui ne sparava di tante e di tali, per darsi un’aria colta, che a tutta Magdeburg parve quanto meno un po’ azzardata la scelta di connivere in fortissima promiscuità con personaggi di cervice… come dire, “strettina”, fra i quali un Chew-Becca con le stesse capacità intellettive di una lontra (non s’offenda il mustelide) ma di lingua affilatissima in quanto ad insinuazioni sui vizi passati degli altri, da esso spesso presentati come ancora vivi e palpitanti nell’eterno gioco dell’Isola dei Lecchini, sollazzo a nomination, si badi bene. A Sbornia però poco caleva di tutto ciò; era giorno di paga! Alla fine ci si era messi d’accordo per settecentocinquanta conii e, giunto in Palazzo, mi venne il cagotto bulgaro quando mi accorsi della somma stampigliata su un foglio tra l’altro non ancora figlio di un contratto e quindi perseguibile dagli uomini di legge: 500 conii. Prossimo alle lacrime ma certo dell’equivoco sanabile, rintracciai Von Kakkien; ci parlavamo da lontano, dalle cime di due colli, il piccolissimo colle “Cellu” (il suo) ed io su da colle “Lare”. Sbiancai quando la frase finale di una lunga ed inutile trattativa fu quella con cui il margravio tagliò la testa al mio futuro, o quanto meno menò la prima mannaiata: “Tanto, per uno con un passato come il tuo, combinato come stai tu, che altra soluzione c’è? Dove vai senza di me Sbò?”. Già… dove vado ora? Le Cronache di Sbornia 3 Un partito è la pazzia dei molti per il beneficio di pochi. Alexander Pope Si era ormai in clima di guerra e a Magdeburg gli eserciti affilavano le loro lunghe e dritte Papphelmeiner, le spade da battaglia a doppio filo: da un lato, la Falange di Arras di Von Kakkien, dall’altro i Dragoni dello Schloss Kragberg capitanati da un novizio di buona fede. La guerra eterna, che sarebbe durata trent’anni, si sarebbe beata di quell’appuntamento, di quello scontro, come del più osceno dei gioielli. Dal canto mio io, povero Sbornia, avevo appena pestato una merda di bue grossa come un materasso della futura Eminflex, scoprendo i livelli galattici di micragnosità e falsità del mio supposto mentore, che mi aveva rifilato la prima di una lunga serie di sòle al cubo. Ma che potevo fare? La fame urlava nel mio stomaco più forte della coerenza che, a quel punto, mi avrebbe dovuto spingere a dare a Von Kakkien un calcio nel culo talmente gagliardo da non farlo sedere almeno fino alla carica di Balaclava; la frase con cui avevo esordito durante in nostro primo incontro era stata “Micromagnificenza vostra, sappiate che se giocate con me, giocate con un relitto già mezzo affondato; se di fola si tratta perciò, ditemelo subito, abbiamo scherzato, non me n’avrò”; poi, anzi, soprattutto, Frinilda e il suo lavorare come una ossessa mentre le mie giornate si scioglievano in caracolli davanti alle bettole o su in Palazzo, erano diventati per me imago ossessionatissima, da torcermi cuore e budella in un unico groviglio serpeggiante di rimorsi e velleità di ripagare quei suoi sacrifici. Insomma, scelsi di non vedere l’onta che rappresentava la sola idea che Von Kakkien fosse al mondo e tirai vigliaccamente dritto. A dire il vero vi fu, fra il popolo, chi aveva fiutato e condiviso questa mia posizione dall’alto di una saggezza che poi andò via sbiadendo (quando le fanfare della guerra scalciano via gli stornelli dell’ozio allora è necessario indossare una divisa, quale che sia fotte nulla ad alcuno, l’importante è che se ne abbia una) ma io speravo…………………… Speravo cosa? Che quell’oscena lumaca dal riso di una chioccia in menopausa, che quel tappo giullare nato ricco ma mai diventatovi per piagaggio di schiena, quel frustrato in cerca isterica di polpa per il suo misero poterucolo in decadenza potesse capire la solfa e non andare oltre con le sue malìe? “Potrebbe anche aggregarsi alla nostra avventura, la tua Frinilda – fece rotolare l’ipotesi con la leggerezza di un ippopotamo che monta un trattore John Deere – la cosa ovviamente non ha nulla a che vedere con i nostri patti, che sono e restano tali (La faccia come il culo di un lama, ciai! – pensai)”. Amico lettore, sarà stato per un sogno di gloria che finalmente affrancasse la mia povera moglie dal suo sgobbare, sarà stato per colpa del medicamento anti sbronza che avevo a lessarmi la boccia, sarà stato perché la nostra curante onirica aveva chiesto espressa21 mente che la mia donna ritrovasse se stessa in un ruolo non subordinato alla mia saccenza, io non feci quel che, indubbiamente, andava fatto: cioè raccogliere in fondo alla gola una patacca di muco grossa come una susina e spararla a scaracchio secco su quella faccia deretanuta. Ventilai l’ipotesi come fattibile, poi invece mi limitai a porre condizioni da cerebroleso: che ella cioè non fosse in prima linea ma nelle salmerie e che qualcuno appoggiasse la sua istruzione con la sua esperienza nelle cose di guerra. Il cazzo di guaio era che, parlare con Von Kakkien a tu per tu era diventato facile come incularsi una cavalletta cocainomane in un campo e al volo pure. Da un po’ di tempo Chew Becca, il buco con la merda intorno, gli si era appiccicato addosso come la carta moschicida alla svolazzante ragion del suo essere. Penai come un dannato, per convincere Frinilda a tentare la sorte della guerra imminente: ella era inadatta a tali portamenti e, soprattutto, veniva dai Geldren, storica famiglia della Lega cattolica facente capo a Massimiliano von Wittelsbach e storicamente avversa ai Von Kakkien, freschi luterani ed eresiarchi transumanti. Alla fine l’amore, che è potentissima forza ultraterrena, fece quello che nessuno, a Magdeburg, neanche le grosse pietre squadrate del maschio centrale al Palazzo, si sarebbe aspettato accadesse: indossò, anche se non ancora ufficialmente, la casacca rosso-azzurrobianconero-malva-pervinca-giallo-verde etc. etc. dei Von Kakkien ed entrò nella Falange di Arras. Chissà perché, pur mancando appena cinque giorni al mio secondo stipendio, io, Sbornia, cotessitore imbelle di cotanto sconcio, mi sentivo una merda… Le Cronache di Sbornia 4 Adoro i partiti politici Sono gli unici Luoghi rimasti dove la gente non parla di politica Oscar Wilde Mi accorgo, lettore amatissimo, solo ora di aver sottaciuto troppo del mio lavoro: in esso profluiva tutto l’entusiasmo e, mi sia consentito, la competenza, che lo storico infoiato di humanae res può dedicare ad una faccenda così fascinosa. Avevo alla fine “preso possesso” (espressione solenne di Von Kakkien, che sperava così di mitigare il fatto che non avessi ancora carta e conio da regula, balengo lui a pensarlo e balenghissimo io a non farglielo capire) del mio rifugio di studio presso il Luogo di Culto, Il Cippo della tremenda battaglia che nel 1625, aveva visto le stremate truppe dell’Armata dell’Oberkommandierende Tilly spadroneggiare per l’intero territorio, prima di provare con successo a fermare l’imponente macchina da guerra di Cristiano IV, re di Norvegia e Danimarca. In breve tempo, le mie notule si spersero per il territorio come buone novelle della ritrovata bellezza di un posto che resta bellissimo finanche ora che per me ha assunto il virato bluastro dell’arsenico; ero e sono apprezzato, diciamo, per certe mie presunte doti “pittoriche” nel descrivere le cose e, diciamocelo con franchezza, la guerra e i suoi orrori sono tavolozza ricchissima ancorché orribile. L’ambiente brulicava di Reiters vicini a Von Kakkien, (quale io medesimo ero, sic!) di loro congiunti e di personaggi annunciati dal clangore delle spade imminente ormai. Vi si respirava una perenne aria di guerra nella guerra, forse perché erano in gioco necessità primarie come le mie, necessità nobili perché prive di alcuna ambizione ma miranti solo a tenere la testa un decimetro al di sopra della merda. Financo mia congiunta ebbi ad infilarvi, in quel vespaio di povera gente che cercava solo pane, beandomi come uno stronzo di un potere che su questa Terra non ho mai avuto. La Storia ha sempre assolto questi personaggi, figli del bisogno, ed io non son uomo da giudicare il bisogno. L’apoteosi della mia ascesa, preludio di un Averno infinito che mi riduce oggi come poi dirò, la si ebbe in occasione dell’arrivo di una legazione carpatica, in cui la mia favella ruscellò con tanta vigoria che avrei potuto perfino costringere il loro daimon nazionale, Vlad III l’Impalatore, ad iscriversi all’Avis per la donazione del sangue. Ma i veri demoni sghignazzavano ormai su nubi molto più prossime. In giro caracollavano anco vecchi avversari divenuti amiconi, nemici giurati divenuti compari, compari scomparati per sopraggiunta incompatibilità coi sogni neroniani di Von Kakkien; Magdeburg stava pian piano diventando una fucina d’odio (il tutto intervallato dalle risate chiocce del margravio o dalle sue fugaci e sospettose apparizioni sul suo carro con serpe emblemato) dove dal vaffanculo alla bastonata sul grugno era facile passare nello stesso tempo che impiega una mosca a cagarti sulla nuca indifesa nella canicola agostana in Turingia. Memorabile fu in tal senso una prima scaramuccia fra i due eserciti combattenti, roba da plotoni, il giorno di una festa cristianissima, quando un vavassore di Von Kakkien, liberatore della favella del suo alleato, se le diede con un sostenitore dei Dragoni. Chiamato al mio secondo compito, quello di scrivano bellico, non nascondo di rimembrare con orrore quei giorni di difficoltà, perso fra il bisogno di creare un’arte equilibrata, quello di spiegare a tutti che ero incatenato non dall’ingordigia ma dalla fame e quello di dimostrare al mio padrone del cazzo che, in tutto questo, ero pure un ruffiano di lungo corso, puttana vecchia scafatissima nel decantare le lodi del tiranno versione Pokemon. Tirannello che sempre più si allontanava dalla mia persona, sperso in lunghi silenzi in cui Dio solo sa cosa gli potesse ruminare nel capoccione amico dell’eco. Solo l’arrivo della valanga Chew Becca, che si annunciava con discrezione tale da essere udito fino in Valacchia, sembrava scuotere il nostro dalla narcolessia e sospingerlo verso nuove, immani, portentose cazzate. Come quella ad esempio di scalciar via onesto giovane guerriero con l’onta del ladrocinio o pungolar mio congiunto per le perplessità che affioravano dal suo volto taurino nel veder Frinilda incastrata ed egli dileggiato, o ancora prendere paro paro il mio piano di battaglia e riscriverlo in una sola notte per il semplice gusto di metter firma lui su una vittoria che riteneva ancora potesse sopraggiungere a valanga. Ne emerse un manuale di tattica dignitoso ma del tutto inutile nella sua presunzione innovativa. Tanto che uno stesso potente alleato di Von Kakkien, l’esule spagnolo Antonio Francisco Ortega Ybarra, peritus iuris prudentiae e presumibile condottiero dell’ala destra della Falange di Arras, pensò bene di defilarsi dal pubblico concionare quando intuì che la potente Legazione che avrebbe protetto il cippo era stata solo decisa a livello di Adunanza, ma senza la benedizione della Lega Anseatica. Ah, già, il mio terzo obolo: come il secondo, che mi venne versato dallo stesso Von Kakkien (non abbiamo conii, non si può… aspetta e vedrai… e alla fine l’impossibile “ti fidi di me?” Malim…) mi fu dato in nero da un personaggio molto ma molto vicino a Von Kakkien, stavolta, per intero in nero dopo una mia memorabile sfuriata notturna, in cui perfino le civette si grattarono i coglioni nel sentirmi barrire per i miei diritti e per il pane da scambiare con la marchetta che io stesso, misero verme ormai consapevole del trappolone ma impossibilitato dai debiti a sottrarvisi, avevo apparecchiato per una sempre più nervosa Frinilda… Le Cronache di Sbornia 5 Non esiste una sola cultura Al mondo in cui sia permesso Di fare tutto Michel Foucault Parliamo un po’ del mio medicamento e del ruolo, punto marginale, che ebbe in questa strana vicenda. Consegnatomi dal mio pozionista circa 9 mesi prima dello svolgersi di cotali sconci, era potente, ma potente, ma così potente che, in realtà un baluginare di volontà ed orgoglio in unione con esso garantiva risultati eccelsi, nella lotta al Demone Etilico. Esso “acceca” in buona sostanza quella parte del nostro cervello che fa chiedere agli uomini il quotidiano oblio, l’obnubilamento e la genuflessione alla caraffa spumosa. Dopo un po’ di settimane per me, Sbornia, iniziarono ad arrivare i primi riconoscimenti: notule scritte dei savi di medicamenta che attestavano il mio pieno recupero. Fu proprio con una di queste notule che, il giorno che fui convocato dal nano gaglioffo, mi presentai; questo per attestare da un lato la mia sincerità di intenti e, dall’altro, quella di azioni. Ma fu soprattutto un atto di fede, mal ripagata da Von Kakkien come un calcione ad un cucciolo di cane dall’epa imberbe. Quando infatti gli effetti collaterali della medicina si palesavano, in corrispondenza di situazioni “nervose”, con sbandamenti, colpi di sonno repentini e caracolìi obiettivamente sospetti, fu con codesta ceppa di fava (leggasi, col cazzo) che Ciùfolo, l’Ottavo Nano, si peritò di sostenere la mia imbarazzatissima campagna di sincerrime spiegazioni. Tanto acerba e tignosa fu la sua “collaborazione” che, non appena Chew Becca iniziò a latrare, in uno dei suoi più riusciti endorsement col capo, che Sbornia era un cocainomane innanze ad almeno tre persone, dal culo di tordo che il margravio avea per bocca non uscì un fiato, per spiegare l’arcano, anzi, giù risate, di quelle da vetro raspato sul ferro vivo, risate morte, risate sconce, risate a cui, tanto per cambiare, io e Frinilda ci fingemmo sordi per cavalcare la delicatezza del momento ed evitare la povertà che bussava ogni giorno a casa nostra con notule dei banchieri genovesi. Momento che ormai volgea all’arma direttamente, a Magdeburg. I due eserciti, sia pur con qualche difficoltà, erano ormai allestiti e si preparavano a violare, di fatto, la Pace di Augusta e la pacifica convivenza fra Luterani e Cattolici romani. La Luterweg, la strada di Lutero, che si sperde nelle foreste della Turingia, era percorsa solo dallo stridio degli acciai sfregrati a filo, dai nitriti dei cavalli da guerra e, a dire il vero, da più di un raglio asinino. Sul fronte interno intanto, la distanza fra me e Von Kakkien continuava, implacabilmente ad assumere il divaricamento di una vacca frisona partoriente. Il mio umore era sempre più cupo: un giorno lo scimmione con codice fiscale esortava i giovani a “non frequentare Sbornia”, un altro lo stesso Duce della Pampers quasi urlò in faccia allo Sbornia medesimo, che aveva chiesto chiarimenti sui diritti dei lavoranti al Cippo assoldati: “Io non sono come te, lo capisci?”, appalesando una verità simile a quella del sorgere del sole ad est. E cosa stracazzo ti aspettavi, bolo mal digerito di un cane tignoso, che nella sua infinita misericordia il Signore ne fabbricasse più di uno, di arnesi di fatta come la tua? Le comunicazioni erano del tutto scomparse, il margravio faceva ormai squadra coi nuovi capitani, in barba al mio lavoro ed alle finezze con cui, malgrado tutto, insistevo a connotarlo; il periodo dell’obolo, sempre sanza contratto alcuno invano supplicato non meno di una volta pro die, si era trasformato per me in una sorta di Via Crucis in cui, ormai, la violazione delle leggi coincideva col “buon cuore” del germano di Von Kakkien, comites Aloysius, cerusico e condottiero designato della falange di Arras per i futuri scontri, che mi pagava in nero con un misto di imbarazzo e timore di mie sfuriate. Era costui uno strano miscuglio fra il Franti di De Amicis, Don Abbondio e Gigi D’Alessio, personaggi emblematici di un futuro che virava, nel gioco di Padre Tempo che indietro volgesse lo sguardo, dall’imminente, al prossimo al remotissimo: fondamentalmente buono, un tantinello - e son cortese con chi assistè al sacrificio ma non levò la mannaia al cielo - a corto di coraggio e melomane patologico, il che mal legava con l’oscuro carattere di me, che ballo come un canguro con le emorroidi e canto come un’orca con la tonsillite. Attaccato più per la sua paciosità che per obiettiva malvagità, Aloysius conservò sempre una sudditanza quasi patologica nei confronti dello schizofrenico germano; fu generoso ed austero con Sbornia nella sua veste di cerusico e di “cucitore” sia pur maldestro, fra le istanze del sangue, che gli dicevano di chiudere un occhio innanzi alle cazzate ed ai “prelievi di cassa” del germano, e quelle di raziocinio, che gli urlavano di chiudere il medesimo in una cassa di noce e scaraventarla a testate nell’Elba. Purtroppo per Magdeburg e per Sbornia, vinse il sangue… che altro sangue chiamò. Le Cronache di Sbornia 6 Il coraggio è la prima dele qualità, Umane, perché è quella che garantisce le altre Winston Churchill. La guerra! Das krieg, come ormai invocavano i cani latranti da ogni parte, che di ogni ostilità si approvvigionano malgrado gli esiti, da che Mondo è tale. La prima offensiva fu a Cura dei Dragoni dello Shloss, in attesa di uno scontro finale che i savi prevedevano a maggio. Insegne al vento, vento a caracollare fra le insegne, gli squadroni sfilarono in una conca urbana prima di estrarre l’acciaio e controllare la giusta secchezza dei foconi alle pistole da cavalleria. Magdeburg si era trasformata, in un battito d’ali (di tordo) da luogo di malevola quanto eterea dicenza a teatro di possenti scontri fisici. Orde di Vendi, Avari e Adobriti avevano già ridotto in passato la cittadina in cenere, ma Ottone il Grande Carolingio, nell’Anno Domini 937, aveva riedificato il mastio e, in più, un’abbazia benedettina, quella dei Santi Pietro, Maurizio ed Innocenzo. Come prima mossa, i Dragoni dello Shloss attaccarono con le falangi del loro condottiero supremo, Mathias Vlacich, spalleggiate a stretta via dalle giovani ma irruente truppe di Alani e Vandali occidentalizzati in Iberia e dalla solida e collaudata armata di Jan Der Kral, principe-borgomastro di provata esperienza in fatti d’arme. Io e Frinilda ci eravamo preparati come meglio potevamo, per quelle faccende straniere al nostro cuore, specie a quello di mia moglie. Di tutt’altra pasta fu l’approntarsi dello squadrone centrale di Reiters e di Dragoni erranti di Von Kakkien. Quest’ultimo, per lo scontro di esordio, si era agghindato come una puttana di Bavarìa e coperto di ferro e sete come il ferocissimo Gustavo Vasa di Svezia., ottenendone però l’effetto contrario: dove lì avresti visto, nello scandinavo il duca elegantemente crudele e perito d’arme, qui intravedevi un chiuàua in armatura ma col dente avvelenato proprio perché conscio dei suoi pochi centimetri di estensione. Sembrava un barilotto con doghe di ferro poi coperto di drappi e lasciato noncurantemente là, in un angolo della sala delle feste, a far da pisciatoio ai mastini dei langravi convenuti ad ubriacarsi prima dello scamazzarsi finale. Aloysius, defilato ma ormai di fatto in gioco e duce supremo, reggeva di più la tensione prima della carica della cavalleria e dell’incalzare dappresso delle picche di fanteria; i suoi grossi denti, adatti più al sorriso fascinoso che al morso ferino, luccicavano bianchi nella sera già vermigliata dal rosso delle prime scaramucce. C’è a dire che, come avrebbe appalesato per tutta la campagna, Von Kakkien jr sembrava invece più nervoso del fratello; già il giorno prima avea scaraventato contro una grata di feritoia del mastio un grosso ornamento del tavolo da cui giocava a fare il Cesare de’ no antri, o il Churcill di codesta varra, dopo che le insistenti mene di un impiegato della Lega Anseatica contro uno dei generali della sua armata, inviso fino all’odio cieco, gli avevano fatto bollire i 33 cl di Sprite che possedea in vece del sangue. Ma nessuno, in occasione di quella prima batta37 glia, che fu cruentissima da che palesò una leggera ed ipotetica inferiorità di base delle truppe dello Shloss, fece sfoggio di sé (le risate ancora riecheggiano fino a Wuttemberg, ove Lutero affisse l’inaffigibile) più del neo generale Chew Becca: sembrava La Cosa dei Fantastici 4 dopo un giretto a Casablanca, un armadio a quattro ante scoppiante di tanti e tanto variegati mantelli da averne sportella in spalancume, come un bronzo di Riace incappato in un’orda di writers strafatti di crack sopraffino. Si muoveva a scatti sul campo di battaglia, scodinzolante come un grosso segugio idiota mai a più di tre passi (di nano, dato l’oggetto di cotanta attenzione) dal von Kakkien jr, che ammorbava l’aere col suono delle sue stridule risate da femminiello incravattato mentre guidava ma dalle retrovie, come Napoleone ma dopo tre ictus, tutti, marmaglia e buoni soldati, lame probe e draghinasse frastagliate come l’animo vizioso di chi le impugnava. In quell’occasione di luci, sangue e teatralità dell’orrore, io, che m’era approntato su un colle di fianco alla pugna con calamo e spada corte, e Frinilda, pronta alla guerra come Von Kakkien sarebbe stato pronto ad una cosa sensata, restammo entrambi ubriachi, ma nessun dei due dalla gorgogliante ragion prima dell’Ebbrezza: io mi ubriacai di vuota gloria, Frinilda di mal taciuta vergogna per un passo già fatto e lungo come la distanza fra il cervello di Von Kakkien e l’idea di cervello. Cronache di Sbornia 7 Sai, io sono molto amico del sottosegretario E ieri ho incontrato Il generale Emulo di von Kakkien Simpatico come un gatto aggrappato ai coglioni, il generalissimo-germano Von Kakkien si crogiolava, il giorno dopo la prima battaglia contro lo Shloss, nell’arte a lui meno adatta ma che lo faceva star meglio di tutte perché gli creava una claque intima che non faceva altro che suggerirgli “bravo!”, “ma tu sei un genio, un drago!” o “certo che con te non ce n’è per nessuno eh?”: quella di interpretare tatticamente uno scontro. “Abbiamo la vittoria in tasca – assicurava col tono di chi lo deve spiegare a bambini affetti da gravi tare mentali al suo entourage; se quello di Magdeburg non fosse un popolo di idioti questa faccenda sarebbe stata già risolta da tempo. Adesso però bisogna che tutti i condottieri, comprese le salmerie (e sguinciava ratto, il ratto, nella direzione di mia moglie) si diano da fare per assicurarsi truppe, sempre più truppe”. Col soldo si fanno i soldati e coi soldati ci fai una vittoria che magari ti tenga un piede nella Lega Anseatica in attesa di nuovi appetiti eh guagliò? Perché adesso un po’ di appetito lo hai anche tu, nèvvero pustola? Dopo tanto gozzovigliare e con l’intera vestigia del Sacro Romano Impero a tocchetti, bisognerà pure che tu un po’ di pane lo faccia, oltre che averne in rendita… La seconda battaglia cominciò male per me: ero nervoso, esasperato ed avevo preso il medicamentum per evitare che un cagotto da battesimo del fuoco o qualche duello isolato mi spingessero verso il bancone di una qualche bettola. Lo sforzo fu immane. Quando tutto sembrava volgere per il meglio, nel senso che gli affondi che la Falange si apprestava a dare parevano utili ad una qualche causa ma poco pericolosi per la mia Frinilda, dovetti ingaggiare un corpo a corpo fu41 rioso con un grosso guerriero dello Shloss, adirato per la mia cronaca della battaglia precedente. Io ero nel torto in quanto a schieramento ma in ragione santissima di uso di satira e di una equidistanza che avrei usato anche con i permalosissimi Von Kakkien, di lì a poco, satira peraltro a favore di un giovane combattente anti Von Kakkien; tutti conoscevano quanto sapessi giocar di fioretto e quanto poco di sciabola e alla sciabola, lo scontro fu; violentissimo, contro un nemico più in forma e lucido, oltre che determinato a creare un varco, come è dovere di ogni buon soldato. Mi salvaron vita e onore la stirpe dei Gendren, un cui rappresentate sellato di fianco al mio antagonista, non levò anche la sua, di spada, contro di me, spacciandomi. La stessa Frinilda poi, congiunta prossima del cavaliere sportivamente defilatosi dalla tenzone, intervenne con ratta incursione a sottrarmi ad uno scontro che lì, quella sera, pareva davvero impari o destinato ad un’ecatombe ultima, tanto io era furente e scoordinato, per tragico paradosso proprio perché volevo guarire, non perseverare nella mia malattia. Ricordo poco di quella battaglia, anche perché dopo un attimo di invasatezza in cui ebbi addirittura a con42 cionare col Von Kakkien piccino picciò (dovevo esser fuori come un balcone, ho idea) e financo con un gasatissimo Chew che sembrava un derviscio urlante della terra di Solimano, caddi in uno stato di torpore per il quale la sorella di Frinilda, che intanto combattea la mia battaglia in cima al colle di comando, dovette issarmi su un carro di salmerie ed attendere che Aloysius sferrasse il suo singolo attacco, con alabarda e picca, attacco contenuto e contenente lo scopo di contenere il contenibile, una cazzata immane, insomma, da cui si affranca il duce supremo dato che il piano lo aveva riscritto il “ducetto”, come l’adorato lettore ricorderà. Ma la parte importante di questa parte di narrazione non è tanto la seconda battaglia di Magdeburg, che ebbe un esito decisamente neutro, quanto piuttosto il fatto che quei fatti segnarono il primo scossone alla mia anima ormai strappata come un panno da soffitto per settimane e settimane di umiliazioni, torti, povertà con goduria di altri nel provocarla, rimorsi e nuovi avversari indotti dallo scorrere violento degli eventi. Per mutuare un grande del passato ma che ancora in questo nostro Tardo Seicento, deve esser riscoperto nel suo sacello ravennate, il giorno dopo, nella mia capanna, “caddi come corpo morto cade” e la mia famiglia, in fortissima apprensione, dovette chiamare un curatore al mio capezzale: Aloysius. Quando aprii gli occhi appannati dal mio giaciglio, capii che ero fottuto e che dovevamo andare avanti comunque, ad ogni costo e fino ad una fine ormai annunciata. Un duce che, in quanto medico, conosce per ben due volte da vicino il tuo tallone d’Achille, per quant’onest’uomo come Aloysius sarebbe potuto essere, è e resta in teoria uno che ti tiene per le palle e questo, pressappoco, non l’ho detto io, ma Seneca qualche centuria fa. Le Cronache di Sbornia 8 La critica,come la carità,dovrebbe Cominciare a casa propria B.C. Forbes La terza battaglia di Magdeburg passò alla storia… perché io non vi partecipai. Già, Sbornia era al tappeto, dopo la seconda tenzone che lo aveva visto quasi soccombere. In quel caso, va scritto, i buoni consigli di Aloysius, che era pur sempre un giurante ad Ippocrate e uomo non completamente immarcescito dalla promiscuità col germano demente, si rivelarono preziosi: niente altri medicamenta, molto cibo nutriente e riposo. Di quest’ultimo parere approfittai in maniera invereconda, anche perché una Frinilda a metà fra l’orante e l’isterico mi aveva fatto giurare che, per quell’occasione, avrei rinfoderato spatha, calamo e l’elmo unghererese col quale di solito mi accompagnavo in battaglia, tanto più che di contratto non se ne parlava ormai da giorni e di conii ancor meno, mentre si sommavano le carte con cui varie autorità ci ingiungevano pagamenti-capestro. Il guaio è che, proprio per quel cimento, ci si aspettava un attacco forte esattamente ai due punti deboli della Falange: lo squadrone di cavalleria pesante (pony e asinelli sardi) di Von Kakkien, accusato di voler far della guerra occasione dinastica e il settore salmerie, dove la mia indecisa prova della notte prima avevano appalesato possibili vie di varco, per un condottiero che fosse stato accorto nell’intuire la portata degli accadimenta precedenti. Così fu: mentre udivo, dal graticciato del mio talamo, gli echi di una delle battaglie più dure della trentennale guerra in selva, non potei fare a meno, col cuore ghiacciato per la vergogna, di constatare dai movimenti delle truppe sguinciati dal mio nido di pavida debolezza, che proprio verso il mio settore gli attacchi erano più duri. Duri come il ferro ma condotti con ars bellica peritissima e non scevra dalle anti46 che regole della Cavalleria proclamate da Urbano II a suo tempo. Tuttavia, la sublimata eco di quei fendenti, di quel grugnire affannato quando le lame calavano dall’alto dei potenti cavalloni da carica, del raspare delle lunghe picche sulle ossa scavate dalla carne squarciata da punte inclementi, fu nulla a paragone di quanto, in quelle ore, parallelamente accadde e portò vestigia financo ai momenti successivi. Accadde infatti, giusto dopo il tacere degli ultimi lamenti dei feriti, che mi facessero visita non meno di quattro messaggeri provenienti dal piccolo colle Cellu (il che li qualificava per messaggeri del giovane Von Kakkien) che raggiunsero colle Lare, dove io risiedevo con parole misteriose quanto per me schoccanti: “Non mi aspetto un posto in prima fila ma non di certo defilato”, oppure “750 volte grazie” o ancora alcuni specifici riferimenti ad alcuni potentati che avrebbero a suo tempo steso la loro mano sul mio capo per intercessione (diceva lui, ma poi si rivelò una della sua più riuscite stronzate) del giovane margravio. Insomma, fragmenta sparsi che parevano un invito-ordine a scendere in campo di nuovo come cronachista e guerriero dopo la batosta della terza battaglia. Io stesso, ancora febbri47 citante, raggiunsi Von Kakkien sul mastio, dove lo trovai in presenza di un suo fido generale alleato, il venturiero ungherese Kazjnsky. Non l’avevo mai vista così, la bertuccia: curvo e sudaticcio sull’elenco dei combattenti, a spuntare con aria febbricitante e con l’aria mezza orba che connotava ogni suo occhieggiare talputo elenchi o scripta, fra gli abili all’arruolamento, i coartabili al mestiere delle armi e i certi assoldabili dai nemici dello Shloss. Con aria infervorata, linguaggio chioccio ed occhio di persico morto sei sere prima per mancanza d’aria, Von Kakkien, offesissimo per l’assalto di un generale avversario che egli diceva suo amico, un tempo, mi chiese conto di quei messaggi, me li fece leggere in presenza del suo langravio occasionale, nonché socio in non so quale bovina faccenda, per poi… negare a spada tratta che fosse stato lui l’autore. Sbigottito come una triglia collodiana, il nano iniziò ad incalzare: “E secondo te chi è qui il politico-duce che traina la baracca da più tempo?”, come a sottolineare che il mio parere, umilmente supponente che quei fossero suoi messaggi lanciati in un momento di sconforto, fosse inevitabilmente subordinato ai merita che quello scaracchio si auto impuntava sul bitorzoluto petto a barilotto, come se il cardinal Richelieu di Franza gli facesse un pippa, a lui, novello Traiano. Perplesso come una foca, feci appena in tempo ad accorgermi di due cose: la prima, che Von Kakkien era pazzo come sanno esserlo solo i dementi di lunghissimo corso, pazzo come un medico direbbe di uno che si lava la faccia con i propri escrementa, pazzo come alcun savio negherebbe in accademica seduta; la seconda, che dopo la batosta della terza battaglia di Magdeburg era giunta per la Falange di Arras l’ora di assoldare mercenari che facessero una differenza stavolta invocata come risultato e non spiattellata con becero orgoglio come se fosse certezza, per la vittoria finale. Poco male: io mi sentivo già sconfitto e stavolta Von Kakkien c’entrava poco… Le Cronache di Sbornia 9 Il modo migliore di perdere Una cattiva abitudine è di sostituirla Con una peggiore Jack Nicholson A questo corso dell’opra è giusto che io, Sbornia, spieghi in un certo senso il “leggero livore” che traspare dalle mie parole, quando novello in particolare delle gesta del giovane Von Kakkien, così come è giusto che io metta a fuoco alcuni aspetti e personaggi che, in questa storia d’arme e tradimenti, ebbero ruoli affatto marginali. Siam tutti d’accordo, lettore amatissimo, bianco o nero o ancora grigio che tu sia, che sacrifichi ad Iside o ai numi delle foreste o partecipi all’Eucarestia o non conosca nume, che su una cosa non si scherza: il lavoro. Il lavoro non è solo mezzo di sostentamento, è strumento di armonia nella famiglia, ispecie se la medesima è minacciata da altri spirti quali quelli da cui io e Frinilda eravamo reduci e di cui un certo margravio venne messo a parte non appena squillò la sua tromba per me. L’accanimento con cui non si dava riconoscimento ufficiale alla mia attività di scrivano guerriero non trovava perciò spiegazione se non nella lucida determinazione a cavalcare come stallone quella nostra debolezza per tramutarla in cenere assoluta a fin dell’ovra distruttrice. Passavano i giorni, le settimane, i mesi medesimi erano giunti ad accumularsi; la legge scalpitava furente, per punire lo sconcio di un soldato sanza soldo e sanza ingaggio, essi stessi rischiavano ma, ciechi, non vedevano, non capivano, spregiando finanche la dea con la Libra in mano. Al cippo tutti avean carta men che io, che ne avea avuta assicurata una differente (“arriverai anco a mille/milleduecento conii!”, squittiva il ratto mentre mi faceva penare per 700/750). Essendo il qui presente Sbornia non proprio un serafino, questo va riconosciuto a priori, la soavità con cui mi avviavo al disa51 stro non faceva bene né alla mia guarigione come malato, ne alla guarigione della meravigliosa unità che, con Frinilda, formavamo. Implorai, pregai, supplicai, mi umiliai come non mai orgoglio superbissimo come il mio fece, nel portare a raziocinio il Von Kakkien imberbe ma nulla da fare: c’era sempre una scusa, sempre un buon motivo, sempre un cartesiano “perché” a che io rimanessi con la sacca dei conii vòta. I debiti e i debitori, così come tuttora grazie al personaggio, si accumulavano come le mosche su un morente che di lì a poco sarà cadavere e, a morire, era la speranza di offrire finalmente a Frinilda un po’ di serenità meritata mille e più volte. Io ne soffria, ma io solo; ero in una falange ma duellavo da solo, andavo a dormire e non dormivo, volevo mangiare e non mangiavo, coi medicamenta che, gagliardissimi, compivano si la loro opera, ma in assenza di vivanda strappandomi ogni giorno che passava pezzi interi del mio essere, fisico e spirituale. Non pensi perciò il lettore amato che io mi sia tramutato in un mostro livoroso per alchimia di diletto: io sono la fame che ha fame e non di cibo, ma di giustizia e cerco la medesima nel calamo puntuto. Non posso dimenticare che la Falan52 ge di Arras era altresì composta, nella sua organicità, da persone oneste, credenti in un’idea di Germania diversa, nella loro Pace e non nella Pace di Augusta e questa est humana e naturalissima cosa. Molti di costoro mi onoro di chiamare ancora amici; chi si sentisse mio inimico o a me ostile, mi si creda, può solo essere automaticamente un complice e non un sereno raziocinante, dacché certi facta pubblici furono e coram populo accaddero, né io feci nulla per celarli. Come quando mi recai dal generalissimo peritus iuris prudentiae Ybarra, ispanico uomo del sud di voce stentorea che avea in core la nuova città così designata dagli Elleni erranti. Lo scopo era assicurare un cazzo di contingente per la guerra di Frinilda che, spaurita, potea contare solo sull’onore e sull’amore di una famiglia aurea in intenti e sopportazione, ma scevra da arti o attrezzature militaria da donare alla congiunta in numero sufficiente a ché, almeno una battaglia fosse vinta. Venti solerti e pugnaci picchieri magiari, mi furono assicurati, così come altri venti me li spergiurò come già nostri quella stessa sera allo stesso tavolo Aloysius, per lo più Reiters e Dragoni. Io come furbo non ancora rincoglionito sottrassi e trassi un numero: fra entrambi, forse dieci uomini in più avremo in comando, oltre i nostri dodici genuini ed avremo dignità di lotta se non di risultato. Ahi se mai illusione fu più illusoria! Tutto questo sanza che non passasse giorno che Frinilda non piangesse e che io non mi mordessi il cuore pur continuando a lavorare anche come cronista del Cippo. Avevo tessuto contatti con altri luoghi di dolore e sangue, ivi compresa quella Teutburg dove un generale alemanno, un duce teutone cresciuto a Roma, Arminio (ma nella sua lingua si chiamava Hermann) distrusse le indomite legioni augustee del generale Varo, come Svetonio ci narra ne “Le vite dei Cesari”. Tanto dovevo al lettore: non l’odio vuoto del benestante non diventato ricco è la mia molla ma il furore dell’indigente fatto povero di proposito da un uomo che scoreggia via pezzi della sua anima ad ogni legumata ai bordi della selva…. Bene: tappo saldissimo al suo culo sarò io, acché esploda nel suo stesso fetore. Le Cronache di Sbornia 10 Non si vive al mondo che di Prepotenza Giacomo Leopardi Gli avvenimenti intanto incalzavano. Nervoso come una mantide, sfiduciato dall’ennesima, legittima richiesta di conio sfociata in una estenuante “caccia all’uomo”, con Aloysius costretto, poròmo, a sopperire all’ammanco scucendo in tre diverse sedute spalmate su quattro giorni il dovutomi (250, poi 300 e poi ancora 150 conii, come se le notule di bolla potessero aspettare i comodi del mio ufficiale pagatore) siccome anziano affetto da stitichezza remunerativa, decisi che era giunta l’ora dei patti chiari, anzi, ancor più chiari. Accadeva infatti uno strano fenomeno: per legge di contrappasso che altri, Immenso, avea enunciato tre centurie fa, proprio io che maggior flemma, dati i miei trascorsi non indifferenti e di cui mia sola sarà sempre colpa, dovea appalesare per certificare il mio percorso di guarigione, diventavo sempre più spesso idrofobo e malmostoso. Costretto financo e negare la mia natura, che è per sua sponte benevola e disposta al riso ironico, arraffai coraggio ed esasperazione a due mani come mannaia bretone ed esplosi. Una sera, nel castello del potente (dicea lui di sé) Ibarra minacciai di escludere Frinilda dalla guerra a pochi giorni dallo scontro finale. Truppe scarne, le sue, ma comunque truppe sufficienti, in un contesto ove la vittoria si conteggiava già nell’aere su poche decine di picche, ad aver patente ipotetica di truppe decisive. Al ricatto ci si arriva perché si nasce ricattatori o perché ci si scopre uomini capestro in barba alla propria natura, istigati da facta o uomini che coltivano in noi la malafede come una pianta venefica. Sta di fatto che, quella sera, la mia speranza più segreta era che in ogni caso quel Golgota novello avesse fine. Ma la fame incalzava, uomini e periti dell’amministrazione della Giustizia in Lega già bussavano all’uscio di Sbornia, affamati pignoratori, corvi pronti a becchettare sangue sparso e con essa pure incalzava la speranza che una semplice raddrizzata ai duci e una buona dose di saliva nebulizzata in aria dalle mie urla ferine potessero aggiustare le cose. Tante e tali ne sparai ai cielo che la mia ricciuta chioma si raddrizzò; sembravo Branduardi dopo tre shampoo, un balsamo e due phonate a caldo. Coglione fino all’inverosimile, mi ubriacai delle cazzate che mi vennero propinate in sorniona replica, a fuoco incrociato, dalla coppia, che avea a temere non solo la defezione numerica della mia consorte e dei suoi Dragoni di famiglia, ma anco una mia decisione di impugnare spada e calamo contro la “mia” vecchia bandiera. Inquadrati entrammo ed inquadratissimi uscimmo, tutto questo con lo scontro finale ormai imminente. Frinilda avea in animo una cosa onesta: combattere come sua natura spingea, in nome di un popolo che da sempre la vedea in suo novero genuino cioé e non rifiutare, anzi, esasperare quella vicinanza ai patimenti umani dei più deboli che da sempre, grazie alle scàlmane di Sbornia, l’avevano resa edotta di tali faccende. Insomma: conciliare l’inconciliabile, la guerra del presente con la pacificazione di un futuro che vedea ancora nubi all’orizzonte. Così fu comunque: la sera della quarta battaglia di Magdeburg ogni generale, capo manipolo o graduato della Falange e dello Shloss diede prova di sé incalzando la truppa avversaria dalla prima linea, ove più cruento era lo scontro e lo stridore delle lame cozzanti, mosse da braccia nervose e scattanti. Parata di quarta, affondo di terza, alzata verticale di seconda, affondo con rientro, passo e ancora affondo, di punta con torsione. Frinilda era così nervosa che, ad infilarle una presa nel didietro, essa ne avrebbe prodotto luce dal naso, se Edison fosse stato di noi coevo. Mi aveva chiesto di coprire la retroguardia ma di non rendermi visibile nel momento del cimento finale e così io feci. Acquattato dietro un pino, alle spalle di mia moglie, assistetti al trionfo della lotta onesta, del fendente ben menato a ferire sanza uccidere e mi sentii una merda di bue per averla gettata in quella canaglia di contesto, ove gente onesta si mescea con banditi sopraffini e guitti incravattati, uno dei quali proprio ora stava celebrando ipocritamente il trionfo di mia moglie con un bacio untuoso. Von Kakkien che cingea a spira Frinilda sembrava un Giuda del XVII secolo… ma senza i rimorsi che il suo maestro lo condussero ad appiccarsi. Fu troppo tardi quando mi accorsi che il vero Giuda ero stato io e che neanche i miei tranta denari avevo incassato… Le Cronache di Sbornia 11 L’intelletto cerca, il cuore trova. George Sand La battaglia finale di Magdeburg: un epos cugino del caos, un tuono che contiene tutti i tuoni, una pacchianata da far sorridere un sudario il 2 novembre a mezzanotte. Dirò perché, a mio avviso. La consuetudine fissata dalla Lega Anseatica era che, dopo l’ingaggio finale, quello che prevedeva la discesa in campo di tutte le forze, si procedesse, nello stabilir la vittoria finale, alla conta delle forze residue; chi n’avesse in maggior numero, era di fatto il tenutore del diritto di partecipare alle decisioni finali e cruciali della Potente Lega Anseatica con un principe60 borgomastro. In sé, lo scontro fu da far tremare la terra: attacchi repentini di cavalleria, soprattutto, avevano dato alla Falange quel terreno in più che stava consentendo a picchieri ed arcieri di fissare almeno tre teste di ponte da cui far partire nuove incursioni. Dal canto loro, quelli dello Shloss non stettero certo a guardare. Uno di quei varchi venne infatti scoperto e sgombrato a suon di sciabolate furenti prima che si potesse procedere alla fortificazione definitiva. Intorno al mastio era tutto un susseguirsi di incursioni, inseguimenti, dipartite ratte di drappelli in caccia di facili prede o di presidi più fortificati ma mai inespugnabili del tutto. Fu guerra di movimento puro, blitzkrieg prima che Guderian ne avesse a battesimo quella più tristemente nota. Le Papphelmainer fischiavano nell’aria come serpenti svegliati dal fuoco e non risparmiavano alcuno mentre le prime, antichissime e complicate colubrine cercavan di far cecchinaggio lì dove era solo strage a frotte di mitraglia. Io, Sbornia, combattevo come un ossesso: per sanare i miei sensi di colpa nei confronti di Frinilda, continuamente invitata ad andare a turar questa o quell’altra falla, avevo deciso di far un po’ la staffetta fra i comandi. Quello dello Shloss era in campo aperto, a poca distanza dal mastio, in attesa di un esito che scolpiva, per il momento, sui volti dello stato maggiore, la tensione della consapevolezza di un leggero vantaggio. Insomma, c’era aria di festa ma sempre con una mano sui coglioni, ecco. Lo stato maggiore della falange era invece in una cavea da cui fedelissimi della mia fatta, sciacquini al cubo in sostanza, riportavano notizie dell’evolversi della pugna. Fu durante la mia terza o quarta precipitata, non ricordo bene, in quell’antro di volpi e persone in buona fide frammiste, che assistetti alla scena più ridicola della mia pur non breve e piatta vita. Forse consapevole della sola possibilità di una sconfitta, forse per sue ragioni in merito ad una posta in gioco che alcuno mai conoscerà, forse semplicemente perché il pezzo di sugna che gli farciva il capo avea preso a friggere dalla gran tensione, il giovane Von Kakkien, con vocina stridula e ascella pezzatissima dal sudore del momento topico, iniziò a picchiare ripetutamente la mano sullo stipite di una porta, mulinando la testa e arrovesciando gli occhi come fanno i verri quando esplode la loro libido stagionale. L’omuncolo mugolava come un mantra, più a se stesso che ad altri: “Perderemo per pochi uomini, peeeerderemo per pooochi uomini!!!!” e giù ancora paccheri all’innocente legno di una porta che, c’è da giurarlo, anch’essa si stava sganasciando dalle risate o si stava chiedendo cosa ci fosse dietro tutta quella disperazione. Di fianco, più pronto al conforto dopo la regolamentare incursione, un Chew Becca più misurato, quasi umano, nei cui occhi già leggevi il guizzo del “come cazzo faccio e dove stracazzo vado se le prendiamo?”. Aloysius, pacato ma in evidente affanno interiore, dovette riceverla da me, la novella della sua vittoria, che per primo lo salutai come borgomastro-principe. Aguzzando lo sguardo avevo infatti notato che il Von Kakkien giovane non si era solo limitato ad auspicare l’arrivo di fresche truppe di soldo, ma che le stesse erano già in piena battaglia a far pesare numero, armi scintillanti ed energie freschissime. Erano per lo più Batàvi e picchiarono duro, tanto duro che l’armata di Aloysius restò con 5400 uomini validi in più in piedi, rispetto a quella dello Shloss; per un pelo, ma la bandiera giallo-verde-blupervinca- marrone-ocra-zaffiro-nerabiancagrigiastra dei Von Kakkien sventolò sul pennone e fu festa per tutti… meno che per gli sconfitti e per la mia Frinilda. Isolata e sanza alcun ausilio di truppe promesse, era stata ferita e disarcionata lungo un canale ai margini della battaglia. Sportivamente volle esserci, al momento del trionfo, col braccio sanguinante e l’occhio spento, ma io, rincucciato in un angolino dove ormai vedevo chiara la mia sorte di marionetta, vidi in lei ciò che nessun altro vide, mentre la gioia dei vincitori diventava carosello, danza, biascicamento di carni semicrude e bave di vino forte a festonare i menti: vidi che Frinilda avea perso la fiducia in me, stavolta sul serio e, forse, per sempre. Ciò che non fecero anni di stravizi e patimenti, cemento di una unione fortissima, potè una scaramuccia il cui senso era dipinto sul faccione beota e urlante di Chew Becca: un circo che, fin dall’inizio, ci aveva studiati, presi e premuti come agrume di Persia, per poi gettar via la buccia quando non vi fosse più succo alcuno da ingollare. Le Cronache di Sbornia 12 Legge di Pugh.SE il cervello umano Fosse abbastanza semplice Da essere capito da noi,saremmo Troppo stupidi per capirlo. Arthur Blach Con la vittoria risicata ma indefettibile dei Von Kakkien, io divenni paro ad una lumaca da melica, nel quadro generale di scelte, gerarchie e considerazione. Non nascondo che i miei ultimi irrancidimenti avevano un po’ intessuto la “trama” su cui giustificare un “ordito” così colorato di indifferenza, ma sarebbe bastato chiedersi come mai Sbornia se ne sta così, più mogio che agli esordi ridanciani e magari chiederlo a quella parte di se stessi ancora capace di pensare in termini di umanità e legalità, per trovare evidentissima risposta e porre financo riparo. Niente contratto dopo tre mesi e mezzo di guerra, nessun appoggio di truppe per la mia Frinilda, che aveva anche disdetto giorni e giorni di lavoro presso il biroccificio e perso ulteriori conii, umiliazioni palesi, demansionamenti, risate alle spalle di un debole in cerca di forza invece che sorrisi complici per quella ricerca, catastrofe totale da un punto di vista economico e mezza Magdeburg inimica, con l’altra indifferente nel guatare tale inimicizia. Ce n’era di che sbracare a terra un rinoceronte che prende steroidi. A dire il vero fu Aloysius che cercò di tener la baracca in piedi, ma in quella maniera raffazzonata che alla fina non accontenta né l’oggetto, tantomeno il concetto stesso di attenzione, men che mai pone fine alle pene. Dopo l’insediamento ufficiale del nuovo margravio, fu tutto uno stillicidio di piccole stilettate ad un cuore che ormai pompava solo l’amaro sangue della delusione. In un paio di occasioni dovetti mendicare la diaria, che come al solito mi venne consegnata in nero e a tranches, come il veloce pesce del Baltico, altre volte ci si dimenticò completamente dello scrivano nelle più scrivane delle oc casioni, come se la ragione stessa del mio esser lì e, per chi mi conosce bene, del mio stesso essere, non avesse più ragion d’essere. Pendevo regolarmente il medicamentum, ma in dose ridottissima, essendo ormai i miei cerusici concordi nella definizione di un percorso portato ormai felicemente a compimento. Quando Frinilda non venne per lungo tempo richiamata più al lavoro, pagando doppio fio ad un’avventura a cui io l’aveo spinta, meschino e coglionazzo, mi decisi a risolvere la questione del contractum. Ne provai di tutte le specie, ne proposi di ogni guisa, c’era sempre un ma, sempre un però, sempre un “aspetta che…”. Alla fine, delle parole di serpe con cui Von Kakkien junior mi aveva ipnotizzato come un pollo a febbraio restavano solo le parole meste con cui Von Kakkien senior mi qualificò, infine, l’amara realtà: cinquecento conii come libera donazione, l’elemosina del ricco al poverello, oppure 400 conii, sempre mensili per una carta che avrebbe comunque solo ritardato la mia, la nostra agonia. Già, perché, la Banca della Serenissima avea offerto a Sbornia una scappatoia, ma a patto che egli avesse un libello, una pergamena ufficiale. Il favore venne chiesto ai due germani, con il seguente risultato: il giovane neanche rispose al messaggero che gli inviai, l’anziano rise a settantadue denti. Accettai i cinquecento ma sapevo che era solo modo per ritardare la Mietitrice con la Falce. Con Frinilda fummo costretti a trasferirci momentaneamente nel vicino Baden-Coburgo, ove mia madre, che ivi abitava, ci diede ospitalità e calore malinconico per l’ennesima sconfitta con cui venivo a bussare al suo uscio. Fui costretto a cose turpi, cose da ladro, per continuare a sopravvivere e, una notte insonne, l’ennesima da mesi, con le facce dei protagonisti di questa orribile vicenda che mi mulinavano intorno come satanelli malevoli, con quella risata chioccia a far da contrappunto ironico alla mia discesa agli Inferi, decisi che era ora di andarci davvero, in quell’Orco che pareva tanto mi agognasse. Mi alzai di mattina presto, scrissi una lettera di scuse alla mia adorata Frinilda, uscii. Faceva freddo, quella mattina, decisi di scaldarmi facendo una cosa che non facevo da un anno: bevvi uno, due, poi alfine tre idromele. Rinfrancato nel mio proposito, tastai la sica che avevo con me. Era mia intenzione tagliarmi le vene dei polsi ma poi pensai allo sconcio ed allo strazio di una simi68 le vestigia. Così presi un biroccio fino a Bad-Hachen e, sotto un luogo Santo, ingollai tutti i miei medicamenta, oltre 30 assieme ad altri livorosi boccali di idromele. Caddi sconsolato, chiedendomi ove avessi sbagliato e il male di chi avessi mai voluto, per meritarmi la Notte Eterna che ormai mi abbracciava…. Le Cronache di Sbornia 13/Epilogo Giudico,che la fortuna Sia a rbitraria della metà Delle azioni nostre, ma che c’è ne lasci governare l’altra metà. Niccolò Macchiavelli “Sveglia Trace, aòh!”…. “‘sto non si alza neanche con una secchiata di garum in faccia, l’invasato”…. “aco, Spartace! Merhercule, surge!” Ma chicazz…? Eh? Ma che eh, dove cazzo sono ah? Apro lentamente gli occhi, tanto pieni di cispa da sembrare una sbriciolata al limone, metto lentiiiisssssssssssssima-men-te a fuoco lo sguardo da allocco e mi trovo circondato da una manica di ossessi in armatura (Dragoni? No, registro distrattamente, quelle non sono armature da Dragoni). Uno di essi mi scrolla più forte, mi dà un vigoroso calcio nella coscia e mi barrisce: “Spartaco, vermaccio di un Trace, hai rotto il cazzo, ora ti alzi, smaltisci la sbornia (Sbornia… Sbornia sono io! E Frinilda! Ma non ero morto; devo esserlo per forza e questi sono demoni punitori, non c’è altra spiegazione) … e ti prepari al tuo combattimento di esordio, ce n’è uno nuovo e oggi a Capua vogliono uno scontro mortale, chiaro, cazzone di un retiarius?”. Spartaco? Capua? Trace? Ma, allora ho sognato tutto…. Per un attimo galleggio su quella sponda di mondo che sta a metà fra follia totale e raziocinio invocato. Ho sognato del futuro, in pratica; in realtà io sarei lo schiavo liberatore di schiavi? Machecazz…. Naahhh! Uno scaracchio come me che libera cosa, la sua animaccia dal corpo per vigliaccheria, forse… Cotto, semplicemente ho il cervello cotto ecco….. Sono confuso, ommamma. Va bene, sono impazzito, la Turingia e Magdeburg non sono mai esistite se non nella mente di una sbornia colossale che non è più nome ma modo di essere… (bèh, in questo è come prima no?). Mi alzo, sono in una cavea che si apre su un’inferriata da cui trapelano luce accecante e urla lontane, come di una folla incitante. Un nubiano grosso come un condominio e nero come la notte mi sta vestendo: elmo crestato alto, schinieri, spallaccio, infine una rete piombata ed un tridente puntutissimo e lungo, ancora macchiato di sangue rappreso e frattaglie sciolte, il mio tridente, il tridente di Spartaco. La grata si alza ed io avanzo, all’inizio un po’ barcollando, poi con l’incedere rilassato, no, rassegnato di chi ormai non ha più domande da porre al suo cervello, ma solo gesti da compiere. L’arena è miserella, le urla sono quelle di un centinaio scarso di persone che fanno corona ad uno sterrato dall’altra parte del quale c’è il mio avversario nel sole accecante del tardo mattino. E’ a capo scoperto e porta gladium e un piccolo scudo rotondo. Mi fermo un attimo e aguzzo lo sguardo…..Machecazz… ma…io…eh? L’uomo è Von Kakkien Junior. Stringo gli occhi mentre un sorriso sbilenco mi illumina il volto, un ghigno da lupo pazzo. Mentre corricchio a saltelli verso quegli che già urla, lascio cadere a terra le armi; quello che farò, lo farò a mani nude. Fine Ps Questo libello satirico è opera di fantasia assoluta. Un ringraziamento particolare va allo sponsor, Alcover, sale sodico 4 dell’acido butirrico, sciroppo contro la sindrome di alcolismo. Un grazie ancora all’impareggiabile “L’Eretico” di Alan D. Alteri, che ha fornito alcune impalcature storiche interessantissime su cui poggiare la trama. Ringrazio mia moglie, quella vera, che si chiama Stefania e che vale cento Frinilde, la mia famiglia, i miei (pochi) amici e il personale medico dell’ospedale Santa Scolastica di Cassino. Scuse dovutissime all’impareggiabile Chew Becca, quello vero della saga di Guerre Stellari di Geroge Lucas, per l’improprio accostamento col suo mai esistito emulo. Un consiglio finale a tutti gli aspiranti suicidi: in piedi, cazzoni!