Di Giampiero Casoni – Le Cronache di Sbornia 1 Un`oncia

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Di Giampiero Casoni – Le Cronache di Sbornia 1 Un`oncia
Di Giampiero Casoni – Le Cronache di Sbornia 1
Un’oncia di azione vale quanto una tonnellata di teoria.
Friedrich Engels
Veramente volevo chiamarlo “Balla coi Pupi”, già la
storia di due grassi, pasciuti puponi ignoranti pieni di
pasta, vino, birocci d’epoca e poderi, ma poi ho pensato:
cazzo qua, almeno qua il protagonista sono io, almeno
nel titolo e allora via con le cronache di Sbornia.
Sbornia sono io, scrivano prima per diletto, poi
per gloria, poi per necessità, lo stato umano in cui di
solito vanno a puttane i sogni… o qualcuno ce li manda
per te. Risiedo qui in Turingia da sempre, la guerra
eterna fra scismatici luterani, ortodossi cattolici con
annesse pestilenze ha bruciato tutto. Da un po’ di anni
abito nei pressi di Magdeburg, enclave cattolica dove
la Venerazione è particolare per una Vergine acquatica.
La guerra, o meglio, le guerre infinite non hanno
mai intaccato, a detta di quanti mi conoscono, due
cose: la mia infinita erudizione e la sua sorellastra
zoccola, una curiosità morbosa che mi ha portato a
vedere il male con l’occhio dell’uomo che cammina al
suo fianco, invece che con la pupilla cisposa di chi lo
sguincia da lontano, compiaciuto dell’altra via imboccata.
A dirla tutta non c’è sostanza, medicamento officinale
o psicotropo che io non abbia consapevolmente
voluto assaggiare, assaggiando di contempo quel che
la vita conseguente ne offre… il che ha fatto di me un
beone, ma un tal beone, ma un beone di tale caratura
che se trecento anni dopo fossi capitato in una cittadella
a sud dell’Alpe, Bassano sul Grappa, andandomene
io, il viandante avrebbe trovato financo sul cartiglio
di benvenuto la scritta. “Benvenuti a Bassano”.
A dirla a ancora più tale però, da un anno paio aver
trovato la mia pace interiore; non nego di aver invocato
e ricevuto il nume anche grazie ad un potente medicamento
che assopisce in me la libidine da bettola.
Sono sposato con Frinilda, donna saggia e combattiva
a cui ho disegnato più rughe io suo volto di quanti
crateri non abbia cispato l’abiurante Galilei giù in Italia.
Ho una capanna dignitosa ai margini del villaggio,
una madre vedova ed un fratello esule in Franconia,
dove combatte al seguito di un potente margravio.
Non ho però più un lavoro: il clima di intolleranza, il
mio passato e la mia voglia di sedentarietà dopo co12
tanto viaggiare (ho i calli dei piedi che sembrano scroti
di verro) mi hanno reso consapevole di una semplice
realtà: io vorrei restare qui a Magdeburg, anche
perché ho orrore di cavalcare e ne ho abbastanza di
pioggia in faccia in attesa del biroccio per Bar-Hach.
A dirla in gran completo siamo felici ma poveri, il che
presuppone che in almeno una delle due asserzioni si
menta come basilischi. L’occasione, la Grande Occasione,
arriva però con la chiamata di Otto Von Kakkien,
potente margravio locale, signorotto pasciuto e
panciuto, non immune da un certo saccentismo che
mi incuriosisce, a dire il vero, più del conio che, seraficamente
e con sorriso da faina, mi offre una mattina
piovosa del 2 febbraio di quest’anno. “Potente duca di
eserciti – gli faccio – se fra noi debba esservi patto sia
giusto che Ella sappia o rimembri chi sono e chi sono
stato, con i miei vizi e le mie virtù. Se Ella vorrà, sarò
scrivano della sua creatura”, il cippo di una grande
battaglia combattuta proprio qua contro le potenti
armate di Gustavo Vasa di Svezia. Egli e il suo occhio
acquosamente celeste saviamente annuiscono mentre
il sussurro è chiaro: “Mi servi per scrivere del cippo,
tutto qua, faremo un patto scritto ed avrai un com13
penso. Sto per scendere in campo per la selezione dei
consiglieri della Lega Anseatica ed anche lì, ovviamente
con maggior equidistanza, potresti adoprare il tuo
calamo…”. Chiedo carta scritta che qualifichi il patto
e ottocento fiorini. Poi corro a casa a dare la buona
novella a Frinilda, sotto una pioggia sferzante che,
ancora non lo so, per me non cesserà più di cadere
per mesi, cambiando solo colore ed acidità…..
Le Cronache di Sbornia 2
Piuttosto soffrire che morire,
è il motto degli uomini
La Fontaine
Quel piovigginoso febbraio non voleva proprio saperne,
di andarsene a fare in culo, così come non sloggiava,
anzi, cresceva in me, Sbornia, lo scrivano assoldato
da Von Kakkien, che quest’ultimo fosse potente
come un peto di farfalla e sincero come un aspide in
terapia. Frequentavo il Palazzo, da un po’ di giorni,
questo per diretto “consiglio” del margravio ed avevo
la strana sensazione che qualcosa, la Madre Sorte, se
lo stesse si tenendo in saccoccia per me, ma in quella
bucata. Erano tempi bui: i preparativi per la scelta
della compagine che avrebbe avuto diritto di ingresso
nella potente Lega Anseatica fervevano ormai da tempo.
Tanto che, mi accorsi, finanche alcuni pii poi
ammalatisi di politica ebbero a tener con me movenze
e cadenze più tiepide. Pio era il popolo tutto e proba
l’universa gente di Magdeburg ma, si sa, il barile perfetto
di mele deve ancora esser concepito ed arrivarono
così i giorni del nervosismo strisciante. Devi sapere,
caro lettore, che il potente medicamento che io,
Sbornia, assumevo per aiutarmi nella battaglia contro
il demone delle Cantine aveva un curioso effetto collaterale,
non da tutti scientemente interpretabile. Esso
si manifestava, per contrappasso, proprio con i sintomi
tipici di un beone col callo misurabile a once, né
erano pochi coloro che, vuoi per malafede, vuoi per
preconcetto, vuoi per il mio oggettivo passato stercorario,
interpretavano il percorso di guarigione come il
perdurare nel baratro. Alcuni ne godeva, alcun altri ne
prendeva distrattamente atto, alcun altri invece intravedeva
in questa mia tabe una possibilità d’uso. Conscio
di ciò, decisi di andare dritto nel culo del Grifone
e giocai d’anticipo, iniziando a prendere il medica16
mento coram populo, davanti tutti. Giorni tristi, giorni
mogi quelli senza conio, giorni in cui il solo veder partire
Frinilda come unica portatrice di (poco) pane
domestico alla volta del biroccificio di un potentissimo
langravio tauringio spremevano dal mio cuore, il
cuore di Sbornia, la speranza che tutto andasse bene
con ‘sto cacchio di Von Kakkien. Il quale però, dopo
un iniziale bearsi della compagnia e delle prestazioni
dello scrivano che ivi scrive, incluso uno storico discorso
durante l’Adunanza per il genetliaco teutonico,
sembrò cadere preda di uno strano male, simile
all’invidia del pene che da lì a due secoli e passa un
potente taumaturgo della mente avrebbe teorizzato.
Degustatore di storia della Brittannia e sedicente estimatore
di tutto ciò che provenisse dalla terra annunciata
dal bianco di Dover, costui ne sparava di
tante e di tali, per darsi un’aria colta, che a tutta Magdeburg
parve quanto meno un po’ azzardata la scelta
di connivere in fortissima promiscuità con personaggi
di cervice… come dire, “strettina”, fra i quali un
Chew-Becca con le stesse capacità intellettive di una
lontra (non s’offenda il mustelide) ma di lingua affilatissima
in quanto ad insinuazioni sui vizi passati degli
altri, da esso spesso presentati come ancora vivi e
palpitanti nell’eterno gioco dell’Isola dei Lecchini, sollazzo
a nomination, si badi bene. A Sbornia però poco
caleva di tutto ciò; era giorno di paga! Alla fine ci si
era messi d’accordo per settecentocinquanta conii e,
giunto in Palazzo, mi venne il cagotto bulgaro quando
mi accorsi della somma stampigliata su un foglio tra
l’altro non ancora figlio di un contratto e quindi perseguibile
dagli uomini di legge: 500 conii. Prossimo
alle lacrime ma certo dell’equivoco sanabile, rintracciai
Von Kakkien; ci parlavamo da lontano, dalle cime
di due colli, il piccolissimo colle “Cellu” (il suo) ed io
su da colle “Lare”. Sbiancai quando la frase finale di
una lunga ed inutile trattativa fu quella con cui il
margravio tagliò la testa al mio futuro, o quanto meno
menò la prima mannaiata: “Tanto, per uno con un
passato come il tuo, combinato come stai tu, che altra
soluzione c’è? Dove vai senza di me Sbò?”. Già… dove
vado ora?
Le Cronache di Sbornia 3
Un partito è la pazzia
dei molti per il beneficio
di pochi.
Alexander Pope
Si era ormai in clima di guerra e a Magdeburg gli eserciti
affilavano le loro lunghe e dritte Papphelmeiner,
le spade da battaglia a doppio filo: da un lato, la
Falange di Arras di Von Kakkien, dall’altro i Dragoni
dello Schloss Kragberg capitanati da un novizio di
buona fede. La guerra eterna, che sarebbe durata
trent’anni, si sarebbe beata di quell’appuntamento, di
quello scontro, come del più osceno dei gioielli. Dal
canto mio io, povero Sbornia, avevo appena pestato
una merda di bue grossa come un materasso della futura
Eminflex, scoprendo i livelli galattici di micragnosità
e falsità del mio supposto mentore, che mi aveva
rifilato la prima di una lunga serie di sòle al cubo.
Ma che potevo fare? La fame urlava nel mio stomaco
più forte della coerenza che, a quel punto, mi
avrebbe dovuto spingere a dare a Von Kakkien un calcio
nel culo talmente gagliardo da non farlo sedere
almeno fino alla carica di Balaclava; la frase con cui
avevo esordito durante in nostro primo incontro era
stata “Micromagnificenza vostra, sappiate che se giocate
con me, giocate con un relitto già mezzo affondato;
se di fola si tratta perciò, ditemelo subito, abbiamo
scherzato, non me n’avrò”; poi, anzi, soprattutto, Frinilda
e il suo lavorare come una ossessa mentre le mie
giornate si scioglievano in caracolli davanti alle bettole
o su in Palazzo, erano diventati per me imago ossessionatissima,
da torcermi cuore e budella in un unico
groviglio serpeggiante di rimorsi e velleità di ripagare
quei suoi sacrifici. Insomma, scelsi di non vedere
l’onta che rappresentava la sola idea che Von
Kakkien fosse al mondo e tirai vigliaccamente dritto.
A dire il vero vi fu, fra il popolo, chi aveva fiutato e
condiviso questa mia posizione dall’alto di una saggezza
che poi andò via sbiadendo (quando le fanfare
della guerra scalciano via gli stornelli dell’ozio allora è
necessario indossare una divisa, quale che sia fotte
nulla ad alcuno, l’importante è che se ne abbia una)
ma io speravo…………………… Speravo cosa? Che
quell’oscena lumaca dal riso di una chioccia in menopausa,
che quel tappo giullare nato ricco ma mai diventatovi
per piagaggio di schiena, quel frustrato in
cerca isterica di polpa per il suo misero poterucolo in
decadenza potesse capire la solfa e non andare oltre
con le sue malìe? “Potrebbe anche aggregarsi alla nostra
avventura, la tua Frinilda – fece rotolare l’ipotesi
con la leggerezza di un ippopotamo che monta un
trattore John Deere – la cosa ovviamente non ha nulla
a che vedere con i nostri patti, che sono e restano tali
(La faccia come il culo di un lama, ciai! – pensai)”.
Amico lettore, sarà stato per un sogno di gloria che finalmente
affrancasse la mia povera moglie dal suo
sgobbare, sarà stato per colpa del medicamento anti
sbronza che avevo a lessarmi la boccia, sarà stato perché
la nostra curante onirica aveva chiesto espressa21
mente che la mia donna ritrovasse se stessa in un ruolo
non subordinato alla mia saccenza, io non feci quel
che, indubbiamente, andava fatto: cioè raccogliere in
fondo alla gola una patacca di muco grossa come una
susina e spararla a scaracchio secco su quella faccia
deretanuta. Ventilai l’ipotesi come fattibile, poi invece
mi limitai a porre condizioni da cerebroleso: che ella
cioè non fosse in prima linea ma nelle salmerie e che
qualcuno appoggiasse la sua istruzione con la sua esperienza
nelle cose di guerra. Il cazzo di guaio era
che, parlare con Von Kakkien a tu per tu era diventato
facile come incularsi una cavalletta cocainomane in
un campo e al volo pure. Da un po’ di tempo Chew
Becca, il buco con la merda intorno, gli si era appiccicato
addosso come la carta moschicida alla svolazzante
ragion del suo essere. Penai come un dannato, per
convincere Frinilda a tentare la sorte della guerra
imminente: ella era inadatta a tali portamenti e, soprattutto,
veniva dai Geldren, storica famiglia della
Lega cattolica facente capo a Massimiliano von Wittelsbach
e storicamente avversa ai Von Kakkien, freschi
luterani ed eresiarchi transumanti. Alla fine
l’amore, che è potentissima forza ultraterrena, fece
quello che nessuno, a Magdeburg, neanche le grosse
pietre squadrate del maschio centrale al Palazzo, si
sarebbe aspettato accadesse: indossò, anche se non
ancora ufficialmente, la casacca rosso-azzurrobianconero-malva-pervinca-giallo-verde etc. etc. dei
Von Kakkien ed entrò nella Falange di Arras. Chissà
perché, pur mancando appena cinque giorni al mio
secondo stipendio, io, Sbornia, cotessitore imbelle di
cotanto sconcio, mi sentivo una merda…
Le Cronache di Sbornia 4
Adoro i partiti politici
Sono gli unici
Luoghi rimasti dove la gente non parla di politica
Oscar Wilde
Mi accorgo, lettore amatissimo, solo ora di aver sottaciuto
troppo del mio lavoro: in esso profluiva tutto
l’entusiasmo e, mi sia consentito, la competenza, che
lo storico infoiato di humanae res può dedicare ad
una faccenda così fascinosa. Avevo alla fine “preso
possesso” (espressione solenne di Von Kakkien, che
sperava così di mitigare il fatto che non avessi ancora
carta e conio da regula, balengo lui a pensarlo e balenghissimo
io a non farglielo capire) del mio rifugio
di studio presso il Luogo di Culto, Il Cippo della tremenda
battaglia che nel 1625, aveva visto le stremate
truppe dell’Armata dell’Oberkommandierende Tilly
spadroneggiare per l’intero territorio, prima di provare
con successo a fermare l’imponente macchina da
guerra di Cristiano IV, re di Norvegia e Danimarca. In
breve tempo, le mie notule si spersero per il territorio
come buone novelle della ritrovata bellezza di un posto
che resta bellissimo finanche ora che per me ha
assunto il virato bluastro dell’arsenico; ero e sono apprezzato,
diciamo, per certe mie presunte doti “pittoriche”
nel descrivere le cose e, diciamocelo con franchezza,
la guerra e i suoi orrori sono tavolozza ricchissima
ancorché orribile. L’ambiente brulicava di
Reiters vicini a Von Kakkien, (quale io medesimo ero,
sic!) di loro congiunti e di personaggi annunciati dal
clangore delle spade imminente ormai. Vi si respirava
una perenne aria di guerra nella guerra, forse perché
erano in gioco necessità primarie come le mie, necessità
nobili perché prive di alcuna ambizione ma miranti
solo a tenere la testa un decimetro al di sopra
della merda. Financo mia congiunta ebbi ad infilarvi,
in quel vespaio di povera gente che cercava solo pane,
beandomi come uno stronzo di un potere che su questa
Terra non ho mai avuto. La Storia ha sempre assolto
questi personaggi, figli del bisogno, ed io non
son uomo da giudicare il bisogno. L’apoteosi della
mia ascesa, preludio di un Averno infinito che mi riduce
oggi come poi dirò, la si ebbe in occasione
dell’arrivo di una legazione carpatica, in cui la mia favella
ruscellò con tanta vigoria che avrei potuto perfino
costringere il loro daimon nazionale, Vlad III
l’Impalatore, ad iscriversi all’Avis per la donazione del
sangue. Ma i veri demoni sghignazzavano ormai su
nubi molto più prossime. In giro caracollavano anco
vecchi avversari divenuti amiconi, nemici giurati divenuti
compari, compari scomparati per sopraggiunta
incompatibilità coi sogni neroniani di Von Kakkien;
Magdeburg stava pian piano diventando una fucina
d’odio (il tutto intervallato dalle risate chiocce del
margravio o dalle sue fugaci e sospettose apparizioni
sul suo carro con serpe emblemato) dove dal vaffanculo
alla bastonata sul grugno era facile passare nello
stesso tempo che impiega una mosca a cagarti sulla
nuca indifesa nella canicola agostana in Turingia.
Memorabile fu in tal senso una prima scaramuccia fra
i due eserciti combattenti, roba da plotoni, il giorno di
una festa cristianissima, quando un vavassore di Von
Kakkien, liberatore della favella del suo alleato, se le
diede con un sostenitore dei Dragoni. Chiamato al
mio secondo compito, quello di scrivano bellico, non
nascondo di rimembrare con orrore quei giorni di difficoltà,
perso fra il bisogno di creare un’arte equilibrata,
quello di spiegare a tutti che ero incatenato non
dall’ingordigia ma dalla fame e quello di dimostrare al
mio padrone del cazzo che, in tutto questo, ero pure
un ruffiano di lungo corso, puttana vecchia scafatissima
nel decantare le lodi del tiranno versione Pokemon.
Tirannello che sempre più si allontanava dalla
mia persona, sperso in lunghi silenzi in cui Dio solo
sa cosa gli potesse ruminare nel capoccione amico
dell’eco. Solo l’arrivo della valanga Chew Becca, che si
annunciava con discrezione tale da essere udito fino
in Valacchia, sembrava scuotere il nostro dalla narcolessia
e sospingerlo verso nuove, immani, portentose
cazzate. Come quella ad esempio di scalciar via onesto
giovane guerriero con l’onta del ladrocinio o pungolar
mio congiunto per le perplessità che affioravano
dal suo volto taurino nel veder Frinilda incastrata ed
egli dileggiato, o ancora prendere paro paro il mio piano
di battaglia e riscriverlo in una sola notte per il
semplice gusto di metter firma lui su una vittoria che
riteneva ancora potesse sopraggiungere a valanga. Ne
emerse un manuale di tattica dignitoso ma del tutto
inutile nella sua presunzione innovativa. Tanto che
uno stesso potente alleato di Von Kakkien, l’esule spagnolo
Antonio Francisco Ortega Ybarra, peritus iuris
prudentiae e presumibile condottiero dell’ala destra
della Falange di Arras, pensò bene di defilarsi dal
pubblico concionare quando intuì che la potente Legazione
che avrebbe protetto il cippo era stata solo
decisa a livello di Adunanza, ma senza la benedizione
della Lega Anseatica. Ah, già, il mio terzo obolo: come
il secondo, che mi venne versato dallo stesso Von
Kakkien (non abbiamo conii, non si può… aspetta e
vedrai… e alla fine l’impossibile “ti fidi di me?” Malim…)
mi fu dato in nero da un personaggio molto ma
molto vicino a Von Kakkien, stavolta, per intero in nero
dopo una mia memorabile sfuriata notturna, in cui
perfino le civette si grattarono i coglioni nel sentirmi
barrire per i miei diritti e per il pane da scambiare
con la marchetta che io stesso, misero verme ormai
consapevole del trappolone ma impossibilitato dai
debiti a sottrarvisi, avevo apparecchiato per una sempre
più nervosa Frinilda…
Le Cronache di Sbornia 5
Non esiste una sola cultura
Al mondo in cui sia permesso
Di fare tutto
Michel Foucault
Parliamo un po’ del mio medicamento e del ruolo,
punto marginale, che ebbe in questa strana vicenda.
Consegnatomi dal mio pozionista circa 9 mesi prima
dello svolgersi di cotali sconci, era potente, ma potente,
ma così potente che, in realtà un baluginare di volontà
ed orgoglio in unione con esso garantiva risultati
eccelsi, nella lotta al Demone Etilico. Esso “acceca”
in buona sostanza quella parte del nostro cervello che
fa chiedere agli uomini il quotidiano oblio,
l’obnubilamento e la genuflessione alla caraffa spumosa.
Dopo un po’ di settimane per me, Sbornia, iniziarono
ad arrivare i primi riconoscimenti: notule
scritte dei savi di medicamenta che attestavano il mio
pieno recupero. Fu proprio con una di queste notule
che, il giorno che fui convocato dal nano gaglioffo, mi
presentai; questo per attestare da un lato la mia sincerità
di intenti e, dall’altro, quella di azioni. Ma fu soprattutto
un atto di fede, mal ripagata da Von Kakkien
come un calcione ad un cucciolo di cane dall’epa
imberbe. Quando infatti gli effetti collaterali della
medicina si palesavano, in corrispondenza di situazioni
“nervose”, con sbandamenti, colpi di sonno repentini
e caracolìi obiettivamente sospetti, fu con codesta
ceppa di fava (leggasi, col cazzo) che Ciùfolo,
l’Ottavo Nano, si peritò di sostenere la mia imbarazzatissima
campagna di sincerrime spiegazioni. Tanto
acerba e tignosa fu la sua “collaborazione” che, non
appena Chew Becca iniziò a latrare, in uno dei suoi
più riusciti endorsement col capo, che Sbornia era un
cocainomane innanze ad almeno tre persone, dal culo
di tordo che il margravio avea per bocca non uscì un
fiato, per spiegare l’arcano, anzi, giù risate, di quelle
da vetro raspato sul ferro vivo, risate morte, risate
sconce, risate a cui, tanto per cambiare, io e Frinilda
ci fingemmo sordi per cavalcare la delicatezza del
momento ed evitare la povertà che bussava ogni giorno
a casa nostra con notule dei banchieri genovesi.
Momento che ormai volgea all’arma direttamente, a
Magdeburg. I due eserciti, sia pur con qualche difficoltà,
erano ormai allestiti e si preparavano a violare,
di fatto, la Pace di Augusta e la pacifica convivenza fra
Luterani e Cattolici romani. La Luterweg, la strada di
Lutero, che si sperde nelle foreste della Turingia, era
percorsa solo dallo stridio degli acciai sfregrati a filo,
dai nitriti dei cavalli da guerra e, a dire il vero, da più
di un raglio asinino. Sul fronte interno intanto, la distanza
fra me e Von Kakkien continuava, implacabilmente
ad assumere il divaricamento di una vacca frisona
partoriente. Il mio umore era sempre più cupo:
un giorno lo scimmione con codice fiscale esortava i
giovani a “non frequentare Sbornia”, un altro lo stesso
Duce della Pampers quasi urlò in faccia allo Sbornia
medesimo, che aveva chiesto chiarimenti sui diritti
dei lavoranti al Cippo assoldati: “Io non sono come te,
lo capisci?”, appalesando una verità simile a quella del
sorgere del sole ad est. E cosa stracazzo ti aspettavi,
bolo mal digerito di un cane tignoso, che nella sua infinita
misericordia il Signore ne fabbricasse più di
uno, di arnesi di fatta come la tua? Le comunicazioni
erano del tutto scomparse, il margravio faceva ormai
squadra coi nuovi capitani, in barba al mio lavoro ed
alle finezze con cui, malgrado tutto, insistevo a connotarlo;
il periodo dell’obolo, sempre sanza contratto
alcuno invano supplicato non meno di una volta pro
die, si era trasformato per me in una sorta di Via Crucis
in cui, ormai, la violazione delle leggi coincideva
col “buon cuore” del germano di Von Kakkien, comites
Aloysius, cerusico e condottiero designato della falange
di Arras per i futuri scontri, che mi pagava in
nero con un misto di imbarazzo e timore di mie sfuriate.
Era costui uno strano miscuglio fra il Franti di
De Amicis, Don Abbondio e Gigi D’Alessio, personaggi
emblematici di un futuro che virava, nel gioco di Padre
Tempo che indietro volgesse lo sguardo,
dall’imminente, al prossimo al remotissimo: fondamentalmente
buono, un tantinello - e son cortese con
chi assistè al sacrificio ma non levò la mannaia al cielo
- a corto di coraggio e melomane patologico, il che
mal legava con l’oscuro carattere di me, che ballo come
un canguro con le emorroidi e canto come un’orca
con la tonsillite. Attaccato più per la sua paciosità che
per obiettiva malvagità, Aloysius conservò sempre una
sudditanza quasi patologica nei confronti dello schizofrenico
germano; fu generoso ed austero con Sbornia
nella sua veste di cerusico e di “cucitore” sia pur
maldestro, fra le istanze del sangue, che gli dicevano
di chiudere un occhio innanzi alle cazzate ed ai “prelievi
di cassa” del germano, e quelle di raziocinio, che
gli urlavano di chiudere il medesimo in una cassa di
noce e scaraventarla a testate nell’Elba. Purtroppo per
Magdeburg e per Sbornia, vinse il sangue… che altro
sangue chiamò.
Le Cronache di Sbornia 6
Il coraggio è la prima dele qualità,
Umane, perché è quella che garantisce le altre
Winston Churchill.
La guerra! Das krieg, come ormai invocavano i cani latranti
da ogni parte, che di ogni ostilità si approvvigionano
malgrado gli esiti, da che Mondo è tale. La
prima offensiva fu a Cura dei Dragoni dello Shloss, in
attesa di uno scontro finale che i savi prevedevano a
maggio. Insegne al vento, vento a caracollare fra le insegne,
gli squadroni sfilarono in una conca urbana
prima di estrarre l’acciaio e controllare la giusta secchezza
dei foconi alle pistole da cavalleria. Magdeburg
si era trasformata, in un battito d’ali (di tordo)
da luogo di malevola quanto eterea dicenza a teatro
di possenti scontri fisici. Orde di Vendi, Avari e Adobriti
avevano già ridotto in passato la cittadina in cenere,
ma Ottone il Grande Carolingio, nell’Anno Domini
937, aveva riedificato il mastio e, in più,
un’abbazia benedettina, quella dei Santi Pietro, Maurizio
ed Innocenzo. Come prima mossa, i Dragoni dello
Shloss attaccarono con le falangi del loro condottiero
supremo, Mathias Vlacich, spalleggiate a stretta
via dalle giovani ma irruente truppe di Alani e Vandali
occidentalizzati in Iberia e dalla solida e collaudata
armata di Jan Der Kral, principe-borgomastro di provata
esperienza in fatti d’arme. Io e Frinilda ci eravamo
preparati come meglio potevamo, per quelle faccende
straniere al nostro cuore, specie a quello di mia
moglie. Di tutt’altra pasta fu l’approntarsi dello squadrone
centrale di Reiters e di Dragoni erranti di Von
Kakkien. Quest’ultimo, per lo scontro di esordio, si
era agghindato come una puttana di Bavarìa e coperto
di ferro e sete come il ferocissimo Gustavo Vasa di
Svezia., ottenendone però l’effetto contrario: dove lì
avresti visto, nello scandinavo il duca elegantemente
crudele e perito d’arme, qui intravedevi un chiuàua in
armatura ma col dente avvelenato proprio perché
conscio dei suoi pochi centimetri di estensione. Sembrava
un barilotto con doghe di ferro poi coperto di
drappi e lasciato noncurantemente là, in un angolo
della sala delle feste, a far da pisciatoio ai mastini dei
langravi convenuti ad ubriacarsi prima dello scamazzarsi
finale. Aloysius, defilato ma ormai di fatto in
gioco e duce supremo, reggeva di più la tensione prima
della carica della cavalleria e dell’incalzare dappresso
delle picche di fanteria; i suoi grossi denti, adatti
più al sorriso fascinoso che al morso ferino, luccicavano
bianchi nella sera già vermigliata dal rosso
delle prime scaramucce. C’è a dire che, come avrebbe
appalesato per tutta la campagna, Von Kakkien jr
sembrava invece più nervoso del fratello; già il giorno
prima avea scaraventato contro una grata di feritoia
del mastio un grosso ornamento del tavolo da cui giocava
a fare il Cesare de’ no antri, o il Churcill di codesta
varra, dopo che le insistenti mene di un impiegato
della Lega Anseatica contro uno dei generali della sua
armata, inviso fino all’odio cieco, gli avevano fatto
bollire i 33 cl di Sprite che possedea in vece del sangue.
Ma nessuno, in occasione di quella prima batta37
glia, che fu cruentissima da che palesò una leggera ed
ipotetica inferiorità di base delle truppe dello Shloss,
fece sfoggio di sé (le risate ancora riecheggiano fino a
Wuttemberg, ove Lutero affisse l’inaffigibile) più del
neo generale Chew Becca: sembrava La Cosa dei Fantastici
4 dopo un giretto a Casablanca, un armadio a
quattro ante scoppiante di tanti e tanto variegati mantelli
da averne sportella in spalancume, come un
bronzo di Riace incappato in un’orda di writers strafatti
di crack sopraffino. Si muoveva a scatti sul campo
di battaglia, scodinzolante come un grosso segugio
idiota mai a più di tre passi (di nano, dato l’oggetto di
cotanta attenzione) dal von Kakkien jr, che ammorbava
l’aere col suono delle sue stridule risate da femminiello
incravattato mentre guidava ma dalle retrovie,
come Napoleone ma dopo tre ictus, tutti, marmaglia e
buoni soldati, lame probe e draghinasse frastagliate
come l’animo vizioso di chi le impugnava. In
quell’occasione di luci, sangue e teatralità dell’orrore,
io, che m’era approntato su un colle di fianco alla pugna
con calamo e spada corte, e Frinilda, pronta alla
guerra come Von Kakkien sarebbe stato pronto ad
una cosa sensata, restammo entrambi ubriachi, ma
nessun dei due dalla gorgogliante ragion prima
dell’Ebbrezza: io mi ubriacai di vuota gloria, Frinilda
di mal taciuta vergogna per un passo già fatto e lungo
come la distanza fra il cervello di Von Kakkien e l’idea
di cervello.
Cronache di Sbornia 7
Sai, io sono molto amico del sottosegretario
E ieri ho incontrato
Il generale
Emulo di von Kakkien
Simpatico come un gatto aggrappato ai coglioni, il
generalissimo-germano Von Kakkien si crogiolava, il
giorno dopo la prima battaglia contro lo Shloss,
nell’arte a lui meno adatta ma che lo faceva star meglio
di tutte perché gli creava una claque intima che
non faceva altro che suggerirgli “bravo!”, “ma tu sei
un genio, un drago!” o “certo che con te non ce n’è per
nessuno eh?”: quella di interpretare tatticamente uno
scontro. “Abbiamo la vittoria in tasca – assicurava col
tono di chi lo deve spiegare a bambini affetti da gravi
tare mentali al suo entourage; se quello di Magdeburg
non fosse un popolo di idioti questa faccenda sarebbe
stata già risolta da tempo. Adesso però bisogna che
tutti i condottieri, comprese le salmerie (e sguinciava
ratto, il ratto, nella direzione di mia moglie) si diano
da fare per assicurarsi truppe, sempre più truppe”.
Col soldo si fanno i soldati e coi soldati ci fai una vittoria
che magari ti tenga un piede nella Lega Anseatica
in attesa di nuovi appetiti eh guagliò? Perché adesso
un po’ di appetito lo hai anche tu, nèvvero pustola?
Dopo tanto gozzovigliare e con l’intera vestigia del Sacro
Romano Impero a tocchetti, bisognerà pure che tu
un po’ di pane lo faccia, oltre che averne in rendita…
La seconda battaglia cominciò male per me: ero nervoso,
esasperato ed avevo preso il medicamentum per
evitare che un cagotto da battesimo del fuoco o qualche
duello isolato mi spingessero verso il bancone di
una qualche bettola. Lo sforzo fu immane. Quando
tutto sembrava volgere per il meglio, nel senso che gli
affondi che la Falange si apprestava a dare parevano
utili ad una qualche causa ma poco pericolosi per la
mia Frinilda, dovetti ingaggiare un corpo a corpo fu41
rioso con un grosso guerriero dello Shloss, adirato per
la mia cronaca della battaglia precedente. Io ero nel
torto in quanto a schieramento ma in ragione santissima
di uso di satira e di una equidistanza che avrei
usato anche con i permalosissimi Von Kakkien, di lì a
poco, satira peraltro a favore di un giovane combattente
anti Von Kakkien; tutti conoscevano quanto sapessi
giocar di fioretto e quanto poco di sciabola e alla
sciabola, lo scontro fu; violentissimo, contro un nemico
più in forma e lucido, oltre che determinato a creare
un varco, come è dovere di ogni buon soldato. Mi
salvaron vita e onore la stirpe dei Gendren, un cui
rappresentate sellato di fianco al mio antagonista, non
levò anche la sua, di spada, contro di me, spacciandomi.
La stessa Frinilda poi, congiunta prossima del
cavaliere sportivamente defilatosi dalla tenzone, intervenne
con ratta incursione a sottrarmi ad uno
scontro che lì, quella sera, pareva davvero impari o
destinato ad un’ecatombe ultima, tanto io era furente
e scoordinato, per tragico paradosso proprio perché
volevo guarire, non perseverare nella mia malattia.
Ricordo poco di quella battaglia, anche perché dopo
un attimo di invasatezza in cui ebbi addirittura a con42
cionare col Von Kakkien piccino picciò (dovevo esser
fuori come un balcone, ho idea) e financo con un gasatissimo
Chew che sembrava un derviscio urlante
della terra di Solimano, caddi in uno stato di torpore
per il quale la sorella di Frinilda, che intanto combattea
la mia battaglia in cima al colle di comando, dovette
issarmi su un carro di salmerie ed attendere che
Aloysius sferrasse il suo singolo attacco, con alabarda
e picca, attacco contenuto e contenente lo scopo di
contenere il contenibile, una cazzata immane, insomma,
da cui si affranca il duce supremo dato che il
piano lo aveva riscritto il “ducetto”, come l’adorato
lettore ricorderà. Ma la parte importante di questa
parte di narrazione non è tanto la seconda battaglia di
Magdeburg, che ebbe un esito decisamente neutro,
quanto piuttosto il fatto che quei fatti segnarono il
primo scossone alla mia anima ormai strappata come
un panno da soffitto per settimane e settimane di
umiliazioni, torti, povertà con goduria di altri nel provocarla,
rimorsi e nuovi avversari indotti dallo scorrere
violento degli eventi. Per mutuare un grande del
passato ma che ancora in questo nostro Tardo Seicento,
deve esser riscoperto nel suo sacello ravennate, il
giorno dopo, nella mia capanna, “caddi come corpo
morto cade” e la mia famiglia, in fortissima apprensione,
dovette chiamare un curatore al mio capezzale:
Aloysius. Quando aprii gli occhi appannati dal mio
giaciglio, capii che ero fottuto e che dovevamo andare
avanti comunque, ad ogni costo e fino ad una fine
ormai annunciata. Un duce che, in quanto medico,
conosce per ben due volte da vicino il tuo tallone
d’Achille, per quant’onest’uomo come Aloysius sarebbe
potuto essere, è e resta in teoria uno che ti tiene
per le palle e questo, pressappoco, non l’ho detto io,
ma Seneca qualche centuria fa.
Le Cronache di Sbornia 8
La critica,come la carità,dovrebbe
Cominciare a casa propria
B.C. Forbes
La terza battaglia di Magdeburg passò alla storia…
perché io non vi partecipai. Già, Sbornia era al tappeto,
dopo la seconda tenzone che lo aveva visto quasi
soccombere. In quel caso, va scritto, i buoni consigli
di Aloysius, che era pur sempre un giurante ad Ippocrate
e uomo non completamente immarcescito dalla
promiscuità col germano demente, si rivelarono preziosi:
niente altri medicamenta, molto cibo nutriente e
riposo. Di quest’ultimo parere approfittai in maniera
invereconda, anche perché una Frinilda a metà fra
l’orante e l’isterico mi aveva fatto giurare che, per
quell’occasione, avrei rinfoderato spatha, calamo e
l’elmo unghererese col quale di solito mi accompagnavo
in battaglia, tanto più che di contratto non se
ne parlava ormai da giorni e di conii ancor meno,
mentre si sommavano le carte con cui varie autorità ci
ingiungevano pagamenti-capestro. Il guaio è che, proprio
per quel cimento, ci si aspettava un attacco forte
esattamente ai due punti deboli della Falange: lo
squadrone di cavalleria pesante (pony e asinelli sardi)
di Von Kakkien, accusato di voler far della guerra occasione
dinastica e il settore salmerie, dove la mia indecisa
prova della notte prima avevano appalesato
possibili vie di varco, per un condottiero che fosse stato
accorto nell’intuire la portata degli accadimenta
precedenti. Così fu: mentre udivo, dal graticciato del
mio talamo, gli echi di una delle battaglie più dure
della trentennale guerra in selva, non potei fare a meno,
col cuore ghiacciato per la vergogna, di constatare
dai movimenti delle truppe sguinciati dal mio nido di
pavida debolezza, che proprio verso il mio settore gli
attacchi erano più duri. Duri come il ferro ma condotti
con ars bellica peritissima e non scevra dalle anti46
che regole della Cavalleria proclamate da Urbano II a
suo tempo. Tuttavia, la sublimata eco di quei fendenti,
di quel grugnire affannato quando le lame calavano
dall’alto dei potenti cavalloni da carica, del raspare
delle lunghe picche sulle ossa scavate dalla carne
squarciata da punte inclementi, fu nulla a paragone di
quanto, in quelle ore, parallelamente accadde e portò
vestigia financo ai momenti successivi. Accadde infatti,
giusto dopo il tacere degli ultimi lamenti dei feriti,
che mi facessero visita non meno di quattro messaggeri
provenienti dal piccolo colle Cellu (il che li qualificava
per messaggeri del giovane Von Kakkien) che
raggiunsero colle Lare, dove io risiedevo con parole
misteriose quanto per me schoccanti: “Non mi aspetto
un posto in prima fila ma non di certo defilato”, oppure
“750 volte grazie” o ancora alcuni specifici riferimenti
ad alcuni potentati che avrebbero a suo tempo
steso la loro mano sul mio capo per intercessione (diceva
lui, ma poi si rivelò una della sua più riuscite
stronzate) del giovane margravio. Insomma, fragmenta
sparsi che parevano un invito-ordine a scendere in
campo di nuovo come cronachista e guerriero dopo la
batosta della terza battaglia. Io stesso, ancora febbri47
citante, raggiunsi Von Kakkien sul mastio, dove lo
trovai in presenza di un suo fido generale alleato, il
venturiero ungherese Kazjnsky. Non l’avevo mai vista
così, la bertuccia: curvo e sudaticcio sull’elenco dei
combattenti, a spuntare con aria febbricitante e con
l’aria mezza orba che connotava ogni suo occhieggiare
talputo elenchi o scripta, fra gli abili
all’arruolamento, i coartabili al mestiere delle armi e i
certi assoldabili dai nemici dello Shloss. Con aria infervorata,
linguaggio chioccio ed occhio di persico
morto sei sere prima per mancanza d’aria, Von Kakkien,
offesissimo per l’assalto di un generale avversario
che egli diceva suo amico, un tempo, mi chiese
conto di quei messaggi, me li fece leggere in presenza
del suo langravio occasionale, nonché socio in non so
quale bovina faccenda, per poi… negare a spada tratta
che fosse stato lui l’autore. Sbigottito come una triglia
collodiana, il nano iniziò ad incalzare: “E secondo te
chi è qui il politico-duce che traina la baracca da più
tempo?”, come a sottolineare che il mio parere, umilmente
supponente che quei fossero suoi messaggi
lanciati in un momento di sconforto, fosse inevitabilmente
subordinato ai merita che quello scaracchio si
auto impuntava sul bitorzoluto petto a barilotto, come
se il cardinal Richelieu di Franza gli facesse un pippa,
a lui, novello Traiano. Perplesso come una foca, feci
appena in tempo ad accorgermi di due cose: la prima,
che Von Kakkien era pazzo come sanno esserlo solo i
dementi di lunghissimo corso, pazzo come un medico
direbbe di uno che si lava la faccia con i propri escrementa,
pazzo come alcun savio negherebbe in accademica
seduta; la seconda, che dopo la batosta della
terza battaglia di Magdeburg era giunta per la Falange
di Arras l’ora di assoldare mercenari che facessero
una differenza stavolta invocata come risultato e non
spiattellata con becero orgoglio come se fosse certezza,
per la vittoria finale. Poco male: io mi sentivo già
sconfitto e stavolta Von Kakkien c’entrava poco…
Le Cronache di Sbornia 9
Il modo migliore di perdere
Una cattiva abitudine è di sostituirla
Con una peggiore
Jack Nicholson
A questo corso dell’opra è giusto che io, Sbornia, spieghi
in un certo senso il “leggero livore” che traspare
dalle mie parole, quando novello in particolare delle
gesta del giovane Von Kakkien, così come è giusto che
io metta a fuoco alcuni aspetti e personaggi che, in
questa storia d’arme e tradimenti, ebbero ruoli affatto
marginali. Siam tutti d’accordo, lettore amatissimo,
bianco o nero o ancora grigio che tu sia, che sacrifichi
ad Iside o ai numi delle foreste o partecipi
all’Eucarestia o non conosca nume, che su una cosa
non si scherza: il lavoro. Il lavoro non è solo mezzo di
sostentamento, è strumento di armonia nella famiglia,
ispecie se la medesima è minacciata da altri spirti
quali quelli da cui io e Frinilda eravamo reduci e di
cui un certo margravio venne messo a parte non appena
squillò la sua tromba per me. L’accanimento con
cui non si dava riconoscimento ufficiale alla mia attività
di scrivano guerriero non trovava perciò spiegazione
se non nella lucida determinazione a cavalcare
come stallone quella nostra debolezza per tramutarla
in cenere assoluta a fin dell’ovra distruttrice. Passavano
i giorni, le settimane, i mesi medesimi erano giunti
ad accumularsi; la legge scalpitava furente, per punire
lo sconcio di un soldato sanza soldo e sanza ingaggio,
essi stessi rischiavano ma, ciechi, non vedevano, non
capivano, spregiando finanche la dea con la Libra in
mano. Al cippo tutti avean carta men che io, che ne
avea avuta assicurata una differente (“arriverai anco a
mille/milleduecento conii!”, squittiva il ratto mentre
mi faceva penare per 700/750). Essendo il qui presente
Sbornia non proprio un serafino, questo va riconosciuto
a priori, la soavità con cui mi avviavo al disa51
stro non faceva bene né alla mia guarigione come malato,
ne alla guarigione della meravigliosa unità che,
con Frinilda, formavamo. Implorai, pregai, supplicai,
mi umiliai come non mai orgoglio superbissimo come
il mio fece, nel portare a raziocinio il Von Kakkien
imberbe ma nulla da fare: c’era sempre una scusa,
sempre un buon motivo, sempre un cartesiano “perché”
a che io rimanessi con la sacca dei conii vòta. I
debiti e i debitori, così come tuttora grazie al personaggio,
si accumulavano come le mosche su un morente
che di lì a poco sarà cadavere e, a morire, era la
speranza di offrire finalmente a Frinilda un po’ di serenità
meritata mille e più volte. Io ne soffria, ma io
solo; ero in una falange ma duellavo da solo, andavo a
dormire e non dormivo, volevo mangiare e non mangiavo,
coi medicamenta che, gagliardissimi, compivano
si la loro opera, ma in assenza di vivanda strappandomi
ogni giorno che passava pezzi interi del mio
essere, fisico e spirituale. Non pensi perciò il lettore
amato che io mi sia tramutato in un mostro livoroso
per alchimia di diletto: io sono la fame che ha fame e
non di cibo, ma di giustizia e cerco la medesima nel
calamo puntuto. Non posso dimenticare che la Falan52
ge di Arras era altresì composta, nella sua organicità,
da persone oneste, credenti in un’idea di Germania
diversa, nella loro Pace e non nella Pace di Augusta e
questa est humana e naturalissima cosa. Molti di costoro
mi onoro di chiamare ancora amici; chi si sentisse
mio inimico o a me ostile, mi si creda, può solo
essere automaticamente un complice e non un sereno
raziocinante, dacché certi facta pubblici furono e coram
populo accaddero, né io feci nulla per celarli.
Come quando mi recai dal generalissimo peritus iuris
prudentiae Ybarra, ispanico uomo del sud di voce
stentorea che avea in core la nuova città così designata
dagli Elleni erranti. Lo scopo era assicurare un cazzo
di contingente per la guerra di Frinilda che, spaurita,
potea contare solo sull’onore e sull’amore di una
famiglia aurea in intenti e sopportazione, ma scevra
da arti o attrezzature militaria da donare alla congiunta
in numero sufficiente a ché, almeno una battaglia
fosse vinta. Venti solerti e pugnaci picchieri magiari,
mi furono assicurati, così come altri venti me li
spergiurò come già nostri quella stessa sera allo stesso
tavolo Aloysius, per lo più Reiters e Dragoni. Io come
furbo non ancora rincoglionito sottrassi e trassi un
numero: fra entrambi, forse dieci uomini in più avremo
in comando, oltre i nostri dodici genuini ed avremo
dignità di lotta se non di risultato. Ahi se mai illusione
fu più illusoria! Tutto questo sanza che non passasse
giorno che Frinilda non piangesse e che io non
mi mordessi il cuore pur continuando a lavorare anche
come cronista del Cippo. Avevo tessuto contatti
con altri luoghi di dolore e sangue, ivi compresa quella
Teutburg dove un generale alemanno, un duce teutone
cresciuto a Roma, Arminio (ma nella sua lingua
si chiamava Hermann) distrusse le indomite legioni
augustee del generale Varo, come Svetonio ci narra ne
“Le vite dei Cesari”. Tanto dovevo al lettore: non l’odio
vuoto del benestante non diventato ricco è la mia molla
ma il furore dell’indigente fatto povero di proposito
da un uomo che scoreggia via pezzi della sua anima
ad ogni legumata ai bordi della selva…. Bene: tappo
saldissimo al suo culo sarò io, acché esploda nel suo
stesso fetore.
Le Cronache di Sbornia 10
Non si vive al mondo che di
Prepotenza
Giacomo Leopardi
Gli avvenimenti intanto incalzavano. Nervoso come
una mantide, sfiduciato dall’ennesima, legittima richiesta
di conio sfociata in una estenuante “caccia
all’uomo”, con Aloysius costretto, poròmo, a sopperire
all’ammanco scucendo in tre diverse sedute spalmate
su quattro giorni il dovutomi (250, poi 300 e poi ancora
150 conii, come se le notule di bolla potessero aspettare
i comodi del mio ufficiale pagatore) siccome
anziano affetto da stitichezza remunerativa, decisi che
era giunta l’ora dei patti chiari, anzi, ancor più chiari.
Accadeva infatti uno strano fenomeno: per legge di
contrappasso che altri, Immenso, avea enunciato tre
centurie fa, proprio io che maggior flemma, dati i
miei trascorsi non indifferenti e di cui mia sola sarà
sempre colpa, dovea appalesare per certificare il mio
percorso di guarigione, diventavo sempre più spesso
idrofobo e malmostoso. Costretto financo e negare la
mia natura, che è per sua sponte benevola e disposta
al riso ironico, arraffai coraggio ed esasperazione a
due mani come mannaia bretone ed esplosi. Una sera,
nel castello del potente (dicea lui di sé) Ibarra minacciai
di escludere Frinilda dalla guerra a pochi giorni
dallo scontro finale. Truppe scarne, le sue, ma comunque
truppe sufficienti, in un contesto ove la vittoria
si conteggiava già nell’aere su poche decine di picche,
ad aver patente ipotetica di truppe decisive. Al ricatto
ci si arriva perché si nasce ricattatori o perché ci
si scopre uomini capestro in barba alla propria natura,
istigati da facta o uomini che coltivano in noi la
malafede come una pianta venefica. Sta di fatto che,
quella sera, la mia speranza più segreta era che in ogni
caso quel Golgota novello avesse fine. Ma la fame
incalzava, uomini e periti dell’amministrazione della
Giustizia in Lega già bussavano all’uscio di Sbornia,
affamati pignoratori, corvi pronti a becchettare sangue
sparso e con essa pure incalzava la speranza che
una semplice raddrizzata ai duci e una buona dose di
saliva nebulizzata in aria dalle mie urla ferine potessero
aggiustare le cose. Tante e tali ne sparai ai cielo
che la mia ricciuta chioma si raddrizzò; sembravo
Branduardi dopo tre shampoo, un balsamo e due
phonate a caldo. Coglione fino all’inverosimile, mi ubriacai
delle cazzate che mi vennero propinate in sorniona
replica, a fuoco incrociato, dalla coppia, che avea
a temere non solo la defezione numerica della mia
consorte e dei suoi Dragoni di famiglia, ma anco una
mia decisione di impugnare spada e calamo contro la
“mia” vecchia bandiera. Inquadrati entrammo ed inquadratissimi
uscimmo, tutto questo con lo scontro
finale ormai imminente. Frinilda avea in animo una
cosa onesta: combattere come sua natura spingea, in
nome di un popolo che da sempre la vedea in suo novero
genuino cioé e non rifiutare, anzi, esasperare
quella vicinanza ai patimenti umani dei più deboli che
da sempre, grazie alle scàlmane di Sbornia, l’avevano
resa edotta di tali faccende. Insomma: conciliare
l’inconciliabile, la guerra del presente con la pacificazione
di un futuro che vedea ancora nubi
all’orizzonte. Così fu comunque: la sera della quarta
battaglia di Magdeburg ogni generale, capo manipolo
o graduato della Falange e dello Shloss diede prova di
sé incalzando la truppa avversaria dalla prima linea,
ove più cruento era lo scontro e lo stridore delle lame
cozzanti, mosse da braccia nervose e scattanti. Parata
di quarta, affondo di terza, alzata verticale di seconda,
affondo con rientro, passo e ancora affondo, di punta
con torsione. Frinilda era così nervosa che, ad infilarle
una presa nel didietro, essa ne avrebbe prodotto luce
dal naso, se Edison fosse stato di noi coevo. Mi aveva
chiesto di coprire la retroguardia ma di non rendermi
visibile nel momento del cimento finale e così
io feci. Acquattato dietro un pino, alle spalle di mia
moglie, assistetti al trionfo della lotta onesta, del fendente
ben menato a ferire sanza uccidere e mi sentii
una merda di bue per averla gettata in quella canaglia
di contesto, ove gente onesta si mescea con banditi
sopraffini e guitti incravattati, uno dei quali proprio
ora stava celebrando ipocritamente il trionfo di mia
moglie con un bacio untuoso. Von Kakkien che cingea
a spira Frinilda sembrava un Giuda del XVII secolo…
ma senza i rimorsi che il suo maestro lo condussero
ad appiccarsi. Fu troppo tardi quando mi accorsi che
il vero Giuda ero stato io e che neanche i miei tranta
denari avevo incassato…
Le Cronache di Sbornia 11
L’intelletto cerca,
il cuore trova.
George Sand
La battaglia finale di Magdeburg: un epos cugino del
caos, un tuono che contiene tutti i tuoni, una pacchianata
da far sorridere un sudario il 2 novembre a
mezzanotte. Dirò perché, a mio avviso. La consuetudine
fissata dalla Lega Anseatica era che, dopo
l’ingaggio finale, quello che prevedeva la discesa in
campo di tutte le forze, si procedesse, nello stabilir la
vittoria finale, alla conta delle forze residue; chi
n’avesse in maggior numero, era di fatto il tenutore
del diritto di partecipare alle decisioni finali e cruciali
della Potente Lega Anseatica con un principe60
borgomastro. In sé, lo scontro fu da far tremare la terra:
attacchi repentini di cavalleria, soprattutto, avevano
dato alla Falange quel terreno in più che stava
consentendo a picchieri ed arcieri di fissare almeno
tre teste di ponte da cui far partire nuove incursioni.
Dal canto loro, quelli dello Shloss non stettero certo a
guardare. Uno di quei varchi venne infatti scoperto e
sgombrato a suon di sciabolate furenti prima che si
potesse procedere alla fortificazione definitiva. Intorno
al mastio era tutto un susseguirsi di incursioni, inseguimenti,
dipartite ratte di drappelli in caccia di facili
prede o di presidi più fortificati ma mai inespugnabili
del tutto. Fu guerra di movimento puro,
blitzkrieg prima che Guderian ne avesse a battesimo
quella più tristemente nota. Le Papphelmainer fischiavano
nell’aria come serpenti svegliati dal fuoco e
non risparmiavano alcuno mentre le prime, antichissime
e complicate colubrine cercavan di far cecchinaggio
lì dove era solo strage a frotte di mitraglia. Io,
Sbornia, combattevo come un ossesso: per sanare i
miei sensi di colpa nei confronti di Frinilda, continuamente
invitata ad andare a turar questa o
quell’altra falla, avevo deciso di far un po’ la staffetta
fra i comandi. Quello dello Shloss era in campo aperto,
a poca distanza dal mastio, in attesa di un esito
che scolpiva, per il momento, sui volti dello stato
maggiore, la tensione della consapevolezza di un leggero
vantaggio. Insomma, c’era aria di festa ma sempre
con una mano sui coglioni, ecco. Lo stato maggiore
della falange era invece in una cavea da cui fedelissimi
della mia fatta, sciacquini al cubo in sostanza,
riportavano notizie dell’evolversi della pugna. Fu durante
la mia terza o quarta precipitata, non ricordo
bene, in quell’antro di volpi e persone in buona fide
frammiste, che assistetti alla scena più ridicola della
mia pur non breve e piatta vita. Forse consapevole
della sola possibilità di una sconfitta, forse per sue ragioni
in merito ad una posta in gioco che alcuno mai
conoscerà, forse semplicemente perché il pezzo di sugna
che gli farciva il capo avea preso a friggere dalla
gran tensione, il giovane Von Kakkien, con vocina
stridula e ascella pezzatissima dal sudore del momento
topico, iniziò a picchiare ripetutamente la mano
sullo stipite di una porta, mulinando la testa e arrovesciando
gli occhi come fanno i verri quando esplode la
loro libido stagionale. L’omuncolo mugolava come un
mantra, più a se stesso che ad altri: “Perderemo per
pochi uomini, peeeerderemo per pooochi uomini!!!!” e
giù ancora paccheri all’innocente legno di una porta
che, c’è da giurarlo, anch’essa si stava sganasciando
dalle risate o si stava chiedendo cosa ci fosse dietro
tutta quella disperazione. Di fianco, più pronto al conforto
dopo la regolamentare incursione, un Chew
Becca più misurato, quasi umano, nei cui occhi già
leggevi il guizzo del “come cazzo faccio e dove stracazzo
vado se le prendiamo?”. Aloysius, pacato ma in
evidente affanno interiore, dovette riceverla da me, la
novella della sua vittoria, che per primo lo salutai come
borgomastro-principe. Aguzzando lo sguardo avevo
infatti notato che il Von Kakkien giovane non si era
solo limitato ad auspicare l’arrivo di fresche truppe di
soldo, ma che le stesse erano già in piena battaglia a
far pesare numero, armi scintillanti ed energie freschissime.
Erano per lo più Batàvi e picchiarono duro,
tanto duro che l’armata di Aloysius restò con 5400
uomini validi in più in piedi, rispetto a quella dello
Shloss; per un pelo, ma la bandiera giallo-verde-blupervinca-
marrone-ocra-zaffiro-nerabiancagrigiastra
dei Von Kakkien sventolò sul pennone e fu festa per
tutti… meno che per gli sconfitti e per la mia Frinilda.
Isolata e sanza alcun ausilio di truppe promesse, era
stata ferita e disarcionata lungo un canale ai margini
della battaglia. Sportivamente volle esserci, al momento
del trionfo, col braccio sanguinante e l’occhio
spento, ma io, rincucciato in un angolino dove ormai
vedevo chiara la mia sorte di marionetta, vidi in lei ciò
che nessun altro vide, mentre la gioia dei vincitori diventava
carosello, danza, biascicamento di carni semicrude
e bave di vino forte a festonare i menti: vidi
che Frinilda avea perso la fiducia in me, stavolta sul
serio e, forse, per sempre. Ciò che non fecero anni di
stravizi e patimenti, cemento di una unione fortissima,
potè una scaramuccia il cui senso era dipinto sul
faccione beota e urlante di Chew Becca: un circo che,
fin dall’inizio, ci aveva studiati, presi e premuti come
agrume di Persia, per poi gettar via la buccia quando
non vi fosse più succo alcuno da ingollare.
Le Cronache di Sbornia 12
Legge di Pugh.SE il cervello umano
Fosse abbastanza semplice
Da essere capito da noi,saremmo
Troppo stupidi per capirlo.
Arthur Blach
Con la vittoria risicata ma indefettibile dei Von Kakkien,
io divenni paro ad una lumaca da melica, nel
quadro generale di scelte, gerarchie e considerazione.
Non nascondo che i miei ultimi irrancidimenti avevano
un po’ intessuto la “trama” su cui giustificare un
“ordito” così colorato di indifferenza, ma sarebbe bastato
chiedersi come mai Sbornia se ne sta così, più
mogio che agli esordi ridanciani e magari chiederlo a
quella parte di se stessi ancora capace di pensare in
termini di umanità e legalità, per trovare evidentissima
risposta e porre financo riparo. Niente contratto
dopo tre mesi e mezzo di guerra, nessun appoggio di
truppe per la mia Frinilda, che aveva anche disdetto
giorni e giorni di lavoro presso il biroccificio e perso
ulteriori conii, umiliazioni palesi, demansionamenti,
risate alle spalle di un debole in cerca di forza invece
che sorrisi complici per quella ricerca, catastrofe totale
da un punto di vista economico e mezza Magdeburg
inimica, con l’altra indifferente nel guatare tale
inimicizia. Ce n’era di che sbracare a terra un rinoceronte
che prende steroidi. A dire il vero fu Aloysius
che cercò di tener la baracca in piedi, ma in quella
maniera raffazzonata che alla fina non accontenta né
l’oggetto, tantomeno il concetto stesso di attenzione,
men che mai pone fine alle pene. Dopo l’insediamento
ufficiale del nuovo margravio, fu tutto uno stillicidio
di piccole stilettate ad un cuore che ormai pompava
solo l’amaro sangue della delusione. In un paio di occasioni
dovetti mendicare la diaria, che come al solito
mi venne consegnata in nero e a tranches, come il veloce
pesce del Baltico, altre volte ci si dimenticò completamente
dello scrivano nelle più scrivane delle oc
casioni, come se la ragione stessa del mio esser lì e,
per chi mi conosce bene, del mio stesso essere, non
avesse più ragion d’essere. Pendevo regolarmente il
medicamentum, ma in dose ridottissima, essendo ormai
i miei cerusici concordi nella definizione di un
percorso portato ormai felicemente a compimento.
Quando Frinilda non venne per lungo tempo richiamata
più al lavoro, pagando doppio fio ad
un’avventura a cui io l’aveo spinta, meschino e coglionazzo,
mi decisi a risolvere la questione del contractum.
Ne provai di tutte le specie, ne proposi di ogni
guisa, c’era sempre un ma, sempre un però, sempre
un “aspetta che…”. Alla fine, delle parole di serpe con
cui Von Kakkien junior mi aveva ipnotizzato come un
pollo a febbraio restavano solo le parole meste con cui
Von Kakkien senior mi qualificò, infine, l’amara realtà:
cinquecento conii come libera donazione,
l’elemosina del ricco al poverello, oppure 400 conii,
sempre mensili per una carta che avrebbe comunque
solo ritardato la mia, la nostra agonia. Già, perché, la
Banca della Serenissima avea offerto a Sbornia una
scappatoia, ma a patto che egli avesse un libello, una
pergamena ufficiale. Il favore venne chiesto ai due
germani, con il seguente risultato: il giovane neanche
rispose al messaggero che gli inviai, l’anziano rise a
settantadue denti. Accettai i cinquecento ma sapevo
che era solo modo per ritardare la Mietitrice con la
Falce. Con Frinilda fummo costretti a trasferirci momentaneamente
nel vicino Baden-Coburgo, ove mia
madre, che ivi abitava, ci diede ospitalità e calore malinconico
per l’ennesima sconfitta con cui venivo a
bussare al suo uscio. Fui costretto a cose turpi, cose
da ladro, per continuare a sopravvivere e, una notte
insonne, l’ennesima da mesi, con le facce dei protagonisti
di questa orribile vicenda che mi mulinavano intorno
come satanelli malevoli, con quella risata chioccia
a far da contrappunto ironico alla mia discesa agli
Inferi, decisi che era ora di andarci davvero, in
quell’Orco che pareva tanto mi agognasse. Mi alzai di
mattina presto, scrissi una lettera di scuse alla mia
adorata Frinilda, uscii. Faceva freddo, quella mattina,
decisi di scaldarmi facendo una cosa che non facevo
da un anno: bevvi uno, due, poi alfine tre idromele.
Rinfrancato nel mio proposito, tastai la sica che avevo
con me. Era mia intenzione tagliarmi le vene dei polsi
ma poi pensai allo sconcio ed allo strazio di una simi68
le vestigia. Così presi un biroccio fino a Bad-Hachen
e, sotto un luogo Santo, ingollai tutti i miei medicamenta,
oltre 30 assieme ad altri livorosi boccali di idromele.
Caddi sconsolato, chiedendomi ove avessi
sbagliato e il male di chi avessi mai voluto, per meritarmi
la Notte Eterna che ormai mi abbracciava….
Le Cronache di Sbornia 13/Epilogo
Giudico,che la fortuna
Sia a rbitraria della metà
Delle azioni nostre,
ma che c’è ne lasci governare
l’altra metà.
Niccolò Macchiavelli
“Sveglia Trace, aòh!”…. “‘sto non si alza neanche con
una secchiata di garum in faccia, l’invasato”…. “aco,
Spartace! Merhercule, surge!” Ma chicazz…? Eh? Ma
che eh, dove cazzo sono ah? Apro lentamente gli occhi,
tanto pieni di cispa da sembrare una sbriciolata al
limone, metto lentiiiisssssssssssssima-men-te a fuoco
lo sguardo da allocco e mi trovo circondato da una
manica di ossessi in armatura (Dragoni? No, registro
distrattamente, quelle non sono armature da Dragoni).
Uno di essi mi scrolla più forte, mi dà un vigoroso
calcio nella coscia e mi barrisce: “Spartaco, vermaccio
di un Trace, hai rotto il cazzo, ora ti alzi, smaltisci la
sbornia (Sbornia… Sbornia sono io! E Frinilda! Ma
non ero morto; devo esserlo per forza e questi sono
demoni punitori, non c’è altra spiegazione) … e ti
prepari al tuo combattimento di esordio, ce n’è uno
nuovo e oggi a Capua vogliono uno scontro mortale,
chiaro, cazzone di un retiarius?”. Spartaco? Capua?
Trace? Ma, allora ho sognato tutto…. Per un attimo
galleggio su quella sponda di mondo che sta a metà
fra follia totale e raziocinio invocato. Ho sognato del
futuro, in pratica; in realtà io sarei lo schiavo liberatore
di schiavi? Machecazz…. Naahhh! Uno scaracchio
come me che libera cosa, la sua animaccia dal corpo
per vigliaccheria, forse… Cotto, semplicemente ho il
cervello cotto ecco….. Sono confuso, ommamma. Va
bene, sono impazzito, la Turingia e Magdeburg non
sono mai esistite se non nella mente di una sbornia
colossale che non è più nome ma modo di essere…
(bèh, in questo è come prima no?). Mi alzo, sono in
una cavea che si apre su un’inferriata da cui trapelano
luce accecante e urla lontane, come di una folla incitante.
Un nubiano grosso come un condominio e nero
come la notte mi sta vestendo: elmo crestato alto,
schinieri, spallaccio, infine una rete piombata ed un
tridente puntutissimo e lungo, ancora macchiato di
sangue rappreso e frattaglie sciolte, il mio tridente, il
tridente di Spartaco. La grata si alza ed io avanzo,
all’inizio un po’ barcollando, poi con l’incedere rilassato,
no, rassegnato di chi ormai non ha più domande
da porre al suo cervello, ma solo gesti da compiere.
L’arena è miserella, le urla sono quelle di un centinaio
scarso di persone che fanno corona ad uno sterrato
dall’altra parte del quale c’è il mio avversario nel sole
accecante del tardo mattino. E’ a capo scoperto e porta
gladium e un piccolo scudo rotondo. Mi fermo un
attimo e aguzzo lo sguardo…..Machecazz…
ma…io…eh? L’uomo è Von Kakkien Junior. Stringo
gli occhi mentre un sorriso sbilenco mi illumina il volto,
un ghigno da lupo pazzo. Mentre corricchio a saltelli
verso quegli che già urla, lascio cadere a terra le
armi; quello che farò, lo farò a mani nude.
Fine
Ps Questo libello satirico è opera di fantasia assoluta.
Un ringraziamento particolare va allo sponsor, Alcover,
sale sodico 4 dell’acido butirrico, sciroppo contro la sindrome
di alcolismo. Un grazie ancora all’impareggiabile
“L’Eretico” di Alan D. Alteri, che ha fornito alcune impalcature
storiche interessantissime su cui poggiare la
trama. Ringrazio mia moglie, quella vera, che si chiama
Stefania e che vale cento Frinilde, la mia famiglia, i
miei (pochi) amici e il personale medico dell’ospedale
Santa Scolastica di Cassino. Scuse dovutissime
all’impareggiabile Chew Becca, quello vero della saga di
Guerre Stellari di Geroge Lucas, per l’improprio accostamento
col suo mai esistito emulo. Un consiglio finale
a tutti gli aspiranti suicidi: in piedi, cazzoni!