G. COLONNA, Populonia e l`architettura funeraria etrusca, p

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G. COLONNA, Populonia e l`architettura funeraria etrusca, p
POPULONIA E L’ARCHITETTURA FUNERARIA ETRUSCA
Tocca a me, secondo il programma, esporre qualche considerazione finale, a mo' di
conclusione: compito che assolvo volentieri, anche se un po' a braccio e restando nei limiti delle
mie esperienze, che riguardano soprattutto l'Etruria meridionale1.
Prima però lasciatemi sottolineare il grande interesse che ha avuto l’incontro, non solo per
Populonia ma anche, come era giusto fare, per i confronti e per le novità di scavo che sono state
presentate, che hanno chiamato in causa gran parte dell'Etruria settentrionale, e non solo essa.
L'incontro è inoltre riuscito particolarmente bene per il clima di cordialità e direi addirittura di
familiarità che si è instaurato nel corso di questi due giorni, per merito di tutti i convenuti ma
soprattutto delle due Amiche organizzatrici, cui dobbiamo anche per questo il più sentito
ringraziamento.
Volendo sintetizzare i risultati dell'incontro, direi che esso ha fatto risaltare sempre di più e
sempre meglio, sotto vari aspetti, l’originalità dell'architettura tombale di Populonia. È una
originalità che ha radici antiche, risalenti addirittura alla piena età villanoviana, ai decenni intorno
all'800 a.C., stando alla cronologia tradizionale.
Non bisogna dimenticare che in questa età in Etruria un'architettura funeraria semplicemente
non esiste: le tombe sono strutture elementari, a pozzo o a fossa, segnalate talora in superficie da un
piccolo mucchio di pietre, come nel sepolcreto di San Giuliano nell'entroterra di Tarquinia, da una
stele, come a Bologna-San Vitale, o da un circolo interrotto di pietre, come a Vetulonia.
A Populonia si incontrano invece fin da allora piccole camere praticabili, con ingresso
laterale, che hanno ospitato documentabilmente più deposizioni – ed è questo l'aspetto forse più
notevole –, includenti talora non solo una coppia di coniugi, ma anche consanguinei. Il che
rappresenta un avanzamento persino rispetto a quello che offre un secolo dopo, intorno al 700 a.C,
l'Etruria meridionale, dove le tombe a camera più antiche accolgono normalmente soltanto coppie
di defunti.[253]
Ma forse l'anticipazione, sul piano del sociale, nei confronti del resto dell'Etruria è solo
apparente. In tutti i grandi agglomerati protourbani, tra i quali si annoverava certamente Populonia,
era già in atto un processo di frantumazione gentilizia delle comunità, ma fattori ideologici si
opponevano al suo manifestarsi a livello funerario. Si tendeva a perpetuare l'idea di un'eguaglianza
di ruolo degli individui nei confronti del gruppo senza tenere conto della loro eventuale
appartenenza a nuclei familiari ormai socialmente ed economicamente differenziati. Una realtà di
fatto che sempre più si intuisce al di là della diffusa uniformità del costume funerario, ereditata dai
Campi d'Urne del Bronzo finale.
A Populonia il freno ideologico era meno efficace che altrove, probabilmente per il carattere
di insediamento per cosi dire di frontiera che aveva la città, stante la sua stretta contiguità
topografica col porto, rilevata da Strabone (V, 2,6, cfr. Plin. N.H., III, 5, 50), e con la sua economia
anomala, legata non tanto al tradizionale possesso della terra (è arduo in verità parlare di un
territorio agricolo, di una vera chora di Populonia), quanto allo sfruttamento delle miniere. Il che
avrebbe significato ben poco, se non si fosse avuta una forte e ben assestata attività di scambi,
anche a lunga distanza, con l'Etruria meridionale, con la valle Padana, con le grandi isole antistanti:
in ogni tempo infatti si scavano e si sfruttano le miniere perché si fa commercio dei metalli. Non
meraviglia pertanto che gli altri Etruschi, pur giovandosene, avessero un concetto abbastanza
negativo di Populonia, come provano le affermazioni di Servio (ad Aere X, 172) sulle sue origini in
qualche modo spurie (mi perdonino i cultori dell'archeologia populoniese), legate anche all'arrivo di
allogeni (i Corsi), e soprattutto il dato di fatto, incontrovertibile, del tardivo accoglimento della città
tra i Duodecim populi d'Etruria (TORELLI 1985).
1
In generale sull'architettura funeraria etrusca di epoca orientalizzante e arcaica si rimanda a PRAYON 1975;
COLONNA 1986; 1994, pp. 558-562 NASO 1997. Per le manifestazioni Ceriti dell'Orientalizzante antico COLONNA,
V. HASE 1986. Sui cippi: BLUMHOFER 1993.
1
Le tombe villanoviane a deposizioni plurime di Populonia possono però essere viste anche in
un'altra prospettiva, come riesumazione, con funzione diversa, delle tombe di tipo collettivo dell'età
del Bronzo, da parte di una società che andava riscoprendo il valore dei legami parentelari, veri o
presunti che fossero.
Ciò accadeva forse dietro suggestioni, non solo architettoniche, provenienti dalle isole e in
particolare dalla Sardegna nuragica. E qui vengo a un punto che è stato più volte toccato, con
accenti critici, come mi è parso di capire, sia da Gilda Bartoloni che da Antonella Romualdi. In
proposito devo fare una piccola precisazione, devo cioè rivendicare il contributo dato molti anni fa
a favore del richiamo alla Sardegna a proposito delle tombe a camera villanoviane di cui stiamo
discorrendo, perché allora se ne parlava solo nei confronti delle tholoi della Valdarno. Nel
convegno di Napoli sulla monetazione etrusca, in cui ero stato chiamato a fare una sintesi sulla
storia economica della nazione, io sottolineai l'antichità delle tholoi populoniesi, intendendo dire:
"guardate che le tholoi della Valdarno sono un fatto recenziore, se c'è stato un contatto con la
Sardegna in tema di architettura funeraria questo è avvenuto in età villanoviana, ed è avvenuto a
Populonia» (COLONNA 1977, p. 4 s.).[254]
E ovvio che in quella sede ero interessato a valorizzare ogni possibile testimonianza di
rapporti di scambio, anche culturale, ma oggi, specie dopo quello che ho ascoltato in questo
convegno, sarei indubbiamente anch'io più cauto. Occorre infatti a mio avviso operare alcuni
distinguo.
Gilda Bartoloni ha richiamato, mi sembra per la Tomba del Rasoio di Bronzo, la forma della
tomba a pozzo. Personalmente sarei propenso a vedere, nella forma che assumono le tombe del tipo
di quella del Rasoio di Bronzo, ossia piccole camere a pianta circolare, l’evocazione semplicemente
della tradizionale capanna rotonda. Sappiamo infatti quanto abbia pesato, ancora in età storica, il
modello ancestrale di quella capanna, da secoli scomparso dalla realtà abitativa, almeno nell'Etruria
propria. Non sappiamo che forma avesse la casa Romuli del Palatino e del Campidoglio, ma
l'architettura templare si attiene esclusivamente alla pianta rotonda, a Roma con l'aedes Vestae
numaica, a Roselle con la tholos del grande recinto in mattoni crudi, quasi certamente carica di
valori sacrali. E non ne mancano echi anche a Caere, in quel gran laboratorio di esperienze
architettoniche che sono le tombe di età orientalizzante. Mi riferisco al vestibolo a pianta circolare
di alcune delle più antiche e notevoli tra le tombe principesche, dalla Tomba Mengarelli a quella
degli Animali Dipinti. In quest'ultima l'ambiente circolare è qualificato come il principale della
tomba dalla fastosa decorazione dipinta e dalla banchina perimetrale, destinata non ai defunti,
inumati nella camera rettangolare successiva, ma agli spettatori e partecipi della parte finale del
rituale funebre, che aveva luogo dinanzi o nel vano d'ingresso della tomba. Il vestibolo assume ben
presto la pianta quadrata o quadrangolare, ma almeno in un caso, in una tomba in località
Monteroni, si conserva a latere, come un relitto, l’ambiente circolare con la sua banchina (NASO
1997, pp. 139 ss.; 303 ss.).
Cosa dire allora del rapporto a suo tempo postulato con la Sardegna nuragica?
A mio avviso il rapporto sussiste, ma circoscritto alle coperture e in generale all'idea stessa di
un'architettura costruita e in pietra, con vani coperti a pseudocupola o anche a pseudovolta, come
abbiamo sentito da Fabio Fedeli a proposito delle interessantissime tombe villanoviane di Poggio
del Molino.
Qui la tomba 4, a camera rettangolare coperta a pseudovolta, offre si può dire il prototipo
delle tombe costruite dell'Orientalizzante Antico dell’Etruria meridionale, non solo di Caere ma
anche di Tarquinia, di Veio e di altri siti minori.E cito l'Etruria meridionale perché è la parte
d'Etruria dove l'architettura funeraria compie rapidamente, all'inizio dell'Orientalizzante, i maggiori
progressi.
Il ruolo della Sardegna, ma citerei anche la Corsica che, non dimentichiamolo, è assai più
vicina della Sardegna e ancor più di essa storicamente connessa a Populonia, è consistito
probabilmente nel riproporre agli Etruschi di quella città modelli di architettura e soprattutto
princìpi di tecnica costruttiva di larga diffusione mediterranea tra l'Eneolitico e l'età del Bronzo,
2
come poco fa ci ricordava Gennaro Tampone, ma di fatto del tutto assenti sul versante tirrenico
della Penisola.[255]
All'interno dell'Etruria non pare dubbio, d'altra parte, che Populonia abbia influenzato
all'origine l'architettura funeraria del Volterrano e della Valdarno, con le sue tholoi monumentali di
avanzata età orientalizzante. Queste rappresentano l'ultimo e più grandioso esito di esperienze che
nella città costiera erano ormai in gran parte superate, reso possibile dal formarsi in quei territori di
veri e propri potentati gentilizi, incompatibili con l'assetto urbano precocemente raggiunto da
Populonia, pur con le peculiarità prima accennate. Ciò senza escludere che l'enorme capacità di
attrazione, esercitata in particolare dai potentati della media Valdarno, che controllavano l'accesso
alla Valle Padana, abbia provocato l'arrivo di nuovi impulsi dalla Sardegna, eventualmente mediati
questa volta da Pisa o da Vetulonia.
Restando all'interno dell'Etruria, emerge oggi un ruolo propulsivo di Populonia anche nei
confronti dell'Etruria meridionale costiera. Alle origini dell'architettura funeraria cerite e tarquiniese
vi sono infatti strutture rettangolari a corridoio, costruite o semicostruite, che trovano ora l'unico
precedente, come si è accennato a Populonia (Poggio del Molino). I rapporti di Populonia con
quelle città, nell'età villanoviana e nel primo Orientalizzante, sono anche meglio documentabili che
con le grandi isole tirreniche. Ceriti e Tarquiniesi hanno certamente frequentato da sempre,
possiamo dire, l’Etruria mineraria, a cominciare dall'Elba, esercitando nel contempo lucrose forme
di controllo e di selezione del traffico nei confronti delle rotte marittime meridionali dirette verso di
essa, provenienti dal golfo di Napoli e dal basso Tirreno (COLONNA 1981). Ciò non solo nel VI
secolo, come sembra ritenere Antonella Romualdi nel suo recente e pregevole lavoro di sintesi su
Populonia (FEDELI et al. 1993, p. 108 ), ma durante tutto l’arco cronologico che qui ci interessa, a
partire almeno dal IX secolo. Essi hanno potuto pertanto conoscere direttamente le forme assunte
dall'architettura funeraria populoniese e hanno potuto apprezzare i vantaggi offerti dalla copertura
con i filari di pietre aggettanti nei confronti delle tombe a fossa, che nelle loro città in formazione
andavano divenendo nel corso dell'VIII secolo sempre più grandi e spaziose.
Quello dell'ingrandimento dimensionale delle fosse era infatti un vicolo cieco, finché non si
fosse trovato un sistema di copertura dei vani e di protezione del corredo diverso dall'accumulo
informe di pietre, dal ricorso alle casse litiche con coperchio e anche dal soffitto a tavolato,
sperimentato per esempio a Bologna e a Verucchio (MALNATI, MANFREDI 1991, figg. 15.1, 19).
Senza contare che la copertura a filari aggettanti comportava, come necessario corollario statico, il
tumulo, cioè un elemento dalle grandi potenzialità architettoniche per la sua visibilità, quanto mai
consono alle esigenze di prestigio e di propaganda del ceto gentilizio in ascesa.[256]
Dopo la fase iniziale dell’orientalizzante il rapporto tra Populonia e l’Etruria meridionale
marittima in tema di architettura funeraria si affievolì: i due ambiti culturali precedettero ognuno
per proprio conto, con elaborazioni assai complesse e raffinate che non è il caso di analizzare in
questa sede, se non per mostrarne le forti differenze. In particolare è istruttivo il confronto tra Caere
e Populonia, le due capitali, potremmo dire, di quel fenomeno di enorme rilievo nella civiltà e ancor
prima nel paesaggio dell’Etruria arcaica che furono le tombe a tumulo architettonicamente
conformato.
A Caere e nel vastissimo territorio ad essa tributario sul piano culturale, includente quasi tutta
l’Etruria meridionale interna, con echi fino a Cortona, e nella media Valdarno, si fa il tumulo perché
sia accessibile. La calotta viene innalzata con terre di riporto, o raramente viene in parte scolpita nel
masso, preoccupandosi sempre, per quanto è da noi controllabile, di creare degli apprestamenti
stabili per salire su di essa, scavalcando la cintura della crepidine, di norma più o meno scorniciata.
Il più comune di tali apprestamenti sono le famose rampe a gradini, ricordate anche da Andrea
Zifferero questa mattina a proposito dei tumuli costruiti dei monti della Tolfa.
Rampe che potevano rivestirsi di apparati decorativi scultorei di primaria importanza, come
dimostra il secondo Melone del Sodo presso Cortona nella parte recentemente scavata
(ZAMARCHI, GRASSI 1992).
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Il che significa che la calotta del Tumulo aveva una sua precisa funzione, di natura sacrale e
religiosa, confermata dai cippi che da essa dovevano trovare la loro collocazione privilegiata, anche
se eccezionale né è la conservazione loro o dei loro alloggiamenti. Ne abbiamo un esempio di scavo
recente a Blera, dove un piccolo tumulo rupestre è sormontato da una struttura circolare costruita a
mo’ di altare con tre grosse buche per cippi (RICCIARDI 1997) , ma soprattutto abbiamo le copiose
testimonianze restituite dalla tomba a dado del viterbese e di Orvieto, succedanee dei tumuli a
partire dalla prima metà del VI secolo. A Orvieto gli scavi recenti del crocefisso del Tufo ne hanno
restituito un gran numero di esempi., confermando quel che già gli scavatori dell’800 avevano
potuto constatare.
A Tuscania la tomba a forma di casa in loc. Pian di Mola è apparsa sovraccarica di cippi e di
statue leoni e di sfingi (MORETTI SGUBINI 1989), facendo ritenere che lo stesso doveva accadere
sulla Cuccumella di Vulci (il cui pilone centrale era certo destinato a sostenere qualche gran cippo,
magari a obelisco).
Per non parlare delle piattaforme delle tombe rupestri ellenistiche, da Norchia A Sovana, con i
loro cippi ancora infissi nel masso o, più spesso, coi relativi alveoli rimasti vuoti. [257] La funzione
di tali piattaforme, come da tempo abbiamo riconosciuto mia moglie ed io scavando a Castel
d’Asso e a Norchia, è proprio quella di sostenere i cippi e di consentirne la venerazione da parte dei
sopravvissuti, che potevano accedere ad essi mediante apposite scale, costantemente presenti (talora
con partenza dall’alto della rupe invece che dal piede, se la conformazione dei luoghi lo richiedeva)
(COLONNA DI PAOLO, COLONNA 1970 e 1978).
A Populonia invece, e in generale nell’Etruria settentrionale marittima, il tumulo, come è stato
splendidamente illustrato dai restauri del prof. Barbi e di Antonella Romualdi, conserva fino alla
fine una funzione essenzialmente statica, in relazione alla pscudocupola interna, associata
ovviamente a quella di segnacolo monumentale della tomba, con tutti i valori estetici ad essa
connessi.
Coerentemente con queste funzioni, che non richiedono l'accessibilità della calotta, il tumulo
non solo è privo di qualsiasi dispositivo per salire su di esso, ma oppone a chi volesse farlo
l'ostacolo della notevole altezza del tamburo e del forte aggetto della grondaia (che è del tutto
sconosciuta nel meridione). Altrettanto coerentemente a Populonia mancano, o sono estremamente
rari, i cippi, a differenza di quel che si verifica nell'Etruria meridionale.
Un'altra differenza sostanziale riguarda il dromos. A Caere e nell'Etruria interna il corridoio
di accesso a ciascuna delle tombe a camera o a più camere ospitate dal tumulo è in realtà tutt'altro
che un dromos, essendo percorribile solo in occasione di ogni seppellimento: negli intervalli, e a
utilizzazione completata della tomba, esso restava interamente colmato e invisibile, tanto che ci si
preoccupava di risarcire accuratamente la crepidine in corrispondenza del varco di accesso, fino a
mascherare del tutto la sua esistenza. Poteva accadere che, scavando una nuova tomba a notevole
distanza di tempo da quella già esistente, non si fosse in grado di localizzare esattamente
quest'ultima e si finisse con l'intercettarla, sventrandola, come è accaduto nel monumentale tumulo
Campana di Monte Abbadone a Caere.
A Populonia invece, e a Vetulonia, il dromos è una galleria ben costruita, sempre agibile,
chiusa all'esterno con un lastrone inserito in piena vista nel tamburo del tumulo. Si arriva
addirittura, nella classe dei tumuli ad avancorpo, a ostentare l'ingresso del dromos, a sottolinearne
l'ubicazione, facendone il punto focale dell'intera struttura. Ciò anche grazie al piazzaletto lastricato
talora ad esso anteposto, come nella Tomba delle Pissidi Cilindriche, o a grandi monoliti lastriformi
infissi nel terreno adiacente, in sostituzione, se si vuole, dei cippi sempre assenti. Coerentemente
con la considerazione del dromos come una parte integrante della tomba, e non meramente
accessoria e di servizio, esso poteva accogliere al suo interno, in tumuli di eccezionale rilevanza,
come quello della Pietrera a Vetulonia, una sequela di statue disposte lungo le pareti e raffiguranti
probabilmente gli antenati dei sepolti, in veste di afflitti per la morte dei loro discendenti
(COLONNA, V. HASE 1986, p. 40).
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Altra differenza. A Caere e nell'Etruria interna, fino a Cortona, Asciano, Castellina in Chianti
e la stessa Quinto Fiorentino, i tumuli accolgono spesso più tombe, e queste di norma sono
composte da più camere. Invece a Populonia e a Vetulonia i tumuli, anche di grandi dimensioni,
accolgono un'unica tomba e questa consiste sempre in una sola camera, a prescindere da eventuali
camerette aperte sul dromos, adibite non a sepoltura ma ad accogliere parte del corredo, come
avveniva nel Tumulo dei Carri. [258] Il che non discende dal fatto che si tratta di tombe costruite, e
non escavate, perché anche i tumuli dell'Etruria settentrionale interna con tombe a più camere sono
costruiti. In essi si osserva che le camere si dispongono di norma in successione assiale, con il vano
anteriore in funzione di vestibolo, e questo anche in tombe del tipo a tholos come quella della Mula.
L'assenza del vestibolo è la conseguenza che più colpisce della scelta di Populonia di attenersi al
principio della tomba a camera unica.
Il vestibolo è in realtà un elemento importante nell'economia della tomba, sia a Caere, come si
è detto a proposito dei vestiboli a pianta circolare, che nell'Etruria interna. In esso aveva luogo una
parte, quella finale, del rituale delle esequie, in alternativa all'area attrezzata con gradini dinanzi alla
tomba, preferita a Tarquinia e a Vulci (basti citare la Cuccumella) (COLONNA 1993).
Mia moglie ed io abbiamo avuto occasione di occuparcene in un lavoro recente dedicato alla
più nota delle tombe orientalizzanti, la tomba Regolini Galassi, lavoro che sta per uscire nella
miscellanea di studi dedicata a Massimo Pallottino (COLONNA, DI PAOLO COLONNA 1997).
Alla luce di un documento rimasto stranamente inutilizzato, sia dal Pinza che dal Pareti, ossia la
dichiarazione rilasciata nel 1841 dallo scopritore della tomba, l'arciprete Regolini, ad Achille
Gennarelli, che la pubblicò subito dopo, abbiamo concluso che il letto di bronzo collocato nel
vestibolo, rinvenuto sicuramente vuoto, era servito per esporre la salma della principessa defunta in
una sorta di prothesis alla rovescia, fatta cioè non sulla soglia della casa, nel momento di uscirne,
ma all'ingresso della nuova dimora. Ingresso "arredato" a imitazione del vestibolo della casa, con in
più il corredo della defunta e una piccola folla di statuette di piangenti, disposte intorno al letto. Dal
quale la salma era stata successivamente traslata nella "cella", dove giaceva circondata dagli oggetti
personali e dai beni più preziosi, come se si trovasse nel thalamos della propria casa.
A Populonia, in assenza di vestiboli e di aree esterne attrezzate, è da presumere che il rituale
descritto si svolgesse nel dromos, come sembra provato alla Montagnola dai resti del letto di ferro
rinvenuti appunto alla testata di quello, e comunque in forme assai più contenute. Quanto al
principio "un tumulo, una tomba", esso è probabilmente indizio di un meno forte senso della
continuità gentilizia, analogo a quello che, nel VI secolo, presiederà nell'Etruria meridionale alla
fioritura delle tombe a dado, da Caere a Orvieto. Ogni tumulo è destinato in sostanza a una sola
generazione di defunti adulti, o, meglio, a un solo pater familias con i suoi familiari, più o meno
numerosi. A ogni ricambio generazionale si costruisce un nuovo tumulo, senza tornare a usare per
una seconda tomba, senza manomettere in alcun modo quei piccoli gioielli di statica che, come
abbiamo appreso, sono i tumuli di Populonia.
Queste sono le considerazioni che ho creduto di poter fare, per recare anch'io un contributo al
tema del nostro Incontro. Sono considerazioni scaturite da quello che abbiamo visto e ascoltato in
questi due giorni. [259] Avviandoci ormai alla chiusura dei lavori, lasciatemi esprimere ancora una
volta la riconoscenza di quanti sono qui convenuti verso tutti coloro che hanno contribuito al
successo di queste giornate di studio: in primo luogo Gilda Bartoloni e Antonella Romualdi, e poi
l'Università di Siena, la Soprintendenza Archeologica della Toscana, presente con il Soprintendente
Angelo Bottini, la Società che gestisce il Parco Archeologico, il Comune di Piombino e
l'Associazione degli Amici di Populonia.
GIOVANNI COLONNA*
*
Dipartimento di Scienze 8toriche, Archeologiche e Antropologiche dell'Antichità - Sezione di Etruscologia e Antichità
Italiche - Università di Roma "La 8apienza", P.le Aldo Moro 5, 00185 Roma.
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